Erodiamo le sedie del potere
Bonaventura ha fatto un piccolo viaggio. Ha attraversato, cercando di raccontarle, le zone rosse che lentamente ridisegnano i confini del nostro pianeta. Ora è stanco e si ferma. Lascia andare la mente e ripensa al suo viaggio, prova a trovare parole abbastanza ampie per racchiuderlo dentro si sé. Ragionare anche su dove andare a parare, su come contribuire a trasformare, per quanto può, il mondo.
La ribellione della dignità
"Si ha dignità, o verità, solo lottando contro la mancanza di dignità o contro le non-verità attuali. La dignità implica un movimento costante contro le barriere di ciò che esiste, un sovvertimento e un oltrepassamento delle definizioni".[1]
Che cos'è per noi, abitanti del centro dell'impero, la dignità che Holloway descrive come movimento portante della rivoluzione indigena zapatista? In che modo un discorso sulla dignità emerso dall'altra parte del pianeta, nella selva, tra indigeni senza terra, ci riguarda?
La ribellione della dignità è l'affermazione di un desiderio di autonomia, un movimento di lotta che afferma il diritto ad appropriarsi dell'esistenza, ovunque essa viva i suoi giorni, in qualunque situazione sociale si radichi, in ogni campo della vita. Si tratti di terra, acqua, casa, tempo, genere, orientamento sessuale, la dignità lotta per affermare i diritti e la libertà della società dai poteri costrittivi e omologanti. Se il potere aliena i bisogni e i desideri dalle loro condizioni materiali di soddisfazione, si tratta di abolire le separazioni, le alienazioni esistenti a opera del potere. E' la separazione/conflitto esistente tra forma e sostanza nelle democrazie occidentali a permeare tutti gli ambiti dell'esistenza. La democrazia formale coesiste con le povertà sostanziali, i diritti formali coesistono con la soppressione dei diritti materiali, il lavoro che formalmente, e potenzialmente, permette all'essere umano di realizzare parte di sè, coesiste con la subordinazione totale dei corpi alle esigenze del mercato, l'uguaglianza tra uomini e donne coesiste con il patriarcato che vede ancora nella simbologia bellicocompetitiva la legge dei comportamenti sociali. Aspetti differenti che alludono, per noi, alla sostanziale subordinazione delle scelte di vita ai canoni prestabiliti dell'individualismo lavorativo capitalistico.
Affermare la lotta per la dignità significa allora tessere una rete fitta tra movimenti che in luoghi diversi del pianeta e con argomenti diversi rivendicano la possibilità di costruire presenti in cui gli individui e le comunità autogovernino le proprie esistenze abolendo le separazioni, le diseguaglianze. E' un cammino lungo, lunghissimo, che in primo luogo chiama ad abbattere le separazioni tra linguaggi antagonisti e lotte differenti, per rivendicare, dal basso, la dignità di un umanità solidale contro il neoliberismo. I linguaggi e le pratiche di questa lotta sono necessariamente plurali, distesi su mille piani e su più dimensioni dell'essere sociale, sia perchè plurale è la subordinazione a opera del potere sia perchè la pluralità delle forme di liberazioni si contrappone direttamente e radicalmente al linguaggio e alla pratica dell'omologazione al pensiero "unico". Il cammino di cui ci sentiamo parte è un cammino di ribellione, intendendo con ribellione un "...movimento reale, trasformazione pratica e quotidiana dei rapporti sociali, conquista di obbiettivi e miglioramenti, anche parziali, della qualità della vita; sviluppo delle forze autorganizzzate della società civile, di forme di vita, associazione, cooperazione sociale autonome ed indipendenti, ben oltre le categorie di potere e rappresentanza politica in senso stretto..."[2] Si tratta allora di costruire sacche di resistenza in cui la ribellione si faccia concreta forma di autonomia dalle zone rosse che invadono il pianeta e le coscienze, i desideri e il tempo.
Socializzazione dei saperi e informazione
Viviamo all'interno di una zona rossa del sapere in cui l'informazione sulla verità storica dei fatti e delle scelte politiche che producono questi fatti è preclusa alla massa consumatrice dei tele-elettori. La menzogna non si limita ad accompagnare il susseguirsi spettacolare di eventi ma radica nel senso comune l'ideologia dominante, il pensiero unico del capitalismo globale. Bombardati da informazioni menzognere e da miti falsificanti il presente, sembra non rimanere altro che lo scetticismo del "tanto i potenti fanno quello che vogliono e noi non possiamo farci nulla".
Il presente lavoro contribuista a ribaltare i termini del discorso in merito di informazione. Se la tradizione dei movimenti sociali ha sempre parlato di riappropriazione del sapere come di controinformazione, oggi affermiamo che l'alternativa è da porsi tra informazione ed intrattenimento dove i media mainstream producono quella menzogna strutturale che autoalimenta la fiducia cieca nella attendibilità del discorso ufficiale. Creare una frattura in questo circolo vizioso tra intrattenimento e fiducia generalizzata significa fare realmente informazione. Se è vero che qualsiasi evento accade all'interno dello spettacolo mass-mediatico, che produce il significato e l'interpretazione dominante degli eventi, allora dobbiamo rivolgerci a narrazioni mediatiche altre. Dobbiamo essere noi stessi media capaci di raccontare il mondo dal punto di vista dei rapporti di forza non detti, degli interessi nascosti, delle vittime che ne pagano il prezzo.
In questo senso il nostro lavoro informativo si inserisce in una pratica di movimento che ritiene indispensabile la rinarrazione del mondo, la riappropriazione della capacità di comunicare e di condividere saperi e narrazioni altri. Infatti "i mass-media come sistema assolvono la funzione di comunicare messaggi e simboli alla popolazione. Il loro compito è di divertire, intrattenere e informare, ma nel contempo di inculcare negli individui valori, credenze e modelli di comportamento atti a integrarli nelle strutture istituzionali della società di cui fanno parte. In un mondo caratterizzato dalla concentrazione della ricchezza e da forti conflitti di classe, per conseguire questo obbiettivo occorre perseguire una propaganda sistematica".[3]
E' necessario sabotare la "fabbrica del consenso", riappropriandoci della produzione di informazioni e comunicazione alternative. Nella prospettiva del potere ogni individuo oggi è prodotto come media: terminale di informazioni utile alla propaganda globale; attraverso l'interiorizzazione e la socializzazione di verità preconfezionate, ognuno di noi è un potenziale di legittimazione degli interessi dominanti che non va fatto scappare; la coscienza di ognuno va stanata nel quotidiano della casa in cui vive, attraverso input informativi continui che sedimentano certezze indiscusse, miti utili al potere. "Oggi l'informazione diventa una risorsa primaria (...) Si accentua così il carattere artificiale, della vita sociale e le nostre esperienze hanno luogo in contesti che sono sempre più costruiti dall'informazione, diffusi dai media e assimilati da ciascuno di noi in una sorta di spirale senza fine che trasforma la realtà in segni e immagini di cui diventiamo produttori e consumatori".[4]
La produzione del consenso porta la zona rossa del sapere dentro di noi.
Il potere se ne serve per creare una inconsapevole fiducia dell'individuo nei confronti dei saperi ufficiali e degli stessi media, la cui attendibilità è percepita come assoluta. Ogni aspetto della nostra esistenza è occupato da credenze indotte e da comportamenti pilotati, dalle relazioni affettive, al lavoro, passando per il rapporto con i bambini e le bambine, la spiritualità, etc... Alcuni miti su cui il sapere ufficiale si fonda, che strutturano quotidianamente la notizia mass-mediatica e che tra loro si legittimano a vicenda, appaiono come indiscutibili.
La credenza nello sviluppo capitalistico, come crescita progressiva delle opportunità e del benessere dell'umanità, nasconde il dominio economico e culturale di quella parte dell'umanità che è l'occidente saccheggiatore.
L'ideologia del libero mercato, che si autorappresenta come spazio paritario di opportunità per tutti i paesi e individui del mondo, cela i reali rapporti di forza tra i Nord e i Sud, tra ricchi e poveri.
La religione del consumo, come aspirazione naturale al soddisfacimento di infiniti bisogni, maschera il carattere indotto di bisogni omologanti, la produzione seriale di desideri da integrare nei gangli del mercato.
La teoria della guerra giusta, come di uno strumento in mano alla comunità internazionale per difendere la democrazia occidentale, in realtà continua la missione civilizzatrice iniziata 500 anni fa con la conquista delle Americhe.
Questi sono solo alcuni esempi di idee omologanti che trovano i loro centri di produzione/diffusione in istituzioni quali il sistema scolastico, con al vertice l'università e il sistema massmediatico, con al centro la televisione.
La parola stessa consenso veicola la mitologia della libertà, evocando "l'esercizio democratico del libero pensiero". L'immagine della libertà di scelta tra le opinioni è menzogna nel momento in cui la sorgente delle informazioni è criptata e la verità dei fatti celata. Pensiamo al caso delle armi di distruzione di massa in Iraq. Anche i giornali moderati ormai denunciano la menzogna di cui l'amministrazione Bush si è servita per scatenare una guerra che aveva ben altri fini. Ciò non incrina il consenso tacito nei confronti di qualcosa che in ogni caso non ci riguarda da vicino. L'individuo è così fatto contenitore di verità linguistiche, storiche ed etiche preparate.
Decolonizzare l'immaginario significa attaccare i presupposti di queste verità producendo saperi alternativi condivisi, significa contrapporre al "consenso" i molteplici "dissensi" di cui siamo portatori e portatrici.
Non possiamo odiare i media (dato che siamo media), ma riappropriarcene socialmente, dal basso. E' questo il senso dello slogan: "don't hate the media, become the media".
Fare informazione significa allora socializzare dal basso i propri saperi, fare lavorare le nostre conoscenze per decostruire la propaganda, liberare i nostri giudizi e comportamenti. Al tempo stesso costruire chiavi di lettura altre del presente e del futuro che mettano in discussione radicale i miti che strutturano le notizie. La notizia quotidiana viene recepita dagli individui come adeguata a confermare credenze indiscutibili: a scuola fin da bambini si impara che le Americhe sono state scoperte e non conquistate dal nascente imperialismo spagnolo. Così oggi il fatto che popolazioni intere debbano abbandonare la propria terra per la costruzione di un oleodotto da parte di una multinazionale non stupisce nessuno: è un processo storico naturale che segna lo sviluppo della scienza, della tecnica, dell'economia.
L'urgenza è di trasformare ognuno e ognuna di noi da oggetto ricettore di flussi informativi di intrattenimento, a soggetto capace di socializzare saperi critici e visioni del mondo autonome. Esperienze quali le street television, le fanzine quartierali, le radio libere, i network indipendenti, le street parade, le critical mass, la chiacchera nel bar, la polemica sull'autobus, il cammuffaggio delle pubblicità, il culture jamming, la discussione tra amici, le provocazioni teatrali in strada, nei centri commerciali, nei luoghi pubblici, si riappropriano dello strumento comunicativo in senso antagonista e sono esempi di sottrazione di saperi all'intelligenza dominante. Questi sono gli spazi in cui possiamo rigenerare il desiderio di porsi domande sul presente e Bonaventura si propone come uno di questi spazi. Condividendo domande e letture, scambi di opinione e ricerche, Bonaventura si appropria della capacità di ri-dire il mondo da un altro punto di vista e di divulgare la critica con mezzi autonomi.
Il capitalismo come globalizzazione della guerra
Il teorico neoliberale Allan Minc, in nome del realismo e del pragmatismo sostiene: "Il capitalismo non può crollare, è la condizione naturale della società. La democrazia non è la condizione della società. Il mercato sì."[5]
In poche precise parole è racchiusa l'ideologia del capitalismo. La guerra di tutti contro tutti, si autorappresenta come condizione naturale dell'essere umano. La società capitalista, come ogni società complessa, richiede un collante ideologico, un discorso su di sè, che ne assicuri la sopravvivenza storica. Si produce così il racconto ideologico di una condizione antropologica fondamentalmente competitiva e malvagia dell'essere umano, il quale ha la funzione di legittimare una concezione eterna e naturale del capitalismo. Se il capitalismo è eterno e naturale, ogni aspetto della vita ne è assoggettato.
Il capitalismo bellico-preventivo invade così la vita del pianeta e degli esseri umani, in ogni loro aspetto e abbatte qualsiasi possibile argine capace di mediarne l'aggressione.
La modernità poggiava sul presupposto di una possibile mediazione dei conflitti sociali capitalistici, attraverso il conflitto/ negoziazione tra i poteri statali e i soggetti della politica (movimenti, sindacati e partititi). Il corrispettivo di questo meccanismo, sul piano della politica internazionale, era costituito da una politica di mediazione dei conflitti internazionali sia attraverso il diritto sia attraverso una concezione "minima" di guerra come di una "prosecuzione della politica con altri mezzi" (Clausewitz). La guerra era inserita come espediente ultimo del piano di mediazione che la politica internazionale, attraverso il diritto, poteva sviluppare nei confronti dei conflitti espansionistici degli stati nazione. Il capitalismo neoliberista ha tolto di mezzo il potere mediativo della politica istituzionale, mostrando tutta la logica aggressiva e bellica dell'economia di mercato. In questo senso la guerra non è neanche la prosecuzione di questa economia, ma l'economia capitalista stessa nel suo anelito totalizzatore.
La crisi del diritto internazionale e dell'Onu come soggetti di mediazione nei conflitti interstatali è l'esempio macroscopico dell'emergere di una zona rossa della convivenza, all'interno della quale vale esclusivamente la legge unilaterale del più forte: la guerra di tutti contro tutti. All'interno di questa zona, la convivenza stessa è a rischio, tanto sul piano microsociale delle relazioni tra esseri umani lanciati in competizione l'uno contro l'altro, quanto su quello della convivenza tra popoli separati dalla reciproca paura e diffidenza (la guerra di civiltà). Se la specificità dell'essere umano risiede nella cultura quale aspetto tramandato e prodotto dalla convivenza, la quarta guerra mondiale si profila come attacco all'umanità. In questa situazione, la "produzione del consenso", di cui parlavamo nel paragrafo precedente, diviene propaganda bellica e pedagogia della guerra.
Il capitalismo come quarta guerra mondiale
Il nostro lavoro informativo tenta di entrare in questa zona rossa in cui la violenza regna sovrana.
Smascherare le menzogne del potere, attraversando criticamente i discorsi di cui si serve, ha lo scopo di mostrare la potenza costrittiva e distruttrice del sistema poliziesco e bellico del neoliberismo.
E' la "quarta guerra mondiale", di cui parlano le comunità zapatiste, in cui bombe finanziarie e bombe belliche sono due facce della stessa medaglia.
"Il neoliberismo produce così distruzione/spopolamento, da un lato, e ricostruzione/riordino dall'altro, di regioni e nazioni, per aprire nuovi mercati o modernizzare quelli esistenti. Se le bombe nucleari avevano un carattere dissuasivo, intimidatorio e coercitivo, nella Quarta deflagrazione mondiale non accade lo stesso con le iperbombe finanziarie. Queste armi servono ad attaccare territori (stati nazionali), distruggendo le basi materiali della sovranità nazionale (...) e producendo uno spopolamento qualitativo dei loro territori. Questo spopolamento consiste nel prescindere da tutti quelli che sono inutili alla nuova economia di mercato (per esempio gli Indios). Però, in più, i centri finanziari operano, simultaneamente una ricostruzione degli stati nazionali e li riordinano secondo la nuova logica del mercato mondiale (e i modelli economici si impongono su relazioni sociali deboli o inesistenti). La quarta guerra mondiale, presente sul terreno rurale, produce questo effetto. La modernizzazione rurale che i mercati finanziari esigono, punta a incrementare la produttività agricola, però quello che ottiene è distruggere le relazioni sociali ed economiche tradizionali. Risultato: esodo massiccio dai campi alle città. Sì, come in una guerra".[6]
A livello globale la guerra ha oggi una funzione certo di espansione ma al contempo di conservazione dell'ordine mondiale dei più forti e di controllo della società stessa. Con franchezza il consigliere di Madeleine Albright, Thomas Friedman, scriveva: "La mano invisibile del mercato non funzionerà mai senza un pugno invisibile. McDonald's non può svilupparsi senza McDonnel Douglas, il fabbricante degli F-15. E il pugno invisibile che assicura la sicurezza mondiale delle tecnologie della Silicon Valley, si chiama esercito, aviazione, marina e corpo dei marines degli Stati uniti".[7]
La funzione di stabilizzazione dell'ordine è tanto più necessaria, quanto più la globalizzazione neoliberista produce un aumento esponenziale dei conflitti e generalizza la violenza come tessuto delle relazioni sociali: "Gli esseri umani hanno sviluppato un modo per autodistruggersi e sono arrivati più volte molto vicini a farlo. Le grandi potenze, ma soprattutto gli Usa, chiedono di ampliare ulteriormente questo potere attraverso la militarizzazione dello spazio (...) sono costretti a farlo perchè sanno che la forma di globalizzazione che stanno cercando di sviluppare aumenterà il gap tra ricchi e poveri fino a livelli intollerabili creando conflitti sempre più difficili da controllare".[8]
Parlare di "guerra umanitaria", di "operazioni di polizia internazionale", di attacchi dal cielo o da terra come definiti "chirurgici", parlare di "guerra a bassa intensità" lascia intravedere una sorta di puritanesimo del linguaggio che maschera la realtà della guerra. La "lotta al terrorismo", come legittimazione dell'attacco indiscriminato a territori e diritti, produce un soggetto antagonista ben più funzionale dell'antico "pericolo comunista": esso è invisibile e potenzialmente ovunque e questo permette di rendere legittimo qualsiasi mezzo ai fini di prevenzione e di conservazione del potere delle élites industriali-militari occidentali. Uno stato di paura globale si posa come un velo sulle coscienze lasciando libero il campo agli eserciti e alle industrie militari che governano le élites di pochi paesi: Usa, Gran Bretagna, Italia in testa.
Se siamo di fronte alla esplicitazione dottrinaria della guerra come sorgente della politica stessa, ne consegue l'erosione della distinzione tra pace e guerra, tra pubblico e privato nel coinvolgimento bellico e ricostruttivo, tra civile e militare nella conta dei morti.
Come abbiamo sostenuto lungo tutto il libro: l'eccezione diventa la norma, normale è uno stato di eccezione, una zona rossa potenzialmente planetaria in cui il potere soggioghi tutto e tutti. In questo senso è fondamentale riconoscere il nesso indissolubile tra guerra e neoliberismo e tra questi e il modello di sviluppo su cui si fonda il nostro stile di vita e di consumo.
Il senso di impotenza di fronte alla realtà della guerra globale è in parte giustificato. Ognuno e ognuna di noi è poco di fronte alle megamacchine belliche e massmediatiche.
Eppure l'antagonismo alla guerra cresce, nelle piazze e nei comportamenti. C'è da augurarsi che il nodo guerra/ neoliberismo, sia posto come base di discussione tra movimento antiliberista e movimento contro la guerra.
La minaccia della violenza bellica si sta generalizzando come conseguenza del disordine neoliberista a tutti i livelli dell'essere sociale. Un pacifismo radicale dunque non puo' che essere antiliberista, in quanto il neoliberismo è la radice economica della guerra; non solo, il liberismo partecipa di tutte quelle forme di oppressione che promuovono comportamenti umani di tipo bellico-competitivo. Dobbiamo disertare la guerra, andare alle radici della guerra e decostruirne il potere: obiezione alle tasse per le spese militari, lotta per la riconversione dell'industria militare in impresa socialmente utile, ma anche antimilitarismo come critica dei comportamenti machisticocompetitivi interiorizzati. E' la quotidianità della guerra, il nostro stesso stile di vita e modo di essere, a stringerci in una morsa mortale.
Il secolo passato, gli orrori dei campi di concentramento, le guerre razziali, il rischio nucleare, sembravano avere testimoniato la necessità di mettere la guerra fuori dalla storia una volta per tutte. Invece il pericolo bellico, la guerra come sostrato delle cose e delle relazioni si è generalizzata in mano a un potere economico che sta mettendo a repentaglio il pianeta. La guerra deve diventare una volta per tutte un tabu' dell'umanità. Sono dunque gli spazi sociali che abbassano il livello di violenza, sperimentando relazioni personali, e insieme modalità economiche/politiche non-violente, ad aprire la strada per l'affermazione che è possibile stare al mondo senza la guerra, senza la competizione e l'odio.
I movimenti hanno il compito di disorganizzare la violenza, disobbedendo ai meccanismi sociali, economici, politici, relazionali della violenza legalizzata, costruendo esperienze che concretamente siano capaci di organizzare la pace. Ecovillaggi, critical-mass, centri di formazione alla pace, diserzione militare, sono esempi tra loro differenti di ricombinazioni possibili della convivenza che sperimentano, ognuna un aspetto, ognuna un frammento, la possibilità della pace.
Violenza
Se il neoliberismo mostra la violenza della guerra come proprio elemento strutturale, l'opposizione al neoliberismo non può essere violenta e deve ridiscutere i propri mezzi di contestazione, inclusa la questione del rapporto con il potere statuale, monopolio moderno della violenza.
Uno scontro frontale violento finalizzato alla presa del potere da parte delle opposizioni significherebbe la perdita dell'antagonismo e l'assimilazione al potere stesso. Di qui la nostra distanza verso le forme armate o organicamente violente dell'antagonismo.
L'esperienza di Genova rende tuttavia necessaria una chiarificazione intorno alla violenza. Difendersi dall'ingegneria militare della repressione di piazza con atti violenti è altro da considerare l'utilizzo della violenza come organico al proprio progetto politico. In questo senso è chiara e convincente la distinzione posta da Mimmo Porcaro: "Attenendoci alla distinzione tra logica `militare' e logica `cooperativa' si può dire che un movimento che concepisca la politica soprattutto come rapporto di forza, anche se non accede alla vera e propria violenza fisica, è violento in sé stesso perché identifica la trasformazione dei rapporti sociali con l'attività di coercizione. Invece, un movimento che concepisca la politica come costruzione, e che nel suo periodo di formazione (quando si fissano i tratti costitutivi di qualunque soggetto) coltivi esclusivamente pratiche non violente, anche se dovesse far ricorso (quando l'avversario si legittimi soprattutto attraverso la forza ed usi la forza come strumento privilegiato) ad azioni violente, non muterebbe immediatamente solo per questo il suo carattere genetico, e cioè la sua capacità di affrontare la trasformazione dei rapporti sociali secondo una logica cooperativa".[9]
In secondo luogo, la distruzione di beni privati, merci, luoghi simbolici della violenza capitalista (banche, agenzie interinali, distributori di benzina) non è assimilabile alla violenza contro le persone. E' una pratica che riteniamo poco convincente e controproducente sul versante della costruzione di consenso, ma che certo non ci scandalizza.
Pensare che distruggere una strada significhi liberarla dalla presenza del capitale vuol dire accontentarsi di uno "spettacolo della liberazione", di una forma astratta e momentanea di de-mercificazione dello spazio.
Il potenziale del movimento è al contrario quello di costruire forme concrete e permanenti di liberazione, de-mercificando lo stile di vita, il lavoro, i consumi, l'abitazione dello spazio e del tempo. Cadere in forme spettacolari, astratte, di conflitto determina un arretramento rispetto alla necessità che il conflitto deve generare sganciamento concreto, quotidiano, dai gangli del potere, erosione dal basso della presenza neoliberista nelle nostre vite di individue e comunità.
Un'ulteriore distinzione va fatta nei confronti dell'assimilazione tra violenza e illegalità.
Praticare azioni politiche illegali come forme di disobbedienza civile fa parte dei diritti che l'umanità ribelle rivendica contro la legalità dei potenti, come nell'800 il movimento operaio usava illegalmente l'arma dello sciopero.
Le occupazioni di case, le manifestazioni non autorizzate, la demolizione popolare dei McDonald's, l'incendio dei campi transgenici, i blocchi stradali e il pirataggio, le invasioni di centri di detenzione, di cantieri bellici e caserme, insomma azioni dirette contro le zone rosse, sono solo alcune forme di autonomia dalle leggi che nulla hanno a che vedere con la violenza. A essa sostituiamo l'esigenza di percorsi di esistenza che costruiscano spazi sociali e dunque forme di convivenza altri dalle logiche machiste e neoliberiste. Si tratta di percorsi politici, ma è necessario ridiscutere i termini della politica. La spettacolarizzazione della disobbedienza civile non ci soddisfa.
Politica
Il neoliberismo decreta l'economia come governo delle cose, riducendo la politica a mero spettacolo. Oggi la politica istituzionale non è il luogo in cui si gestisce il potere e la mediazione del conflitto sociale. I poli di centro-destra e centro-sinistra non presentano alcuna differenza sostanziale di impostazione politico-economica tra loro. L'alternanza potrebbe apparire come il gioco delle parti del poliziotto buono e di quello cattivo durante un interrogatorio. Le opzioni neoliberiste di fondo, con tutte le conseguenze belliche, poliziesche e di erosione dei diritti fondamentali, accomunano gli schieramenti saturando lo spazio della politica istituzionale.
Una immissione del movimento dei movimenti nei circuiti della politica istituzionale significherebbe dunque scarsi risultati per quanto riguarda le alternative.
Questo perchè il luogo in cui il capitalismo esercita il proprio potere non è più il parlamento e i governi sono appendici delle politiche economiche degli organismi internazionali (G8, Onu). Quale spazio trovano in questo sistema i movimenti?
Pensiamo per esempio al bilancio partecipativo come occasione di costruzione di un potere dal basso capace di avvicinare le amministrazioni locali a una partecipazione popolare alle decisioni di interesse collettivo.
A livello globale il movimento dei movimenti in gran parte si assesta sull'idea neokenesyana di una possibile globalizzazione governata dalla società civile. Questo progetto ha lo scopo di invertire il rapporto tra economia e politica per ridare priorità alla politica e alla partecipazione popolare.
Il punto per noi fondamentale è però di cogliere la crisi epocale della politica intesa in senso strumentale e attingere da quanto le critiche femminista, libertaria e zapatista hanno offerto. Il movimento dei movimenti ha la potenzialità di fare proprie queste critiche e pensare la politica in modo nuovo prima di rimetterla a comandare l'economia, distanziandosi definitivamente dalla politica strumentale. Per esempio il bilancio partecipato può essere pensato e agito da comunità non guidate da leaderini politici che purtroppo nel movimento non mancano.
Le logiche sottese alla politica istituzionale coinvolgono chiunque entri nello suo spazio d'azione. Alleanze a fini elettorali, concessioni di poltrone, spartizione degli spazi d'azione, decisioni non trasparenti, occultamento di fatti di interesse pubblico: sono solo alcuni esempi delle logiche della politica intesa in termini strumentali.
Quando prevale un concetto strumentale della politica domina l'accumulazione e l'esercizio della forza. Il ciclo di lotte novecentesche ha visto il prevalere di un'idea strumentale della politica su possibili alternative ad essa. La politica strumentale era in ogni caso il terreno di confronto/scontro con lo Stato autoritario al fine della presa del potere. Ponendosi sullo stesso terreno, le pratiche antagoniste non si sottraevano alla logica autoritaria del potere dominante. Molti movimenti rivoluzionari sono caduti nella trappola del potere. Alex Zanotelli riassume il concetto nel racconto di un dialogo avuto con Renato Curcio: "'Alex lo sbaglio di noi brigatisti è stato solo uno: aver creduto a Machiavelli, che il fine giustifica i mezzi.' Io gli ho risposto: `Guarda Curcio che non sei stato il solo ad aver creduto a ciò, anche i tuoi nemici politici lo credevano fermamente ed hanno usato lo stesso sistema'".[10]
Le esperienze anarchiche, utopistiche, comunitariste, creative dei movimenti radicali degli anni '70 avevano già annunciato nuove forme di politica e tentato di praticarle. La politica andava riavvicinata alla vita, ai bisogni, ai desideri, ai corpi, ai consumi attraverso pratiche, collettive, di sovversione della vita quotidiana. Ricordate il vecchio volantino?: "Quelli che parlano di rivoluzione e di lotta di classe senza riferirsi esplicitamente alla vita quotidiana, senza comprendere cio' che c'è di sovversivo nell'amore e di positivo nel rifiuto delle costrizioni.... costoro si riempiono la bocca di un cadavere".[11]
Le riflessioni femministe sono attente a mostrare come ogni affermazione politica di liberazione per essere vera debba riflettersi in relazioni prime, in modi di stare al mondo con altri e altre, liberati e liberanti. La ricchezza della politica deve dunque essere quella di sperimentare mezzi che anticipino i fini. Se vogliamo costruire un altro mondo, in esso non possono valere le pratiche relazionali che governano questo mondo. Il discorso femminista si concentra sull'aspetto di genere, sul patriarcato come organizzazione storica della violenza e della "eliminazione dell'altra". Il concetto di "politica prima" esprime proprio questa opposizione alla simbolica e alla relazionalità maschile, la quale trova generazione nelle relazioni umane e da qui sperimenta di generalizzarsi nei luoghi della politica istituzionale, "politica seconda".
In fondo le esperienze libertarie e femministe si riaffacciano oggi nella sperimentazione di un nuovo concetto di "rivoluzione" da parte delle comunità zapatiste. Per gli zapatisti si tratta di contrapporre il nuovo spirito ribelle, al vecchio spirito rivoluzionario:
"L'atteggiamento che un essere umano assume di fronte alle sedie è quello che lo definisce politicamente.
Il Rivoluzionario (così, con la maiuscola) guarda con disprezzo le sedie comuni e dice: `non ho tempo per sedermi, la pesante missione che la Storia (così con la maiuscola) mi ha affidato mi impedisce di distrarmi con delle sciocchezze'. E così trascorre la sua vita, finchè arriva di fronte alla sedia del Potere, stende con una pallottola quello che ci sta seduto, si siede con la fronte aggrottata, come se fosse stitico, e dice, e si dice: `la Storia (così, con la maiuscola) si è compiuta: tutto, assolutamente tutto, acquista un senso. Io sono sulla Sedia (così, con la maiuscola) e sono il culmine dei tempi'. E resta lì fino anche un altro Rivoluzionario (così, con la maiuscola) arriva, lo sbatte giù e la storia (così, con la minuscola) si ripete.
Il ribelle (così, con la minuscola) invece, quando guarda una sedia comune, la analizza a lungo, poi va a prendere un'altra sedia e la avvicina, e poi un'altra e un'altra ancora, e in poco tempo sembra già un dibattito, perché sono arrivati altri ribelli (così, con la minuscola) e cominciano a moltiplicarsi caffè, sigarette e parole, e allora, proprio quando tutti cominciano a sentirsi comodi, diventano inquieti, come se avessero dei tarli nella zucca, e non si sa se sia stato l'effetto del caffè o delle sigarette o delle parole, ma tutti quanti si rialzano e si rimettono in cammino. E vanno finché incontrano un'altra comunissima sedia e la storia si ripete.
C'è solo una variante: quando il ribelle si imbatte nella Sedia del Potere (così, con le maiuscole), la guarda a lungo, la analizza, ma invece di sedersi va a prendere una lima di quelle per le unghie e, con eroica pazienza, si mette a limare le zampe fino a che, a suo giudizio, siano così fragili da spezzarsi quando qualcuno si siede, cosa che avviene quasi immediatamente. Ecco qua."[12]
Per noi oggi interpretare il nuovo concetto di rivoluzione zapatista significa creare pratiche basate sul consenso. Il metodo decisionale del consenso si contrappone alla tradizionale modalità di scelta attraverso il voto, con la conseguente creazione di maggioranze e minoranze ed una divisione impari del potere. Il consenso necessita di tempi lunghi e di una messa in discussione di sè, per arrivare a una decisione partecipata.
Tale pratica ha bisogno di uno schema di potere basato sull'autorevolezza.
Il nuovo soggetto attivo dell'autorità è chi la conferisce. In questo modo l'autorità all'interno di un gruppo non viene presa sul gruppo (dai leader, dai più forti, da chi alza più la voce), ma riconosciuta dal gruppo stesso e conferita a individui.
Si tratta di processi in cui le comunità ed i singoli acquisiscono potere, competenze, conoscenze dove i meccanismi autoritari vengono costantemente monitorati e scartati dal gruppo stesso.
Queste pratiche sono un tentativo di erodere il potere nelle sue radici più profonde.
Il potere si gioca tutto sui rapporti di forza, cioè sulle relazioni dinamiche e conflittuali tra diverse componenti della società. La storia del potere in fondo è la storia di una potente tentazione umana.
Esso infatti può essere gestito almeno secondo due modalità fondamentali: quella autoritaria e quella partecipata. La prima divide l'umanità. La seconda la unisce. La prima, dopo avere diviso l'umanità, cancella le differenze (esclusa quella tra chi ha il potere e chi no). La seconda, dopo avere unito l'umanità, esalta tutte le differenze (esclusa quella tra chi ha il potere e chi no).
Le forme del dominio
Nel neoliberismo troviamo forme differenti di potere autoritario. Fa sue dominazioni più antiche, rielaborandole alla luce dell'oggi.
1) Dominio del capitale sull'essere umano: l'infinita brama di accumulazione economica del profitto si fonda sul processo di sfruttamento capitalistico del lavoro. Se il profitto deve aumentare all'infinito, tutto deve lavorare a suo favore. Tutto significa conquista biopolitica dell'essere umano. Con il passaggio a una organizzazione della produzione che prevede la messa al lavoro di tutte le capacità cognitive e relazionali dell'essere umano, scompare la distinzione stessa tra vita e lavoro. Insieme all'erosione dei diritti questo compie il dominio del capitale sulla vita. La critica dell'etica lavorista, comune agli schieramenti, diventa oggi una chiave fondamentale per la liberazione dei bi(sogni) e dei desideri di vita.
2) Dominio dell'uomo sulla donna: la millenaria divisione del lavoro che segna la collocazione della donna nel lavoro domestico di riproduzione della vita, mentre consegna l'uomo alla gestione delle sorti dell'esterno/mondo, fonda la civiltà patriarcale che generalizza come universale la cultura maschile. La cultura maschile normalizza pratiche relazionali di tipo bellico e competitivo, esalta il predominio dell'ego, della razionalità, del senso del dovere, spacciando tutto cio' per "natura umana". Se i femminismi hanno intrapreso una moltitudine di percorsi emancipatori della donna, essi hanno dato al maschio la possibilità di emanciparsi dal patriarcato, attraverso una reinvenzione della politica di genere e una maggiore consapevoleza di sé.
3) Dominio dell'essere umano sulla natura: l'occidente segna la separazione definitiva tra essere umano e natura. La natura è oggetto di contemplazione/osservazione/sfruttamento. Il regime di vita consumistico dipende totalmente dallo sfruttamento delle risorse naturali. Il capitalismo è la prima società nella storia umana a rischiare l'esaurimento del pianeta, il suo collasso definitivo. Il neoliberismo non risparmia del proprio dominio biopolitico nessuna forma di vita: la biotecnologia porta l'accumulazione economica dentro i segreti della terra. La necessità della contrazione e conversione dei consumi si trova ad attingere dalle pratiche e dalle tradizioni dei movimenti ecologisti e ambientalisti radicali.
4) Dominio della civiltà occidentale sull'umanità: l'occidente cristiano sancisce il dominio del bianco su tutti gli altri colori della pelle umana. Secoli di conquiste in nome della propria fede, della propria visione del mondo, fanno dell'uomo bianco uno dei dittatori più longevi nella storia dell'umanità. Nell'economia dei colori siamo di fronte a una neutralizzazione dell'arcobaleno umano: essere ovunque ma invisibile, questa la strategia del potere, questa la qualità del bianco. La "missione civilizzatrice" dell'uomo bianco, un tempo fatta in nome della fede cristiana, o poi , con la rivoluzione francese, degli ideali umanistici di progresso e razionalità, oggi è portata avanti in nome della democrazia capitalista occidentale.
5) Dominio dell'adulto/a sui bambini e le bambine: in un mondo consegnato all'ansia del profitto, al rigore della morale, alla serietà del lavoro, i bambini non hanno spazio. Cosi' poco ansiosi, così poco rigidi e così poco seri rischiano di sviare l'adulto dal mestiere di sopravvivere a se stesso. Bisogna al più presto far dimenticare loro i giochi dell'infanzia inserendoli in una dis-educazione sentimentale che porti nuovi frutti, cioè nuovi gregari. La scuola si premura di prendere i piccoli individui, svuotarli delle loro potenzialità creative e renderli gregari attraverso didattica, voti, competizione, punizioni, sensi di colpa. La televisione colonizza l'immaginario infantile di logos e acquisti, consumi e modelli preconfezionati di adultità cui aspirare. Il neoliberismo progetta la totale immissione dei bambini nei circuiti economici attraverso la fornitura di non-luoghi capaci di spersonalizzarne il tempo di vita: gli infiniti "paradisi dei bambini" che l'Ikea ha inventato, permettono la normalizzazione nella coscienza infantile della sovrapposizione tra tempo e consumo.
Il rapporto con il potere dunque è carico di una storia fatta principalmente di autoritarismo e dominio.
Pensare a un potere privo di autoritarismo richiede uno sforzo per immaginare modelli altri del potere che risiedano su relazioni e modi delle decisioni direttamente partecipativi e condivisi. Gli zapatisti parlano di "comandare ubbidendo": non possiamo immaginare una comunità umana priva di leadership ma tale leadership può avere consenso se chi guida è nelle mani della comunità e non viceversa.
Un mondo organizzato a partire da un potere partecipativo è sicuramente un mondo più giusto del nostro perché attraverso la partecipazione diretta alla gestione del potere comunitario tutti e tutte possiamo direttamente modellare la comunità in cui viviamo, i suoi scopi, i suoi metodi, il suo senso stesso.
Camminare domandando
La globalizzazione radicalizza la missione capitalista di integrare il pianeta all'interno di un unico mercato globale, correlato all'ideologia di un "pensiero unico". Lo slogan zapatista "Per l'umanità contro il neoliberismo" allude a una pluralità di forze sociali a essere coinvolta in quello che una volta si sintetizzava come conflitto tra capitale e lavoro. Riscrivere questo conflitto come conflitto tra neoliberismo e umanità significa individuare nel presente un'espansione, altamente conflittuale, di ordine quantitativo del mercato e delle sue leggi al pianeta intero, ma anche un radicamento qualitativo delle leggi di accumulazione capitalistica nel tessuto sociale, tanto profondo da ridurre a propria funzione tutti gli aspetti della vita sociale. Il neoliberismo rende dunque potenzialmente antagonista ogni soggetto sociale che rivendichi dignità.
La modernità ci ha consegnato un discorso sulla rivoluzione legato all'idea che vi fossero soggetti particolari in grado di risolvere le contraddizioni della storia determinate dal conflitto tra capitale e lavoro. Questo discorso è fallitto perchè la ristrutturazione del capitalismo ha determinato la crisi stessa della possibile localizzazione particolare del conflitto e insieme di una possibile politica del soggetto antagonista unico (il partito, il lavoratore) in grado di farsi carico della soluzione delle contraddizioni. I diversi discorsi che da trentanni parlano di postmodernità, post-fordismo, neoliberismo alludono tutti a uno straripamento del potere capitalista dai confini della fabbrica-stato, verso lo sconfinato che è il vivente. Anche la formula che decreta la crisi della politica, invasa dal comando economico, va nella direzione di un'immagine dell'oggi come di un presente in cui il capitalismo dichiara la morte di tutti i soggetti che il `900 descriveva come attori di mediazione nei conflitti tra il capitale e l'esistenza. Questo straripamento era stato individuato da alcuni soggetti, come i pensieri femministi, il situazionismo, il movimento non-violento, ma egemoni rimanevano le opzioni legate ai soggetti unici di stampo leninista.
Inoltre l'esito delle nostre lotte non è assicurato a nessuna conoscenza totale della storia, a nessuna verità di essa, dunque a nessun soggetto unico della trasformazione.
Rifiutando lo strumento analitico di vecchie, o nuove, filosofie della storia affermiamo di non disporre di "saperi totali", di teorie del tutto che rendono superflua la contaminazione con gli strumenti critici che altri adoperano.
La nostra comprensione della storia è parziale, l'esito si mostra nella sperimentazione sociale quotidiana, i soggetti della trasformazione, della nostra rivoluzione, sono tutti coloro e tutte coloro che affermino la loro dignità, ponendosi in una prospettiva di emancipazione dal potere neoliberista e dalle sue istituzioni ideologiche, economiche e sociali.
Con Zibechi: "La frammentazione delle società moderne indica che non esiste un'oppressione o una contraddizione principale la cui risoluzione acceleri l'andamento di tutto il resto. La complessità delle nuove realtà ci avverte che non esiste il nodo gordiano da poter tagliare per sbrogliare tutte le forme di dominio, e pertanto neppure esiste un unico soggetto in grado di farlo".[13]
Sono allora necessarie una pluralità di pratiche di alternativa, di rivolte etiche, di percorsi di disobbedienza, sperimentazioni di autonomia dal basso e
autorganizzazione della società.
La pedagogia della ribellione
La globalizzazione neoliberista dunque produce la guerra come orizzonte globale e permanente, "equivalente generale" dell'economia, della politica, dell'etica, sorgente delle stesse.
La guerra che abbiamo di fronte non è solo la guerra delle bombe, siamo di fronte a una "pedagogia della guerra" capace di normalizzare l'odio per il diverso, la paura per l'altra, la competizione come comportamento selettivo tra simili.
Tale pedagogia avanza attraverso il controllo-carcerazione biopolitico della vita.
Ogni aspetto dell'esistenza è invaso dalla religione neoliberista del denaro e del profitto e consegna il tempo di vita alla produttività, alla mercificazione, al consumo, all'insensatezza.
I media, attraverso la banalizzazione della violenza televisiva e la produzione di un immaginario costruito sullo schema militare dei video giochi, normalizzano la coscienza individuale preparando nuovi gregari del sistema. Lo spettacolo sussume la realtà:
"I divertimenti elettronici propongono di solito dei mini racconti d'avventura con scenari che spesso si ispirano a scenari reali (...) Un eroe segue un percorso iniziatico nel corso del quale elimina in continuazione degli avversari sempre più temibili. Uccidere, distruggere, sparare sono gli atti che questi giochi richiedono costantemente, e che l'adolescente esegue premendo semplicemente un pulsante. A lungo andare quel piccolo gesto che uccide banalizza e rende irreale l'idea stessa della morte che pure costituisce il fondamento stesso della filosofia e delle religioni di tutte le civiltà".[14]
Non sono solo i videogiochi e l'alternanza confusiva tra cartoni animati e telegiornali a banalizzare la violenza e normalizzare la guerra. Il modello pedagogico del reality show ha la funzione di comunicare l'idea che dietro tutte le comunità umane esista una guerra permanente finalizzata all'eliminazione dei propri simili.
La scuola, con la gerarchizzazione delle prestazioni mediante i voti, prepara i bambini e le bambine a quella forma "civile" di guerra che è la competizione tra adulti.
Agli inadeguati e le inadeguate ci pensano i calmanti e gli psichiatri.
Questa pedagogia si basa sull'irragiungibilità della felicità e la diffusione di massa dello scontento. Competere, produrre sempre nuove prestazioni di sé, rende frammentata la costruzione delle biografie individuali, costantemente sottoposte ad ansie e insoddisfazioni. Nuovi mercati accolgono la sofferenza e cercano di porvi rimedio: palestre e personal trainer, psicofarmaci e rabdomanti dell'anima, weekend di decompressione e cliniche del benessere, domeniche di famiglia negli ipermercati e maestri orientali pagabili con carta di credito. Tutti rimedi che, serialmente sostituibili l'uno all'altro, non intaccano la profonda insoddisfazione di quella parte di umanità che si definisce del ben-essere.
Opporsi a questa pedagogia significa riscrivere gli ambiti della nostra esperienza di vita sotto il segno di una "pedagogia della ribellione".
E' necessario un profondo sforzo collettivo di decolonizzazione dell'immaginario.
I bambini e le bambine hanno diritto a divertirsi stando l'uno con l'altro a vivere a partire dai loro desideri. Gli adulti e le adulte hanno il diritto di dormire le loro notti e non di soffrirne le insonnie.
Le alternative sorgono da ogni ambito dell'esperienza.
Non c'è un fenomeno sociale privilegiato sul quale agire per la trasformazione, è necessario rivoluzionare tutti gli ambiti delle nostre esistenze. Il sapere, i consumi, la pedagogia, la questione di genere, l'abitazione, il lavoro: tutti ambiti della riproduzione della vita, subordinati alla violenza mercificante del capitale bellico. Riappropriarsi della riproduzione della vita significa allora intessere con altri soggetti strategie di esodo dalla gregarietà nei confronti del potere.
Non allora una strategia di presa del potere, ma una reticolarità di esperienze che tentando l'autorganizzazione del sociale svincolino la vita quotidiana e le relazioni sociali dal potere, erodendo dal basso l'impero. Autoproduzione e cooperative di acquisto, centri sociali e media indipendenti, microeconomie non monetarie e scambi di tempo, forme di rifiuto del lavoro salariato e autoproduzione di reddito, esperienze comunitarie e scuole libere: sono solo alcuni esempi delle infinite possibilità di una creatività sociale demercificata.
La metafora lilliputziana dell'imbrigliamento del gigante attraverso l'intreccio di mille lacci ribelli, coglie solo in parte la questione. Se è vero che si tratta di un grande sforzo cooperativo tra piccole individualità, tale sforzo non deve avere di mira il porre legami al gigante neoliberista.
Ci sembra più calzante la metafora del limare le gambe della sedia su cui il potere si siede. Ciò che rende grandi i potenti sono le sedie su cui gongolano.
Non sono idee nuove, e questo le rende ancora più valide. Howard Zinn scriveva in merito alla nuova sinistra nel 1969: "L'idea della nuova sinistra di organizzazioni parallele quali esempi per dimostrare che cosa dovrebbe fare la gente, come dovrebbe vivere, ha possibilità enormi: scuole libere, libere università, città libere, comunità autogestite. Ma anche sacche libere e attive di persone all'interno della città, delle università, delle aziende tradizionali. Nei combattimenti militari, la guerriglia nacque in risposta allo schiacciante potere militare centralizzato. Forse abbiamo bisogno di tattiche di guerriglia politica di fronte alla società di massa, in cui creare enclave di libertà qua e là all'interno dello stile di vita ortodosso, affinchè diventino centri di protesta ed esempio per gli altri".[15]
Abbiamo bisogno di essere un nuovo tipo di rivoluzione.
Note:
1 John Halloway, La rivolta della dignità, in Camminare domandando. La rivoluzione zapatista, a cura di Alessandro Manucci, Roma, DeriveApprodi, 1999.
2 Danilo del Bello, Potenza contro potere: l'utopia zapatista, in Camminare domandando, cit.
3 N. Chomsky, J. Herman, La fabbrica del consenso, p.16, Roma, Marco Tropea Editore, 1998
4 A. Mellucci, Culture in gioco. Differenze per convivere, Milano, Il saggiatore, 2000, p.24,
5 A. Mink, Cambio 16, Madrid, 5 dicembre 1994; cit. in I. Ramonet, Il pensiero unico e i nuovi padroni del mondo, Roma, Strategia della lumaca, 1996.
6 Subcomandante Marcos, La quarta guerra mondiale è cominciata, Roma, Il Manifesto-Le Monde Diplomatique, 1998, p.16
7 T.Friedman, New York Time Magazine, 28 marzo 1999.
8 Intervista a N. Chomsky, In Movimento, Roma, DeriveApprodi, 2002.
9 Mimmo Porcaro, Primi appunti sul movimento, Milano, 27 Dicembre 2001, http://www.brianzapopolare.it/sezioni/mondo/globalizzazione/genova_movimento_2001dic27.htm
10 Intervento di Alex Zanotelli all'Assemblea Nazionale della Rete di Lilliput, ottobre 2000.
11 AA.VV, Vivere insieme: Il libro delle comuni, Arcana, 1974
12 Subcomandante Marcos, La rebeldia e le sedie, 2003
13 R.Zibechi, Il paradosso zapatista, Milano, Eleuthera, 1998
14 Ignacio Ramonet, Il pensiero unico, cit, p.28
15 H.Zinn, Dissobbedienza e democrazia, Milano, Il Saggiatore, 2003.