C.1 Cosa determina i prezzi nel
capitalismo?
I pro-capitalisti di solito sono d’accordo con quella
che viene chiamata Teoria Soggettiva del Valore (TSV), come spiegato
dalla gran parte dei libri di economia. Questo sistema economico viene denominato
“marginalista”, per ragioni che andremo a spiegare.
In sostanza, la TSV sostiene che il valore di una comodità
è determinato dalla sua utilità marginale al produttore e al
consumatore. L’utilità marginale è il punto, su una scala di
un individuo, nel quale il suo desiderio per un bene è appagato. Quindi
il prezzo è il risultato di individuali, soggettive valutazioni nel
mercato. Si può facilmente vedere come questa teoria potrebbe essere
appetibile a quelli interessati alle libertà individuali.
Comunque, la TSV è un mito. Come molti dei miti
contiene briciole di verità. Ma come spiegazione del come determinare
il prezzo di una comodità, ha serie debolezze.
Il nocciolo di verità è che individui,
gruppi compagnie, ecc. valutano veramente beni e li consumano/producono. La
rata di consumo, per esempio, è basata sul valore di uso dei beni agli
usufruenti (anche se quando qualcuno compra un prodotto è condizionato
dai prezzi e delle considerazioni di entrata, come vedremo). Analogamente,
la produzione è determinata dall’utilità del produttore a fornire
nuovi beni. Il valore di uso di un bene è una valutazione altamente
soggettiva, quindi varia da caso a caso tenendo conto dei gusti e bisogni
di un individuo. Quindi ha un qualche effetto nel prezzo, come vedremo,
ma come mezzo di determinazione del prezzo di un prodotto ignora le dinamiche
dell’economia capitalistica e delle relazioni che si nascondono nel mercato.
In effetti, la TSV tratta ogni comodità come opera d’arte, e questi
prodotti di attività umana (grazie alla loro unicità) non
sono comodità capitalistiche nel senso solito (non possono essere riprodotte
e quindi il lavoro non può accrescere la loro quantità). Di
conseguenza la TSV ignora la natura della produzione capitalistica. Di questo
discuteremo nelle prossime sezioni.
Ovviammente, gli economisti moderni tentano di dipingere l’economia come
una “scienza del libero prezzo”. Ovviamente, poche volte considerano che
di solito stanno dando per scontate strutture sociali esistenti e i dogmi
economici costruiti intorno a loro e quindi li giustificano. Come Kropotin
Indicò:
“Tutte le cosìddette leggi
e teorie dell’economia politica in realtà non sono altro che affermazioni
di questa natura:
Garantito che ci sono sempre in un paese una notevole quantità di persone
che non possono sussistere un mese, o solo un giorno senza accettare le condizioni di
lavoro imposte loro dallo Stato, o efferte loro da coloro che lo Stato riconosce
come proprietari terrieri, di fabbriche, ferrovie, ecc. allora
i risultati saranno così e così.’
“Fino ad ora la politica economica
delle classi medie è stata solo un racconto di cosa succede sotto le
leggi appena menzionate – senza constatare distintamente le condizioni da sole. E poi, dopo aver descritto
i fatti che appaiono nella nostra società sotto queste condizioni,
le rappresentano a noi come rigide,
inevitabili leggi economiche.” [Kropotin’s Revolutionary Pamphlets,
p. 179]
In altre parole, gli economisti prendono in considerazione
gli aspetti politici e ed economici della società capitalistica (come
diritti di proprietà, disuguaglianza, e così via) come validi
e ci costruiscono teorie intorno. Il marginalismo, in effetti, prese il “politica”
da “politica economica” supponendo giusta la società capitalistica
con il suo sistema di classi, le sue gerarchie e disuguaglianze. Concentrandosi
sulle scelte individuali loro isolano il contesto (il sistema sociale) nel
quale queste decisioni vengono prese e da cosa furono influenzate. Infatti
la TSV fu costruita mettendo in astratto certe scelte economiche e generando
“leggi” applicabili per tutti gli individui, in tutte le società, in
qualsiasi tempo. Questo significa che azioni concrete, non importa quando
storicamente differenti, vengono trattati come espressioni universali dello
stesso concetto. Quindi, nell’economia neoclassica, il lavoro stipendiato
diventa lavoro, il capitale diventa mezzo di produzione, il processo lavorativo
diventa una funzione produttiva, comportamento acquisito diventa natura umana.
In questa maniera l’unicità della nostra società, cioè
la sua base di lavoro salariato, viene ignorataa (“Il periodo attraverso
il quale stiamo passando… si distingue da una speciale caratteristica – LE
PAGHE.” [Proudhon, System of Economical Contradictions, p. 199])
e cosa è specifico al capitalismo è universalmente applicabile
per tutti i tempi. Questa prospettiva non può che essere ideologica
piuttosto che scientifica. Tentando di creare una teoria applicare universalmente
loro nascondono il fatto che la teoria giustifica l’inuguaglianza tipica del
capitalismo. Come afferma Edward Herman:
“Nel 1849, l’economista inglese Nassau Senior rimproverò
i difensori dei sindacati e delle regolazioni sulla minima paga di esporre
“economia dei poveri”.
Non gli venne mai in mente che lui e le sue conferenze stavano promuovendo
l’”economia dei ricchi”; lui si considerò uno scienziato e un
portavoce di giusti principi. Questo
autoinganno continuò e pervase maggior parte dell’economia fino al
tempo della Rivoluzione Keynesiana degli anni 1930. L’economia
Keynesiana, anche se fu usata come mezzo di servizio allo stato capitalista,
era fastidiosa nel suo sottolineare l’instabilità del
capitalismo, la tendenza
verso la cronica disoccupazione, e il bisogno di sostanziale intervento governativo
per mantere la sua viabilità. Con il
risorgimento del capitalismo degli
ultimi 50 anni le idee Keynesiane e il loro implicito richiamo per l’intervento
sono state sotto attacco incessante e,
nella controrivoluzione intellettuale della Chicago School, l’economia tradizionale
laissez-faire dei ricchi fu ristabilita come cuore dell’economia
principale.
[The economics of the Rich]
Herman continua a chiedere “perché gli economisti servono i ricchi?”
e afferma che “per un motivo, i maggiori economisti sono fra i ricchi,
e altri vogliono avanzare a simili altezze sociali. L’economista della Chicago
School Gary Becker affermò che l’economia spiega molte azioni normalmente
attribuite ad altre forze. Ovviamente lui non applicò mai questa idea
all’economia come professione…” [Ibid.] Ci sono tante grandi consulazioni,
ricerche, ecc. che creano una “’domanda effettiva’ che dovrebbe presupporre
un’appropriata risorsa di offerta.” [Ibid.]
L’introduzione del marginalismo e la sua accettazione
come “ortodosso” è servito, come serve ancora, a distrarre l’attenzione
dalle domande più critiche sulla gente che lavora (per esempio, cosa
va in produzione, come le relazioni di autorità influenzano la società
e il posto di lavoro). Più che guardare a come le cose vengono prodotte,
al conflitto generato nel processo di produzione e la generazione/divisione
del surplus, il marginalismo ha preso cosa è prodotto come certo, come
il posto di lavoro capitalista, la divisione del lavoro e le relazioni di
autorità e così via.
Le teorie possono cercare la verità o servire
interessi. Nell’ultima possibilità incorporeranno solamente concetti
adatti a raggiungere gli scopi desiderati. Una teoria economica, per esempio,
può sottolineare profitti, quantità di rendimento, ammontare
di profitti e prezzi, e lasciar stare la lotta di classe, l’alienazione, la
gerarchia e il vendere potere. Allora la teoria servirà ai capitalisti,
e dato che loro pagano gli stipendi degli economisti e finanziano le loro
università, anche gli economisti e i loro studenti ne trarranno beneficio.
L’analisi dell’equilibrio generale e il marginalismo
sono fatte su misura per la classe dominante. Il marginalismo ignora le domande
di produzione e si concentra sullo scambio. Afferma che ogni tentativo dei
lavoratori di migliorare le condizioni (tramite, ad esempio, i sindacati)
è controproducente, predica che “a lungo termine” ognuno stara meglio
e quindi i problemi di oggi sono irrilevanti (e ogni tentativo di migliorarli
è controproducente) e, ovviamente, i capitalisti sono autorizzati per
avere i loro profitti, pagamenti di interessi e affitti. L’utilità
di teorie come questa è scontato. Una teoria economica che giustifica
la disuguaglianza, “dimostra” che i profitti, le paghe e gli interessi non
sono sfruttatori e afferma che i potenti in economia con libero regno abbiamo
più valore di uso (“utilità”) alla classe dominante più
di quelli che non la hanno. Nel mercato delle idee, sono quelle che soddisfano
le richieste e diventano intellettualmente “rispettabili”.
Ovviamente non tutti quelli che difendono il capitalismo sono ricchi (anche
se molti vorrebbero diventarlo). Molti credono alle sue affermazioni che il
capitalismo è basato sulla libertà, che i profitti, gli interessi
e gli affitti rappresentano “meriti” per i servizi che si provvedono più
che lo sfruttamento generato da posti di lavoro gerarchici e ingiustizia sociale.
Comunque, prima di attaccare le questioni di profitti, affitti e interessi
dobbiamo prima dire perché la TSV è sbagliata.
C.1.1 Cosa c’è che non va in questa teoria?
Il primo problema con l’utilizzo dell’utile marginale nel determinare i prezzi
è rappresentato dal fatto che esso conduce ad un ragionamento circolare.
Si suppone, infatti, che i prezzi debbano misurare l’”utile marginale” dei
prodotti di prima necessità, ma i consumatori hanno pur sempre bisogno
di conoscere il prezzo in anticipo così da poter valutare come massimizzare
al meglio la loro soddisfazione. Pertanto, la teoria soggettiva del valore
“Ovviamente si basa sul ragionamento circolare. Anche se questa tenta
di spiegare i prezzi, i prezzi sono necessari per spiegare l’utile marginale”.
[Paul Mattick,
Economics, Politics and the Age of Inflation, p.58]
Infine, come Jevons (uno dei fondatori del marginalismo) riconosce, il prezzo
di un prodotto appare come l’unica verifica che si ha riguardo all’effettivo
vantaggio economico del prodotto per il produttore. Dato che l’utile marginale
aveva lo scopo di spiegare proprio quei prezzi, il fallimento di questa teoria
non potrebbe essere più clamoroso.
Secondariamente, consideriamo la definizione di prezzo d’equilibrio. Il prezzo
d’equilibrio è quel prezzo per il quale la quantità domandata
è precisamente uguale alla quantità fornita. Con questo tipo
di prezzo non si ha incentivo né per le domande, né per le
offerte al fine di modificare questo andamento.
Perché ciò accade? La teoria soggettiva non spiega veramente
perché sia
questo il prezzo di equilibrio, al contrario di
altri. E ciò è possibile proprio perché questa teoria
ignora la richiesta di una misura oggettiva su cui basare le valutazioni
“soggettive” all’interno del mercato. Il consumatore o la consumatrice, quando
fa acquisti, ha bisogno dei prezzi per distribuire il denaro, così
da massimizzare al massimo il proprio “utile” (e, ovviamente, la consumatrice
si trova ad avere a che fare direttamente con i prezzi sul mercato, la sola
cosa che la teoria del valore marginale si suppone debba spiegare!). E come
fa una ditta a sapere se sta guadagnando o no se non confronta i prezzi sul
mercato con i costi di produzione dei prodotti che mette in commercio? Come
disse Proudhon:
“…se domanda e offerta da sole determinano un valore,
come possiamo dire cosa sia un’eccedenza e cosa una sufficienza? Se né
costi e né prezzi di mercato, né salari possono essere matematicamente
determinati, com’è possibile concepire un surplus, un profitto?”.[
System
of Economical Contradictions, p.114] Questa misura oggettiva può
essere solamente l’unico processo di produzione possibile con il capitalismo,
produzione a scopo di lucro. Le implicazioni che comporta sono importanti
quando si scopre cosa determina il prezzo nel capitalismo, come vedremo nella
prossima sezione.
I primi marginalisti erano consci di questo problema e affermarono che il
prezzo rifletteva l’utile al “margine” (Jevons, uno dei fondatori della teoria
marginalista, affermava che
“il grado finale dell’utile ne determina il
valore”); ma cosa ha determinato la posizione del margine stesso? Questa
(la posizione del margine) è fissata dalla quantità di offerta
disponibile (
“L’offerta determina il grado finale dell’utile” – Jevons).
In altre parole, il prezzo dipende dall’utile marginale, che dipende dall’offerta,
che a sua volta è dipendente dal costo di produzione. In pratica,
tutto si basa su misure definitivamente
oggettive (offerta o costo
di produzione) piuttosto che su valutazioni soggettive! Questo non sorprende
per niente, dato che prima che qualcun* possa consumare (“valutare soggettivamente”)
qualcosa sul mercato, questo qualcosa deve prima essere prodotto. E’ il processo
di produzione che ri-organizza intenti ed energie da forme meno utili ad
altre (almeno per noi) più utili. Il che ci porta dritti indietro
alla produzione e alle relazioni sociali che esistono in una data società
– e i pericoli politici che s’incontrano nel definire valori (scambio) in
termini di lavoro (vedi la prossima sezione). Dopotutto, un individuo non
ha a che fare solamente con una data offerta sul mercato, ma anche con i
prezzi, includendo persino i costi associati con la produzione e il relativo
guadagno.
Dato che l’unica mira del marginalismo era di astrarsi lontano dalla produzione
(al cui interno le relazioni di potere sono ben chiare) e concentrarsi sullo
scambio (dove il potere lavora indirettamente), non sorprende che la prima
teoria dell’utile marginale fu presto abbandonata. La continua discussione
sull’”utile” nei libri di testo d’economia è di natura principalmente
euristica. Prima di tutto, gli economisti neo-classici utilizzarono l’“utile”
misurabile (cardinale) - cioè lo stesso “utile” per tutti - ma ciò
causò problemi politici (poiché questo implicava che l’utile
cardinale di un euro extra nelle mani di una persona povera avesse notevolmente
più valore della perdita di un euro da parte di una persona ricca
e questo giustificò ovviamente le politiche di re-distribuzione).
Quando si prese coscienza di ciò (insieme all’ovvio fatto che l’utile
cardinale fosse impossibile da mettere in pratica), l’utile divenne “ordinale”
(l’utile divenne una cosa individuale e quindi non misurabile). In seguito,
anche l’utile ordinale fu abbandonato perché le varie politiche interpersonali
non erano confrontabili e quindi i prezzi oggettivi avrebbero benissimo potuto
derivare da queste ultime (e questa principalmente fu l’argomentazione di
Adam Smith, che lo portò a sviluppare una teoria del valore sul
lavoro
più che sull’utile, o valore d’uso). Con l’abbandono dell’utile “ordinale”,
l’economia principale tralasciò persino di pensare in termini di preferenze
individuali. Ciò significa che la moderna economia non possiede una
vera e propria teoria sul valore e senza di essa, l’affermazione che i metodi
del capitalismo faranno bene a tutti o che le sue produzioni soddisferanno
le preferenze individuali non hanno alcun fondamento razionale.
La teoria dell’utile fu gradualmente spogliata di tutto il suo potere e ridotta
da utile cardinale a ordinale e quindi, da utile ordinale a “preferenza rivelata”.
Questa ritirata dall’utile cardinale (pura fantasia) ad utilità ordinale
(distinzioni senza differenza) a “preferenze rivelate” (tautologia nuda e
cruda – i consumatori massimizzano l’utilità totale come “rivelato”
dalle strutture di spesa, o i consumatori massimizzano ciò che loro
stessi massimizzano) fu una delle tante ritirate messe in atto da parecchie
marginaliste una volta che le loro contraddizioni furono esposte alla luce
di semplici ma penetranti domande.
Mentre esssi ignorano la teoria sull’“utile” del valore, la maggior parte
delle economie principali accetta le nozioni di “competizione perfetta” e
dell’ “equilibrio generale” walrasiano che già facevano parte di questa
teoria. Il marginalismo cercò di mostrare come, usando le parole di
Paul Ormerod:
“…alla luce di alcuni presupposti, il sistema di libero
mercato avrebbe portato ad un’allocazione di un dato insieme di risorse considerate
in un certo e ristretto senso, ottimali dal punto di vista di ogni individuo
e compagnia nell’ambito economico”. [
The death of economics, p.
45] Questo è quanto dimostrò l’equilibrio generale walrasiano.
In ogni modo, tali presupposti richiesero delle verifiche sul fatto di essere
qualcosa di non-realistico (per minimizzare). Come ancora fa notare Ormerod:
“…non si può enfatizzare in maniera così
eccessiva il fatto che…il modello competitivo sia lungi dall’essere una rappresentazione
razionale di cosa in pratica sia l’economia
occidentale …E’ una farsa. Il mondo non è costituito da, per esempio,
un enorme numero di piccole industrie, nessuna delle quali
in grado di avere un certo controllo sul mercato…La teoria introdotta dalla
rivoluzione marginalista si basava su una serie di postulati
riguardanti il comportamento umano
e il funzionamento dell’economia. Fu piuttosto un esperimento di puro pensiero,
con una assai piccola :
razionalizzazione empirica dei presupposti.”
Infatti,
“il peso dell’evidenza” è
“contro la validità
del modello di generale equilibrio competitivo come rappresentazione plausibile
della realtà”. [
Op. Cit., p. 48, p. 62] Per esempio, oligopolio
e competizione imperfetta sono state astratte da tutto ciò in modo
tale che questa teoria non consenta di rispondere a domande interessanti,
rivolte all’asimmetria dell’informazione sul potere di negoziazione tra agenti
economici, che ciò sia dovuto o no alla misura, all’organizzazione
o ancora a deficienze sociali o qualsiasi altra cosa. Nel mondo reale, l’oligopolio
è cosa comune e l’asimmetria delle informazioni e del potere di negoziazione,
è la norma. Astrarsi da queste cose significa presentare una visione
economica agli antipodi della realtà quotidiana che le persone vivono
e pertanto, si può solo proporre soluzioni che danneggiano coloro
con un più debole potere di negoziazione e in possesso di informazione
alcuna. Inoltre, il modello è posto all’interno di un ambiente senza
tempo, con persone e compagnie che lavorano in un mondo in cui hanno una
conoscenza e un livello di informazione perfetti riguardo all’andamento dei
mercati. Un mondo senza futuro e quindi senza incertezze (ogni tentativo
di includere il tempo e quindi incertezze, garantirebbe la perdita da parte
di questo modello, della sua validità). Tale modello non può
contare in pieno né in parte sulla realtà, perché gli
agenti economici non conoscono veramente cose come i prezzi futuri, la futura
accessibilità di beni, i rinnovamenti delle tecniche di produzione
o le tipologie di mercato che si susseguiranno in futuro, ecc. Invece, per
ottenere i suoi risultati – prove sulle reali condizioni d’equilibrio – il
modello presuppone che coloro che si muovono in determinati ambiti economici,
abbiano perfetta conoscenza almeno delle probabilità di tutte le possibili
scappatoie per l’economia. La verità nella realtà di tutti
i giorni è il contrario.
In questo mondo perfetto, senza tempo, il capitalismo di “libero mercato”
si dimostrerà essere un efficiente metodo di allocazione delle risorse
e tutti i mercati saranno liberi da qualsiasi ostacolo. Almeno in parte,
la Teoria Generale dell’Equilibrio appare come una risposta astratta ad una
altrettanto astratta ma importante domanda: può un’economia basarsi
solo sui segnali di prezzo dei mercati, in modo da poter disciplinare l’informazione?
La risposta dell’equilibrio generale è chiara e definitiva – si può
descrivere una tal economia attraverso queste proprietà. In ogni modo,
con ciò, non è stata effettivamente descritta una vera e propria
economia e visti i presupposti, un’economia di questo genere non potrebbe
esistere. Si è cercato di risponderen ad una domanda teoretica utilizzando
un certo grado di discernimento intellettuale, ma si tratta di una risposta
che non ha niente a che vedere con la realtà. E questa di solito è
denominata come “alta teoria” dell’equilibrio. Ovviamente, molti economisti
trattano il mondo reale come un caso speciale.
La Teoria Generale dell’Equilibrio analizza uno stato economico che non si
ha ragione di supporre che possa esistere o, per lo meno, possa non essere
mai esistito. Di conseguenza, si tratta di un’astrazione che non ha un’applicabilità
discernibile, né rilevanza nei confronti del mondo allo stato attuale.
Affermare che essa possa aiutare a comprendere il mondo vero è quanto
mai ridicolo. Dato che la maggioranza delle teorie economiche inizia con
assiomi e presupposti, usando una metodologia deduttiva per arrivare a determinate
conclusioni, la sua utilità nello scoprire come il mondo lavora, è
limitata. All’inizio, come si vede nella sezione F.1.3, il metodo deduttivo
nasce come metodo
pre-scientifico. Secondariamente, gli assiomi e
i presupposti possono essere considerati falsi (perché si possiedono
prove empiriche trascurabili) e le conclusioni dei modelli deduttivi possono
avere rilevanza solo per la struttura di questi modelli, che non hanno niente
a che fare con la realtà economica. Mentre è vero che esistono
alcuni problemi intellettuali del tutto immaginari per i quali il modello
di equilibrio generale è predisposto in modo da procurare risposte
ben precise (come del resto qualsiasi cosa potrebbe), in pratica ciò
significa che se s’insistesse nell’analizzare un problema che non abbia equivalenti
o soluzioni pratiche, allora potrebbe essere appropriato utilizzare un modello
che a sua volta, non abbia applicazione alcuna nel mondo reale. I modelli
forniti per rispondere a problemi immaginari saranno sempre poco adatti a
risolvere i problemi pratici dell’economia nel mondo reale o anche dare qualche
accenno su come il capitalismo lavori e si sviluppi. Per citare il noto economista
di sinistra Nicholas Kaldor:
“La teoria dell’equilibrio ha raggiunto lo
stadio in cui il teorico puro ha dimostrato con successo (sebbene, forse,
inavvertitamente) che le principali implicazioni di questa teoria non possono
essere messe in pratica, ma non ha ancora ottenuto di passare il suo messaggio
tra le mani dello scrittore di libri di testo e quindi nelle aule scolastiche.”
Non ci si meraviglia quindi, che la sua
“obiezione principale alla teoria
dell’equilibrio generale non si basa sul fatto che essa sia astratta – tutta
la teoria è astratta e così deve essere perché non ci
possono essere analisi senza astrazione – ma che parta dal tipo sbagliato
di astrazioni e quindi, da un ‘paradigma’ ingannevole…rispetto a come il
mondo è in realtà; dà una falsa impressione della natura
e della maniera in cui operano le forze economiche” . [
The Essential
Kaldor, p. 377 and p. 399]
Esiste una nozione neo-classica più realistica dell’equilibrio chiamata
teoria dell’equilibrio “parziale” (sviluppata da Alfred Marshall). Il “tempo”
è incluso dalla nozione d’equilibrio di Alfred Marshall esistente
in differenti andamenti o corsi. I concetti più importanti di Marshall
riguardano l’equilibrio a “lungo corso” e l’equilibrio a “breve corso”. In
ogni caso, quest’altro rappresenta una semplice comparazione tra uno Stato
statico (ideale) e un altro. Marshall analizzò i mercati “uno per
volta” (da qui l’espressione “equilibrio parziale”) e “lasciando il resto
immutato” – assumendo a priori che l’economia rimanente non fosse cambiata!
Questa teoria confonde la comparazione delle posizioni d’equilibrio alternative
possibili, con l’analisi di un processo che prosegue attraverso il tempo,
cioè eventi storici introdotti in un quadro senza tempo. In altre
parole il tempo, così come lo conosce il mondo, non esiste. Nel mondo
reale, ogni aggiustamento necessita di un certo periodo per completarsi e
altri eventi possono in qualche modo mutare quell’equilibrio. Il processo
di movimento ha effetto sulla destinazione e quindi, non si ha qualcosa come
una posizione d’equilibrio a lungo corso che esista indipendentemente dalla
rotta seguita dall’economia. Le affermazioni di Marshall riguardo “un mercato
alla volta” e “lasciare il resto immutato”, assicurano che il concetto di
tempo rimanga estraneo all’equilibrio “parziale” così come all’equilibrio
“generale”.
Così, tanta economia principale è basata su teorie che hanno
poca o nessuna relazione con la realtà. Lo scopo della teoria dell’utile
marginale era mostrare che il capitalismo fosse efficiente e che tutti ne
potessero trarre beneficio (massimizzare l’utile, nel senso limitato imposto
dall’attuale disponibilità di determinati beni sul mercato, ovviamente).
Questo era quanto la competizione perfetta diceva di voler dimostrare. Ma
la competizione perfetta è impossibile. E poiché la competizione
perfetta è in sé un presupposto dell’utile marginale, dovremmo
aspettarci che la teoria sarebbe dovuta essere abbandonata a questo punto.
Invece, questa contraddizione fu prontamente nascosta sotto al tappeto.
Inoltre, come molte religioni, l’economia neo-classica non può essere
testata scientificamente. Questo è dovuto al fatto che il modello
di competizione perfetta non produce, in ogni caso, predizioni falsificabili.
Come dicono Martin Hollis e Edward Nell:
“La sola idea di testare l’analisi marginale appare, invero,
assurda. Che cosa potrebbe mai rivelare un test? I risultati negativi dimostrano
solo che il mercato è difettoso.
Possono essere date varie interpretazioni…Ma un’unica interpretazione non
è possibile – in quanto l’analisi marginale può
benissimo essere
confutata…Generalizzando, le dichiarazioni dei marginalisti sull’effetto
che, se le assunzioni sulla micro-economia positiva si
avverassero allora per forza di cose accadrebbe questo e quello, sono da
considerarsi solamente tautologia e le conseguenze semplicemente deduzioni
logiche del tutto personali…il loro
modello non è verificabile". [
Rational economic man, p.
34]
In altre parole, se una predizione marginalista non si avvera, tutto quello
che possiamo ricavarne da un’eventuale verifica o test di mercato è
che, semplicemente, non si era in presenza di perfetta competizione. La teoria
non può essere smentita, non importa quante prove si posseggano contro
di essa. Inoltre, ci sono altre tecniche utili a difendere l’ideologia neo-classica
dalla prova empirica. Per esempio, l’economia neo-classica afferma che la
produzione sia segnata da regolari diminuzioni di rendita su scala. Ogni
prova scientifica che indichi diversamente, potrebbe essere rigettata affermando
che la scala presa in considerazione non sia grande abbastanza –
alla
fine le rendite subiranno un decremento. Analogamente, la definizione
“a lungo corso” può fare miracoli per l’ideologia. Solo nel caso che
un tanto decantato buon risultato - ottenuto grazie ad una determinata linea
di condotta economica - non si materializzasse per nessuno eccetto che per
la classe dirigente, allora più che incolpare l’ideologia, la scala
temporale può rappresentare una via d’uscita (nel lungo corso, le
cose andranno al meglio – sfortunatamente per la maggioranza, il lungo corso
non è ancora arrivato, ma lo farà; fino ad allora dovrete fare
sacrifici per i vostri guadagni futuri …). Ovviamente, con questo tipo di
“analisi” si può dimostrare qualsiasi cosa.
Non ci si stupisce, quindi, che Nicholas Kaldor affermò quanto segue:
“La teoria dell’equilibrio walrasiana [cioè
generale] fu un sistema intellettuale altamente sviluppato, molto raffinato
ed elaborato da economisti
matematici fin dalla Seconda Guerra Mondiale – un esperimento intellettuale…Ma
non costituisce un’ipotesi scientifica, come la teoria della relatività
di Einstein o la legge gravitazionale di Newton, dato
che le sue assunzioni base sono assiomatiche, non empiriche e non si sono
proposti metodi
attraverso i quali la validità o la rilevanza dei
suoi risultati potessero essere esaminate. I suoi presupposti fanno riferimento
alla realtà nelle sue
implicazioni, ma questi non sono fondati su una diretta
osservazione e secondo tutti i praticanti della teoria a ogni livello, esse
non possono essere
contraddette da osservazioni o esperimenti.” [
Op. Cit., p. 416]
Ad ogni modo il marginalismo, nonostante questi microscopici problemi, costituì
un’utile funzione ideologica. Rimosse l’evidenza dello sfruttamento ad opera
del sistema, giustificò la “libertà” data ai/alle grandi imprenditori/imprenditrici
di operare come volessero, e rappresentò per i proprietari delle fabbriche
un mondo in perfetta armonia : ecco perché essa viene generalmente
accettata. In altre parole, giustificò la mentalità del “ciò
che è profittevole è anche giusto” e rimosse dall’economia
la politica e l’etica. Inoltre, la teoria della “competizione perfetta” (tralasciando
il fatto che sia di impossibile applicazione), permise agli economisti di
dipingere il capitalismo come ottimale ed efficiente al fine di soddisfare
tutti i bisogni e i desideri individuali. Ciò è importante,
perché senza il presupposto dell’equilibrio, le transazioni di mercato
non necessiterebbero del profitto. Infatti, questo comporterebbe una sorta
di tirannia del più fortunato nei confronti del meno fortunato, con
la maggioranza costretta a scegliere il male minore tra una serie di tristi
opzioni. Ovviamente,
secondo le affermazioni dell’equilibrio, la realtà
deve essere ignorata. Quindi, le economie capitalistiche stanno tra l’incudine
e il martello.
Dopotutto, il mondo presupposto dall’economia neo-classica non è quello
in cui viviamo veramente e quindi applicare la teoria appare sia erroneo
sia (solitamente) disastroso (almeno per i non abbienti).
Certi economisti a favore dell’economia capitalista di “libero mercato” (come
quelli della “scuola austriaca” di destra) rifiutano completamente la nozione
di equilibrio e abbracciano un modello dinamico di capitalismo. Anche se
è di gran lunga più realistico della tipica teoria neo-classica,
questo metodo abbandona la possibilità di dimostrare che i prodotti
di mercato siano in ogni caso una realizzazione delle preferenze individuali
per espressione delle loro stesse interazioni. Non si ha modo di stabilire
l’agente stabilizzatore nel complesso dell’attività imprenditoriale
o il suo presunto vantaggio economico. Infatti, l’attività imprenditoriale
tende a disgregare i mercati (in particolare i mercati costituiti da forza
lavoro) portandoli in qualche maniera lontano dall’equilibrio (cioè
il pieno utilizzo di risorse accessibili) piuttosto che avvicinarli. In altre
parole, simili processi dinamici porterebbero ad una vera e propria divergenza
anziché a una convergenza di comportamento e di conseguenza, si otterrebbe
un incremento della disoccupazione, una riduzione nella
qualità
della possibilità di scelta disponibile da cui massimizzare il
proprio “utile” e così via. Un sistema dinamico non necessita di autocorrezione,
particolarmente nell’ambito del mercato del lavoro, nemmeno mostra segni
di autoequilibrio (cioè l’essere soggetto al ciclo affaristico). Ironicamente,
gli/le economist* di questa scuola spesso sostengono che mentre l’equilibrio
non possa essere ottenuto, il mercato del lavoro sperimenterà un completo
impiego sotto l’egida del “libero mercato” o del “capitalismo puro”. Che
questa condizione manifesti equilibrio, pare non susciti il minimo interesse.
Così, troviamo Von Hayek, per esempio, il quale sostiene che:
“…a
causa della disoccupazione…si verifica una deviazione dei prezzi e dei salari
dalla loro posizione di equilibrio che si stabilizzerebbe da sé con
libero mercato e moneta stabile” e che:
“…la deviazione dei prezzi
attuali dalla posizione di equilibrio…è la causa dell’impossibilità
di vendere parte del lavoro fornito”. [
New Studies, p. 201] Pertanto,
assistiamo al solito abbraccio tra teoria dell’equilibrio al fine di difendere
il capitalismo contro il male che esso stesso crea, persino da coloro che
affermano di saperne di più. Si tratta forse di un tipico caso di
espediente politico che consentirebbe ai sostenitori ideologici del capitalismo
di libero mercato di attaccare le nozioni di equilibrio una volta che contrastino
nettamente con la realtà, anche se pur sempre in grado di rientrare
in questa sorta di equilibrio durante l’attacco, come i sindacati, i programmi
di (Stato) sociale e altri schemi che sostengono di voler aiutare la classe
lavoratrice contro i soprusi del mercato capitalista?
Quest* sostenitori/sostenitrici del capitalismo esaltano la “libertà”
– la libertà degli individui di decidere con la propria testa. E chi
può negare il fatto che gli individui, quando liberi di scegliere,
possano optare di decidere al meglio per se stess*? Comunque, quello che
tutto questo agognare per la libertà individuale ignora, è
il fatto che il capitalismo spesso riduca le possibilità di scegliere
tra due (o più) mali per via delle disuguaglianze che esso stesso
crea (perciò, ci riferiamo alla
qualità delle decisioni
per noi disponibili). Le lavoratrici che accettano un impiego sottopagato
e in nero, in questo modo effettivamente “massimizzano” il loro “utile” –
dopotutto, quest’eventualità è sempre meglio che morire di
fame – ma solo un/una ideolog* accecat* dalle economie capitalistiche potrà
pensare che queste lavoratrici siano libere o che le loro decisioni vengano
prese grazie a costrizioni di carattere economico. In altre parole, l’idealizzazione
della libertà attraverso il mercato, ignora completamente il fatto
che questa libertà possa essere, per un gran numero di persone, parecchio
limitata nella sua capacità di comprensione. Per di più, la
libertà associata al capitalismo, per quanto il mercato vada avanti,
diventa poco più importante della libertà di scegliere il proprio
padrone. In tutto e per tutto, questa difesa del capitalismo non tiene conto
dell’esistenza di disuguaglianze economiche (e quindi disuguaglianze di potere)
che infrangono la libertà e le opportunità di altr* (se ne
discute in maniera più approfondita nella sezione F.3.1). Disuguaglianze
sociali garantiscono solamente che il popolo finisca col “volere ciò
che ottiene” invece che “ottenere ciò che vuole”, semplicemente perché
deve adeguare le sue aspettative e il suo comportamento in modo da rientrare
perfettamente in scopi e metodi determinati dalle concentrazioni di potere
economico. In particolare, questo è il caso tipico riscontrabile nel
mercato del lavoro, in cui chi si occupa di vendere forza lavoro, si trova
in svantaggio rispetto a chi compra forza lavoro per via della disoccupazione
(vedi le sezioni B.4.3; C.7 e F.10.2).
Tutto questo ci porta ad un altro problema associato al marginalismo, cioè
la distribuzione delle risorse all’interno della società. La domanda
di mercato viene spesso discussa in termini di gusti personali, non dal punto
di vista della distribuzione del potere d’acquisto, richiesto allo scopo
di soddisfare i gusti di ciascun*. Così, come metodo di determinazione
dei prezzi, l’utile marginale non tiene conto delle differenze insite nel
potere d’acquisto ed esistenti presso i vari individui, ma presume circa
una sorta di finzione legalizzata nell’associare, idealmente, corporazioni
e persone fisiche (la distribuzione del reddito viene considerata quasi come
un regalo). Chi possiede molto denaro potrà massimizzare le proprie
soddisfazioni assai più semplicemente di chi, al contrario, di denaro
ne possiede poco. E poi, di sicuro, queste persone facoltose potrebbero sempre
dare una mano a quelle più povere. Se, come asseriscono molt* liberist*
di destra, capitalismo è uguale a “un euro – un voto”, appare ovvio
come questi loro valori possano essere riflessi nell’ambito del mercato.
E’ per questo che gli economisti ortodossi partono dal comodo presupposto
di una “dovuta distribuzione di reddito”, quando cercano di mostrare al meglio
che il mercato si basi principalmente sull’allocazione delle risorse.
In pratica, per il capitalismo, non è questione di “utile” e di com’è
massimizzato, piuttosto è questione di utile “effettivo” (solitamente
chiamata “domanda effettiva”) – ovvero, l’utile impastato con il denaro.
Il mercato capitalista (o meglio, la classe dirigente in un simile sistema)
posiziona determinati valori (prezzi) sulle cose secondo un’effettiva domanda
di queste ultime. La “domanda effettiva” corrisponde ai desideri della gente
valutati dalla loro capacità di permetterseli. Per questo, il mercato
considera i desideri delle persone benestanti assai più importanti
di quelli dei meno abbienti. Quindi, il capitalismo c’inchioda alla propensione
al consumo, facendo in modo che si renda impossibile soddisfare l’”utile”
di coloro che hanno maggior bisogno a favore di quei pochi che invece godono
di buona salute e possono spendere. Ciò non significa che non si possa
venir incontro alle necessità dei più (solitamente, ma non
sempre, anche questi sono di un certo livello), piuttosto indica che per
ogni data risorsa, chi possiede più denaro taglia fuori chi ne possiede
meno – senza curarsi del costo umano. Come disse l’economista Von Hayek,
schierato a favore del libero mercato capitalista:
“L’ordine spontaneo
prodotto dal mercato, non garantisce che ciò che interessa all’opinione
pubblica come bisogni primari abbia sempre la precedenza rispetto a quelli
considerati secondari o meno importanti”. [
The essential Hayek,
p.258] Questa è giusto una comoda maniera di riferirsi al processo
per cui i/le miliardari/e siano in grado di costruire sempre nuove ville
mentre migliaia di senzatetto vivono in vere e proprie baraccopoli, nutrano
i loro animali domestici con cibi succulenti e raffinati mentre tanti Esseri
Umani muoiono di fame o quando il cosiddetto agri-business procuri grana
ai mercati esteri mentre i nullatenenti crepano di stenti (vedi anche sezione
I.4.5). Non c’è bisogno di aggiungere che le economie marginaliste
giustificano il potere del mercato e i suoi risultati.
Riassumendo, le economie di tipo neo-classico mostrano la loro inclinazione
verso un sistema irreale che si traduce in asserzioni riguardo il mondo in
cui viviamo dal momento che parecchie persone accettano il fatto che la realtà
rifletta il modello (anziché il contrario come dovrebbe essere, ovviamente
questo non vale per la teoria neo-classica). Per di più, peggio, le
decisioni sulla linea di condotta da adottare in materia economica, verrebbero
promulgate in base ad un modello per nulla attinente con la realtà
– con conseguenti risultati disastrosi (per esempio, ascesa e crollo del
monetarismo, vedi sezione C.8). Ancora, tutto questo giustifica (quando non
ignora) le strutture gerarchiche e le grandi disuguaglianze nella ricchezza
e nel potere all’interno della società, una vera e propria beffa ai
danni della libertà individuale (per ulteriori dettagli vedi sezione
F.3.1). Vengono avvantaggiati gli interessi di coloro che possiedono denaro
e potere nella società moderna così come si aspira a un sistema
commerciale distruttore di anime e globalmente inquinante, deprecando completamente
l’importanza dell’estetica, dell’umanistico e quindi, dei fattori propriamente
umani nel prendere decisioni di carattere economico. L’intuizione sul fatto
che debba venire prima la gente rispetto al profitto (non importa se debba
addirittura sostituirlo), rende bene l’idea. Partendo da una falsa premessa,
il marginalismo conclude negando i suoi stessi ideali stabiliti in principio
– piuttosto che essere l’economia della libertà individuale, si trasforma
in restrizioni giustificate e negazione della libertà.
Quindi, se la Teoria Generale dell’Equilibrio è fallace, cosa determina
i prezzi? Ovviamente, per farla breve, i prezzi sono pesantemente influenzati
da domanda e offerta. Se la domanda eccede l’offerta, i prezzi salgono e
vice versa. Questo realismo pragmatico, comunque, non fuga nessun dubbio.
La risposta si trova nella produzione e nelle relazioni sociali create al
suo interno. Ma di questo se ne discute meglio nella prossima sezione.
C.1.2
Quindi, cosa determina il prezzo?
La
chiave per la comprensione dei prezzi sta nel capire che la produzione in un
sistema capitalistico si esplica in base al suo “Scopo primario...in modo
da incrementare i profitti dei capitalisti.” [Peter Kropotkin, Kropotkin’s
Revolutionary Pamphlets, p. 55] In altre parole, il profitto è la forza
motrice del capitalismo. Una volta presa coscienza di questo aspetto e delle sue
eventuali implicazioni, la determinazione del prezzo appare semplice e le
dinamiche del sistema capitalista divengono più chiare. Il prezzo di un
prodotto capitalista tenderà maggiormente al suo costo di produzione
nell’ambito di un libero mercato, essendo il prezzo di produzione ottenuto
dalla somma del costo di produzione più la probabilità dell’indice di
profitto (probabilità dell’indice di profitto che, dovremmo far notare,
dipende dalle rispettive capacità di introduzione sul mercato, vedi più in
basso).
Consumatori/consumatrici,
nel fare la spesa, si confrontano con vari prezzi e varie offerte. Il prezzo
determina la domanda, che è basata sul valore d’uso del prodotto nei
confronti della consumatrice e delle rispettive situazioni finanziarie. Nel caso
l’offerta eccedesse la domanda, la prima si ridurrà (anche nell’eventualità
che le industrie riducano la produzione o addirittura chiudano o ancora decidano
di spostare i loro capitali altrove, su mercati più vantaggiosi dal punto di
vista del profitto) fino a che non verrà raggiunto un adeguato livello del tasso
di profitto (sebbene ci sentiamo di sottolineare il fatto che le
decisioni sugli investimenti siano difficili da far muovere in senso contrario e
ciò significa che la mobilità può essere ridotta causando problemi di
assestamento – come la disoccupazione – nell’ambito dell’economia). Il tasso
di profitto equivale all’ammontare del profitto diviso dal totale del
capitale investito (cioè capitale costante – nel contesto della produzione
– e capitale variabile – salari e schiavitù). Se il dato prezzo genera
verso l’alto livelli di profitto (e quindi tassi di profitto), allora si
cercherà di spostare il capitale da aree povere ad aree potenzialmente ricche e
in grado di produrre profitto, aumentando l’offerta e la competizione,
riducendo, perciò, il prezzo fino a che un livello del tasso di profitto verrà
nuovamente prodotto (noi seguitiamo ad insistere si prova a fare una cosa
del genere, in quanto parecchi mercati possiedono ampie barriere da
penetrare che in qualche modo limitano la mobilità di capitali e consentono al
grosso giro d’affari di sfondare il tetto dei tassi di profitto – vedi
sezione C.4). Quindi, se il prezzo all’interno della domanda risulta eccedere
l’offerta, questo può causare un incremento del prezzo a breve termine e
questi profitti extra fanno da segnale di partenza ad altr* capitalist* al fine
di potersi muovere all’interno del mercato. L’offerta di un prodotto tenderà
a stabilizzarsi a qualsiasi livello in cui ci sarà domanda per questo stesso
prodotto e al prezzo che determina i livelli del tasso di profitto (considerando
questo livello dipendente dal “grado di monopolio” interno al mercato
– vedi sezione C.5). Questo livello di profitto indica che i fornitori non
sono incentivati a spostare capitali dentro o fuori il mercato. Ogni cambiamento
di questo livello in un livello a lungo termine, dipende dai cambiamenti
effettuati sul prezzo di produzione del bene (prezzi di produzione più bassi,
significano profitti più elevati che, a loro volta, indicano ad altr*
capitalist* che il dato mercato può essere fonte di guadagno e terreno fertile
per nuovi investimenti).
Come
si può vedere, questa teoria (spesso chiamata la Teoria del Valore del
Lavoro - o più semplicemente LTV) non nega che i consumatori valutino
soggettivamente i beni e che questa valutazione possa avere effetti a breve
termine sul prezzo (il quale determina offerta e domanda). Molt* economist* del
giro grosso, considerat* “liberist*” di destra, affermano che la teoria del
valore del lavoro esenti automaticamente la domanda dalla determinazione del
prezzo. Un buon esempio è rappresentato dalla “torta di fango” – se
questa necessita della stessa quantità di lavoro utile a produrre una torta di
mele, si domandano, avrà allora sicuramente lo stesso valore (prezzo)? Queste
affermazioni sono del tutto incongruenti, in quanto la LTV si basa su offerta e
domanda e cerca di spiegare le dinamiche dei prezzi e così riconosce (o
piuttosto, si basa sul fatto accertato) che questi individui prendano le
loro decisioni basandosi sui loro bisogni soggettivi (per dirla con Proudhon: “L’utile
è la condizione necessaria per lo scambio.” [System of economical
contradictions, p. 77] Ciò che la LTV cerca di spiegare è il prezzo
(quindi, il valore di scambio) e un prodotto può avere un valore
di scambio solo se altr* lo desiderano (oppure se per loro rappresenta un valore
d’uso e dunque cercano di scambiare denaro o beni contro di
esso). Pertanto, l’esempio della “torta di fango” non è altro che un
comune argomento da persone terra-terra – la “torta di fango” non ha alcun
valore di scambio in quanto non possiede nessun valore d’uso per le persone e
non è soggetta a scambio. In altre parole, se un prodotto non può esser
scambiato, vuol dire che non ha un suo valore di scambio (quindi,
non ha nessun prezzo). Come disse Proudhon, “niente è scambiabile se non
possiede utilità alcuna.” [Op.Cit., p. 85]
La
cosiddetta LTV si basa sul principio per cui senza lavoro niente possa essere
prodotto e inoltre, sostiene il fatto che si debba produrre qualcosa certamente
prima di poterla scambiare (altrimenti la si può rubare, come nel caso delle
terre). Così come l’utile (cioè valore d’uso) di un prodotto non può
essere misurato, il lavoro appare come la base stessa del valore (di scambio).
La LTV si basa sui bisogni effettivi della produzione e riconosce il
ruolo-chiave giocato dal lavoro (direttamente e indirettamente) nell’ambito
della creazione di beni di consumo. Comunque, ciò non significa che il valore
esista indipendentemente dalla domanda. Lungi da questo – come abbiamo visto,
in modo da avere un valore di scambio, una merce deve necessariamente essere
desiderata da qualcun* altr* oltre che dal suo creatore (o dal/dalla capitalist*
che stipendia il creatore di questa merce), deve appunto, possedere un valore
d’uso per essi (in altre parole, viene valutato soggettivamente da questi
individui). Pertanto, i/le lavoratori/lavoratrici producono ciò che possiede un
valore (d’uso) come determinato dalla domanda e i costi di produzione inclusi
nel creare questo valore d’uso agevolano la determinazione del prezzo (il suo
valore di scambio) assieme al livello di profitto ottenibile.
Ancora,
la LTV include l’elemento di verità della teoria “soggettiva” proprio
nello stesso istante in cui demolisce i suoi miti. Per cui la STV, alla fine,
stabilisce giusto che “...i prezzi siano determinati dall’utile
marginale; utile marginale che viene misurato dai prezzi. I prezzi...sono né più
né meno che prezzi. I marginalisti, una volta iniziata la loro ricerca nel
campo della soggettività, procedono camminando in circolo...”. [Allan
Engler, Apostles of Greed, p. 27] La LTV, d’altro canto, si basa sul
fatto oggettivo della produzione e dei costi (definitivamente espressa in
tempo-lavoro) che ne derivano (“L’assoluto valore di una cosa, dunque, è
costituito dal suo costo in tempo e spesa...” [Proudhon, What is
property?, p. 145]). Le variazioni all’interno dell’offerta e della
domanda (cioè nei prezzi di mercato) oscillano lungo questo “valore
assoluto” (detto anche prezzo di produzione) e quindi è il costo di
produzione di un bene che alla fine regola il suo prezzo, non l’offerta e
nemmeno la domanda (che solo temporaneamente influiscono sul suo prezzo di
mercato).
Mentre
la cosiddetta STV è comoda per poter descrivere il prezzo delle opere d’arte
(e dovremmo notare che anche la LTV può provvedere ad una spiegazione in questo
senso), esiste un piccolo punto in cui una teoria economica ignora la natura di
gran parte dell’attività economica all’interno della società. Quello che
la teoria del valore del lavoro spiega, riguarda ciò che sta al di sotto della
domanda e dell’offerta, cosa effettivamente determina il prezzo sotto il
capitalismo. Essa riconosce l’oggettività dei vari prezzi e offerte che
consumatori e consumatrici si trovano a fronteggiare e indicano in che modo il
consumo (“valutazioni soggettive”) influisca sui loro stessi movimenti
quotidiani. Spiega perché un certo bene vende ad un determinato prezzo invece
che ad un altro – qualcosa che la teoria soggettiva non fa veramente. Per
quale motivo coloro che propongono un’offerta di beni dovrebbero “alterare
il loro comportamento” all’interno del mercato se quest’ultimo è
puramente basato su “valutazioni soggettive”? Ci deve pur essere
un’indicazione oggettiva che guidi le loro azioni e tutto questo si può
ritrovare dentro la realtà della produzione nel capitalismo. Citando ancora
Proudhon: “Se offerta e domanda da sole determinano un valore, in che modo
possiamo noi affermare cosa sia un eccesso e cosa una sufficienza? Se né costi,
né prezzi di mercato e né salari possono essere matematicamente determinati,
com’è possibile concepire un surplus, un profitto?” [System of
economical contraddictions, p. 114] Pertanto, “...dire...che offerta e
domanda siano la legge dell’offerta e della domanda, non è una spiegazione
della pratica generale, bensì un’autentica dichiarazione di assurdità.”
[Op. Cit., p. 91] Così, la teoria del valore del lavoro riflette assai
più accuratamente la realtà dei fatti: ossìa, dimostra che che per un normale
bene, i prezzi esistono, così come nell’offerta, già prima che intervengano
le valutazioni soggettive e inoltre, che il capitalismo sia basato sulla
produzione di profitto piuttosto che su un’astratta soddisfazione delle reali
necessità dei consumatori.
Si
potrebbe anche dire che questa teoria dei “prezzi di produzione”
assomigli molto alla teoria neo-classica dell’”equilibrio parziale”. Per
certi versi questo può esser vero. Marshall basilarmente sintetizzò questa
teoria sia dalla teoria dell’utile marginale che dalla vecchia teoria dei
“costi di produzione” a cui J.S. Mills si ispirò per la formulazione della
LTV. Comunque, le differenze sono notevoli. Prima di tutto, la LTV non entra in
ragionamenti circolari associati a tentativi di estrapolare l’utile dal prezzo
come si è indicato più in alto. Secondo, afferma che pigione, profitto ed
interesse rappresentino lavoro insoluto da parte dei/delle
lavoratori/lavoratrici piuttosto che un “ritorno” nei confronti dei padroni
per il solo fatto di esser tali. Terzo, si tratta di un sistema dinamico
i cui prezzi di produzione sono soggetti a mutamenti nel momento in cui si
prendono decisioni di carattere economico. Quarto, si può facilmente rigettare
l’idea di una “competizione perfetta” e dare resoconto di un’economia
costellata da barriere da attraversare e difficile da riversarci decisioni sugli
investimenti. E, infine, i mercati del lavoro non necessitano di particolare
chiarezza durante la cosidetta grande corsa verso il profitto. Dato che le
economie moderne hanno smesso di cercare di misurare l’utile, significa che in
pratica (e non secondo retorica), il modello di teoria neo-classica ha rigettato
la teoria dell’utile marginale ritornando, basilarmente, al classico approccio
(LTV), ma con differenze importanti che distruggono le versioni primarie del suo
lato critico e dalla sua natura dinamica.
Non
c’è bisogno di aggiungere che la LTV assolutamente non ignora beni di una
certo valore esistenti in natura come gemme, cibi esotici e acqua. La Natura
rappresenta una vasta fonte di risorse di valori d’uso di cui l’Umanità
deve fare utilizzo in modo da poter produrre altri, differenti, valori d’uso.
O se meglio vi aggrada: la Terra e il lavoro sono rispettivamente madre e padre
della ricchezza. A volte si afferma che la teoria del valore del lavoro implichi
che beni naturali di un certo valore non dovrebbero avere un prezzo in quanto
non si ha necessità di impiegare lavoro per produrli. Questo è, propriamente,
falso. Per esempio, alle gemme grezze si può sicuramente dare un valore in
quanto si mette in opera una grande mole di lavoro per trovarle. Se trovarle
fosse così semplice come per la sabbia, le suddette gemme sarebbero
particolarmente economiche. Allo stesso modo, i cibi esotici e/o la selvaggina
così come l’acqua, posseggono un valore basato sulla quantità di lavoro
impiegata per trovarle, raccoglierle, trasformarle all’interno di una data
area (per esempio, l’acqua in zone particolarmente aride varà un valore
superiore rispetto ad una zona ricca di laghi).
La
stessa logica si può applicare anche ad altri beni naturali. Se virtualmente
non si fa alcuno sforzo per ottenere questi beni - come l’aria – dunque
dovrebbero avere un piccolissimo, se non addirittura nullo, valore di scambio.
Comunque, più ci si sforza di trovare, raccogliere, purificare e poi
eventualmente trasformare questi beni naturali in modo da poterli utilizzare,
maggiore valore di scambio avranno in relazione alle altre merci (cioè, i loro
prezzi di produzione saranno più elevati, cosa che porterà ovviamente, a un più
alto prezzo di mercato).
Il
tentativo di ignorare la produzione implica che la STV scaturisce dal desiderio
di nascondere la natura sfruttatrice del capitalismo. Concentrandosi sulla
valutazione “soggettiva” degli individui, questi ultimi sono astratti dalla
reale attività economica (produzione) così che la risorsa del profitto e del
potere all’interno dell’economia possa essere ignorata. La sezione C.2
(“Da dove vengono i profitti?”) indica perché lo sfruttamento nell’ambito
del lavoro di produzione sia fonte di profitto e non vera e propria attività di
mercato.
Di
sicuro, coloro a favore del capitalismo diranno che la teoria del valore del
lavoro non sia mai stata universalmente accettata all’interno della grande
economia. Verissimo; ma questo difficilmente dimostra che questa teoria possa
essere effettivamente sbagliata. Dopotutto, sarebbe stato assai semplice
“provare” che persino la teoria democratica fosse “sbagliata” nella
Germania nazista, semplicemente perché non era universalmente accettata dai
molti letterati e leaders politici del tempo. Sotto il capitalismo, più e più
cose vengono trasformate in beni da sfruttare – incluse le teorie economiche e
i lavori per gli/le economist*. Presa, ad esempio, una data scelta tra una
teoria che affermi che profitto, interessi e pigioni equivalgano, per forza di
cose, a lavoro insoluto (leggi: sfruttamento) e una teoria basata sul fatto che
esistano validi “ritorni” economici dovuti al buon servizio, su quale delle
due pensate che i ricchi investirebbero?
Questo
riguarda il caso della teoria del valore del lavoro. Dai tempi di Adam Smith ad
oggi, i radicali hanno utilizzato la LTV per criticare il capitalismo. Gli
economisti classici (Adam Smith e David Ricardo compresi i loro seguaci come
J.S. Mill) sostenevano che, alla lunga, i beni sarebbero stati scambiati in
proporzione al lavoro svolto per poterli produrre. Pertanto, lo scambio di beni
avrebbe beneficiato tutte le parti coinvolte nella produzione in quanto ciascun*
avrebbe ricevuto un ammontare equivalente in base al lavoro svolto. In realtà,
tutto ciò lasciò che la natura e la fonte dei profitti del capitalismo fossero
soggette ad accesi dibattiti, cosa che presto si propagò presso tutta la classe
operaia. Assai prima che Karl Marx (la persona più associata alla LTV)
scrivesse la sua famosa (quanto infame) opera Il Capitale, i socialisti
ricardiani come Robert Owen o William Thompson insieme ad anarchici come
Proudhon, erano soliti usare la LTV in modo da presentare una vera e propria
critica al capitalismo, esponendolo come una cosa fondata esclusivamente sullo
sfruttamento (lavoratori e lavoratrici, in effetti, non ricevono un salario
equivalente al valore del bene prodotto e pertanto appare chiaro come il
capitalismo non sia proprio costruito su di un
commercio equo). Negli USA, Henry George era solito attaccare la proprietà
privata terriera. Quando comparvero le prime economie di stampo marginalista, ci
si impadronì di questo attacco in maniera da poter annientare alla nascita la
sua influenza radicale. Curiosamente, i seguaci di Henry George sostenevano che
l’economia neo-classica si sviluppò principalmente come reazione alle sue
idee e influenze (vedi The Corruption of Economics di Mason Gaffney e
Fred Harrison).
Pertanto,
come si è notato più sopra, le economie marginaliste furono sequestrate, in
maniera del tutto incurante dei loro meriti in quanto scienza, semplicemente
perché portarono fuori la politica dall’economia politica. Con il sorgere dei
movimenti socialisti e le critiche di Owen, Thompson, Proudhon e molti altri, la
teoria del valore del lavoro venne considerata troppo politicizzata e
pericolosa. Il capitalismo non poteva ancora a lungo esser visto come una cosa
basata sullo scambio con lavoro equivalente. Piuttosto, avrebbe dovuto basarsi
sullo scambio di beni equivalenti. Ma, come indicato (nell’ultima sezione) la
nozione di bene equivalente venne prontamente abbandonata mentre le
super-strutture costruite al di sopra di essa divennero le basi dell’economia
capitalista. E senza la teoria del valore, l’economia capitalista non potè
provare che il capitalismo effettivamente sfociasse in armonia, soddisfazione di
bisogni e desideri individuali, giustizia in cambio di efficiente allocazione
delle risorse.
Un’ultima
annotazione. Dobbiamo sottolineare che non tutt* gli/le anarchici/anarchiche
supportarono la LTV. Kropotkin, per esempio, non era affatto d’accordo. Egli
considerava l’utilizzo socialista della LTV come un impossessarsi de “le
definizioni metafisiche degli economisti accademici” per poter criticare
il capitalismo usando le sue stesse definizioni e dunque, come le economie
capitalistiche, tutto ciò appariva tutt’altro che scientifico [Evolution
and Environment, p. 92]. Comunque, il suo rifiuto riguardo la LTV non
implicava il fatto che Kropotkin non considerasse il capitalismo come uno
sfruttatore. Lungi da questo! Come tutt* gli/le anarchici/anarchiche, Kropotkin
attaccò la “appropriazione della produzione di lavoro umano da parte dei
possessori di capitali”, vedendo le radici di questo nel fatto che “milioni
di uomini [e donne] non hanno letteralmente nulla di che poter vivere, almeno
finché venderanno la loro forza lavoro e la loro intelligenza a un prezzo tale
da poter avvantaggiare solamente i capitalisti e il loro maggior ‘valore di
surplus’ possibile...”. [Op. Cit., p. 106] Discuteremo del
profitto in maniera più ampia e dettagliata nella sezione C.2 (Da dove vengono
i profitti?).
Il
rifiuto da parte di Kropotkin riguardo la LTV è basato sul fatto che,
internamente al capitalismo “il valore tra scambio e lavoro necessario non
risulta proporzionale tra di essi” e pertanto “il lavoro non
rappresenta nessuna misura del valore” [Op.
Cit., p. 91] Tutto ciò è, ovviamente, vero sotto l’egida del
capitalismo. Come Proudhon (e Marx) sostenevano, sotto il capitalismo (possibile
grazie alla disponibilità di profitti, pigioni e interessi) i prezzi potrebbero
non essere proporzionali alla media di lavoro richiesto per produrre un bene (“Dovunque
il lavoro non sia stato socialistizzato – ovvero, dovunque il valore non sia
stato sinteticamente determinato – esistono irregolarità e disonestà nello
scambio.” [Proudhon, Op. Cit., p. 128]). Solo quando il tasso di
profitto sarà pari allo zero i prezzi rifletteranno ciò che effettivamente
rappresenta il valore del lavoro (il quale, ovviamente, è ciò che Proudhon e
Tucker desideravano – “Il socialismo...estende [“che il lavoro sia la
vera misura del prezzo”] la sua funzione di descrizione della società così
come dovrebbe essere e la riscoperta del significato di fare ciò che realmente
andrebbe fatto.” [Tucker,
The Individualist Anarchists, p. 79]). Quindi, Kropotkin dice bene quando
afferma che “sotto il sistema capitalistico, il valore di scambio non
viene più misurato dall’ammontare di lavoro necessario”
[Op.
Cit., p. 91]
Comunque,
questo non significa che la LTV sia irrilevante ai fini di un’analisi
dell’economia capitalista. Anzi, si sostiene che sotto il capitalismo il
lavoro sia, essenzialmente, il regolatore del prezzo non la sua
unità di misura. “L’ idea che finora sia stata presa in
considerazione una misura del
valore” sostenne Proudhon, “...è dunque inesatto; l’oggetto della
nostra diatriba non è lo standard del valore, come spesso e così stupidamente
è stato detto, bensì la legge che regola le proporzioni dei vari prodotti ai
fini del benessere sociale; per cui dalla conoscenza di questa legge dipendono
ascesa e crollo dei prezzi.” [System of Economical Contradictions,
p. 94] Quindi, gli argomenti di Kropotkin non sottostimano affatto la LTV.
Strappato via tutto quel bagaglio metafisico che parecchi (in particolare
marxisti) hanno piazzato sopra la LTV (e giustamente attaccato come
anti-scientifico da Kropotkin), questa rimane un essenziale e metodologico
strumento, come metodo investigativo sugli aspetti-chiave del capitalismo –
cioè lavoro salariato e conflitti associati con esso nel punto di produzione ad
un alto livello di astrazione. Pertanto, si tratta di uno strumento e allo
stesso tempo, di un valore esplicativo ma anche di una categoria
esplicativa, una volontà di comprensione delle dinamiche del capitalismo.
Perciò,
piuttosto che essere una cruda idea riguardo il fatto che il “valore di
scambio” possa giusto livellare i prezzi, la LTV rappresenta principalmente
una volontà di analisi. Questo può assumere una certa importanza
nell’utilizzo che possiamo farne durante la “produzione dei prezzi” invece
che nell’ambito di un valore (di scambio) utile alla descrizione di come debba
effettivamente lavorare la suddetta teoria. La LTV focalizza l’analisi sul
processo di produzione e dunque indirizza correttamente la nostra indagine su
come in realtà agisca il capitalismo durante le fasi di produzione sino alle
relazioni con l’autorità sul posto di lavoro, la lotta con chi controlla i
processi di produzione e come il surplus prodotto dai/dalle
lavoratori/lavoratrici viene suddiviso (cioè quanto effettivamente rimane nelle
tasche di coloro che producono direttamente e di quanto, invece, si appropriano
i capitalisti). Sostenere che i prezzi subiscano una deviazione dai valori e
quindi, che la LTV sia fuori moda, indica che esiste una confusione tra il ruolo
esplicativo della LTV e l’attuale mondo costituito da prezzi e profitti. La
LTV ci ricorda che la produzione viene prima di ogni cosa e dunque di come sia
alla base dello scambio e che, di rimando, ciò che accade nel punto di
produzione influenza poi direttamente ciò che accade durante lo scambio ultimo.
Decrementando il lavoro diretto e indiretto richiesto per la produzione, il
costo del prezzo di un bene subirà un decremento a sua volta e quindi si ridurrà
il suo stesso prezzo di produzione. Così, ascesa e crollo di prezzi e profitti
saranno il risultato del cambio nelle relazioni dei valori (cioè nel lavoro
oggettivo i costi di produzione – di lavoro – valore del tempo) e pertanto,
l’utilizzo della LTV come strumento esplicativo appare più che valido.
In
altre parole, la teoria del valore del lavoro è semplicemente un buon mezzo di
analisi euristica che offre una visuale dall’interno di come i prezzi vengono
formati invece che presentarceli direttamente così come sono. In pratica, i
prezzi di produzione dipendono dai salari e tutto ciò riflette il valore
del cosiddetto tempo-lavoro piuttosto che essere propriamente un valore
del tempo-lavoro.
Perciò
Kropotkin era nel giusto – su di un punto. La sua critica alla LTV è corretta
per ciò che concerne quelle versioni in cui si ha il dato prezzo di
“equilibrio” equivalente il valore (scambio) di una merce. Faceva bene a
sottolineare che sotto il capitalismo questo accade raramente. Si intende dire
che il nostro uso della LTV è semplicemente quello di strumento esplicativo, un
metodo di osservazione degli aspetti-chiave del capitalismo – cioè i processi
di produzione che portano alla creazione di cose/oggetti che hanno un certo
valore d’uso per gli/le altr* e vengono dunque scambiati. Il processo di
produzione viene per primo e dobbiamo quindi partire da lì se vogliamo davvero
comprendere le dinamiche del capitalismo. Non fare una cosa del genere, come fa
ad esempio la STV, porterà la nostra analisi sino ad un vicolo cieco e così
saremmo portati ad ignorare l’aspetto fondamentale del capitalismo: il lavoro
salariato, le strutture autoritarie nell’ambito produttivo e lo sfruttamento
del lavoro che genera oppressione.
Gli argomenti di Kropotkin riflettono la
prospettiva dei “prezzi di produzione” trattata più in alto, mentre ci si
concentra sui prezzi invece che sui “valori”. Noi rifiutiamo
l’astrazione di carattere metafisico spesso associata con la LTV,
concentrandoci invece sul fenomeno reale e concreto rappresentato dai prezzi,
dai profitti, lotta di classe e così via. Una tale prospettiva facilita
largamente la critica al capitalismo in merito a ciò che accade nel mondo reale
piuttosto che nei meandri dell’astrazione. Come si discute nella sezione
H.2.2, le concentrazioni di Marx sul valore (cioè i livelli astratti di
analisi) fanno in modo che egli arrivi ad ignorare il ruolo che la lotta di
classe gioca all’interno del capitalismo e il suo effetto sui profitti (con
pessimi risultati per la sua teoria e il movimento che da essa ha tratto
ispirazione).
C.1.3 Cos’altro influenza i
livelli di prezzo?
Come indicato nell’ultima
sezione, il prezzo di un bene capitalistico è, a lungo termine, uguale al suo
prezzo di produzione, il quale di rimando, determina offerta e domanda. Se
offerta e domanda subiscono un cambio -- cosa certamente possibile in quanto i
valori dei/delle consumatori/trici mutano e nuovi intenti di produzione vengono
creati mentre quelli ormai considerati vecchi cessano di esistere – queste
avranno un effetto a breve termine sui prezzi, ma il prezzo medio di produzione
rimane pur sempre il prezzo attorno al quale un bene capitalistico viene poi
venduto. Pertanto esso rappresenta il costo di produzione che definitivamente
regola il prezzo di un bene propriamente detto. In altre parole: “ le
relazioni di mercato sono governate dalle relazioni di produzione”. [Paul
Mattick, Economic Crisis and Crisis Theory, p. 51]
Per dirla con Proudhon:
“Quindi il
valore varia e la legge del valore è immutabile, o meglio, se il valore è
suscettibile a variazioni, questo è possibile perché viene governato da una
legge il cui principio è essenzialmente incostante, cioé il lavoro misurato
dal tempo.” [Op. Cit., p. 100]
Comunque, l’ammontare di tempo
e sforzo speso nel produrre un particolare bene non funge da fattore essenziale
nella determinazione del suo prezzo di mercato. Ciò che maggiormente conta è
il costo (inclusa la quantità di tempo-lavoro) che occorre in media per
produrre questo tipo di bene nel momento in cui il lavoro venga portato avanti
con un’intensità media, con strumenti e attrezzature d’uso tipici e
supportati da livelli di abilità produttiva media. La produzione di beni che
permette a tali standards di precipitare, per esempio tramite uso di tecnologie
obsolete o intensità lavorativa al di sotto della media necessaria, non
permette certamente al venditore/trice di aumentare il prezzo del bene così da
compensare questo livello di produzione inefficiente, perché il suo prezzo è
sempre determinato dal mercato che si basa su condizioni medie (e dunque, su
costi medi) di produzione, oltre che sulla media dei livelli di profitto
richiesta per poter andare incontro al tasso di profitto del capitale investito.
D’altra parte, l’utilizzo di metodi di produzione più efficienti
della media generale – per esempio, che consentano una produzione di beni
maggiore attraverso minor quantitativo di lavoro impiegato – possono
fare in modo che i/le venditori/trici raccolgano maggiori profitti e/o minore
sarà il prezzo, più bassa sarà la media e dunque si otterrebbe una possibilità
di catturare un numero maggiore di quote di mercato che, eventualmente,
forzerebbero altri/e produttori/trici ad adottare la medesima tecnologia per
poter sopravvivere, oltre che più bassi prezzi di produzione sul mercato
inerente questo particolare tipo di bene. In questo modo se ne evince che la
riduzione del tempo-lavoro si trasforma in un ridotto valore di scambio (e
quindi di prezzo), mostrando, in questo modo, la funzione regolatrice del
tempo-lavoro (e indicando anche l’inutilità della LTV come strumento
metodologico).
Allo stesso modo, la LTV
provvede anche ad una spiegazione del perché le risorse comuni all’interno di
un’area assumano maggior valore per alcuni (ad esempio, il prezzo dell’acqua
per una persona che si trovi in mezzo a un deserto sarebbe di gran lunga più
alto rispetto a una persona che viva accanto a un fiume). Per capirci: chi
possiede un certo quantitativo d’acqua nel mezzo di un deserto, può decidere
di far pagare anche un prezzo straordinariamente elevato a coloro che fanno
richiesta di quest’acqua, semplicemente perché si tratta di un bene raro e
l’ammontare di lavoro richiesto per trovare una risorsa alternativa sarebbe
troppo alto (per ora non faremo considerazioni riguardo il tipo di etica sul
caro-prezzi imposto alla gente, come fanno le economie marginaliste che
ritraggono queste tipologie di situazioni – che in parecchi classificano
intuitivamente come sfruttamento – come “scambio equo”). Ma se è vero che
questa specie di eccesso nei profitti può essere mantenuto per lunghi periodi,
allora potrebbe nascere la tentazione in altri di aumentare la competizione. Se
una costante domanda d’acqua esiste in una data regione, dunque la
competizione abbasserebbe il prezzo di quest’acqua verso un prezzo medio
richiesto per poterla rendere disponibile (e questo spiega perché i/le
capitalist* desiderino ridurre la competizione tramite l’uso di leggi sul
copyright – il brevetto privato d’esclusiva - , autorizzazioni e così via;
vedi la sezione B.3.2 – o reclamino anche l’incremento della “stazza”
delle compagnie, delle quote di mercato e di potere, vedi la sezione C.4).
Riassumendo, così com’è
dato, il costo di produzione di un bene può solo indicare se un certo prodotto
venga “valutato” in maniera adeguata dai/dalle consumatori/trici al fine di
garantire e giustificare l’incremento produttivo. Ciò significa che “il
capitale si sposta da posizioni relativamente stagnanti verso le industrie in
fase di rapido sviluppo...Il profitto extra, in eccesso rispetto al profitto
medio conquistato a un dato livello di prezzo, scompare di nuovo, comunque,
grazie all’influsso di capitale spostato da industrie povere di profitti a
industrie con ampissimi margini di profitto”, incrementando così
l’offerta, riducendo i prezzi e di conseguenza anche i profitti. [Paul
Mattick, Op. Cit., p. 49]
Questo processo d’investimento
di capitali e la risultante competizione, rappresentano il significato
attraverso il quale i prezzi di mercato tendono verso i prezzi di produzione in
un dato mercato. Il profitto e le realtà dei processi di produzione sono le
chiavi utili alla comprensione dei prezzi e di come questi influiscano (e di
come vengano essi stessi influenzati) su domanda e offerta.
In conclusione, dobbiamo
sottolineare il fatto che affermare che i prezzi di mercato tendano verso la
produzione non significa affatto suggerire che il capitalismo sia
propriamente equilibrato. Lungi da tutto ciò. Il capitalismo è sempre
instabile, in quanto “fuoriuscite dalla competizione capitalistica, per
intensificare lo sfruttamento,...le relazioni di produzione [sono] in uno stato
di trasformazione continua che si manifesta attraverso varie mutazioni dei
prezzi di un relativo bene sul mercato. Pertanto, il mercato appare in costante
disequilibrio sebbene con diversi gradi di serietà, per poi fare in modo che si
riprenda, tramite il suo occasionale approccio a un certo stato d’equilibrio,
l’illusione di una vera e propria tendenza alla stabilità.” [Paul
Mattick, Op. Cit., p. 51]
Quindi, l’innovazione dovuta
alla lotta di classe, la competizione o la creazione di nuovi mercati, hanno un
importante effetto sui prezzi di mercato. Ciò è possibile perché le
innovazioni cambiano i costi di produzione di un bene o creano nuovi mercati con
ampi margini di profitto. Mentre l’equilibrio potrebbe anche non essere messo
in pratica, questo non cambia il fatto che il prezzo determini la domanda in
quanto consumatori/trici si rapportano giornalmente ai prezzi (solitamente) come
a un dato valore oggettivo mentre fanno la spesa e prendono decisioni in base a
questi prezzi in modo da soddisfare i loro bisogni soggettivi. Così, la LTV
riconosce che il capitalismo sia un sistema duraturo, con un futuro incerto
(influenzato da svariati fattori, inclusa la lotta di classe) e per sua vera
natura, dinamico. In aggiunta, al contrario del neo-classico prezzo di
“equilibrio a lunga durata”, la LTV non sostiene affatto che i mercati del
lavoro si libereranno o che un cambiamento in un particolare mercato avrà
effetto su altri. Piuttosto, il mercato del lavoro potrebbe assistere a
un’estensiva disoccupazione in quanto questo aiuterebbe a mantenere i livelli
di profitto attraverso la disciplina – tramite la minaccia del licenziamento
– sul posto di lavoro (vedi sezione C.7). Nemmeno si sostiene, comunque, che
il capitalismo si stabilizzerà. Come la storia del “capitalismo allo stato
attuale” ha mostrato, la disoccupazione è sempre tra noi e il ciclo
affaristico continua ad esistere (nelle economie neo-classiche questo tipo di
cose non accadono perché la teoria presume che tutti i mercati siano liberi e
che la recessione sia sempre possibile).
In più, la LTV indica la fonte
d’instabilità – cioé “l’idea contradditoria del valore, così
chiaramente esibita dall’inevitabile distinzione tra valore utile e valore di
scambio.” [Proudhon, Op. Cit., p. 84] Questo, particolarmente, è
il caso del lavoro in quanto il valore di scambio del lavoro (il suo costo, ad
esempio i salari) è diverso dal suo valore d’uso (ovvero ciò che
effettivamente si produce durante l’arco di una giornata lavorativa). Come
viene commentato nella prossima sezione, la differenza tra valore d’uso del
lavoro (il suo prodotto) e il suo valore di scambio (il suo salario)
rappresentano la fonte del profitto capitalistico (indicheremo nella sezione C.7
in che modo questa distinzione influenzi il ciclo affaristico – per esempio,
l’instabilità in economia).