LA STORIA UNIVERSITARIA
IN ITALIA: DALLA "LEGGE CASATI" AI " DECRETI
MORATTI" di
Fabio Falabella
Lo studio delle riforme universitarie e, più in generale,
delle politiche pubbliche in materia di istruzione e formazione
che hanno caratterizzato l'azione dei governi succedutisi dal
gabinetto La Marmora durante la reggenza da parte di Vittorio
Emanuele Secondo del Regno di Savoia, addirittura prima dell'unità d'Italia(1),
sino ai governi di centro-sinistra degli anni scorsi (2), per
giungere ai decreti Moratti(3) rappresenta un argomento di riflessione
denso di tematiche la cui comprensione si impone, nel nostro
sistema storico, come una questione sociale, politica, etica,
tanto più ad uno studioso di scienze sociali. In verità, la società nella quale viviamo che potrebbe
essere definita della conoscenza e dell'informazione continua
e globale è investita, ormai da molti anni, da una rivoluzione
tecnologica di una portata e di una profondità impressionanti
e che di gran lunga può essere considerata la più multiforme,
complessa e collegata a modi superiori di produzione e di trasmissione
delle culture che si sia mai vista(4); nello scenario definito
dalle dinamiche storico-economiche, dalle strutture e dai processi
relazionali tra queste, dai flussi di capitali, di merci, di
azioni politiche e diplomatico militari, nonché di modelli culturali
preconfezionati e generalizzanti, disciplinanti e pubblicitariamente
stereotipati, che strutturano l'economia-mondo-capitalistica
che è il sistema storico-sociale nel quale viviamo(5), le gigantesche
trasformazioni che le economie di mercato e non stanno subendo
proprio per effetto della rivoluzione tecnologica cui sto accennando
sono portatrici di un impatto culturale impressionante che investe cimenta principalmente le strutture culturali,
formative ed informative, sia istituzionali che spontanee, degli
stati nazionali, in primo luogo modificando i tramiti, le regole,
le modalità, le metodologie, le funzioni professionali in cui
e da cui ogni forma di cultura, da quelle più istintive e per
così dire irriflesse a quelle più intensamente autocoscienti,
viene classificata, conservata, variamente comunicata e trasmessa(6). In questo senso, la caratteristica saliente delle tensioni
globali, sistemiche e strutturali che agitano il sistema-mondo è nella
vastità con cui la divisione del lavoro su scala planetaria e
la dispersione, mercificazione e trasformazione di saperi, conoscenze
e specializzazioni produttive generano una vera e propria crisi
sistemica determinata dalla lotta degli stati nazionali e dalla
valutazione comparata dei loro rispettivi sistemi di formazione
pubblica per adattare le conoscenze da cui dipendono qualifiche
professionali ed occupazionali nella necessaria concorrenza globalizzata:
sembra essere dunque fin troppo palese che le battaglie strategiche
per le gerarchie della ricchezza e del potere nel mondo globale
avranno per campo principale gli ordinamenti scolastici primari,
secondari, terziari e d'eccellenza dei singoli gareggianti e
che la graduatoria delle nazioni e dei raggruppamenti e delle
associazioni di queste (7)dipenderà in modo assolutamente preminente
da come ogni singolo attore riuscirà a compiere i riadattamenti
necessari e le trasformazioni profondissime che tale momento
storico richiede. In altre parole, nella società della "technology
information" (8)non solo le informazioni, le notizie, le
immagini e tutto ciò che costituisce il "news business",
quanto e forse soprattutto i"prodotti culturali" i
saperi, le conoscenze e le specializzazioni professionali che
ne derivano, rappresentano da un lato una delle nuove frontiere
di accumulazione di capitale(9) insieme alle risorse genetiche,
a quelle strategiche ed alle acque e, dall'altro, costituiscono
dunque un settore sociale strategico nel quale deve necessariamente
intervenire una azione politica regolatrice dello stato o dei
poteri pubblici a meno che non si voglia lasciare il
campo alle sole forze sociali ossia, in questo caso, ai poteri
di mercato delle imprese che sempre più frequentemente e profondamente
si interrelazionano al mondo universitario, a volte in modo disarmonico,
per usare un eufemismo, ed alle "autonomie" dei senati
accademici e dei consigli di amministrazione dei nostri atenei. Un settore sociale, quello della formazione, che ha interessato
la politica almeno dalla formazione degli stati nazionali in
epoca moderna(10), proprio per il suo fondamentale valore sociale,
per le sue funzioni educative, formative, disciplinanti e che
appare fondamentale tanto più oggi, per la centralità che esso
ha ed avrà in ogni regione del mondo per la capacità o meno di
formare donne ed uomini in grado di rispondere alle sfide culturali
e, dunque, politiche ed economiche che l'economia-mondo-capitalistica,
nell'era della globalizzazione, impone. Da quanto scritto finora appare evidente la necessità di
un'azione politica che sappia rispondere a queste sfide in maniera
complessiva e che, per quanto riguarda l'istruzione pubblica,
sia capace di armonizzare le innumerevoli spinte antropiche cui
questa è sottoposta al fine di produrre norme e criteri legislativi
validi e razionali che sappiano creare le strutture formali generali,
democratiche e, possibilmente egualitarie nel senso di pari opportunità di
accesso agli studi di ogni ordine e grado, del sistema dell'educazione
pubblica(11) dalle scuole elementari, alle università ed alle
scuole d'eccellenza, affinché questo sistema di istruzione pubblica
formi individui che apprendano nozioni valide, culture critiche,
e che imparino a studiare, a lavorare e soprattutto a vivere
in maniera dignitosa. E se quanto finora scritto risponde a verità,
appare altrettanto evidente la improrogabilità di un intervento
netto, chiaro e risolutore del potere legislativo italiano in
merito di istruzione per tentare di cominciare a risolvere gli
innumerevoli problemi che complicano la vita degli studenti italiani
dalle scuole per l'infanzia sino all'università.; se i processi
descritti in precedenza interessano infatti tutte le regioni
economiche e gli stati-nazione del pianeta terra, la situazione
italiana risulta, dal canto suo, notevolmente complessa ed intricata,
ulteriormente complessificata da particolarità tutte "all'italiana" di
cui mi appresto a parlare che trascendono, seppur parzialmente
ma in maniera specifica, le generalità dello scenario definito
in precedenza. Ciò significa che se le riforme dell'istruzione e dell'università che
sono state attuate negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna già parecchi
anni orsono e poi, a poco a poco, negli altri paesi occidentali
e soprattutto in quelli europei ad economia di mercato erano
necessitate da quelle esigenze di adeguamento alle trasformazioni
del sistema-mondo descritte in precedenza(12), trasformazioni
che hanno richiesto nel tempo individui formati alla complessità,
alla flessibilità, alla trasformazione e progressiva mercificazione
di conoscenze e capacità produttive, e quindi di sostentamento(13),
ebbene queste stesse dinamiche strutturali e di portata globale
risultano, in Italia, maggiormente pungenti, pressanti ed inderogabili
a causa della peculiarità della storia politica italiana caratterizzata
da una storia incredibile di tentativi intentati, mancati, falliti
o, al massimo, riusciti in parte di adeguamenti delle leggi,
dell'offerta didattica e delle strutture della scuola e dell'università in
relazione alle richieste poste in essere dal tessuto socio-economico:
che sarebbe a dire, una storia incredibile e centenaria di riforme
mancate per ragioni talmente numerose ed intricate tra loro che
anche farne un semplice resoconto storico e quanto più possibile
distaccato, risulta un compito di non facile svolgimento. Per queste ragioni urge in Italia, forse più di ogni altra
cosa, una riforma complessiva e completa del sistema dell'istruzione
pubblica ed è altresì necessario che gli scienziati sociali e
tutti coloro che hanno a cuore il futuro delle prossime generazioni
e le sorti del sistema-paese in generale si occupino in maniera
coscienziosa e lungimirante di questo problema e, nel caso nostro,
della riforma universitaria in particolare; riforma, parola più volte
pronunciata a proposito dell'università e spesso evocatrice di
passioni, ideologie, interessi contrapposti, parola che meglio
di ogni altra esprime il senso della necessariamente stretta
correlazione tra i saperi ed i bisogni sociali espressi da ogni
singola comunità, parola che, dunque, richiede un seppur approssimativo
approfondimento storico, "condicio sine quae non" per
la comprensione delle spinte innovatrici e dei problemi che caratterizzano
l'università italiana, approfondimento storico che, del resto,
costituisce il nucleo essenziale di questa tesina di ricerca. La prima riforma presa in considerazione in questo lavoro è la "legge
Casati" promulgata per decreto il 13 novembre 1859 da Vittorio
Emanuele 2, re del Regno di Sardegna(14); le ragioni di questa
scelta sono molteplici: ferma restando la necessità di non andare
troppo indietro nel corso del tempo e scendere nelle particolarità ordinamentali
e di funzionamento delle accademie italiane prima del compimento
del processo di unificazione del regno, la legge che prese il
nome dal conte milanese Gabrio Casati, ministro dell'istruzione
durante il gabinetto La Marmora, all'immediata vigilia della
Seconda Guerra d'Indipendenza, fu la prima di portata extraregionale
e che interessò pian piano tutti gli atenei italiani; inoltre
era una legge che presentava un approccio più o meno complessivo
alla questione universitaria ed ai problemi dell'istruzione pubblica
ed infine molti dei principi in essa contenuti sono passati indenni
attraverso tutte le vicende politiche del Regno unitario ed anche
in parte nella susseguente Repubblica(15), hanno in gran parte
informato di sé, in molti aspetti fondamentali, le successive
riforme universitarie e quella Gentile in particolare, ed, in
alcuni casi, restano tuttora validi. Uno degli aspetti essenziali
della legge Casati, come riferisce Felice Ippolito nel suo libro
Università crisi senza fine, è contenuto nell'articolo 47 della
stessa, articolo dal carattere nettamente classista e che testualmente
recita: <<L'istruzione universitaria ha per fine di indirizzare
la gioventù, già fornita delle necessarie cognizioni generali,
nelle carriere sì pubbliche che private in cui si richiede la
preparazione di accurati studi speciali, e di mantenere ed accrescere
nelle diverse parti dello Stato la cultura scientifica e letteraria>>(16).
In altri termini, sostiene ancora Ippolito, lo stato si preoccupava
di creare la propria classe dirigente, la quale per il costo
medesimo degli studi e per la politica vigente era riservata
rigorosamente alla classe borghese. La legge Casati, che appena
entrata in vigore interessò le università di Torino, Pavia, Genova
e Cagliari e che già il primo gennaio 1960 venne applicata in
Lombardia, era stata costruita su di un impianto normativo dalla
concezione tipicamente liberale(17), che del resto era quella
dominante tra le classi dirigenti di destra come di sinistra
del Regno post-unitario: sostanzialmente, essa mirava a codificare,
i principi generali cui si sarebbero dovuti conformare gli atenei
presenti sul territorio del regno al fine di formare tecnici
e quadri necessari per la strutturazione, l'ampliamento e la
riproduzione della macchina statale allora in costruzione, principi
che rispecchiavano naturalmente, in maniera molto fedele, gli
interessi e la percezione della cosa pubblica tutta parziale
espressa dalle classi dominanti; oltre a ciò la legge lasciava
poi alle forze sociali, ossia allo strapotere del capitale nei
confronti del lavoro, al dominio incontrastato delle classi padronali
e borghesi nei confronti di quelle subalterne e proletarie, la
possibilità di regolare l'accesso, il funzionamento e gli scopi
di ogni singola università. Una legge insomma, che nell'accezione
tipicamente liberale(18) allora predominate, relegava lo stato,
anche in questa materia, in una posizione distanziata di arbitro
e custode delle regole e della continuità del potere, delegando,
da un lato, tutta l'organizzazione, l'attuazione e la gestione
dell'offerta didattica e della vita universitaria, a parte disposizioni
ministeriali concepite in modo volutamente generalista e per
sommi capi, ai soggetti sociali presenti sul territorio e nell'università e
consentendo, dall'altro lato, la nascita e la prima sedimentazione
di quel potere accademico-baronale, espressione di interessi
coacervi, faziosi e del tutto alieni dalla ricerca della verità,
intesa qui come epistemiologia della conoscenza e che pure dovrebbe
essere pratica costante e fine ultimo di ogni istituzione deputata
alla conservazione ed alla riproduzione dei saperi qual è l'università ,
potere quello accademico-baronale, che divenuto via via più avulso
da ogni controllo esterno, sia pure legittimo, quanto sempre
più legate da lacci e laccetti sotterranei alle leve del potere
politico ed economico, e che, insieme ad altri fattori, è stato
la causa di tante storture che hanno afflitto l'università italiana
e che l'hanno relegata nello stato penoso in cui versa. Altro
aspetto degno di nota, ed affatto in disaccordo con l'impostazione
generale della legge or ora descritta, è la definizione della
figura del docente che viene caratterizzata dalla peculiarità presupposta
e non soggetta ad arbitrio altrui della libera docenza; inoltre
va sottolineata la divisone, formalizzata dal legislatore, tra
professori ordinari e professori incaricati, misura questa che
sarebbe dovuta servire come regolatore e sistema minimo di controllo
nell'accesso e nell'esercizio delle funzioni della docenza al
suo massimo grado, quello di professore ordinario all'università.
La tematica dell'accesso ai differenti gradi della docenza con
relativi criteri di valutazione quali concorsi, attività didattica
riconosciuta o pubblicazioni a carico del resto, diventerà una
delle più dibattute e controverse, nonché uno dei nodi fondamentali
di tutti i progetti di riforma posteriore con annesse polemiche
infinite sull' "ope legis" (19)come testimoniano i
testi specialistici sull'argomento(20), proprio per la centralità che
essa potenzialmente assume nel determinare le carriere ed i relativi
prestigi di migliaia di docenti e, con esse, di generazioni e
generazioni di studenti. In ultima analisi, per quanto riguarda
la legge Casati, resta da annotare il fatto che gli studenti
non vi siano quasi mai menzionati e che l'impianto liberale,
classista ed elitario dell'università in essa delineato venne
recepito, migliorato, approfondito ed armonizzato da Giovanni
Gentile allorchè questi, nel 1924 a ridosso della marcia su Roma
di Mussolini e compagni(21), si apprestò a varare la "sua" riforma
dell'università, quando cioè, a sessant'anni dalla legge Casati,
prese coscienza delle accresciute ed in parte mutate necessità dello
stato italiano. Un ultimo accenno alla Casati: fu una legge mediocre
e rappresentò un tentativo di riforma appena sufficiente, ma
va considerata, soprattutto se giudicata dal punto di vista dei
suoi ispiratori e promotori ed alla luce delle necessità cui
doveva far fronte, come riuscita almeno in parte dal momento
che costituì l'infrastruttura normativa cui fecero riferimento
per più di cinquant'anni le università italiane nella loro opera
di formazione delle classi dirigenti dello stato nazionale di
nuova formazione(22); una riforma che, per quanto deficitaria,
incompleta, probabilmente inconsapevole rispetto ai bisogni i
più ampio respiro dell'istituzione universitaria, servì, seppur
parzialmente, gli scopi della classe dirigente che di questa
riforma si fece carico e fu perciò che Gentile, apprestandosi
a disegnare l'architettura dell'università italiana degli anni
venti, ripartì proprio dalla legge Casati(23). Gentile era consapevole, redigendo il progetto di riforma
che sarebbe stato poi pubblicato, anch'esso sotto forma di decreto,
da Mussolini che approfittò dei pieni poteri conferitigli(24),
che la classe dirigente borghese emersa a ridosso dell'unità d'Italia,
con la sua appendice di una modesta ed imborghesita aristocrazia,
si era foggiata, con la legge Casati, lo strumento
adatto alla sua riproduzione attraverso la formazione di gruppi
di potere completamente di propria estrazione, salvo rarissime
personalità di estrazione superiore; e difatti quest'impianto
rigidamente classista fu mantenuto e se possibile approfondito
nel testo di Gentile che prevedeva finanche la ristrutturazione
di tutto il livello secondario del sistema di istruzione pubblica
attraverso la creazione della scuola media unificata e di due
percorsi differenti di istruzione superiore, da una parte quello
tecnico-professionale che avrebbe formato generazioni di operai
qualificati come richiedeva la lo stato in espansione grazie
alla prima vera rivoluzione industriale che ci interessò da vicino
e, dall'altra quello classico e scientifico che avrebbe prepararono
i figli della borghesia a ricevere la preparazione d'eccellenza
nelle università d'elite verso cui questo percorso di studi specificamente
preparava. Furono del resto le stesse classi dirigenti formatesi
sotto la Casati che, appoggiando il fascismo permisero la riforma
Gentile la quale elaboro i principi ed i criteri, ciò non può assolutamente
sottacersi, per un'ottima scuola, ancorchè classista(25). La
riforma Gentile del 1924 fu prodotta sotto la spinta fortissima
e non più differibile rappresentata dal problema dei reduci e
dalla sistuazione socio-politico.economica in cui versava il
paese alla fine della Prima Guerra Mondiale, situazione che imponeva
una riforma già allora generale, completa e complessiva dell'
istruzione pubblica; fu attuata già in regime pre-dittatoriale
di pieni poteri ma seppe cogliere il frutto delle istanze liberali
matura negli anni precedenti, per quanto riguarda l'università la
riforma ricalcò e riconfermò le linee della ormai vecchia legge
Casati, ma seppe risolvere, in aggiunta, due problemi lasciati
insoluti dalla riforma del 1859, problemi di cui in maniera magniloquente
riferiva Antonio Labriola nel suo celebre discorso su "L'università e
la libertà della scienza" tenuto all'università di Roma
il 14 novembre 1896 come discorso inaugurale dell'anno accademico(26):
nello specifico questi due problemi erano quello del valore legale
del titolo di studio, tematica tuttora scottante, che fu praticamente
abolito riservando il riconoscimento dell' attività professionale
dei laureati ad un successivo esame di stato, e quello dell'insegnamento
privato secondario che venne anch'esso sottoposto al controllo
dei pubblici poteri per mezzo di un esame di stato. Ippolito
sostiene che i frutti della riforma Gentile non mancarono: la
severità degli studi, il controllo degli esami di stato sia per
l'ammissione all'università sia per il riconoscimento professionale,
l'emulazione nata tra la scuola pubblica e la scuola privata,
diedero i loro effetti benefici in concorrenza con l'adeguamento
ad uno spirito informatore estremamente più idealistico, che
superava i vecchi schemi del positivismo nei programmi di insegnamento,
segnatamente nelle materie filosofiche e letterarie ed, in misura
minore, pure nelle scienze sociali; furono disposti, per la prima
volta in questa maniera, programmi ministeriali generali i quali
per ampiezza e difficoltà ricalcavano praticamente il carattere
d'elite della scuola superiore e soprattutto del liceo classico.
In ultima analisi la riforma Gentile, nella tensione trasparente
dal testo stesso della legge tra le necessità burocratiche dell'apparato
statale che si avviava a divenire dittatura e le aspirazioni
culturali proprie del suo estensore e della scuola filosofica
e del movimento di pensiero di cui questi era autorevole espressione,
riuscì a disegnare quell'università votata all'eccellenza che,
pur con tutti i problemi propri di questa istituzione e particolari
della versione italiana che si sono trascinati nel tempo, ha
costruito la struttura portante dei nostri atenei sino all'era
repubblicana, modello di una università peraltro orgogliosa depositaria
della storia della cultura occidentale espressa sin dai tempi
delle "liberae universitas studiorum disciplinorumque",
modello di università quello gentiliano insomma, che tante intelligenze
e conoscenze ha prodotto e che tutto il mondo ci ha, a suo tempo,
imitato ed invidiato. La riforma Gentile ha caratterizzato la
fisionomia ed il funzionamento e gli scopi delle università italiane
sino ai nostri giorni, pur con lievi e mai sostanziali modifiche,
e ciò dà la cifra della necessità della riforma universitaria
che sappia rispondere alle esigenze di trasformazione che oggi
la società impone al mondo della scuola tutto. Resta da dire
che il liberalismo introdotto dalla riforma Gentile nella scuola
e nell'università sfuggì, ricorda ancora Ippolito, alla rozza
mentalità del legislatore fascista che, allorchè si accorse che
per coagulare, le passioni, le intenzioni ed i miti della nazione
intorno agli interessi del partito di regime avrebbero dovuto
fascistizzare la scuola, come Hitler e Goebbels avevano magistralmente
insegnato, varò in fretta e senza alcuna preparazione teorica
le riforme più formali che sostanziali di De Vecchi e Bottai
(27)che però incisero ormai tardi, quando il paese si avviava
al disfacimento morale ed alla guerra e che in sostanza si risolsero
in un alleggerimento dei programmi d'insegnamento della scuola
media ed in un maggiore controllo politico sull'università. Il
fascismo soltanto, creò il Consiglio Nazionale delle Ricerche(28)
praticamente per avere il controllo sugli scienziati ed indirizzare
la ricerca scientifica verso fini graditi al regime. L'università,
durante il ventennio di regime, rimase fondamentalmente liberale
e prefascista, almeno secondo quanto sostiene Ippolito nel suo
libro; è vero che il movimento fascista penetrò parzialmente
nell'università grazie all'azione militante di alcuni giovani
ed erroneamente infatuati studenti, come è vero che alcuni dei
professori più giovani si piegarono alle esigenze del regime,
ed è pure vero che il fascismo richiese, come da prassi, il giuramento
di fedeltà al regime ai professori universitari, ma è ben noto,
ed altrettanto vero, come questa faccenda si risolse: la grande
maggioranza dei professori universitari, in questo ispirati anche
dai clandestini partiti politici d'opposizione, accettò il giuramento
come atto puramente formale per non perdere il posto e lo stipendio,
e segnatamente l'influenza sulle giovani generazioni. Si può dunque
affermare che a parte poche, rare eccezioni, il fascismo e l'orda
di barbarie e violenza blanditrice e subdola di cui esso era
portatore, pur soffocando la società italiana, rimase, in buona
parte, al di fuori dell'università. La storia repubblicana comincia con gli scontri in seno
alla Costituente nei quali emerge chiaramente l'importanza dell'istruzione
pubblica come vettore fondamentale delle differenti culture presenti
nella società italiana nel secondo dopoguerra spesso in conflitto
tra loro, culture espressioni dei differenti gruppi sociali che
si confrontavano nell'arena politica; di procedere ad una profonda
riforma e ristrutturazione dell'università italiana, si parlava
tra gli oppositori, già durante le ultime ore del regime: durante
il periodo clandestino e la formazione dei primi governi del "CLN" a
Roma ciascun partito aveva il suo gruppo di esperti, che studiavano
il problema dell'università proponendo progetti più o meno articolati
di riforma(29). Durante il primo governo De Gasperi il ministro
dell'istruzione fu Enrico Molè(30) che nel gennaio del 1946 inviò a
tutti i rettori degli atenei italiani una circolare per richiamare
i professori universitari all'adempimento dei doveri accademici;
sarà questa, una tematica destinata a divenire ricorrente nei
dibattiti e nelle polemiche sull'università e che si intreccerà,
all'apparire di ogni disegno di riforma, con interessi spesso
tutti corporativi da parte dei baronati accademici italiani nelle "querelle" sostenute
di volta in volta con il ministro di turno circa lo status giuridico
di professore universitario con tutte le conseguenze sociali,
nel senso di prestigio, politiche, nel senso di potere, ed economiche
nel senso di onorari e compensi, che ciò implica. Nel secondo
governo De Gasperi a Molè succede il democristiano Guido Gonella
che dominerà il ministero dell'istruzione sino al 1951quando
sarà sostituito nelle sue mansioni da una altro ministro democristiano,
Antonio Segni; nel 1949 il ministro Gonella tentò una miniriforma
inviando ai rettori una circolare che li invitava a proporre
modifiche agli statuti ed alle norme riguardanti le discipline
fondamentali e complementari: un tentativo fallito perchè questo
progetto non iniziò mai l'iter parlamentare(31). Tuttavia con
alcuni decreti, come al solito (sic!)(32), Gonella riuscì a reintrodurre
nella scuola e nell'università quanto di più conservatore potesse
esserci nel sistema prefascista di istruzione pubblica con l'aggiunta
aggravante che ai laici liberali di inizio Novecento era subentrato
un cattolico di stretta osservanza: il guasto portato dall'onorevole
democristiano nella scuola elementare e media e nei rapporti
tra scuola pubblica e scuola privata di ispirazione e finanziamento
cattolico è ancora sotto gli occhi di tutti(33), soltanto il
ministro Moratti adesso in carica sembra stia facendo peggio
per quanto riguarda i rapporti con le scuole confessionali. Per
quanto riguarda l'università l'unica preoccupazione di Gonella
fu quella di parlare
di una riforma per la quale mancava la necessaria volontà politica
di realizzazione. Luigi Labruna, già rettore dell'Università degli
studi di Camerino, si è dimostrato acuto e sincero osservatore
affermando che: <<La storia dei conati riformatori susseguitisi
in Italia in meritò di università con frequenza certo impari
alla volontà politica di realizzarli dalla fine degli anni cinquanta
in poi è esemplare>>(34). Non fu questo infatti, nè il
primo nè tantomeno l'ultimo tentativo non riuscito di riforma.
Nel 1958 il democristiano Amintore Fanfani, presidente del consiglio,
presentò un piano decennale per la scuola(35); fu un fatto importante
ma si trattò di una presa di coscienza solamente quantitativa
in relazione alle trasformazioni che allora cominciavano ad essere
visibili e sostanziose e che cominciavano a delineare una università sempre
meno elitaria: fu questo un piano incapace di vedere i problemi
di fondo e che mirò soprattutto agli aspetti finanziari del problema
dell'istruzione e non alle riforme. Presentato in Parlamento
nel settembre del 1958, il piano Fanfani venne ulteriormente
ridimensionato e venne poi ripresentato sotto forma di "Provvedimenti
per lo sviluppo della scuola nel triennio 1962-65; il socialista
Tristano Codignola, che presentò la relazione di minoranza al
piano fu tra i pochi a rendersi conto dei sentori di dissenso
che in molti, tra docenti e studenti, nelle università iniziavano
ad avvertire: fu Codignola infatti, a citare la "Giornata
dell'università" tenuta da docenti, assistenti e studenti
il 27 gennaio 1961 per discutere, almeno nelle intenzioni dei
promotori, dei problemi dell'istruzione superiore in maniera
complessiva, laica e propositiva contemporaneamente in tutte
le università italiane e mandare così un segnale forte al mondo
politico(36). Purtuttavia, come annota Felice Froio nel suo libro "Università mafia
e potere", durante tutti gli anni cinquanta ed i primi anni
sessanta il dibattito parlamentare intorno alla situazione della
scuola e dell'università fu quasi assente ciò, probabilmente,
non a causa di un completo disinteresse o assoluta incomprensione
da parte del mondo politico delle necessità e dei bisogni essenziali
del mondo dell'istruzione pubblica: pareva essere questo, piuttosto
una precisa volontà politica dei partiti al potere (ossia della
Democrazia Cristiana e del Partito Socialista) di sottrarre un
argomento tanto complesso, che riguardava un'arena sociale talmente
intricata e densa di interessi accademico-politico-economici
in forte contrasto tra loro, di un posto insomma, l'università,
dove di tal guisa incoffessabile ed incoffessata era la rete
di indebiti legami sotterranei e più o meno palesi a tutti ad
un tempo, da indurre l'elite delle classi dirigenti, che di questi
legami era spesso tramite e fine, ad intaccare il meno possibile
i fragili equilibri di questo sottosistema sociale che tante
possibilità di sistemazioni clientelari offriva, e di farlo,
quando proprio necessario, attraverso la strada più breve possibile
e, nella quasi totalità dei casi, per decreto, regio o ministeriale
che fosse(37). Una situazione questa, che ha generato una prassi,
quella delle riforme dell'università per decreto, che domina
tuttora incontrastata nella scena politica italiana: decreti
erano quelli di Berlinguer, decreti quelli di Tullio De Mauro
ed Ortensio Zecchino, decreti, già tristemente famosi, quelli
della Moratti; del resto sempre Ippolito racconta che quando
a Cavour fu chiesto perchè durante la guerra d'indipendenza si
fosse chiamato a Torino dal fronte il maggiore conte Casati per
nominarlo ministro della pubblica istruzione e fargli varare,
senza discussione parlamentare, una legge sull'istruzione ed
in particolare su quella universitaria, si dice che avesse risposto
: <<essere gli interessi in gioco per una riforma della
scuola e della università tali e tanti che solo per decreto,
cioè mentre "rullava il tamburo e tuonava il cannone" sarebbe
stato possibile la tanto attesa riforma>>(38). A questo
proposito va detto che, nel corso degli anni, si è assistito
in Italia ad una serie incredibile di miniriforme, riformine,
riforme-stralcio che sono servite ad accontentare gli interessi
dei ministri e dei sottosegretari in carica e dei loro apparati
di potere, a conservare, mistificando innovazioni, le forme più larvate
ed indecenti di poteri baronali ed occulti legami extraaccademici,
o al massimo a contenere le richieste sempre più pressanti espresse
dagli studenti e dalla società più in generale ma quasi mai ad
innovare o almeno a pensare compiutamente l'università preferendo
invece una pratica di assurdo consociativismo dei partiti di
governo che ha prodotto piccoli interventi di parte ed una sostanziale
inconcludenza sulle questioni di fondo(39), pratica che si è tradotta
in una miriade di "leggine" che riguardavano le corporazioni
e concretizzavano la sola, vera politica scolastica praticata
con continuità e coerenza nei lustri passati, quella del gonfiamento
degli organici: la indecente abitudine nella cosiddetta "prima
repubblica" di tentare riformine estemporanee inutili e
magari buone solo ad immettere in ruolo qualche centinaia o migliaia
di docenti dovutamente "raccomandati", riforme del
tutto insufficienti rispetto alla prospettiva degli studenti
o di chiunque si relazionasse all'università in modo serio, che
venivano tentate durante le sessioni estive dei lavori parlamentari,
ne è un chiaro esempio ed una inevitabile conseguenza. é in questo
clima di cosciente e tanto più colpevole ottusità politica che
cominciava il lento ma progressivo disfacimento del sistema universitario
e scolastico in generale del nostro paese; al crescente peso
della personalizzazione delle cattedre, alla strozzatura per
l'ingresso nell'università di giovani docenti e ricercatori sempre
più frustrante da indurre un numero considerevole di validi e
validissimi studiosi a cercare miglior fortuna all'estero dando
luogo al fenomeno preoccupante ma, in questo contesto irreversibile,
della "fuga dei cervelli"(40), al potere malcelato
di alcuni baroni che diveniva sempre più ingombrante e proporzionalmente
sempre più distante da qualsiasi concezione seria e disinteressata
dell'impegno didattico in facoltà, insomma a tutti questi fenomeni
si cominciavano ad aggiungere le spinte esogene per una università non
più classista e d'elite ma universalista e di massa di cui erano
portatrici le classi lavoratrici che, con i loro sacrifici, stavano
costruendo il "miracolo economico", con conseguenze
in certe parti negative e, dovunque, importanti e destabilizzanti.
Del resto che l'università andasse trasformandosi da classista
ed elitaria quale era l'università prefascista e fascista, in
una università di massa grazie all'ascesa delle classi popolari
e per una maggiore giustizia sociale era nell'ordine stesso delle
cose(41). Ma l'università aveva le sue strutture, di potere,
culturali ed edilizie, che non potevano o, forse meglio, non
seppero e non vollero far fronte alle istanze ed alle spinte
incombenti di trasformazione di cui sto raccontando: la calcolata
cecità politica e la mentalità conservatrice e baronale di gran
parte del corpo accademico nazionale fecero il resto e, nel 1968,
l'università scoppiò. Ma prima del 1968 ci furono altri avvenimenti
degni di nota: il piano di riforma Ermini e, prim'ancora, di
quello del senatore Medici svanirono nel nulla paludoso degli
stanzoni di Viale Trastevere o in quelli di Montecitorio(42)
poi, nel 1962, con un governo di centro-sinistra appoggiato dai
socialisti(43), venne approvata una legge che istituiva una "Commissione
di indagine sulla scuola e l'università" le cui conclusioni
vennero presentate al ministro Gui nel 1963: a distanza di più di
quarant'anni si può facilmente constatare che soltanto alcune
delle proposte fatte da quella commissione sono state attuate.
C'è da dire che la commissione riuscì davvero ad individuare
molti tra i punti tra i nodi fondamentali da risolvere e, a conclusione
dei lavori, nelle considerazioni contenute nella relazione al
ministro presentò alcune intuizioni interessanti. La relazione
sanciva: la necessità della liberalizzazione dell'accesso agli
studi unjversitari, accompagnato da un piano di sostegno finanziario
agli studenti capaci e meritevoli ma privi di mezzi; la titolarità dell'università a
rilasciare tre qualifiche, diploma, laurea e dottorato di ricerca;
la sostituzione della tradizionale suddivisione tra materie fondamentali
e complementari con insegnamenti divisi in propedeutici e specialistici
e la conseguente modifica dei piani di studio; l'istituzione
dei dipartimenti, strutture interdisciplinari e policattedratiche
che avrebbero dovuto favorire lo sviluppo di percorsi di ricerca
e didattici maggiormente integrati ed organici; l'istituzione
di un nuovo sistema per i concorsi a cattedra di docente universitario
e la abolizione della libera docenza; infine l'auspicio di garantire
agli studenti l'effettività del diritto allo studio costituzionalmente
sancito attraverso un programma nazionale di edilizia scolastica,
una maggiore e più capillare distribuzione geografica degli atenei,
la concessione dell'autonomia ordinamentale ai senati accademici
ed agli organi di governo delle singole università, ed in ultimo
il finanziamento scrupoloso e costante della ricerca scientifica.
Alla luce del quadro ora delineato vanno sottolineate la capacità,
la congruenza e la tempestività delle proposte espresse dalla
commissione ma va anche detto che il Disegno di Legge Gui, presentato
alla Camera dei Deputati il 4 maggio 1965 con un numero d'ordine,
il 2314, destinato a divenire famoso riprendeva quelle proposte
solo in parte smussate e spogliate delle caratteristiche più innovative
da essi espresse(44). IL disegno di legge Gui fu presentato con
un titolo volutamente dimesso , come stava ormai divenendo buona
norma secondo le malsane abitudini della politica italiana, titolo
che recitava: "Modifiche all'ordinamento universitario";
la proposta Gui fallì nel senso che fu relegata nei polverosi
archivi della Camera nel momento in cui, nel marzo del 1968,
finì la quarta legislatura. La mancata attuazione, anche parziale,
delle proposte elaborate dalla commissione d'inchiesta nel 1962,
la mancata risoluzione cioè, dei problemi che già allora affliggevano
l'università e che la commissione stessa aveva così lucidamente
individuato, va sicuramente annoverata tra le cause che spiegano
l'esplosione del movimento nel 1968, in particolare di quello
studentesco. Le mobilitazioni del '68 non furono che lo sbocco
legittimo, naturale ed entusiasmante di una tensione che andava
crescendo nelle masse studentesche e che non poteva trovare argine
nelle strutture anchilosate e fatiscenti dell'università italiana(45);
la stessa discussione del disegno di legge 2314 fu travolta dall'esplodere
delle contestazioni e questo, secondo taluni(46), fu un male
perchè la 2314, sia pure in maniera insoddisfacente, affrontava
taluni dei nodi della crisi ed alcune delle disfunzioni appariscenti
dei nostri atenei; quegli stessi nodi e quelle stesse disfunzioni
che, passati indenni attraverso i puntuali fallimenti dei progetti
di riforme che dopo la 2314 sono venuti, sono rimasti in gran
parte non solo insoluti ed all'apparenza insolubili, ma sono
per anni addirittura scomparsi dall'ordine del giorno del dibattito
politico-culturale e dell'azione di lotta delle stesse forze
sindacali ed associazioni universitarie, costrette ad attestarsi
per lungo tempo su posizioni di retroguardia, a combattere, talvolta
anche in chiave corporativa, per la gestione della miniriforma
del 1973. Intanto, le mobilitazioni studentesche costringevano il
già menzionato Codignola, d'accordo con il nuovo ministro della
pubblica istruzione Ferrari Aggradi, a presentare, il 18 ottobre
1969, una riforma-stralcio che conteneva una serie di provvedimenti
urgenti e di carattere emergenzialistico(47); in particolare
erano previste la liberalizzazione dell'accesso all'università addirittura
a chiunque avesse un titolo qualsiasi di scuola media, e quella
dei piani di studio. E, sulla base della stessa logica, Codignola
presentò un'altra legge che abolì la libera docenza e, soprattutto,
i concorsi a cattedra. Come si vede, le generose e sincere mobilitazioni
di decine di migliaia di giovani che scrissero pagine di storia
gloriose e tragiche ad un tempo, a "Valle Giulia" come
a "La Sorbonne"(48), non avevano portato "l'immaginazione
al potere(49) ma soltanto diminuito il controllo nell'università e
contribuito ad abbassare, generalizzandoli, liberalizzandoli
e, quindi, massificandoli, gli insegnamenti impartiti come se
l'ignoranza e la mediocrità fossero sinonimi di eguaglianza,
o di socialismo. Senza voler dare affatto un giudizio negativo
delle contestazioni studentesche degli anni sessanta, si vuole
semplicemente affermare che l'enorme onda trasformatrice e rivoluzionaria
fu attutita e, nel quindicennio successivo, sussunta e completamente
ribaltata dalle forze di potere e che l'enorme serbatoio di idee,
considerazioni, riflessioni prodotte molto spesso nell'informalità valorizzante
delle assemblee di movimento, non solo non trovarono attuazione
completa, ma neppure risposta parziale in una riforma decente.
Lo stato, da parte sua, dimostrava l'incapacità di politiche
d'istruzione soddisfacenti e di razionalizzare i criteri di formazione
e valorizzazione di una tra le più importanti risorse strategiche:
la conoscenza. Fu questa un'ulteriore prova dell'inefficienza
del governo e del parlamento a ricercare soluzioni adeguate allo
sviluppo della società, data per assunta la centralità della
conoscenza per la crescita completa ed armonica dei sistemi sociali
in generale e contemporanei in particolare. La legge del '69
rispondeva alle richieste studentesche di un'università più libera,
universale e democratica, con la liberalizzazione dell'accesso
agli atenei e con quella dei piani di studio che, in pratica,
significò offrire uno specchio per le allodole alle componenti
meno politicizzate e più sprovvedute presenti nel movimento,
nonchè un contentino ai partiti ed alle forze sociali di sinistra
per mezzo del quale l'università divenne si un pò più libera,
ma nello stesso tempo sempre più massificata e mediocre. La legge
del 1970 invece, servì a sostanzialmente a "conservare",
spacciando quanto di più retrivio ed illogico potesse esserci
per una riforma ragionata: il blocco dei concorsi a cattedra,
che con tanti limiti pure garantivano un minimo di astrattezza,
generalità e, dunque, potenziale regolarità ed uguaglianza(50),
finì per sancire come pratica unica per l'immissione ai ruoli
di docenza e di ricerca di ogni ordine e grado all'interno dell'università,
quella dell'"ope legis", cioè della chiamata "ad
personam" con tutte le conseguenti clientele innanzitutto
politiche che questa ha generato(51), e con la sostanziale chiusura
delle porte dell'università a generazioni di ottimi ricercatori
costretti a ripiegare altrove, o altrimenti. Il fallimento, secondo la prospettiva d'analisi prima
specificata, del movimento del '68 ed il persistere, il moltiplicarsi
ed il diffondersi di queste pratiche hanno aggravato, nel trentennio
successivo, la crisi dell'università che oggi, in una situazione
di cambiamento strutturale sconvolgente, oltre ad essere scossa
da forze sinceramente innovatrici, appare altresì prigioniera
delle contraddizioni insolute retaggio degli anni precedenti.
Cosicchè nulla di nuovo e di buono espresse il disegno di legge
presentato dal ministro della pubblica istruzione, onorevole
Misasi, con il numero d'ordinanza 612, che incontrò subito l'opposizione
di ambienti molto qualificati. Che la situazione universitaria
italiana fosse diventata orai, segnatamente in talune facoltà,
praticamente insostenibile; che la liberalizzazione dell'accesso
all'università, che andava studiata e realizzata con opportune
garanzie sociali e culturali e non per demagogia, avesse praticamente
fatto scoppiare le strutture fatiscenti ed insufficienti del
nostro sistema universitario; che il malcostume fosse da tempo
penetrato in taluni istituti ed in alcune facoltà con l'affermazione
di ciò che oggi viene sinteticamente chiamata la "baronia" della
cattedra; che i rapporti tra i vari e le categorie dei docenti,
e quelli tra docenti e studenti fossero da rivedere su scala
nazionale; che i rapporti tra ricerca universitaria e ricerca
extrauniversitaria fossero da porre su nuove, più chiare e più moderne
basi; che insomma una riforma si imponeva, non solo di legge
ma di costume, non c'è chi mettesse, nè allora nè oggi, in dubbio: è che
il rimedio a tutto ciò, così come formulato negli articoli della
612, fosse per certi aspetti un rimedio peggiore del male. Anche
la 612 rimase quindi irretita nelle contraddizioni espresse dalla
contemporanea presenza, nel quadro normativo universitario, del
libero accesso, della libertà dei piani di studio, della validità legale
del titolo di studio che con i piani liberalizzati ed individuali
finiva finiva per essere tutta presupposta, per quanto lecita,
nonchè di modalità errate di reclutamento dei docenti. Seguendo
gli eventi arriviamo così ad i "provvedimenti urgenti" del
1973 elaborati dalle varie, sempre più scolorite versioni di
governi di centro-sinistra(52), e sotto la supervisione di differenti
ministri; questi provvedimenti non fecero che formalizzare, armonizzandole,
le disposizioni normative inattuate delle riforme precedenti
ed in particolare servirono all'immissione in ruolo per decreto
di altre migliaia di docenti contribuendo così a stemperare il
clima rovente avvertito nelle università, almeno per quanto riguardava
gli interessi di parte del corpo docente: ma ancora una volta "rien
de rien", come recita il testo di una celebre canzone francese,
per quanto riguarda gli aspetti centrali della "questione
universitaria" ma non passibili di scambi, favori e contrattazioni
convenienti. I provvedimenti del '73, proprio perchè urgenti,
non avevano alcun senso se non avessero aperto la via ad una
riforma di struttura circa l'idea stessa di università, come
forza propulsiva del tessuto sociale e della vita del paese intero,
e difatti non ebbero alcun senso nè presentarono valore aggiunto
alcuno. Quest'enorme carovana di riforme mancate si arenò negli
ultimi anni '70 e per tutti gli '80 per una serie di ragioni,
tra cui il progressivo riflusso dei movimenti che smisero di
rappresentare la spina nel fianco dell'immobilismo e del trascinarsi
della condizione stagnante in cui versava l'università italiana;
a questo riflusso seguì uno speculare, crescente disinteresse
per la questione nell'opinione pubblica e, tanto più nei partiti
di governo: oltre ad un estemporaneo tentativo di riforma del
PCI promosso nel 1976 da Giovanni Berlinguer ed ad una legge
del 1980, la 382 che era della stessa pasta di quelle che l'avevano
preceduta, niente risulta essere degno di nota. Bisognerà aspettare
il 1989 ed il ministro Ruberti, già rettore della Sapienza, per
far sì che nelle aule parlamentari e nelle stanze del potere
si torni a parlare di riforma dell'istruzione. Ma intanto le
profonde e rapidissime trasformazioni derivanti dalla rivoluzione
tecnologica che stavano sconvolgendo le economie di mercato destrutturando
posizioni, gerarchie e rapporti di forza nello scacchiere internazionale
e disegnandone di nuovi, mutati e rispondenti alla cangiante
composizione socio-economica del tessuto connettivo di ogni singolo
paese occidentale, stavano ponendo domande sempre nuove e più complesse
alla scuola ed all'università; quest'ultima inoltre, risultava
essere, a ridosso degli anni novanta, una istituzione già in
parte mutata e continuamente pressata dai cambiamenti culturali
e degli stili di vita dei popoli di tutto il mondo, una istituzione
peraltro ancora da trasformare, da riformare, e cui differenti
gruppi sociali finivano per richiedere competenze e specificità particolari
e spesso in contrapposizione: dalla necessità di aziendalizzare
l'università e tutto il processo di riproduzione dei saperi affinchè si
adegui meglio alle sempre maggiori richieste di solvibilità del "mercato
culturale", espressa da quasi tutte le forze imprenditoriali
e da buona parte dello schieramento politico; al bisogno altrettanto
fondamentale e, socialmente avvertito come prioritario, che l'università fornisca
innanzitutto una buona preparazione professionale; alla volontà,
espressa dai movimenti studenteschi, di una università più aperta
e più attenta ai problemi sociali, nonchè meno selettiva; al
desiderio celato nel cuore di qualche studioso di una università classicheggiante
ancora tutta votata alla formazione dell'uomo, all'allenamento
delle coscienze, alla conservazione e riproduzione dei saperi,
alla elevazione culturale per mezzo della leggerezza propria
di uno spirito critico guidato dai lumi della ragione, alla ricerca
pura e disinteressata di una verità tutta relativa e funzionale
al miglioramento complessivo delle condizioni morali e materiali
della vita di tutti, unica misura valida del valore sociale ed
intrinseco degli studi di qualsiasi specie. Con la legge finanziaria del 1994(53), il governo presieduto
da Carlo Azeglio Ciampi, presenta una finanziaria che contiene
pure una legge stralcio sull'università che per la prima volta
sembra concedere una sostanziale autonomia didattica alle università ma
anche questa legge non trova attuazione, nè immediatamente dopo
la sua presentazione, nè mai. Con il primo governo Berlusconi
(sembra incredibile ma ce ne è stato addirittura un secondo tuttora
in carica) il ministro in carica della pubblica istruzione è stato
Stefano Podestà(54) la cui unica azione politica degna di rilievo è consistita
nel riproporre vecchie e scontate soluzioni a problematiche per
giunta marginali della questione universitaria; le sue prime
preoccupazioni sono state la modifica del sistema per l'elezione
dei rettori, l'istituzione di un ruolo ad esaurimento per i professori
associati e la riforma dei concorsi a cattedra: ora è chiaro
a tutti che queste proposte avrebbero avuto un senso e goduto
di validità qualora fossero state inserite in un progetto di
riforma organico mentre così come furono espresse risultarono
soltanto dei maldestri tentativi del ministro per sistemare un
pò di "protetti", elargire posti di comando come compenso
per il sostegno politico ed altri favori, e reiterare, approfondendolo
un conflitto di interessi sempre più palese tra la posizione
di ministro e le azioni politiche effettivamente disposte. Queste
misure avrebbero avuto un senso qualora fossero state pensate
in maniera più complessiva, meno parziale e, soprattutto, prendendo
in considerazione il soggetto sociale studentesco in trasformazione
che popola gli atenei italiani; è necessario invece un sommario
sguardo di insieme per comprendere come i moventi che abbiano
ispirato l'azione politica di podestà e di tutto il governo non
si discostino affatto dalla logica assurda ed alla fine perdente
che ha informato di sè tutta la produzione normativa repubblicana
in materia. A gennaio 1995 il governo si dimise ed anche Podestà lasciò il
campo a Giorgio Salvini (55)il cui unico merito fu quello di
approvare un decreto in cui venivano sanciti due momenti e due
gradi differenti per i concorsi alla carriera universitaria così come
gli era stato richiesto il 26 febbraio 1995 in una lettera inviatagli
da un centinaio di professori universitari il cui primo firmatario
era Umberto Eco(56). Arriviamo così ai giorni nostri, ossia ai
ministeri Berlinguer, De Mauro e Zecchino per i governi di centro-sinistra
della passata legislatura ed a quello Moratti per quella in corso.
A questo punto però, prima di fare alcune osservazioni sugli
ultimi progetti di riforma e su quelli ora "in itinere",
considerazioni che risultano più difficili e di complicata elaborazione
di quelle espresse in merito alle riforme di un secolo fa a causa
della incompiutezza e della vicinanza degli avvenimenti narrati,
ci sembra necessario fornire un piccolo affresco della situazione
attuale dell'università in Italia come negli altri "paesi
avanzati". In primo luogo bisogna dire che il sistema universitario
nazionale, così come quelli di altri paesi europei, è riuscito
a stento a contenere i risvolti negativi, che pure sono numerosi,
della trasformazione, subita dall'università negli scorsi decenni
da una istituzione sostanzialmente, chiusa ed elitaria e perciò facilmente
gestibile ed amministrabile, ad una macroistituzione, un villaggio
a parte vero e proprio, un sottosistema sociale enorme ed in
continua espansione: le richieste poste all'università ed al
mondo della scuola sono venute continuamente mutando ed oggi
le aspettative economiche, politiche e sociali rispetto al mondo
dell'insegnamento sono enormi, ed enormemente differenti. La
scuola e l'università devono oggi essere in grado di preparare
gli studenti a forme di apprendimento flessibili e mutevoli nel
tempo e soprattutto alla capacità duratura e continua di formarsi
senza sosta, secondo il principio del "long life learning" alternando
periodi di studio a periodi di lavoro: sembra essere finito dunque,
il tempo in cui l'università rappresentava il livello massimo
di istruzione raggiungibile e fungeva da volano all'entrata nel
mondo del lavoro ed in special modo tra i gruppi dirigenti ed
in posti di comando e di prestigio. Le spinte trasformatrici
dei decenni scorsi, il "boom economico", l'illusione
nutrita dalle classi meno abbienti di un riscatto se non altro
in termini di prestigio da ottenere attraverso la frequentazione
dell'università(57), queste ed altre ragioni hanno determinato
la moltiplicazione degli iscritti, delle materie di corso e delle
sedi universitarie contribuendo nello stesso tempo ad aggravare
i problemi strutturali di cui l'università già soffriva in precedenza,
Secondo le tesi sostenute da molti studiosi dell'argomento tra
cui Giuseppe Are, queso insieme di processi convergenti ed in
contrasto sta sottoponendo l'università italiana ad una pressione
che, se non giustamente incanalata, rischia di far scoppiare
l'intero sistema. Il dato di fondo è, come sostiene Cesareo,
che probabilmente le domande rivolte all'università (58)esulano
da, o quantomeno trasformano sensibilmente i compiti di ricerca
e formazione, cioè rispettivamente della produzione e della trasmissione
dei saperi, almeno nella maniera in cui queste due funzioni erano
diffusamente concepite fino a qualche anno fa. Oggi alla scuola
ed all'università viene richiesta la formazione di forza-lavoro
qualificata a sostegno della crescita economica: questo significa
che i luoghi sociali dell'apprendimento(59), sono destinati alla
formazione di quella "manodopera cognitiva" (60)che è sostanzialmente
differente da un "quadro" nell'accezione traslata del
termine, cioè di quella mole di lavoratori più o meno altamente
specializzati capaci di "leggere i segni della produzione" (61)di
quei beni immateriali che la società globale richiede sempre
di più. Sembra proprio essere questo, nel terzo millennio, il
problema centrale della "questione universitaria".
Se, come si è tentato di descrivere in questa relazione, la necessità della
riforma è sempre stata speculare alle trasformazioni produttive
ed ai bisogni espressi dai differenti gruppi sociali e, dunque,
qualsiasi progetto di riforma presentatoè stato sempre espressione
del suo tempo nel senso che i problemi dell'università e la gerarchia
tra questi sono venuti modificandosi nel corso della storia,
appare allora evidente la necessità di comprendere, oggi, quali
siano esattamente le dinamiche da analizzare e quale la posta
in gioco e, sulla base di questi argomenti sinceramente ed organicamente
discussi, giudicare i progetti di e le riforme degli scorsi anni
che sono tuttora vigenti. Il
dibattito corrente tra gli specialisti invoca da un lato una
maggiore efficienza del sistema universitario in termini di qualità del
prodotto e di razionalizzazione dei suoi costi di funzionamento
(riforma interna); dall'altro sottolinea la necessità di nuove
e credibili sinergie fra le esigenze del mondo del lavoro ed
il sistema della formazione superiore nel suo complesso (integrazione
esterna)(62). E le riforme degli anni scorsi sembrano almeno
aver compreso l'importanza di queste due questioni; va ancora
sottolineato il fatto che l'università contemporanea appare sempre
più lontana da quell'idea espressa dai movimenti dei decenni
scorsi e, nostalgicamente, di quelli degli anni passati cui ho
personalmente partecipato, in base alla quale negli atenei si
cercavano gli spazi di libertà e di autonomia necessari per l'instaurazione
di relazioni sociali alternative e per la formazione di una cultura
critica e complessiva che andasse oltre i tempi ed i modi della
didattica ufficiale, un modello di università, quello degli anni
scorsi, con tutte le sue contraddizioni intrinseche e che magari
produceva fuoricorso ma che probabilmente offriva agli studenti,
frequentanti e non, la possibilità di apprendere saperi vasti,
eterogenei, specialistici quanto generali, quell'idea di università votata
alla formazione quanto più libera possibile delle coscienze individuali
secondo il modello di "scola magistra vitae" che forse
rappresenta un'illusione astoricizzante ma dei cui slogan i giovani "in
movimento" hanno riempito centinaia di muri. E' pur vero
il fatto che queste erano passioni politiche frutto di ideologismi
che, per quanto generosi, hanno spesso perso il contatto con
la realtà vaneggiando, in specie negli ultimi anni, di rivoluzioni
improbabili quando invece andava compreso il senso totale dell'istituzione
universitarià, la sua attuale funzione sociale come produttrice
di saperi, ma anche di forza lavoro addestrata e di "prodotti
culturali" il più possibile "just in time" (63)ed
il cui unico valore è rappresentato dalla solvibilità sul mercato,
dall'accumulazione di profitto che presuppone un'etica troppo
diversa, volgare e scontata, da quella necessitata da percorsi
di ricerca seri e da vite dedite allo studio. Pare che le forze
del capitale e dello Stato abbiano completamente rovesciato,
sussumendoli, gli ideali e le felici intuizioni dei "sessantottini"(64):
l'università è stata si aperta a tutti ma, naturalmente, non
perchè tutti vi andassero ad elevarsi culturalmente nè tantomeno
perchè tutti gli iscritti, di qualsiasi veduta politica e provenienza
sociale, divenissero classe dirigente; l'università è divenuta
nel corso degli ultimi anni qualcosa di sostanzialmente di verso
da quella scuola d'eccellenza che pure pareva la sua primaria
funzione sociale fino a qualche anno fa(65): con la moltiplicazione
dei corsi e l'aumento esponenziale degli iscritti è cominciato
un lento processo di "liceizzazione" che ha abbassato
sensibilmente il prestigio sociale e culturale di cui godevano
le accademie in genere, di pari passo con la progressiva assunzione
della funzione di istituto di formazione più o meno generalista,
per quanto desideroso di iperspecialismo come richiesto dai paradigmi
dominanti(66), e delegando proporzionalmente l'istruzione d'elite
a percorsi paralleli in genere gestiti da presigiosi istituti
privati: oggi gli atenei rilasciano qualifiche professionali
di differente ordine e grado, dai diplomi ai dottorati di ricerca,
fornando insegnamenti la cui mole immensa testimonia della illogicità palese,
da un punto di vista semantico e scientifico, della loro stessa
esistenza e differenziazione. Pare si sia giunti ad una situazione
in cui le modalità di apprendimento proposte nelle nostre università inducano
ad una indebita specializzazione delle conoscenze che finisce
per produrre saperi e professionalità iperspecializzati e, di
conseguenza iperspecializanti e dunque inutili in quanto avviamento
al lavoro che è ciò che la stragerande maggioranza degli studenti
richiede all'università. Ancora va detto che, negli anni scorsi,
indifferibili sono divenute le esigenze da parte delle imprese
di un sistemadi un sistema di formazione superiore competitivo,
e le richieste in tal senso poste al governo italiano dalòla
Comunità Europea: è del 1995 il "Whitw Paper on Education
and Training" (67)della Commissine Europea in cui viene
solennemente afferata la necessità di adeguamento dei programmi,
delle modalità d'insegnamento e delle funzioni dell'università alle
esigenze dei differenti contesi produttivi. Sono del resto pubbliche
le "raccomandazioni" OCSE(68) in tal senso, come lo
sono i dati messi a disposizione da questa organizzazione che
dimostrano quanto l'Italia sia in ritardo, in questo processo
di adeguamento, rispetto agli altri paesi europei, e c'è da dire
che i riformatori degli anni novanta hanno seguito queste indicazioni
ed hanno riflettuto su questi dati arrivando a produrre nuovamente,
per la prima volta dopo la Gentile(69), un progetto ragionato
di riforma dell'istruzione. Il primo è stato Ruberti(70), al
quale ci eravamo fermati nel nostro racconto, che abbozzò un
disegno complessivo di riforma che è poi stato più volte stralciato
e modificato e che, come racconta, Luigi Berlinguer, è stato
approvato a pezzi durante questi anni a causa della quasi impossibilità da
più parti dichiarata e storicamente dimostratadi portare atermine
una riforma completa in una volta sola a causa degli interessi
politici di parte e della combattività, che spesso precede fenomeni
di consociativismo quando non di trasformismo, delle forze sociali
da questi disegni coinvolte. Durante il corso degli anni novanta
i vari ministri dell'istruzione, tra cui si ricorda con poca
stima la Iervolino, hanno "non tentato" la riforma
generale imbattendosi in improbabili barricate baronali ed in
ciclici e decontestualizzati conati di sollevazione degli studenti.
Poi, nel 1996, il ministro Luigi Berlinguer, presenta la sua
proposta di riforma che ha finito per convogliare su di sè pure
gli sforzi di Tullio De Mauro ed Ortensio zecchino a lui succeduti
nella carica di ministro. Dopo una serie di passaggi il 4 gennaio
2000(71) è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale l'ultimo
dei pezzi del disegno di riforma elaborato, promosso e portato
a termine dal centro-sinistra e che era stato progettato da Ruberti
già dieci anni prima(72): esso ha fissato i criteri generali
del nuovo ordinamento degl istudi universitari ed introduce alcune
importanti novità tra cui l'articolazione del percorso di studio
in più livelli, i crediti formativi e le classi di laurea destinate
nel tempo a soppiantare le facoltà(73). Il decreto ministeriale
del 4 agosto 2000, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 18
ottobre 2000 ha completato il quadro e consolidato il progetto
di trasformazione dell'università, almeno secondo i suoi promotori,
istituendo le nuove classi di laure e sancendo l'inizio della
fase di applicazione della riforma; la vecchia laurea, in genere
quadriennale, ha ceduto il passo alla nuova struttura caratterizzante
il percorso di formazione universitaria che è divenuta famosa
nell'ambiente con il nome di "3+2"(74). Questa riforma
ha aperto un nuovo cammino che implica una drastica trasformazione
del costume e della mentalità di amministratori, docenti e studenti,
nonchè il reperimento delle risorse necesarie per la ricerca
e la didattica, le quali di certo non possono gravare interamente
sulle tasse degli studenti; assistiamo in questo senso ad un
progressivo processo di delega dello stato alle regioni del potere-compito
di reperirequesti fondi, processo di delega che a volte si trasforma
in una vera e propriea dismissione di poteri che genera pericolosi
vuoti normativi e di sovranità e lascia le nostre università in
balia dei progetti di finanziamento da parte delle imprese, mai
disinteressate e che potenzialmente alterano fini e modalità della
ricerca e dell'insegnamento. Si può infine affermare che la nuova
università disegnata dai governi di centro-sinistra presenta
un mutamento sostanziale nell'organizzazione degli studi: i cambiamenti
introdotti riguardano praticamente tutti i settori della vita
universitaria dalla durata degli studi, ai titoli rilasciati
ed al valore di questi, all'organizzazione degli ordinamenti
didattici. Tra gli aspetti degni di nota, oltre ai crediti ed
ai debiti formativi che esemplificano una scostante aziendalizzazione
dei saperi acquisiti e spendibili, vanno sicuramente annoverati
i differenti percorsi di studio, quello di primo livello e quello
specialistico che vanno a comporre il già menzionato 3+2(75),
e la progressiva e preoccupante, nonchè incostituzionale, equiparazione
tra scuola pubblica e scuola privata, tema questo, nel quale
tanto "lodevolmente" si sta impegnando il ministro
in carica Letizia Moratti. Questa trasformazione dei percorsi
di studio ha significato nello specifico la scomparsa di vecchi
insegnamenti, la nascita di nuovi e la loro retrocessione o promozione
a seconda che questi avessero o meno un valore di mercato accettabile
nella nicchia di distribuzione in cui ogni singolo ateneo tenta
di piazzare i suoi migliori prodotti: va ricordato che tutto
ciò, ossia la "performance" il risultato, il profitto,
nonchè la ristrettezza dei tempi di produzione, sono i requisiti
richiesti alle università dalle aziende che sempre più più diventano
le uniche finanziatrici, e quindi padrone, delle attività di
ricerca e di quelle didattiche
che ne conseguono, evidenziando in questo senso una pericolosa
dinamica di mercificazione e di perdita di controllo dei pubblici
poteri sul mondo della formazione. Lo scenario dipinto mostra
i nessi palesi fra la demolizione e la liquidazione sempre più rapida
del vecchio e nobile modello di università così intensamente
radicato nella storia spirituale ed istituzionale del nostro
paese, da un lato e, dall'altro, la dianmica di sviluppo della
società globalizzata, dominata da un quarto di secolo in maniera
totalitaria da un meccanismo economico mondiale completamente
autorefernziale e socialmente ed eticamente del tutto insensato(76).
E' su tutto questo che bisogna riflettere, anche nel valutare
i "decreti Moratti"(77) i quali, scritti dagli esperti
del T.I.C. piuttosto che da quelli del ministero e dal ministro
in persona che sembra essere particolarmente "duro di penna",
hanno accentuato la vocazione dell'università all'insegnamento
del "saper fare" piuttosto che del "sapere" o
dei saperi, alla formazione professionalizzante piuttosto che
all'istruzione acculturante; del resto la concezione della scuola
e dell'università propria del ministro Moratti quale si evince
dalla sua pagina personale e dai suoi scritti nel sito ufficiale
del Ministero dell'Università e della Ricerca Scientifica, sembra
essere quella di piccole aziende o tutt'alpiù di istituti professionali
di presuppposto alto livello pronti a rilasciare qualifiche richieste
dalle imprese per impiegare forza lavoro semprepiù capace e,
conseguenzialmente, sempre più produttiva; una visione limitata
e limitante che è parte del progetto massonico dell'apparato
di potere di cui Berlusconi è vertice, progetto che mira a trasformare
lo stato in una società per azioni. L'ultima considerazione sul
decreto moratti, sarcastica, è sulla coerenza rispetto ai dettami
dei poteri forti di cui il MInistro si è fatto esemplare garante
: il percorso di studi ad "Y" di ultima gestazione
e che dovrebbe sostituire il 3+2 con un 1+2+2 è solo forse, più "sincero" delle
proposizioni in merito fatte dal centro- sinistra. Infatti, dopo
un primo anno universitario atto a formare la mano do'opera cognitiva
di cui sopra, debitamente addestrata e disciplinata, si prevede
un bivio un percorso ad ispilon appunto che da un lato porterà alle
psecializzazioni professionali e a d'altro alla formazione di
eccellenza per la uquale completeranno il compito istituti di
formazione privata meglio se cattolici. Pur constatando il carattere discriminatorio e classista di
questa riforma, ma senza dare di essa giudizi concludenti ed
asaustivi, dal momento che è ancora in corso ( operazione dalla
quale ancora si astengono gli specialisti, i cui testi hanno
fornito la bibliografica di riferimento di questo lavoro), vorrei
concludere questa tesina affermando la necessità che nel processo
di riforma dell'Università, il quale per forza di cose non può dichiararsi
concluso si proceda con tutta l'attenzione e la capacità necessaria
e che ho cercato di rilevare e far risaltare in questo scritto,
pur sapendo che questa pura intenzione destinata a rimanere continua
frustrazione ed utopia solo in parte consolatoria. Pur tuttavia,
come insegna Derrida, è da queste utopie che bisogna iniziare
per relazionarsi all'idea stessa di istruzione in modo da eccedere
qualsiasi limite imposto da una riforma sbagliata e qualsiasi
ostacola opposto dalla concreta situazione dei nostri Atenei;
quella maniera di pensare delle nostre accademie, alternativa
ed originale, e che si concretizza in piccoli momenti di crescita
collettiva tra studenti e studenti e tra studenti e docenti,
in tante azioni e relazioni che superano, fagocitandole, i momenti
di normalità accademica in sprazzi di "università senza
condizione" costrizione e ingerenza alcuna. Probabilmente,
a prescindere da qualsiasi riforma è l'unica maniera dignitosa
che ci resta di vivere l'Università, di fare società(78).
1)
.Froio Felice, Università: mafia e potere, LA NUOVA ITALIA
EDITRICE, Firenze, 1973, pag.7
2)
Sono i governi,
per l’esattezza tre della passata legislatura
3)
Pubblicati da
quando il ministro è salito
in carica nel 2001
4)
Are Giuseppe, L'università nella società globale. Sviluppo
e culture in conflitto, MARSILIO, …, 2002, introduzione
5)
I.Wallerstein, Alla scoperta del sistema-Mondo, MANIFESTOLIBRI, Roma,1996
6)
Are Giuseppe, L'università nella società globale. Sviluppo
e culture in conflitto, MARSILIO, …, 2002
7)
Ivi
8)
Libro Bianco
del MIUR 2003
9)
V.Shiva, Il mondo sotto brevetto,
feltrinelli, Milano2002
10)
N.Bobbio , Dizionario
di Politicca, Stato
11)
Derive Approdi,
speciale sull’univerità, Torino 2003
12)
Cesareo Vincenzo . L'università nella costruzione della
nuova Europa, in Rassegna Italiana di Sociologia.
13)
Are Giuseppe, L'università nella società globale. Sviluppo
e culture in conflitto, MARSILIO, …, 2002,cap 1
14)
Ippolito F., Università crisi senza fine, Editoriale L'Espresso, …,
1978,pag7
15)
Ivi, pag 8
16)
Ivi pag9
17)
Ivi pag11
18)
N.Bobbio , Dizionario
di Politica, liberilismo
19)
L’ope legis dal latin per opera di legge è una particolare e molto discutibile
modalità di immissone in ruolo dei docenti universitari.
20)
Testi indicati sul retro
21)
Evento simbolico che consegnò il potere al movimento fascista
22)
Ippolito F., Università crisi senza fine, Editoriale L'Espresso, …,
1978,pag7
23)
Ivi
24)
Ivi pag10
25)
Ivi
26)
Labriola Antonio, L'università e la libertà della scienza,
MANIFESTO LIBRI, Roma, 1996.
27)
Ippolito F., Università crisi senza fine, Editoriale L'Espresso, …,
1978,pag32
28)
Ivi
29)
Ivi pag36
30)
Froio Felice, Università: mafia e potere, LA NUOVA ITALIA
EDITRICE, Firenze, 1973.
31)
Froio Felice, Le mani sull'università, Editori Riuniti,
Roma, 1996.pag54
32)
L’espressione di disappunto è dell’autore
33)
Ippolito F., Università crisi senza fine, Editoriale L'Espresso, …,
1978,pag37
34)
A questoe univrsitaria atti del convegno, LIGUORI napoli 1977
35)
Froio Felice, Università: mafia e potere, LA NUOVA ITALIA
EDITRICE, Firenze, 1973.
36)
Froio Felice, Le mani sull'università, Editori Riuniti,
Roma, 1996
37)
Ippolito F., Università crisi senza fine, Editoriale L'Espresso, …,
1978Ippolito F., Università crisi senza fine, Editoriale L'Espresso, …,
1978, pag 7
38)
Ippolito F., Università crisi senza fine, Editoriale L'Espresso, …,
1978
39)
Berlinguer, la scuola nuova
40)
vedi testo
41)
Ippolito F., Università crisi senza fine, Editoriale L'Espresso, …,
1978,pag37
42)
Sedi rispettive di Miur eparlamento
43)
Froio Felice, Le mani sull'università, Editori Riuniti,
Roma, 1996
BIBLIOGRAFIA
Araldi G., Le origini dell'università, IL MULINO, Bologna,
1974. Are Giuseppe, L'università nella società globale. Sviluppo
e culture in conflitto, MARSILIO, …, 2002. Berlinguer Luigi, La scuola nuova, LATERZA, Roma/Bari,
2001. , Le radici Cesareo Vincenzo del futuro. L'università nella
costruzioone della nuova Europa, in Rassegna Italiana di Sociologia. De Mauro Tullio, De Renzo Francesco, Orientarsi nell'Università,
IL MULINO, Bologna 2004. Froio Felice, Università: mafia e potere, LA NUOVA ITALIA
EDITRICE, Firenze, 1973. Froio Felice, Le mani sull'università, Editori Riuniti,
Roma, 1996. Ippolito F., Università crisi senza fine, Editoriale L'Espresso, …,
1978. Labriola Antonio, L'università e la libertà della scienza,
MANIFESTO LIBRI, Roma, 1996. I.Wallerstein, Alla scoperta del sistema-Mondo, MANIFESTOLIBRI, Roma,1996 |