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LABORATORIO PER IL CONTROSAPERE
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Economia dell’informazione, economia delle conoscenze, “capitale umano”, capitale cognitivo sono alcune delle definizioni attraverso le quali il capitale prova a leggere questo fenomeno: sempre più spesso “il valore trova oggi la sua fonte nell'intelligenza e nell'immaginazione. Il sapere dell'individuo conta più del tempo della macchina. L’uomo, portando il proprio capitale, porta una parte del capitale dell'impresa”. Questo è quello che viene insegnato ai giovani dirigenti d' impresa francesi, quel che conta nei loro operai sono sempre più le qualità di comportamento e di espressione, il coinvolgimento personale nel compito da svolgere. La conoscenza è sempre più considerata dal capitale come una forza produttiva da captare e da ordinare, come una forza che si deve esprimere nel reticolato della precarietà lavorativa. Inoltre il capitale prova a rinchiudere e a privatizzare, per mezzo di copyright e brevetti, quel potenziale creativo che è costitutivamente comune, espressione immediata della cooperazione produttiva di molteplici singolarità. Le trasformazioni strutturali della scuola e dell'università italiana, determinate dalle riforme Zecchino-Berlinguer e dalla riforma Moratti, si collocano all'interno di questo quadro generale. Il percorso universitario, come momento della formazione, è pensato in termini funzionali: l’università –e in generale il sistema della formazione- non è luogo neutrale, luogo di scambio e di circolazione di conoscenze astratte e svincolate dal piano dei rapporti sociali esistenti. E’ un anello fondamentale della produzione e della riproduzione capitalistica. Il sapere che ci viene quotidianamente propinato è rinchiuso in moduli didattici scadenti, i piani di studio sono organizzati in curricula di ambito strettamente disciplinare e le conoscenze che ci vengono trasmesse sono spesso funzionali alla riproduzione dell'esistente e alla sua legittimazione. Da un lato il 3+2 o la Y (1+2+2), il sistema dei crediti, la didattica parcellizzata e contraddistinta da un nozionismo tecnico, gli stages, i progetti di ricerca finanziati da enti privati rappresentano il tentativo di integrare un luogo pubblico alle esigenze del mercato del lavoro. In un mercato del lavoro sempre più precarizzato, costituito da figure lavorative altamente flessibili in quanto a competenze e possibilità lavorative, la “licealizzazione” dell’università – attraverso la laurea di primo livello- risponde proprio all’esigenza di produrre soggetti portatori di conoscenze e competenze “larghe”, generiche, buone per essere spese dentro un mercato altamente flessibile. In tal senso l’università del 2006 è una fabbrica sociale organizzata per sfornare laureati dotati di generiche competenze comunicative e linguistiche, soggettività da immettere nelle reti del lavoro precario. Inoltre il sapere prodotto e le conoscenze trasmesse non solo sono orientate a riprodurre l’esistente, ma anche a legittimarlo. Tale legittimazione avviene in scala modulare, cioè in varie modalità e a vari livelli. Anzitutto si presenta il sapere solo come funzionale ad essere speso dentro una relazione già-data: lavoro in cambio di salario. Si tenta di destrutturarne la potenzialità costitutiva, che è la possibilità della sua ri-elaborazione critica: le forme di produzione sono già date, e non sono in discussione; il sapere non deve farsi critica dell’esistente. Il capitale si autolegittima come unico modo di produzione possibile. L’università ha in ciò un ruolo fondamentale. Il potere e la capacità di dominio del capitale si realizzano infatti anche attraverso saperi che sedimentano un immaginario capace di “modellare” menti e corpi, di determinare forme di vita tali da poter essere facilmente sussunte, di orientare il pensiero degli individui a ritenere come “naturale” la relazione di scambio lavoro-salario, presentandola come unica possibile. Il sistema dei crediti, con il suo potenziale distruttivo sulla qualità della formazione, interviene a imbrigliare ulteriormente il sapere. Da un lato con la sua frantumazione, cioè con la proliferazione di nuove discipline particolari e la riduzione delle conoscenze a “pillole nozionistiche” spalmate in esamini da 5 cfu, si produce una dequalificazione didattica e formativa che spoglia la conoscenza dalla sua complessità costitutiva: produzione di un sapere frazionato e di nozioni slegate tra di loro, dunque meno passibili di essere rielaborate criticamente. Dall’altro lato l’aumento vertiginoso del numero di esami annui si traduce in una costante e ininterrotta messa al lavoro - e a valore - dell’intelligenza, in un processo in cui il tempo di vita è totalmente immerso nel tempo di studio (non in quanto tale, ma per dare esami e conseguire crediti). Una vera e propria “paralisi” dell’intelligenza critica, un tentativo di disciplinare il sapere per “immunizzarlo” dal suo potere e dalla sua capacità di mettere in questione la realtà data in vista della sua trasformazione. Ma il sapere è ontologicamente ambiguo. I tentativi di quantificarlo, disciplinarlo, piegarlo agli interessi e alle logiche del dominio, non fanno i conti con la sua naturale indeterminatezza, con la sua costitutiva eccedenza, con la sua possibilità di farsi critica dell’esistente, di sedimentare un immaginario altro da quello dominante, un immaginario teso alla liberazione degli uomini e delle donne dallo sfruttamento capitalistico. Questa possibilità si dà nell’esercizio collettivo di produzione di un sapere altro, nella circolazione di controsapere, di “sapere-contro”: contro il dominio del capitale. Un sapere che non pretenda di essere “onnicomprensivo”, liberato dalla retorica della neutralità, ma pienamente e consapevolmente di parte, frutto dell’elaborazione collettiva delle soggettività in lotta. La critica, il confronto, il mettersi costantemente in discussione, l’apertura potenziale ad ogni possibilità sono per noi gli elementi attraverso cui immaginare altre relazione tra gli esseri umani e nuove forme di vita. Ma se il sistema scolastico è visibilmente orientato a sfornare soggetti sempre più passivi, sempre meno consapevoli, disposti ad accettare un esistente mistificato precludendosi qualsiasi possibilità di interagire dialetticamente con esso per modificarlo; se il sapere tende a non essere più un insieme sempre aperto di conoscenze e capacità acquisite, ma si limita ad una serie di nozioni dogmatiche da apprendere possibilmente senza la pretesa di stabilirvi connessioni o confronti, si dà tuttavia la possibilità di ribaltare il piano della subordinazione del sapere alla riproduzione del capitale. Autorganizzazione significa anche darsi gli strumenti che ci vengono negati, le possibilità che ci vengono precluse, non accettare passivamente schemi e concetti prestabiliti, ma pretendere di crearne. Per tutte queste ragioni riteniamo fondamentale aprire spazi di confronto e di rielaborazione nelle facoltà attraverso seminari autogestiti, video proiezioni, presentazioni di libri. Negli spazi aperti e collettivi dei seminari vogliamo costruire un’altra pratica di diffusione del sapere. Non già semplicemente lezioni frontali e ricezione passiva da parte di studenti abituati semplicemente ad incorporare e imparare nozioni già date e preconfezionate: piuttosto una partecipazione attiva e creativa da parte nostra, uno spazio di discussione libero, aperto, orizzontale; uno spazio di discussione che, partendo dalle nostre esigenze, sia alternativo anche rispetto alle modalità con le quali il sapere viene solitamente diffuso all’università. Uno spazio nel quale le nostre riflessioni producano realmente una rielaborazione di quello che andiamo costruendo collettivamente: percorsi di studio e ambiti di ricerca che attraverseremo animati da una tensione post-disciplinare e radicati nella nostra volontà di sapere. [torna su]
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