AUTORGANIZZAZIONE
SOCIALE DENTRO E FUORI L'UNIVERSITA'
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Perché ciò si realizzi è indispensabile mettere in campo pratiche che non si esauriscano nella categoria di radicalità, ma tengano insieme rottura con l’esistente e costruzione dell’alternativa. È in quest’ottica che devono inserirsi azioni di comunicazione e di risignificazione, dimostrative e conflittuali. È in quest’ottica che occupazioni, autoriduzioni e spazi di controsapere sono atti di riappropriazione diretta ma allo stesso tempo iniziative rivolte alla costruzione di uno spazio politico e culturale in cui l’autorganizzazione del conflitto sociale trovi terreno sempre più fertile: perché certe pratiche siano generalizzate e moltiplicate è necessario innanzitutto che il sentire comune le percepisca sempre meno come straordinarie. Riguardo a come la pratica politica possa declinarsi rispetto a scenari più ampi, l’evolversi della mobilitazione studentesca bolognese nata contro il ddl Moratti rappresenta un’esperienza significativa che ha visto gli stessi collettivi autorganizzati, quelli che da subito hanno condiviso la radicalità, le coordinate politiche e le pratiche del movimento, sciogliersi realmente in esso: non solo sotto l’aspetto formale e strumentale, con la sparizione di sigle e simboli a favore della creazione di soggetti politici più ampi, ma anche e soprattutto nelle dinamiche concrete. La scelta dei collettivi già esistenti di mettere da parte le proprie identità, integrando percorsi e strumenti, non rappresenta un passo indietro o una rinuncia ma al contrario un passaggio di maturità politica. Passaggio che rimettendo tutto in gioco, e in discussione, permette di trarre ricchezza e stimoli vitali dal contatto ravvicinato tra bagagli di esperienza diversificati e di dare spazio a tutte quelle soggettività che con la persistenza di dinamiche di gruppo avrebbero visto precluse molte possibilità di coinvolgimento. E quindi, di fatto, di dare vita a ciò che si può definire un movimento. Ciò rappresenta lo specchio di un’impostazione di fondo, riscontrabile allo stesso modo nella continuità del lavoro quotidiano così come nelle scelte più impegnative, che rende l’autorganizzazione profondamente tale. Un’autorganizzazione dinamica e pronta a ripensare continuamente sé stessa, evitando ciò che è statico e inerziale. Questo purtroppo non impedisce, inutile negarlo, che soprattutto col passare del tempo delle dinamiche di gruppo affiorino. Probabilmente ciò rappresenta un limite strutturale, che si presenta non appena la spinta del movimento comincia ad affievolirsi e se questo non ha avuto la forza e la capacità di darsi forme nuove in grado di superare permanentemente le precedenti. Se ciò non avviene, e se l’espansione del movimento si arresta perché fondato su una proposta non sufficientemente propulsiva, è una questione di tempi. Nonostante le consapevolezza della mancanza di prospettive di generalizzazione, ricominciare a ragionare (prima ancora che operare) in termini di collettivo solo quando le ultime spinte reali del movimento si siano esaurite significa tentare di mettere a frutto anche tali spinte, seppur residuali: coinvolgimento di individualità, avanzamento teorico, moltiplicazione del conflitto. Solo una volta esaurita totalmente l’ondata di movimento, si pone il problema di assecondarne la ciclicità strutturale ripartendo dai collettivi, valorizzandone le tipicità e l’autonomia di percorso: sia quelli nati sull’onda della mobilitazione, sia quelli preesistenti se è utile che rivestano ancora un ruolo in un panorama eventualmente (e si spera) mutato. A tal proposito risulta rilevante la coesistenza di collettivi di facoltà o dipartimento e collettivi interfacoltà, intendendo con questi non solo ambiti di coordinamento ma anche soggetti politici che attraversino l’intero ateneo. Questo per garantire da un lato un intervento specifico in realtà diverse che presentano problematiche diverse, e dall’altro una visione d’insieme ed un’attività ampia, trasversale e promotrice, nonché la possibilità di coinvolgimento individuale nelle facoltà in cui (ancora) non esiste un collettivo. Ripartire dai collettivi, quindi, si rende necessario per ricominciare a tessere le fila dell’autorganizzazione. Per sviluppare, diffondere, assorbire, convogliare (autorganizzazione non significa disorganizzazione) tra una fase intensa di mobilitazione e un’altra. In tal senso la ricchezza che si può trarre da una di queste fasi non può ridursi ad un semplice (senza dubbio auspicabile) aumento dei collettivi, ma è fondamentale lavorare per aumentare il grado di coesione e connessione. E soprattutto generalizzare quella prassi politica che contraddistingue un’autorganizzazione in grado di andare oltre sé stessa. Se è vero comunque che è dalle facoltà e nelle facoltà che i collettivi universitari traggono vita, è altrettanto importante che diano un’impronta sociale alla propria autorganizzazione, rifiutando una logica puramente studentesca ed inserendosi invece appieno nelle complesse contraddizioni che attraversano il tessuto cittadino. Poiché è evidente che non si è studenti solo dalle nove di mattina alle sette di sera, quando chiudono e facoltà, ma si è studenti anche quando si viaggia in autobus, si affitta un posto letto, si fa la spesa, si ordina una birra o si compra un libro: soggetti di produzione e di consumo, e componente sociale determinante nell’economia di una città come Bologna. Per questo l’attività dei collettivi non può rimanere confinata all’interno delle mura dell’ateneo, ma acquista senso se va a relazionarsi con le lotte del precariato sociale nelle sue molteplici forme. Autorganizzazione e resistenza sociale dentro e fuori l’università, quindi, per una trasformazione dell’esistente che non può trascendere l’ambito studentesco ma nemmeno può trovare in esso un limite [torna su]
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