LA STORIA UNIVERSITARIA IN ITALIA: DALLA "LEGGE CASATI" AI " DECRETI MORATTI"  

di Fabio Falabella  

 

Lo studio delle riforme universitarie e, più in generale, delle politiche pubbliche in materia di istruzione e formazione che hanno caratterizzato l'azione dei governi succedutisi dal gabinetto La Marmora durante la reggenza da parte di Vittorio Emanuele Secondo del Regno di Savoia, addirittura prima dell'unità d'Italia(1), sino ai governi di centro-sinistra degli anni scorsi (2), per giungere ai decreti Moratti(3) rappresenta un argomento di riflessione denso di tematiche la cui comprensione si impone, nel nostro sistema storico, come una questione sociale, politica, etica, tanto più ad uno studioso di scienze sociali.

In verità, la società nella quale viviamo che potrebbe essere definita della conoscenza e dell'informazione continua e globale è investita, ormai da molti anni, da una rivoluzione tecnologica di una portata e di una profondità impressionanti e che di gran lunga può essere considerata la più multiforme, complessa e collegata a modi superiori di produzione e di trasmissione delle culture che si sia mai vista(4); nello scenario definito dalle dinamiche storico-economiche, dalle strutture e dai processi relazionali tra queste, dai flussi di capitali, di merci, di azioni politiche e diplomatico militari, nonché di modelli culturali preconfezionati e generalizzanti, disciplinanti e pubblicitariamente stereotipati, che strutturano l'economia-mondo-capitalistica che è il sistema storico-sociale nel quale viviamo(5), le gigantesche trasformazioni che le economie di mercato e non stanno subendo proprio per effetto della rivoluzione tecnologica cui sto accennando sono portatrici di un impatto culturale impressionante che investe  cimenta principalmente le strutture culturali, formative ed informative, sia istituzionali che spontanee, degli stati nazionali, in primo luogo modificando i tramiti, le regole, le modalità, le metodologie, le funzioni professionali in cui e da cui ogni forma di cultura, da quelle più istintive e per così dire irriflesse a quelle più intensamente autocoscienti, viene classificata, conservata, variamente comunicata e trasmessa(6).

In questo senso, la caratteristica saliente delle tensioni globali, sistemiche e strutturali che agitano il sistema-mondo è nella vastità con cui la divisione del lavoro su scala planetaria e la dispersione, mercificazione e trasformazione di saperi, conoscenze e specializzazioni produttive generano una vera e propria crisi sistemica determinata dalla lotta degli stati nazionali e dalla valutazione comparata dei loro rispettivi sistemi di formazione pubblica per adattare le conoscenze da cui dipendono qualifiche professionali ed occupazionali nella necessaria concorrenza globalizzata: sembra essere dunque fin troppo palese che le battaglie strategiche per le gerarchie della ricchezza e del potere nel mondo globale avranno per campo principale gli ordinamenti scolastici primari, secondari, terziari e d'eccellenza dei singoli gareggianti e che la graduatoria delle nazioni e dei raggruppamenti e delle associazioni di queste (7)dipenderà in modo assolutamente preminente da come ogni singolo attore riuscirà a compiere i riadattamenti necessari e le trasformazioni profondissime che tale momento storico richiede.

In altre parole, nella società della "technology information" (8)non solo le informazioni, le notizie, le immagini e tutto ciò che costituisce il "news business", quanto e forse soprattutto i"prodotti culturali" i saperi, le conoscenze e le specializzazioni professionali che ne derivano, rappresentano da un lato una delle nuove frontiere di accumulazione di capitale(9) insieme alle risorse genetiche, a quelle strategiche ed alle acque e, dall'altro, costituiscono dunque un settore sociale strategico nel quale deve necessariamente intervenire una azione politica regolatrice dello stato o dei poteri pubblici a meno che non si voglia lasciare  il campo alle sole forze sociali ossia, in questo caso, ai poteri di mercato delle imprese che sempre più frequentemente e profondamente si interrelazionano al mondo universitario, a volte in modo disarmonico, per usare un eufemismo, ed alle "autonomie" dei senati accademici e dei consigli di amministrazione dei nostri atenei.

Un settore sociale, quello della formazione, che ha interessato la politica almeno dalla formazione degli stati nazionali in epoca moderna(10), proprio per il suo fondamentale valore sociale, per le sue funzioni educative, formative, disciplinanti e che appare fondamentale tanto più oggi, per la centralità che esso ha ed avrà in ogni regione del mondo per la capacità o meno di formare donne ed uomini in grado di rispondere alle sfide culturali e, dunque, politiche ed economiche che l'economia-mondo-capitalistica, nell'era della globalizzazione, impone.

Da quanto scritto finora appare evidente la necessità di un'azione politica che sappia rispondere a queste sfide in maniera complessiva e che, per quanto riguarda l'istruzione pubblica, sia capace di armonizzare le innumerevoli spinte antropiche cui questa è sottoposta al fine di produrre norme e criteri legislativi validi e razionali che sappiano creare le strutture formali generali, democratiche e, possibilmente egualitarie nel senso di pari opportunità di accesso agli studi di ogni ordine e grado, del sistema dell'educazione pubblica(11) dalle scuole elementari, alle università ed alle scuole d'eccellenza, affinché questo sistema di istruzione pubblica formi individui che apprendano nozioni valide, culture critiche, e che imparino a studiare, a lavorare e soprattutto a vivere in maniera dignitosa. E se quanto finora scritto risponde a verità, appare altrettanto evidente la improrogabilità di un intervento netto, chiaro e risolutore del potere legislativo italiano in merito di istruzione per tentare di cominciare a risolvere gli innumerevoli problemi che complicano la vita degli studenti italiani dalle scuole per l'infanzia sino all'università.; se i processi descritti in precedenza interessano infatti tutte le regioni economiche e gli stati-nazione del pianeta terra, la situazione italiana risulta, dal canto suo, notevolmente complessa ed intricata, ulteriormente complessificata da particolarità tutte "all'italiana" di cui mi appresto a parlare che trascendono, seppur parzialmente ma in maniera specifica, le generalità dello scenario definito in precedenza.

Ciò significa che se le riforme dell'istruzione e dell'università che sono state attuate negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna già parecchi anni orsono e poi, a poco a poco, negli altri paesi occidentali e soprattutto in quelli europei ad economia di mercato erano necessitate da quelle esigenze di adeguamento alle trasformazioni del sistema-mondo descritte in precedenza(12), trasformazioni che hanno richiesto nel tempo individui formati alla complessità, alla flessibilità, alla trasformazione e progressiva mercificazione di conoscenze e capacità produttive, e quindi di sostentamento(13), ebbene queste stesse dinamiche strutturali e di portata globale risultano, in Italia, maggiormente pungenti, pressanti ed inderogabili a causa della peculiarità della storia politica italiana caratterizzata da una storia incredibile di tentativi intentati, mancati, falliti o, al massimo, riusciti in parte di adeguamenti delle leggi, dell'offerta didattica e delle strutture della scuola e dell'università in relazione alle richieste poste in essere dal tessuto socio-economico: che sarebbe a dire, una storia incredibile e centenaria di riforme mancate per ragioni talmente numerose ed intricate tra loro che anche farne un semplice resoconto storico e quanto più possibile distaccato, risulta un compito di non facile svolgimento.

Per queste ragioni urge in Italia, forse più di ogni altra cosa, una riforma complessiva e completa del sistema dell'istruzione pubblica ed è altresì necessario che gli scienziati sociali e tutti coloro che hanno a cuore il futuro delle prossime generazioni e le sorti del sistema-paese in generale si occupino in maniera coscienziosa e lungimirante di questo problema e, nel caso nostro, della riforma universitaria in particolare; riforma, parola più volte pronunciata a proposito dell'università e spesso evocatrice di passioni, ideologie, interessi contrapposti, parola che meglio di ogni altra esprime il senso della necessariamente stretta correlazione tra i saperi ed i bisogni sociali espressi da ogni singola comunità, parola che, dunque, richiede un seppur approssimativo approfondimento storico, "condicio sine quae non" per la comprensione delle spinte innovatrici e dei problemi che caratterizzano l'università italiana, approfondimento storico che, del resto, costituisce il nucleo essenziale di questa tesina di ricerca.

La prima riforma presa in considerazione in questo lavoro è la "legge Casati" promulgata per decreto il 13 novembre 1859 da Vittorio Emanuele 2, re del Regno di Sardegna(14); le ragioni di questa scelta sono molteplici: ferma restando la necessità di non andare troppo indietro nel corso del tempo e scendere nelle particolarità ordinamentali e di funzionamento delle accademie italiane prima del compimento del processo di unificazione del regno, la legge che prese il nome dal conte milanese Gabrio Casati, ministro dell'istruzione durante il gabinetto La Marmora, all'immediata vigilia della Seconda Guerra d'Indipendenza, fu la prima di portata extraregionale e che interessò pian piano tutti gli atenei italiani; inoltre era una legge che presentava un approccio più o meno complessivo alla questione universitaria ed ai problemi dell'istruzione pubblica ed infine molti dei principi in essa contenuti sono passati indenni attraverso tutte le vicende politiche del Regno unitario ed anche in parte nella susseguente Repubblica(15), hanno in gran parte informato di sé, in molti aspetti fondamentali, le successive riforme universitarie e quella Gentile in particolare, ed, in alcuni casi, restano tuttora validi. Uno degli aspetti essenziali della legge Casati, come riferisce Felice Ippolito nel suo libro Università crisi senza fine, è contenuto nell'articolo 47 della stessa, articolo dal carattere nettamente classista e che testualmente recita: <<L'istruzione universitaria ha per fine di indirizzare la gioventù, già fornita delle necessarie cognizioni generali, nelle carriere sì pubbliche che private in cui si richiede la preparazione di accurati studi speciali, e di mantenere ed accrescere nelle diverse parti dello Stato la cultura scientifica e letteraria>>(16). In altri termini, sostiene ancora Ippolito, lo stato si preoccupava di creare la propria classe dirigente, la quale per il costo medesimo degli studi e per la politica vigente era riservata rigorosamente alla classe borghese. La legge Casati, che appena entrata in vigore interessò le università di Torino, Pavia, Genova e Cagliari e che già il primo gennaio 1960 venne applicata in Lombardia, era stata costruita su di un impianto normativo dalla concezione tipicamente liberale(17), che del resto era quella dominante tra le classi dirigenti di destra come di sinistra del Regno post-unitario: sostanzialmente, essa mirava a codificare, i principi generali cui si sarebbero dovuti conformare gli atenei presenti sul territorio del regno al fine di formare tecnici e quadri necessari per la strutturazione, l'ampliamento e la riproduzione della macchina statale allora in costruzione, principi che rispecchiavano naturalmente, in maniera molto fedele, gli interessi e la percezione della cosa pubblica tutta parziale espressa dalle classi dominanti; oltre a ciò la legge lasciava poi alle forze sociali, ossia allo strapotere del capitale nei confronti del lavoro, al dominio incontrastato delle classi padronali e borghesi nei confronti di quelle subalterne e proletarie, la possibilità di regolare l'accesso, il funzionamento e gli scopi di ogni singola università. Una legge insomma, che nell'accezione tipicamente liberale(18) allora predominate, relegava lo stato, anche in questa materia, in una posizione distanziata di arbitro e custode delle regole e della continuità del potere, delegando, da un lato, tutta l'organizzazione, l'attuazione e la gestione dell'offerta didattica e della vita universitaria, a parte disposizioni ministeriali concepite in modo volutamente generalista e per sommi capi, ai soggetti sociali presenti sul territorio e nell'università e consentendo, dall'altro lato, la nascita e la prima sedimentazione di quel potere accademico-baronale, espressione di interessi coacervi, faziosi  e del tutto alieni dalla ricerca della verità, intesa qui come epistemiologia della conoscenza e che pure dovrebbe essere pratica costante e fine ultimo di ogni istituzione deputata alla conservazione ed alla riproduzione dei saperi qual è l'università , potere quello accademico-baronale, che divenuto via via più avulso da ogni controllo esterno, sia pure legittimo, quanto sempre più legate da lacci e laccetti sotterranei alle leve del potere politico ed economico, e che, insieme ad altri fattori, è stato la causa di tante storture che hanno afflitto l'università italiana e che l'hanno relegata nello stato penoso in cui versa. Altro aspetto degno di nota, ed affatto in disaccordo con l'impostazione generale della legge or ora descritta, è la definizione della figura del docente che viene caratterizzata dalla peculiarità presupposta e non soggetta ad arbitrio altrui della libera docenza; inoltre va sottolineata la divisone, formalizzata dal legislatore, tra professori ordinari e professori incaricati, misura questa che sarebbe dovuta servire come regolatore e sistema minimo di controllo nell'accesso e nell'esercizio delle funzioni della docenza al suo massimo grado, quello di professore ordinario all'università. La tematica dell'accesso ai differenti gradi della docenza con relativi criteri di valutazione quali concorsi, attività didattica riconosciuta o pubblicazioni a carico del resto, diventerà una delle più dibattute e controverse, nonché uno dei nodi fondamentali di tutti i progetti di riforma posteriore con annesse polemiche infinite sull' "ope legis" (19)come testimoniano i testi specialistici sull'argomento(20), proprio per la centralità che essa potenzialmente assume nel determinare le carriere ed i relativi prestigi di migliaia di docenti e, con esse, di generazioni e generazioni di studenti. In ultima analisi, per quanto riguarda la legge Casati, resta da annotare il fatto che gli studenti non vi siano quasi mai menzionati e che l'impianto liberale, classista ed elitario dell'università in essa delineato venne recepito, migliorato, approfondito ed armonizzato da Giovanni Gentile allorchè questi, nel 1924 a ridosso della marcia su Roma di Mussolini e compagni(21), si apprestò a varare la "sua" riforma dell'università, quando cioè, a sessant'anni dalla legge Casati, prese coscienza delle accresciute ed in parte mutate necessità dello stato italiano. Un ultimo accenno alla Casati: fu una legge mediocre e rappresentò un tentativo di riforma appena sufficiente, ma va considerata, soprattutto se giudicata dal punto di vista dei suoi ispiratori e promotori ed alla luce delle necessità cui doveva far fronte, come riuscita almeno in parte dal momento che costituì l'infrastruttura normativa cui fecero riferimento per più di cinquant'anni le università italiane nella loro opera di formazione delle classi dirigenti dello stato nazionale di nuova formazione(22); una riforma che, per quanto deficitaria, incompleta, probabilmente inconsapevole rispetto ai bisogni i più ampio respiro dell'istituzione universitaria, servì, seppur parzialmente, gli scopi della classe dirigente che di questa riforma si fece carico e fu perciò che Gentile, apprestandosi a disegnare l'architettura dell'università italiana degli anni venti, ripartì proprio dalla legge Casati(23).

Gentile era consapevole, redigendo il progetto di riforma che sarebbe stato poi pubblicato, anch'esso sotto forma di decreto, da Mussolini che approfittò dei pieni poteri conferitigli(24), che la classe dirigente borghese emersa a ridosso dell'unità d'Italia, con la sua appendice di una modesta ed imborghesita aristocrazia, si era foggiata, con la legge Casati, lo  strumento adatto alla sua riproduzione attraverso la formazione di gruppi di potere completamente di propria estrazione, salvo rarissime personalità di estrazione superiore; e difatti quest'impianto rigidamente classista fu mantenuto e se possibile approfondito nel testo di Gentile che prevedeva finanche la ristrutturazione di tutto il livello secondario del sistema di istruzione pubblica attraverso la creazione della scuola media unificata e di due percorsi differenti di istruzione superiore, da una parte quello tecnico-professionale che avrebbe formato generazioni di operai qualificati come richiedeva la lo stato in espansione grazie alla prima vera rivoluzione industriale che ci interessò da vicino e, dall'altra quello classico e scientifico che avrebbe prepararono i figli della borghesia a ricevere la preparazione d'eccellenza nelle università d'elite verso cui questo percorso di studi specificamente preparava. Furono del resto le stesse classi dirigenti formatesi sotto la Casati che, appoggiando il fascismo permisero la riforma Gentile la quale elaboro i principi ed i criteri, ciò non può assolutamente sottacersi, per un'ottima scuola, ancorchè classista(25). La riforma Gentile del 1924 fu prodotta sotto la spinta fortissima e non più differibile rappresentata dal problema dei reduci e dalla sistuazione socio-politico.economica in cui versava il paese alla fine della Prima Guerra Mondiale, situazione che imponeva una riforma già allora generale, completa e complessiva dell' istruzione pubblica; fu attuata già in regime pre-dittatoriale di pieni poteri ma seppe cogliere il frutto delle istanze liberali matura negli anni precedenti, per quanto riguarda l'università la riforma ricalcò e riconfermò le linee della ormai vecchia legge Casati, ma seppe risolvere, in aggiunta, due problemi lasciati insoluti dalla riforma del 1859, problemi di cui in maniera magniloquente riferiva Antonio Labriola nel suo celebre discorso su "L'università e la libertà della scienza" tenuto all'università di Roma il 14 novembre 1896 come discorso inaugurale dell'anno accademico(26): nello specifico questi due problemi erano quello del valore legale del titolo di studio, tematica tuttora scottante, che fu praticamente abolito riservando il riconoscimento dell' attività professionale dei laureati ad un successivo esame di stato, e quello dell'insegnamento privato secondario che venne anch'esso sottoposto al controllo dei pubblici poteri per mezzo di un esame di stato. Ippolito sostiene che i frutti della riforma Gentile non mancarono: la severità degli studi, il controllo degli esami di stato sia per l'ammissione all'università sia per il riconoscimento professionale, l'emulazione nata tra la scuola pubblica e la scuola privata, diedero i loro effetti benefici in concorrenza con l'adeguamento ad uno spirito informatore estremamente più idealistico, che superava i vecchi schemi del positivismo nei programmi di insegnamento, segnatamente nelle materie filosofiche e letterarie ed, in misura minore, pure nelle scienze sociali; furono disposti, per la prima volta in questa maniera, programmi ministeriali generali i quali per ampiezza e difficoltà ricalcavano praticamente il carattere d'elite della scuola superiore e soprattutto del liceo classico. In ultima analisi la riforma Gentile, nella tensione trasparente dal testo stesso della legge tra le necessità burocratiche dell'apparato statale che si avviava a divenire dittatura e le aspirazioni culturali proprie del suo estensore e della scuola filosofica e del movimento di pensiero di cui questi era autorevole espressione, riuscì a disegnare quell'università votata all'eccellenza che, pur con tutti i problemi propri di questa istituzione e particolari della versione italiana che si sono trascinati nel tempo, ha costruito la struttura portante dei nostri atenei sino all'era repubblicana, modello di una università peraltro orgogliosa depositaria della storia della cultura occidentale espressa sin dai tempi delle "liberae universitas studiorum disciplinorumque", modello di università quello gentiliano insomma, che tante intelligenze e conoscenze ha prodotto e che tutto il mondo ci ha, a suo tempo, imitato ed invidiato. La riforma Gentile ha caratterizzato la fisionomia ed il funzionamento e gli scopi delle università italiane sino ai nostri giorni, pur con lievi e mai sostanziali modifiche, e ciò dà la cifra della necessità della riforma universitaria che sappia rispondere alle esigenze di trasformazione che oggi la società impone al mondo della scuola tutto. Resta da dire che il liberalismo introdotto dalla riforma Gentile nella scuola e nell'università sfuggì, ricorda ancora Ippolito, alla rozza mentalità del legislatore fascista che, allorchè si accorse che per coagulare, le passioni, le intenzioni ed i miti della nazione intorno agli interessi del partito di regime avrebbero dovuto fascistizzare la scuola, come Hitler e Goebbels avevano magistralmente insegnato, varò in fretta e senza alcuna preparazione teorica le riforme più formali che sostanziali di De Vecchi e Bottai (27)che però incisero ormai tardi, quando il paese si avviava al disfacimento morale ed alla guerra e che in sostanza si risolsero in un alleggerimento dei programmi d'insegnamento della scuola media ed in un maggiore controllo politico sull'università. Il fascismo soltanto, creò il Consiglio Nazionale delle Ricerche(28) praticamente per avere il controllo sugli scienziati ed indirizzare la ricerca scientifica verso fini graditi al regime. L'università, durante il ventennio di regime, rimase fondamentalmente liberale e prefascista, almeno secondo quanto sostiene Ippolito nel suo libro; è vero che il movimento fascista penetrò parzialmente nell'università grazie all'azione militante di alcuni giovani ed erroneamente infatuati studenti, come è vero che alcuni dei professori più giovani si piegarono alle esigenze del regime, ed è pure vero che il fascismo richiese, come da prassi, il giuramento di fedeltà al regime ai professori universitari, ma è ben noto, ed altrettanto vero, come questa faccenda si risolse: la grande maggioranza dei professori universitari, in questo ispirati anche dai clandestini partiti politici d'opposizione, accettò il giuramento come atto puramente formale per non perdere il posto e lo stipendio, e segnatamente l'influenza sulle giovani generazioni. Si può dunque affermare che a parte poche, rare eccezioni, il fascismo e l'orda di barbarie e violenza blanditrice e subdola di cui esso era portatore, pur soffocando la società italiana, rimase, in buona parte, al di fuori dell'università.

La storia repubblicana comincia con gli scontri in seno alla Costituente nei quali emerge chiaramente l'importanza dell'istruzione pubblica come vettore fondamentale delle differenti culture presenti nella società italiana nel secondo dopoguerra spesso in conflitto tra loro, culture espressioni dei differenti gruppi sociali che si confrontavano nell'arena politica; di procedere ad una profonda riforma e ristrutturazione dell'università italiana, si parlava tra gli oppositori, già durante le ultime ore del regime: durante il periodo clandestino e la formazione dei primi governi del "CLN" a Roma ciascun partito aveva il suo gruppo di esperti, che studiavano il problema dell'università proponendo progetti più o meno articolati di riforma(29). Durante il primo governo De Gasperi il ministro dell'istruzione fu Enrico Molè(30) che nel gennaio del 1946 inviò a tutti i rettori degli atenei italiani una circolare per richiamare i professori universitari all'adempimento dei doveri accademici; sarà questa, una tematica destinata a divenire ricorrente nei dibattiti e nelle polemiche sull'università e che si intreccerà, all'apparire di ogni disegno di riforma, con interessi spesso tutti corporativi da parte dei baronati accademici italiani nelle "querelle" sostenute di volta in volta con il ministro di turno circa lo status giuridico di professore universitario con tutte le conseguenze sociali, nel senso di prestigio, politiche, nel senso di potere, ed economiche nel senso di onorari e compensi, che ciò implica. Nel secondo governo De Gasperi a Molè succede il democristiano Guido Gonella che dominerà il ministero dell'istruzione sino al 1951quando sarà sostituito nelle sue mansioni da una altro ministro democristiano, Antonio Segni; nel 1949 il ministro Gonella tentò una miniriforma inviando ai rettori una circolare che li invitava a proporre modifiche agli statuti ed alle norme riguardanti le discipline fondamentali e complementari: un tentativo fallito perchè questo progetto non iniziò mai l'iter parlamentare(31). Tuttavia con alcuni decreti, come al solito (sic!)(32), Gonella riuscì a reintrodurre nella scuola e nell'università quanto di più conservatore potesse esserci nel sistema prefascista di istruzione pubblica con l'aggiunta aggravante che ai laici liberali di inizio Novecento era subentrato un cattolico di stretta osservanza: il guasto portato dall'onorevole democristiano nella scuola elementare e media e nei rapporti tra scuola pubblica e scuola privata di ispirazione e finanziamento cattolico è ancora sotto gli occhi di tutti(33), soltanto il ministro Moratti adesso in carica sembra stia facendo peggio per quanto riguarda i rapporti con le scuole confessionali. Per quanto riguarda l'università l'unica preoccupazione di Gonella fu  quella di parlare di una riforma per la quale mancava la necessaria volontà politica di realizzazione. Luigi Labruna, già rettore dell'Università degli studi di Camerino, si è dimostrato acuto e sincero osservatore affermando che: <<La storia dei conati riformatori susseguitisi in Italia in meritò di università con frequenza certo impari alla volontà politica di realizzarli dalla fine degli anni cinquanta in poi è esemplare>>(34). Non fu questo infatti, nè il primo nè tantomeno l'ultimo tentativo non riuscito di riforma. Nel 1958 il democristiano Amintore Fanfani, presidente del consiglio, presentò un piano decennale per la scuola(35); fu un fatto importante ma si trattò di una presa di coscienza solamente quantitativa in relazione alle trasformazioni che allora cominciavano ad essere visibili e sostanziose e che cominciavano a delineare una università sempre meno elitaria: fu questo un piano incapace di vedere i problemi di fondo e che mirò soprattutto agli aspetti finanziari del problema dell'istruzione e non alle riforme. Presentato in Parlamento nel settembre del 1958, il piano Fanfani venne ulteriormente ridimensionato e venne poi ripresentato sotto forma di "Provvedimenti per lo sviluppo della scuola nel triennio 1962-65; il socialista Tristano Codignola, che presentò la relazione di minoranza al piano fu tra i pochi a rendersi conto dei sentori di dissenso che in molti, tra docenti e studenti, nelle università iniziavano ad avvertire: fu Codignola infatti, a citare la "Giornata dell'università" tenuta da docenti, assistenti e studenti il 27 gennaio 1961 per discutere, almeno nelle intenzioni dei promotori, dei problemi dell'istruzione superiore in maniera complessiva, laica e propositiva contemporaneamente in tutte le università italiane e mandare così un segnale forte al mondo politico(36). Purtuttavia, come annota Felice Froio nel suo libro "Università mafia e potere", durante tutti gli anni cinquanta ed i primi anni sessanta il dibattito parlamentare intorno alla situazione della scuola e dell'università fu quasi assente ciò, probabilmente, non a causa di un completo disinteresse o assoluta incomprensione da parte del mondo politico delle necessità e dei bisogni essenziali del mondo dell'istruzione pubblica: pareva essere questo, piuttosto una precisa volontà politica dei partiti al potere (ossia della Democrazia Cristiana e del Partito Socialista) di sottrarre un argomento tanto complesso, che riguardava un'arena sociale talmente intricata e densa di interessi accademico-politico-economici in forte contrasto tra loro, di un posto insomma, l'università, dove di tal guisa incoffessabile ed incoffessata era la rete di indebiti legami sotterranei e più o meno palesi a tutti ad un tempo, da indurre l'elite delle classi dirigenti, che di questi legami era spesso tramite e fine, ad intaccare il meno possibile i fragili equilibri di questo sottosistema sociale che tante possibilità di sistemazioni clientelari offriva, e di farlo, quando proprio necessario, attraverso la strada più breve possibile e, nella quasi totalità dei casi, per decreto, regio o ministeriale che fosse(37). Una situazione questa, che ha generato una prassi, quella delle riforme dell'università per decreto, che domina tuttora incontrastata nella scena politica italiana: decreti erano quelli di Berlinguer, decreti quelli di Tullio De Mauro ed Ortensio Zecchino, decreti, già tristemente famosi, quelli della Moratti; del resto sempre Ippolito racconta che quando a Cavour fu chiesto perchè durante la guerra d'indipendenza si fosse chiamato a Torino dal fronte il maggiore conte Casati per nominarlo ministro della pubblica istruzione e fargli varare, senza discussione parlamentare, una legge sull'istruzione ed in particolare su quella universitaria, si dice che avesse risposto : <<essere gli interessi in gioco per una riforma della scuola e della università tali e tanti che solo per decreto, cioè mentre "rullava il tamburo e tuonava il cannone" sarebbe stato possibile la tanto attesa riforma>>(38). A questo proposito va detto che, nel corso degli anni, si è assistito in Italia ad una serie incredibile di miniriforme, riformine, riforme-stralcio che sono servite ad accontentare gli interessi dei ministri e dei sottosegretari in carica e dei loro apparati di potere, a conservare, mistificando innovazioni, le forme più larvate ed indecenti di poteri baronali ed occulti legami extraaccademici, o al massimo a contenere le richieste sempre più pressanti espresse dagli studenti e dalla società più in generale ma quasi mai ad innovare o almeno a pensare compiutamente l'università preferendo invece una pratica di assurdo consociativismo dei partiti di governo che ha prodotto piccoli interventi di parte ed una sostanziale inconcludenza sulle questioni di fondo(39), pratica che si è tradotta in una miriade di "leggine" che riguardavano le corporazioni e concretizzavano la sola, vera politica scolastica praticata con continuità e coerenza nei lustri passati, quella del gonfiamento degli organici: la indecente abitudine nella cosiddetta "prima repubblica" di tentare riformine estemporanee inutili e magari buone solo ad immettere in ruolo qualche centinaia o migliaia di docenti dovutamente "raccomandati", riforme del tutto insufficienti rispetto alla prospettiva degli studenti o di chiunque si relazionasse all'università in modo serio, che venivano tentate durante le sessioni estive dei lavori parlamentari, ne è un chiaro esempio ed una inevitabile conseguenza. é in questo clima di cosciente e tanto più colpevole ottusità politica che cominciava il lento ma progressivo disfacimento del sistema universitario e scolastico in generale del nostro paese; al crescente peso della personalizzazione delle cattedre, alla strozzatura per l'ingresso nell'università di giovani docenti e ricercatori sempre più frustrante da indurre un numero considerevole di validi e validissimi studiosi a cercare miglior fortuna all'estero dando luogo al fenomeno preoccupante ma, in questo contesto irreversibile, della "fuga dei cervelli"(40), al potere malcelato di alcuni baroni che diveniva sempre più ingombrante e proporzionalmente sempre più distante da qualsiasi concezione seria e disinteressata dell'impegno didattico in facoltà, insomma a tutti questi fenomeni si cominciavano ad aggiungere le spinte esogene per una università non più classista e d'elite ma universalista e di massa di cui erano portatrici le classi lavoratrici che, con i loro sacrifici, stavano costruendo il "miracolo economico", con conseguenze in certe parti negative e, dovunque, importanti e destabilizzanti. Del resto che l'università andasse trasformandosi da classista ed elitaria quale era l'università prefascista e fascista, in una università di massa grazie all'ascesa delle classi popolari e per una maggiore giustizia sociale era nell'ordine stesso delle cose(41). Ma l'università aveva le sue strutture, di potere, culturali ed edilizie, che non potevano o, forse meglio, non seppero e non vollero far fronte alle istanze ed alle spinte incombenti di trasformazione di cui sto raccontando: la calcolata cecità politica e la mentalità conservatrice e baronale di gran parte del corpo accademico nazionale fecero il resto e, nel 1968, l'università scoppiò. Ma prima del 1968 ci furono altri avvenimenti degni di nota: il piano di riforma Ermini e, prim'ancora, di quello del senatore Medici svanirono nel nulla paludoso degli stanzoni di Viale Trastevere o in quelli di Montecitorio(42) poi, nel 1962, con un governo di centro-sinistra appoggiato dai socialisti(43), venne approvata una legge che istituiva una "Commissione di indagine sulla scuola e l'università" le cui conclusioni vennero presentate al ministro Gui nel 1963: a distanza di più di quarant'anni si può facilmente constatare che soltanto alcune delle proposte fatte da quella commissione sono state attuate. C'è da dire che la commissione riuscì davvero ad individuare molti tra i punti tra i nodi fondamentali da risolvere e, a conclusione dei lavori, nelle considerazioni contenute nella relazione al ministro presentò alcune intuizioni interessanti. La relazione sanciva: la necessità della liberalizzazione dell'accesso agli studi unjversitari, accompagnato da un piano di sostegno finanziario agli studenti capaci e meritevoli ma privi di mezzi; la titolarità dell'università a rilasciare tre qualifiche, diploma, laurea e dottorato di ricerca; la sostituzione della tradizionale suddivisione tra materie fondamentali e complementari con insegnamenti divisi in propedeutici e specialistici e la conseguente modifica dei piani di studio; l'istituzione dei dipartimenti, strutture interdisciplinari e policattedratiche che avrebbero dovuto favorire lo sviluppo di percorsi di ricerca e didattici maggiormente integrati ed organici; l'istituzione di un nuovo sistema per i concorsi a cattedra di docente universitario e la abolizione della libera docenza; infine l'auspicio di garantire agli studenti l'effettività del diritto allo studio costituzionalmente sancito attraverso un programma nazionale di edilizia scolastica, una maggiore e più capillare distribuzione geografica degli atenei, la concessione dell'autonomia ordinamentale ai senati accademici ed agli organi di governo delle singole università, ed in ultimo il finanziamento scrupoloso e costante della ricerca scientifica. Alla luce del quadro ora delineato vanno sottolineate la capacità, la congruenza e la tempestività delle proposte espresse dalla commissione ma va anche detto che il Disegno di Legge Gui, presentato alla Camera dei Deputati il 4 maggio 1965 con un numero d'ordine, il 2314, destinato a divenire famoso riprendeva quelle proposte solo in parte smussate e spogliate delle caratteristiche più innovative da essi espresse(44). IL disegno di legge Gui fu presentato con un titolo volutamente dimesso , come stava ormai divenendo buona norma secondo le malsane abitudini della politica italiana, titolo che recitava: "Modifiche all'ordinamento universitario"; la proposta Gui fallì nel senso che fu relegata nei polverosi archivi della Camera nel momento in cui, nel marzo del 1968, finì la quarta legislatura. La mancata attuazione, anche parziale, delle proposte elaborate dalla commissione d'inchiesta nel 1962, la mancata risoluzione cioè, dei problemi che già allora affliggevano l'università e che la commissione stessa aveva così lucidamente individuato, va sicuramente annoverata tra le cause che spiegano l'esplosione del movimento nel 1968, in particolare di quello studentesco. Le mobilitazioni del '68 non furono che lo sbocco legittimo, naturale ed entusiasmante di una tensione che andava crescendo nelle masse studentesche e che non poteva trovare argine nelle strutture anchilosate e fatiscenti dell'università italiana(45); la stessa discussione del disegno di legge 2314 fu travolta dall'esplodere delle contestazioni e questo, secondo taluni(46), fu un male perchè la 2314, sia pure in maniera insoddisfacente, affrontava taluni dei nodi della crisi ed alcune delle disfunzioni appariscenti dei nostri atenei; quegli stessi nodi e quelle stesse disfunzioni che, passati indenni attraverso i puntuali fallimenti dei progetti di riforme che dopo la 2314 sono venuti, sono rimasti in gran parte non solo insoluti ed all'apparenza insolubili, ma sono per anni addirittura scomparsi dall'ordine del giorno del dibattito politico-culturale e dell'azione di lotta delle stesse forze sindacali ed associazioni universitarie, costrette ad attestarsi per lungo tempo su posizioni di retroguardia, a combattere, talvolta anche in chiave corporativa, per la gestione della miniriforma del 1973.

Intanto, le mobilitazioni studentesche costringevano il già menzionato Codignola, d'accordo con il nuovo ministro della pubblica istruzione Ferrari Aggradi, a presentare, il 18 ottobre 1969, una riforma-stralcio che conteneva una serie di provvedimenti urgenti e di carattere emergenzialistico(47); in particolare erano previste la liberalizzazione dell'accesso all'università addirittura a chiunque avesse un titolo qualsiasi di scuola media, e quella dei piani di studio. E, sulla base della stessa logica, Codignola presentò un'altra legge che abolì la libera docenza e, soprattutto, i concorsi a cattedra. Come si vede, le generose e sincere mobilitazioni di decine di migliaia di giovani che scrissero pagine di storia gloriose e tragiche ad un tempo, a "Valle Giulia" come a "La Sorbonne"(48), non avevano portato "l'immaginazione al potere(49) ma soltanto diminuito il controllo nell'università e contribuito ad abbassare, generalizzandoli, liberalizzandoli e, quindi, massificandoli, gli insegnamenti impartiti come se l'ignoranza e la mediocrità fossero sinonimi di eguaglianza, o di socialismo. Senza voler dare affatto un giudizio negativo delle contestazioni studentesche degli anni sessanta, si vuole semplicemente affermare che l'enorme onda trasformatrice e rivoluzionaria fu attutita e, nel quindicennio successivo, sussunta e completamente ribaltata dalle forze di potere e che l'enorme serbatoio di idee, considerazioni, riflessioni prodotte molto spesso nell'informalità valorizzante delle assemblee di movimento, non solo non trovarono attuazione completa, ma neppure risposta parziale in una riforma decente. Lo stato, da parte sua, dimostrava l'incapacità di politiche d'istruzione soddisfacenti e di razionalizzare i criteri di formazione e valorizzazione di una tra le più importanti risorse strategiche: la conoscenza. Fu questa un'ulteriore prova dell'inefficienza del governo e del parlamento a ricercare soluzioni adeguate allo sviluppo della società, data per assunta la centralità della conoscenza per la crescita completa ed armonica dei sistemi sociali in generale e contemporanei in particolare. La legge del '69 rispondeva alle richieste studentesche di un'università più libera, universale e democratica, con la liberalizzazione dell'accesso agli atenei e con quella dei piani di studio che, in pratica, significò offrire uno specchio per le allodole alle componenti meno politicizzate e più sprovvedute presenti nel movimento, nonchè un contentino ai partiti ed alle forze sociali di sinistra per mezzo del quale l'università divenne si un pò più libera, ma nello stesso tempo sempre più massificata e mediocre. La legge del 1970 invece, servì a sostanzialmente a "conservare", spacciando quanto di più retrivio ed illogico potesse esserci per una riforma ragionata: il blocco dei concorsi a cattedra, che con tanti limiti pure garantivano un minimo di astrattezza, generalità e, dunque, potenziale regolarità ed uguaglianza(50), finì per sancire come pratica unica per l'immissione ai ruoli di docenza e di ricerca di ogni ordine e grado all'interno dell'università, quella dell'"ope legis", cioè della chiamata "ad personam" con tutte le conseguenti clientele innanzitutto politiche che questa ha generato(51), e con la sostanziale chiusura delle porte dell'università a generazioni di ottimi ricercatori costretti a ripiegare altrove, o altrimenti.

Il fallimento, secondo la prospettiva d'analisi prima specificata, del movimento del '68 ed il persistere, il moltiplicarsi ed il diffondersi di queste pratiche hanno aggravato, nel trentennio successivo, la crisi dell'università che oggi, in una situazione di cambiamento strutturale sconvolgente, oltre ad essere scossa da forze sinceramente innovatrici, appare altresì prigioniera delle contraddizioni insolute retaggio degli anni precedenti. Cosicchè nulla di nuovo e di buono espresse il disegno di legge presentato dal ministro della pubblica istruzione, onorevole Misasi, con il numero d'ordinanza 612, che incontrò subito l'opposizione di ambienti molto qualificati. Che la situazione universitaria italiana fosse diventata orai, segnatamente in talune facoltà, praticamente insostenibile; che la liberalizzazione dell'accesso all'università, che andava studiata e realizzata con opportune garanzie sociali e culturali e non per demagogia, avesse praticamente fatto scoppiare le strutture fatiscenti ed insufficienti del nostro sistema universitario; che il malcostume fosse da tempo penetrato in taluni istituti ed in alcune facoltà con l'affermazione di ciò che oggi viene sinteticamente chiamata la "baronia" della cattedra; che i rapporti tra i vari e le categorie dei docenti, e quelli tra docenti e studenti fossero da rivedere su scala nazionale; che i rapporti tra ricerca universitaria e ricerca extrauniversitaria fossero da porre su nuove, più chiare e più moderne basi; che insomma una riforma si imponeva, non solo di legge ma di costume, non c'è chi mettesse, nè allora nè oggi, in dubbio: è che il rimedio a tutto ciò, così come formulato negli articoli della 612, fosse per certi aspetti un rimedio peggiore del male. Anche la 612 rimase quindi irretita nelle contraddizioni espresse dalla contemporanea presenza, nel quadro normativo universitario, del libero accesso, della libertà dei piani di studio, della validità legale del titolo di studio che con i piani liberalizzati ed individuali finiva finiva per essere tutta presupposta, per quanto lecita, nonchè di modalità errate di reclutamento dei docenti. Seguendo gli eventi arriviamo così ad i "provvedimenti urgenti" del 1973 elaborati dalle varie, sempre più scolorite versioni di governi di centro-sinistra(52), e sotto la supervisione di differenti ministri; questi provvedimenti non fecero che formalizzare, armonizzandole, le disposizioni normative inattuate delle riforme precedenti ed in particolare servirono all'immissione in ruolo per decreto di altre migliaia di docenti contribuendo così a stemperare il clima rovente avvertito nelle università, almeno per quanto riguardava gli interessi di parte del corpo docente: ma ancora una volta "rien de rien", come recita il testo di una celebre canzone francese, per quanto riguarda gli aspetti centrali della "questione universitaria" ma non passibili di scambi, favori e contrattazioni convenienti. I provvedimenti del '73, proprio perchè urgenti, non avevano alcun senso se non avessero aperto la via ad una riforma di struttura circa l'idea stessa di università, come forza propulsiva del tessuto sociale e della vita del paese intero, e difatti non ebbero alcun senso nè presentarono valore aggiunto alcuno.

Quest'enorme carovana di riforme mancate si arenò negli ultimi anni '70 e per tutti gli '80 per una serie di ragioni, tra cui il progressivo riflusso dei movimenti che smisero di rappresentare la spina nel fianco dell'immobilismo e del trascinarsi della condizione stagnante in cui versava l'università italiana; a questo riflusso seguì uno speculare, crescente disinteresse per la questione nell'opinione pubblica e, tanto più nei partiti di governo: oltre ad un estemporaneo tentativo di riforma del PCI promosso nel 1976 da Giovanni Berlinguer ed ad una legge del 1980, la 382 che era della stessa pasta di quelle che l'avevano preceduta, niente risulta essere degno di nota. Bisognerà aspettare il 1989 ed il ministro Ruberti, già rettore della Sapienza, per far sì che nelle aule parlamentari e nelle stanze del potere si torni a parlare di riforma dell'istruzione. Ma intanto le profonde e rapidissime trasformazioni derivanti dalla rivoluzione tecnologica che stavano sconvolgendo le economie di mercato destrutturando posizioni, gerarchie e rapporti di forza nello scacchiere internazionale e disegnandone di nuovi, mutati e rispondenti alla cangiante composizione socio-economica del tessuto connettivo di ogni singolo paese occidentale, stavano ponendo domande sempre nuove e più complesse alla scuola ed all'università; quest'ultima inoltre, risultava essere, a ridosso degli anni novanta, una istituzione già in parte mutata e continuamente pressata dai cambiamenti culturali e degli stili di vita dei popoli di tutto il mondo, una istituzione peraltro ancora da trasformare, da riformare, e cui differenti gruppi sociali finivano per richiedere competenze e specificità particolari e spesso in contrapposizione: dalla necessità di aziendalizzare l'università e tutto il processo di riproduzione dei saperi affinchè si adegui meglio alle sempre maggiori richieste di solvibilità del "mercato culturale", espressa da quasi tutte le forze imprenditoriali e da buona parte dello schieramento politico; al bisogno altrettanto fondamentale e, socialmente avvertito come prioritario, che l'università fornisca innanzitutto una buona preparazione professionale; alla volontà, espressa dai movimenti studenteschi, di una università più aperta e più attenta ai problemi sociali, nonchè meno selettiva; al desiderio celato nel cuore di qualche studioso di una università classicheggiante ancora tutta votata alla formazione dell'uomo, all'allenamento delle coscienze, alla conservazione e riproduzione dei saperi, alla elevazione culturale per mezzo della leggerezza propria di uno spirito critico guidato dai lumi della ragione, alla ricerca pura e disinteressata di una verità tutta relativa e funzionale al miglioramento complessivo delle condizioni morali e materiali della vita di tutti, unica misura valida del valore sociale ed intrinseco degli studi di qualsiasi specie.

Con la legge finanziaria del 1994(53), il governo presieduto da Carlo Azeglio Ciampi, presenta una finanziaria che contiene pure una legge stralcio sull'università che per la prima volta sembra concedere una sostanziale autonomia didattica alle università ma anche questa legge non trova attuazione, nè immediatamente dopo la sua presentazione, nè mai. Con il primo governo Berlusconi (sembra incredibile ma ce ne è stato addirittura un secondo tuttora in carica) il ministro in carica della pubblica istruzione è stato Stefano Podestà(54) la cui unica azione politica degna di rilievo è consistita nel riproporre vecchie e scontate soluzioni a problematiche per giunta marginali della questione universitaria; le sue prime preoccupazioni sono state la modifica del sistema per l'elezione dei rettori, l'istituzione di un ruolo ad esaurimento per i professori associati e la riforma dei concorsi a cattedra: ora è chiaro a tutti che queste proposte avrebbero avuto un senso e goduto di validità qualora fossero state inserite in un progetto di riforma organico mentre così come furono espresse risultarono soltanto dei maldestri tentativi del ministro per sistemare un pò di "protetti", elargire posti di comando come compenso per il sostegno politico ed altri favori, e reiterare, approfondendolo un conflitto di interessi sempre più palese tra la posizione di ministro e le azioni politiche effettivamente disposte. Queste misure avrebbero avuto un senso qualora fossero state pensate in maniera più complessiva, meno parziale e, soprattutto, prendendo in considerazione il soggetto sociale studentesco in trasformazione che popola gli atenei italiani; è necessario invece un sommario sguardo di insieme per comprendere come i moventi che abbiano ispirato l'azione politica di podestà e di tutto il governo non si discostino affatto dalla logica assurda ed alla fine perdente che ha informato di sè tutta la produzione normativa repubblicana in materia. A gennaio 1995 il governo si dimise ed anche Podestà lasciò il campo a Giorgio Salvini (55)il cui unico merito fu quello di approvare un decreto in cui venivano sanciti due momenti e due gradi differenti per i concorsi alla carriera universitaria così come gli era stato richiesto il 26 febbraio 1995 in una lettera inviatagli da un centinaio di professori universitari il cui primo firmatario era Umberto Eco(56). Arriviamo così ai giorni nostri, ossia ai ministeri Berlinguer, De Mauro e Zecchino per i governi di centro-sinistra della passata legislatura ed a quello Moratti per quella in corso. A questo punto però, prima di fare alcune osservazioni sugli ultimi progetti di riforma e su quelli ora "in itinere", considerazioni che risultano più difficili e di complicata elaborazione di quelle espresse in merito alle riforme di un secolo fa a causa della incompiutezza e della vicinanza degli avvenimenti narrati, ci sembra necessario fornire un piccolo affresco della situazione attuale dell'università in Italia come negli altri "paesi avanzati". In primo luogo bisogna dire che il sistema universitario nazionale, così come quelli di altri paesi europei, è riuscito a stento a contenere i risvolti negativi, che pure sono numerosi, della trasformazione, subita dall'università negli scorsi decenni da una istituzione sostanzialmente, chiusa ed elitaria e perciò facilmente gestibile ed amministrabile, ad una macroistituzione, un villaggio a parte vero e proprio, un sottosistema sociale enorme ed in continua espansione: le richieste poste all'università ed al mondo della scuola sono venute continuamente mutando ed oggi le aspettative economiche, politiche e sociali rispetto al mondo dell'insegnamento sono enormi, ed enormemente differenti. La scuola e l'università devono oggi essere in grado di preparare gli studenti a forme di apprendimento flessibili e mutevoli nel tempo e soprattutto alla capacità duratura e continua di formarsi senza sosta, secondo il principio del "long life learning" alternando periodi di studio a periodi di lavoro: sembra essere finito dunque, il tempo in cui l'università rappresentava il livello massimo di istruzione raggiungibile e fungeva da volano all'entrata nel mondo del lavoro ed in special modo tra i gruppi dirigenti ed in posti di comando e di prestigio. Le spinte trasformatrici dei decenni scorsi, il "boom economico", l'illusione nutrita dalle classi meno abbienti di un riscatto se non altro in termini di prestigio da ottenere attraverso la frequentazione dell'università(57), queste ed altre ragioni hanno determinato la moltiplicazione degli iscritti, delle materie di corso e delle sedi universitarie contribuendo nello stesso tempo ad aggravare i problemi strutturali di cui l'università già soffriva in precedenza, Secondo le tesi sostenute da molti studiosi dell'argomento tra cui Giuseppe Are, queso insieme di processi convergenti ed in contrasto sta sottoponendo l'università italiana ad una pressione che, se non giustamente incanalata, rischia di far scoppiare l'intero sistema. Il dato di fondo è, come sostiene Cesareo, che probabilmente le domande rivolte all'università (58)esulano da, o quantomeno trasformano sensibilmente i compiti di ricerca e formazione, cioè rispettivamente della produzione e della trasmissione dei saperi, almeno nella maniera in cui queste due funzioni erano diffusamente concepite fino a qualche anno fa. Oggi alla scuola ed all'università viene richiesta la formazione di forza-lavoro qualificata a sostegno della crescita economica: questo significa che i luoghi sociali dell'apprendimento(59), sono destinati alla formazione di quella "manodopera cognitiva" (60)che è sostanzialmente differente da un "quadro" nell'accezione traslata del termine, cioè di quella mole di lavoratori più o meno altamente specializzati capaci di "leggere i segni della produzione" (61)di quei beni immateriali che la società globale richiede sempre di più. Sembra proprio essere questo, nel terzo millennio, il problema centrale della "questione universitaria". Se, come si è tentato di descrivere in questa relazione, la necessità della riforma è sempre stata speculare alle trasformazioni produttive ed ai bisogni espressi dai differenti gruppi sociali e, dunque, qualsiasi progetto di riforma presentatoè stato sempre espressione del suo tempo nel senso che i problemi dell'università e la gerarchia tra questi sono venuti modificandosi nel corso della storia, appare allora evidente la necessità di comprendere, oggi, quali siano esattamente le dinamiche da analizzare e quale la posta in gioco e, sulla base di questi argomenti sinceramente ed organicamente discussi, giudicare i progetti di e le riforme degli scorsi anni che sono tuttora vigenti.

Il dibattito corrente tra gli specialisti invoca da un lato una maggiore efficienza del sistema universitario in termini di qualità del prodotto e di razionalizzazione dei suoi costi di funzionamento (riforma interna); dall'altro sottolinea la necessità di nuove e credibili sinergie fra le esigenze del mondo del lavoro ed il sistema della formazione superiore nel suo complesso (integrazione esterna)(62). E le riforme degli anni scorsi sembrano almeno aver compreso l'importanza di queste due questioni; va ancora sottolineato il fatto che l'università contemporanea appare sempre più lontana da quell'idea espressa dai movimenti dei decenni scorsi e, nostalgicamente, di quelli degli anni passati cui ho personalmente partecipato, in base alla quale negli atenei si cercavano gli spazi di libertà e di autonomia necessari per l'instaurazione di relazioni sociali alternative e per la formazione di una cultura critica e complessiva che andasse oltre i tempi ed i modi della didattica ufficiale, un modello di università, quello degli anni scorsi, con tutte le sue contraddizioni intrinseche e che magari produceva fuoricorso ma che probabilmente offriva agli studenti, frequentanti e non, la possibilità di apprendere saperi vasti, eterogenei, specialistici quanto generali, quell'idea di università votata alla formazione quanto più libera possibile delle coscienze individuali secondo il modello di "scola magistra vitae" che forse rappresenta un'illusione astoricizzante ma dei cui slogan i giovani "in movimento" hanno riempito centinaia di muri. E' pur vero il fatto che queste erano passioni politiche frutto di ideologismi che, per quanto generosi, hanno spesso perso il contatto con la realtà vaneggiando, in specie negli ultimi anni, di rivoluzioni improbabili quando invece andava compreso il senso totale dell'istituzione universitarià, la sua attuale funzione sociale come produttrice di saperi, ma anche di forza lavoro addestrata e di "prodotti culturali" il più possibile "just in time" (63)ed il cui unico valore è rappresentato dalla solvibilità sul mercato, dall'accumulazione di profitto che presuppone un'etica troppo diversa, volgare e scontata, da quella necessitata da percorsi di ricerca seri e da vite dedite allo studio. Pare che le forze del capitale e dello Stato abbiano completamente rovesciato, sussumendoli, gli ideali e le felici intuizioni dei "sessantottini"(64): l'università è stata si aperta a tutti ma, naturalmente, non perchè tutti vi andassero ad elevarsi culturalmente nè tantomeno perchè tutti gli iscritti, di qualsiasi veduta politica e provenienza sociale, divenissero classe dirigente; l'università è divenuta nel corso degli ultimi anni qualcosa di sostanzialmente di verso da quella scuola d'eccellenza che pure pareva la sua primaria funzione sociale fino a qualche anno fa(65): con la moltiplicazione dei corsi e l'aumento esponenziale degli iscritti è cominciato un lento processo di "liceizzazione" che ha abbassato sensibilmente il prestigio sociale e culturale di cui godevano le accademie in genere, di pari passo con la progressiva assunzione della funzione di istituto di formazione più o meno generalista, per quanto desideroso di iperspecialismo come richiesto dai paradigmi dominanti(66), e delegando proporzionalmente l'istruzione d'elite a percorsi paralleli in genere gestiti da presigiosi istituti privati: oggi gli atenei rilasciano qualifiche professionali di differente ordine e grado, dai diplomi ai dottorati di ricerca, fornando insegnamenti la cui mole immensa testimonia della illogicità palese, da un punto di vista semantico e scientifico, della loro stessa esistenza e differenziazione. Pare si sia giunti ad una situazione in cui le modalità di apprendimento proposte nelle nostre università inducano ad una indebita specializzazione delle conoscenze che finisce per produrre saperi e professionalità iperspecializzati e, di conseguenza iperspecializanti e dunque inutili in quanto avviamento al lavoro che è ciò che la stragerande maggioranza degli studenti richiede all'università. Ancora va detto che, negli anni scorsi, indifferibili sono divenute le esigenze da parte delle imprese di un sistemadi un sistema di formazione superiore competitivo, e le richieste in tal senso poste al governo italiano dalòla Comunità Europea: è del 1995 il "Whitw Paper on Education and Training" (67)della Commissine Europea in cui viene solennemente afferata la necessità di adeguamento dei programmi, delle modalità d'insegnamento e delle funzioni dell'università alle esigenze dei differenti contesi produttivi. Sono del resto pubbliche le "raccomandazioni" OCSE(68) in tal senso, come lo sono i dati messi a disposizione da questa organizzazione che dimostrano quanto l'Italia sia in ritardo, in questo processo di adeguamento, rispetto agli altri paesi europei, e c'è da dire che i riformatori degli anni novanta hanno seguito queste indicazioni ed hanno riflettuto su questi dati arrivando a produrre nuovamente, per la prima volta dopo la Gentile(69), un progetto ragionato di riforma dell'istruzione. Il primo è stato Ruberti(70), al quale ci eravamo fermati nel nostro racconto, che abbozzò un disegno complessivo di riforma che è poi stato più volte stralciato e modificato e che, come racconta, Luigi Berlinguer, è stato approvato a pezzi durante questi anni a causa della quasi impossibilità da più parti dichiarata e storicamente dimostratadi portare atermine una riforma completa in una volta sola a causa degli interessi politici di parte e della combattività, che spesso precede fenomeni di consociativismo quando non di trasformismo, delle forze sociali da questi disegni coinvolte. Durante il corso degli anni novanta i vari ministri dell'istruzione, tra cui si ricorda con poca stima la Iervolino, hanno "non tentato" la riforma generale imbattendosi in improbabili barricate baronali ed in ciclici e decontestualizzati conati di sollevazione degli studenti. Poi, nel 1996, il ministro Luigi Berlinguer, presenta la sua proposta di riforma che ha finito per convogliare su di sè pure gli sforzi di Tullio De Mauro ed Ortensio zecchino a lui succeduti nella carica di ministro. Dopo una serie di passaggi il 4 gennaio 2000(71) è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale l'ultimo dei pezzi del disegno di riforma elaborato, promosso e portato a termine dal centro-sinistra e che era stato progettato da Ruberti già dieci anni prima(72): esso ha fissato i criteri generali del nuovo ordinamento degl istudi universitari ed introduce alcune importanti novità tra cui l'articolazione del percorso di studio in più livelli, i crediti formativi e le classi di laurea destinate nel tempo a soppiantare le facoltà(73). Il decreto ministeriale del 4 agosto 2000, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 18 ottobre 2000 ha completato il quadro e consolidato il progetto di trasformazione dell'università, almeno secondo i suoi promotori, istituendo le nuove classi di laure e sancendo l'inizio della fase di applicazione della riforma; la vecchia laurea, in genere quadriennale, ha ceduto il passo alla nuova struttura caratterizzante il percorso di formazione universitaria che è divenuta famosa nell'ambiente con il nome di "3+2"(74). Questa riforma ha aperto un nuovo cammino che implica una drastica trasformazione del costume e della mentalità di amministratori, docenti e studenti, nonchè il reperimento delle risorse necesarie per la ricerca e la didattica, le quali di certo non possono gravare interamente sulle tasse degli studenti; assistiamo in questo senso ad un progressivo processo di delega dello stato alle regioni del potere-compito di reperirequesti fondi, processo di delega che a volte si trasforma in una vera e propriea dismissione di poteri che genera pericolosi vuoti normativi e di sovranità e lascia le nostre università in balia dei progetti di finanziamento da parte delle imprese, mai disinteressate e che potenzialmente alterano fini e modalità della ricerca e dell'insegnamento. Si può infine affermare che la nuova università disegnata dai governi di centro-sinistra presenta un mutamento sostanziale nell'organizzazione degli studi: i cambiamenti introdotti riguardano praticamente tutti i settori della vita universitaria dalla durata degli studi, ai titoli rilasciati ed al valore di questi, all'organizzazione degli ordinamenti didattici. Tra gli aspetti degni di nota, oltre ai crediti ed ai debiti formativi che esemplificano una scostante aziendalizzazione dei saperi acquisiti e spendibili, vanno sicuramente annoverati i differenti percorsi di studio, quello di primo livello e quello specialistico che vanno a comporre il già menzionato 3+2(75), e la progressiva e preoccupante, nonchè incostituzionale, equiparazione tra scuola pubblica e scuola privata, tema questo, nel quale tanto "lodevolmente" si sta impegnando il ministro in carica Letizia Moratti. Questa trasformazione dei percorsi di studio ha significato nello specifico la scomparsa di vecchi insegnamenti, la nascita di nuovi e la loro retrocessione o promozione a seconda che questi avessero o meno un valore di mercato accettabile nella nicchia di distribuzione in cui ogni singolo ateneo tenta di piazzare i suoi migliori prodotti: va ricordato che tutto ciò, ossia la "performance" il risultato, il profitto, nonchè la ristrettezza dei tempi di produzione, sono i requisiti richiesti alle università dalle aziende che sempre più più diventano le uniche finanziatrici, e quindi padrone, delle attività di ricerca  e di quelle didattiche che ne conseguono, evidenziando in questo senso una pericolosa dinamica di mercificazione e di perdita di controllo dei pubblici poteri sul mondo della formazione. Lo scenario dipinto mostra i nessi palesi fra la demolizione e la liquidazione sempre più rapida del vecchio e nobile modello di università così intensamente radicato nella storia spirituale ed istituzionale del nostro paese, da un lato e, dall'altro, la dianmica di sviluppo della società globalizzata, dominata da un quarto di secolo in maniera totalitaria da un meccanismo economico mondiale completamente autorefernziale e socialmente ed eticamente del tutto insensato(76). E' su tutto questo che bisogna riflettere, anche nel valutare i "decreti Moratti"(77) i quali, scritti dagli esperti del T.I.C. piuttosto che da quelli del ministero e dal ministro in persona che sembra essere particolarmente "duro di penna", hanno accentuato la vocazione dell'università all'insegnamento del "saper fare" piuttosto che del "sapere" o dei saperi, alla formazione professionalizzante piuttosto che all'istruzione acculturante; del resto la concezione della scuola e dell'università propria del ministro Moratti quale si evince dalla sua pagina personale e dai suoi scritti nel sito ufficiale del Ministero dell'Università e della Ricerca Scientifica, sembra essere quella di piccole aziende o tutt'alpiù di istituti professionali di presuppposto alto livello pronti a rilasciare qualifiche richieste dalle imprese per impiegare forza lavoro semprepiù capace e, conseguenzialmente, sempre più produttiva; una visione limitata e limitante che è parte del progetto massonico dell'apparato di potere di cui Berlusconi è vertice, progetto che mira a trasformare lo stato in una società per azioni. L'ultima considerazione sul decreto moratti, sarcastica, è sulla coerenza rispetto ai dettami dei poteri forti di cui il MInistro si è fatto esemplare garante : il percorso di studi ad "Y" di ultima gestazione e che dovrebbe sostituire il 3+2 con un 1+2+2 è solo forse, più "sincero" delle proposizioni in merito fatte dal centro- sinistra. Infatti, dopo un primo anno universitario atto a formare la mano do'opera cognitiva di cui sopra, debitamente addestrata e disciplinata, si prevede un bivio un percorso ad ispilon appunto che da un lato porterà alle psecializzazioni professionali e a d'altro alla formazione di eccellenza per la uquale completeranno il compito istituti di formazione privata meglio se cattolici.

Pur constatando il carattere discriminatorio e classista  di questa riforma, ma senza dare di essa giudizi concludenti ed asaustivi, dal momento che è ancora in corso ( operazione dalla quale ancora si astengono gli specialisti, i cui testi hanno fornito la bibliografica di riferimento di questo lavoro), vorrei concludere questa tesina affermando la necessità che nel processo di riforma dell'Università, il quale per forza di cose non può dichiararsi concluso si proceda con tutta l'attenzione e la capacità necessaria e che ho cercato di rilevare e far risaltare in questo scritto, pur sapendo che questa pura intenzione destinata a rimanere continua frustrazione ed utopia solo in parte consolatoria. Pur tuttavia, come insegna Derrida, è da queste utopie che bisogna iniziare per relazionarsi all'idea stessa di istruzione in modo da eccedere qualsiasi limite imposto da una riforma sbagliata e qualsiasi ostacola opposto dalla concreta situazione dei nostri Atenei; quella maniera di pensare delle nostre accademie, alternativa ed originale, e che si concretizza in piccoli momenti di crescita collettiva tra studenti e studenti e tra studenti e docenti, in tante azioni e relazioni che superano, fagocitandole, i momenti di normalità accademica in sprazzi di "università senza condizione" costrizione e ingerenza alcuna. Probabilmente, a prescindere da qualsiasi riforma è l'unica maniera dignitosa che ci resta di vivere l'Università, di fare società(78).                   

           

           

1)      .Froio Felice, Università: mafia e potere, LA NUOVA ITALIA EDITRICE, Firenze, 1973, pag.7

2)      Sono  i governi, per l’esattezza tre della passata   legislatura

3)      Pubblicati  da quando il ministro  è salito in carica nel 2001

4)      Are Giuseppe, L'università nella società globale. Sviluppo e culture in conflitto, MARSILIO, …, 2002, introduzione

5)      I.Wallerstein, Alla scoperta del   sistema-Mondo, MANIFESTOLIBRI, Roma,1996

6)      Are Giuseppe, L'università nella società globale. Sviluppo e culture in conflitto, MARSILIO, …, 2002

7)      Ivi

8)      Libro   Bianco del        MIUR 2003

9)      V.Shiva, Il mondo sotto  brevetto, feltrinelli, Milano2002

10)  N.Bobbio ,  Dizionario di    Politicca, Stato

11)  Derive   Approdi, speciale sull’univerità,       Torino  2003

12)  Cesareo Vincenzo . L'università nella costruzione della nuova Europa, in Rassegna Italiana di Sociologia.

13)  Are Giuseppe, L'università nella società globale. Sviluppo e culture in conflitto, MARSILIO, …, 2002,cap 1

14)  Ippolito F., Università crisi senza fine, Editoriale L'Espresso, …, 1978,pag7

15)  Ivi, pag 8

16)  Ivi  pag9            

17)  Ivi  pag11

18)  N.Bobbio ,  Dizionario di    Politica,  liberilismo

19)  L’ope legis dal latin per opera di legge      è una        particolare  e molto  discutibile modalità di immissone in ruolo dei docenti universitari.

20)  Testi indicati sul retro

21)  Evento simbolico che consegnò il potere al movimento fascista

22)  Ippolito F., Università crisi senza fine, Editoriale L'Espresso, …, 1978,pag7

23)  Ivi

24)  Ivi pag10

25)  Ivi  

26)  Labriola Antonio, L'università e la libertà della scienza, MANIFESTO LIBRI, Roma, 1996.  

27)  Ippolito F., Università crisi senza fine, Editoriale L'Espresso, …, 1978,pag32  

28)  Ivi  

29)  Ivi pag36

30)  Froio Felice, Università: mafia e potere, LA NUOVA ITALIA EDITRICE, Firenze, 1973.

31)  Froio Felice, Le mani sull'università, Editori Riuniti, Roma, 1996.pag54

32)  L’espressione di disappunto è  dell’autore

33)  Ippolito F., Università crisi senza fine, Editoriale L'Espresso, …, 1978,pag37

34)  A questoe univrsitaria atti del convegno,  LIGUORI napoli        1977

35)  Froio Felice, Università: mafia e potere, LA NUOVA ITALIA EDITRICE, Firenze, 1973.

36)  Froio Felice, Le mani sull'università, Editori Riuniti, Roma, 1996

37)  Ippolito F., Università crisi senza fine, Editoriale L'Espresso, …, 1978Ippolito F., Università crisi senza fine, Editoriale L'Espresso, …, 1978, pag 7

38)  Ippolito F., Università crisi senza fine, Editoriale L'Espresso, …, 1978

39)  Berlinguer, la scuola nuova

40)  vedi testo

41)  Ippolito F., Università crisi senza fine, Editoriale L'Espresso, …, 1978,pag37

42)  Sedi rispettive di Miur eparlamento

43)  Froio Felice, Le mani sull'università, Editori Riuniti, Roma, 1996

                                                                     

BIBLIOGRAFIA

 

Araldi G., Le origini dell'università, IL MULINO, Bologna, 1974.

Are Giuseppe, L'università nella società globale. Sviluppo e culture in conflitto, MARSILIO, …, 2002.

Berlinguer Luigi, La scuola nuova, LATERZA, Roma/Bari, 2001.

, Le radici Cesareo Vincenzo del futuro. L'università nella costruzioone della nuova Europa, in Rassegna Italiana di Sociologia.

De Mauro Tullio, De Renzo Francesco, Orientarsi nell'Università, IL MULINO, Bologna 2004.

Froio Felice, Università: mafia e potere, LA NUOVA ITALIA EDITRICE, Firenze, 1973.

Froio Felice, Le mani sull'università, Editori Riuniti, Roma, 1996.

Ippolito F., Università crisi senza fine, Editoriale L'Espresso, …, 1978.

Labriola Antonio, L'università e la libertà della scienza, MANIFESTO LIBRI, Roma, 1996.

I.Wallerstein, Alla scoperta del   sistema-Mondo, MANIFESTOLIBRI, Roma,1996