C.2 Da dove vengono i profitti?
Come menzionato nella sezione
precedente, i profitti costituiscono la forza motrice del capitalismo. Se un
profitto non può essere ricavato, un bene non viene prodotto e tutto questo
senza curarsi di quanto un determinato numero di persone possa averlo
“valutato soggettivamente”. Ma da dove traggono origine i profitti?
Per poter ottenere denaro,
quest’ultimo deve essere trasformato in capitale, cioè posti di lavoro,
macchinari e altri “beni capitali”. Di per sé, tuttavia, il capitale (come
il denaro) non produce nulla. Il capitale diventa produttivo solo durante il
processo lavorativo, quando i/le lavoratori/trici utilizzano il capitale (“Né
la proprietà, né il capitale produce alcunché quando non sia stato reso
fertile dal lavoro” – Bakunin). Sotto il capitalismo, i/le
lavoratori/trici non solo creano valore sufficiente (cioè produzione di beni) a
mantenere il capitale in vita assieme alla loro stessa esistenza, ma producono
anche un surplus. Questo surplus si auto-esprime come un surplus di merci, un
eccesso di beni che viene comparato al numero degli stessi che il salario
dei/delle lavoratori/trici consente di acquistare successivamente. Così dice
Proudhon:
“il
lavoratore (e dunque, la lavoratrice; ndT) non può...riacquistare ciò che egli
stesso ha prodotto per il padrone. E’ così in genere, in tutti i campi del
commercio…fintantoché si produrrà per un padrone che in un modo o
nell’altro ne ricava un profitto, saranno obbligati a pagare sempre di più
per il loro lavoro rispetto a quanto, invece, dovrebbero guadagnare per svolgere
tale attività lavorativa.” [What is Property, p. 189]
In altre parole, il prezzo di
tutte le merci prodotte è assai più grande del valore del denaro rappresentato
dai salari dei/delle lavoratori/trici (comprese materie grezze, spese generali
come per il logoramento dei macchinari) una volta che queste merci sono state
prodotte. Il lavoro contenuto in questo “surplus di prodotti” è la fonte
del profitto, la quale deve liberarsi all’interno del mercato (in pratica,
ovviamente, il valore rappresentato da questo surplus di prodotti viene
distribuito attraverso tutti i beni prodotti sotto forma di profitto – la
differenza tra il prezzo di costo e il prezzo di mercato).
Ovviamente, le economie
pro-capitaliste sostengono argomentazioni contro questa teoria in merito a come
possa nascere un surplus. Comunque, un unico esempio sarà sufficiente per
comprendere perché il lavoro sia fonte di surplus, piuttosto che (per così
dire) di una “attesa”, un rischio o un capitale (questi ed altri argomenti
verranno discussi più avanti). Un buon giocatore di poker utilizza un certo
equipaggiamento (il capitale), accetta di correre i suoi rischi, attende il
momento buono e posticipa le sue soddisfazioni, mette in moto atteggiamenti
strategici, tenta sempre nuovi trucchi (innovazioni) non senza menzionare i vari
imbrogli e l’ottenimento di grosse vincite (oltre al ripetersi di tutto questo
con una certa periodicità). Ma nessun prodotto in surplus risulta da un
comportamento tale; le vincite del baro sono semplicemente re-distribuzioni da
parte di altri con nessuna nuova produzione in corso. Perciò, il correre dei
rischi, l’astinenza, l’intraprendenza, etc., sarebbero condizioni necessarie
per un individuo al fine di ottenere profitti ma sono cose molto distanti dalla
sufficienza in materia non causando una pura re-distribuzione da parte di altri
(una re-distribuzione, potremmo aggiungere, che può riscontrarsi solo nel
capitalismo se i/le lavoratori/trici producessero merci per la vendita diretta).
Quindi, per poter fare in modo
che si possa generare un profitto inerente al capitalismo, due cose sono
richieste. Primo, un gruppo di lavoratori/trici che possano lavorare il capitale
disponibile. Secondo, questi/e lavoratori/trici dovrebbero produrre più valore
di quanto non siano pagati con i loro salari. Se solamente la prima condizione
è presente, tutto ciò che occorre è che la ricchezza sociale venga
re-distribuita tra gli individui. Con la seconda condizione, un surplus
propriamente detto, viene generato. In entrambi i casi, comunque, i/le
lavoratori/trici vengono sfruttati/e per cui senza il loro apporto non
esisterebbero merci e beni per facilitare la re-distribuzione della ricchezza
esistente e nemmeno dei prodotti in surplus.
Il valore di surplus prodotto
dal lavoro viene diviso tra i vari profitti, interessi e pigioni (o, più
correttamente, viene diviso tra i padroni dei diversi fattori di produzione e di
lavoro). In pratica, questo surplus viene utilizzato dai padroni del capitale
per: A) investimenti; B) per pagarsi tra loro i dividendi del magazzino, ove
possibile e previsto; C) pagamenti per affitti e pagamenti di interessi; D) per
pagare i loro direttori e managers (ruoli che spesso vengono coperti dai padroni
stessi) con stipendi ben più elevati rispetto a quelli dei/delle
lavoratori/trici. Siccome il surplus è stato diviso tra differenti gruppi di
capitalisti, questo significa che ci potranno essere conflitti d’interessi tra
(per così dire) capitalisti industriali e capitalisti di alta finanza. Per
esempio, un aumento del tasso d’interesse può far schizzare i capitalisti
industriali a dirigere molto più del surplus a loro destinato da quello nelle
mani di coloro che vivono di rendita. Un dato aumento potrebbe causare crolli
nel giro affaristico e di conseguenza, una vera e propria recessione (veramente,
l’aumento dei tassi di interesse è una chiave per poter regolare il potere
della classe operaia in modo da generare disoccupazione per così meglio
controllare e disciplinare i/le lavoratori/trici tramite la paura del
licenziamento). Il surplus, come il lavoro utilizzato per riprodurre capitale
esistente, viene incorporato nel bene finito ed è realizzato una volta venduto.
Ciò significa che i/le lavoratori/trici non ricevono il pieno valore del loro
operato, in quanto il surplus di cui si sono appropriati i padroni per nuovi
investimenti, etc., rappresenta il valore aggiunto ai beni dai/dalle
lavoratori/trici – valore per il quale non vengono pagati.
Quindi, i profitti di stampo
capitalistico (così come pigioni e interessi di pagamento) sono in sostanza lavoro
insoluto e dunque è per questo che il capitalismo si basa sullo
sfruttamento. Come Proudhon fece notare, “I prodotti, dicono gli
economisti, vengono giusto comprati da altri prodotti. Questa massima
rappresenta la condanna della proprietà. Il proprietario che non produca niente
dal proprio lavoro e neanche da un suo implemento e che riceva prodotti in
cambio di nulla, può benissimo esser considerato come un parassita o un comune
ladro”. [Op. Cit., p. 170] Questa è appropriazione di ricchezza o
benessere dai/dalle lavoratori/trici da parte del padrone e differenzia
nettamente il capitalismo dalla semplice produzione di beni tramite economie
contadine o artigianali. Tutti gli anarchici e le anarchiche concordano con
Bakunin quando disse:
“Cos’è
la proprietà, cos’è il capitale nella sua forma effettiva? Per il
capitalista e il proprietario significa potere e diritto, garantiti dallo Stato,
di vivere senza dover lavorare…[e quindi] il potere e il diritto di vivere
sfruttando il lavoro di qualcun altro…questi…[che sono] costretti a vendere
la loro forza produttiva ai più fortunati possessori di entrambi.” [The
Political Philosophy of Bakunin, p. 180]
Ovviamente, i difensori del
capitalismo non sono dello stesso avviso. Il profitto non è prodotto dallo
sfruttamento dei/delle lavoratori/trici, capitalisti e proprietari terrieri
ottengono il valore del loro contributo alla produzione, o almeno, così dicono.
Alcuni/e parlano persino di “il fare denaro è utile anche a te” (come se
dei pezzi di carta possano effettivamente fare un qualsiasi tipo di lavoro!)
mentre, ovviamente, gli Esseri Umani hanno a che fare con il lavoro propriamente
detto (e di solito giusto per i soldi). Comunque, tutti/e concordano sul fatto
che il capitalismo non sia generatore di sfruttamanto (non importa quanto o come
possa sembrare sfruttatore) e cercano di offrire vari argomenti sul perché i
capitalisti debbano (meritoriamente) gestire i prodotti fabbricati da altri.
Questa sezione della FAQ presenta alcune delle ragioni del perché gli
anarchici, uomini o donne che siano, rifiutano queste affermazioni.
Infine, vorremmo sottolineare il
fatto che alcuni/e apologisti del capitalismo amano citare il fatto empirico per
cui, in una moderna economia capitalista, una larga maggioranza di tutte le
entrate, assieme a profitto, interesse e rendita ammonti a qualcosa come meno
del 20% del totale. Certamente, persino il valore di surplus era minore del 20%
del reddito dei/delle lavoratori/trici, ma questo non cambia la natura
sfruttatrice del capitalismo. Questi (queste) apologisti del capitalismo
tacciono sulla questione che la tassazione cessi di essere “rubata” solo in
quanto si aggira intorno al 10% di tutte le entrate. Quindi, questo valore per
il profitto, l’interesse e la rendita si basa su un gioco di prestigio
statistico, per via del fatto che il termine “lavoratore” venga definito
dall’inclusione di chiunque appartenga alla
categoria dei salariati/stipendiati da parte di una compagnia, managers e CEO
compresi (in altre parole, le entrate dal “lavoro” comprendono sia i salari che
gli stipendi). L’introito più grande che molti managers e CEO ricevono,
garantirebbe, di sicuro, che una grossa fetta di tutte le entrate vengano
ricondotte al “lavoro”. Così, questo “fatto” non tiene conto del ruolo
della maggior parte dei/delle managers come capitalisti de facto e
sfruttatori/trici del valore di surplus e ignora inoltre il cambio
nell’industria che è avvenuto durante gli ultimi 50 anni (vedi la sezione
C.2.5).
Per farsi un’idea più precisa
della natura dello sfruttamento connesso al capitalismo moderno, dobbiamo
confrontare lo stipendio di un/una lavoratore/trice alla sua produttività.
Secondo la Banca Mondiale, nel 1966, gli stipendi delle industrie manifatturiere
statunitensi erano pari al 46% del valore-aggiunto durante la produzione
(valore-aggiunto è la differenza tra il prezzo di vendita e il costo delle
materie grezze e altri fattori inerenti al processo produttivo). Nel 1990 questa
valutazione è scesa al 36% e (usando valutazioni dal 1992 Economic Census del
Census Bureau americano) a partire dal 1992 ha toccato il 19.76% (39.24% se
consideriamo il totale del libro-paga che include managers e così via).
Negli l’industria edilizia USA, gli stipendi erano al 35.04% del
valore-aggiunto nel 1992 (con totale libro-paga: 50.18%). Pertanto, si capisce
perché il capitalismo si prodighi con una certa abilità nel minimizzare il
fatto che una grande percentuale delle entrate sia da ricondurre al
“lavoro”, oltre che mascherare la realtà di questo sistema e lo
sfruttamento che la sua natura gerarchica crea.
Ora ci spostiamo sul perché
esista questo valore di surplus.
C.2.1 Perché esiste questo
surplus?
E’ la natura stessa del
capitalismo in modo che possa monopolizzare il prodotto dei/delle
lavoratori/trici tramite l’esistenza di altri. Questo accade per via della
proprietà privata nel senso della produzione e dunque di “ conseguenza il
lavoratore [come anche la lavoratrice, ndT], quando in grado di lavorare non
troverà acri di terra da coltivare, nessuna macchina da far partire, fintantoché
sia egli stesso d’accordo a vendere il proprio lavoro contro una somma
inferiore al suo reale valore”. [Peter Kropotkin, Kropotkin's
Revolutionary Pamphlets, p. 55]
Pertanto, i lavoratori e le
lavoratrici devono vendere il proprio lavoro nel mercato. Comunque, in quanto
questo “comodità” “…non può venir separata dalla persona del
lavoratore stesso come parti di una proprietà. Le capacità di un lavoratore si
sviluppano col tempo e formano una parte integrante del suo essere, della sua
identità, capacità che sono dunque relazionate internamente e non esternamente
alla persona. Per di più, capacità o forza lavoro non possono essere usate
senza che ci sia la volontà del lavoratore, la sua capacità di comprendere e
la sua esperienza per metterla in opera. L’uso della forza lavoro richiede
necessariamente la presenza del suo ‘padrone’…contrattare per l’uso di
forza lavoro rappresenta uno spreco di risorse finché non potrà essere
utilizzata nel modo in cui il nuovo padrone richieda…il contratto
d’assunzione deve, pertanto, creare una relazione di comando e obbedienza tra
datore di lavoro e lavoratore. ” [Carole
Pateman, The Sexual Contract, pp. 150-1]
Quindi, “il contratto in
cui il lavoratore spontaneamente vende la sua forza lavoro è un contratto in
cui, siccome non può separarsi dalle sue capacità, egli vende quindi anche
l’utilizzo della sua persona…le caratteristiche di questa condizione sono
comprese sotto il termine di schiavo salariato.” [Ibid., p.
151] O, con le parole di Bakunin, “il lavoratore vende la sua persona e la
sua libertà per un certo periodo di tempo” e quindi “concluso da un
termine e riservando al lavoratore il diritto di licenziarsi dal proprio datore
di lavoro, questo contratto costituisce una sorta di volontario e transitorio
servilismo.” [The Political Philosophy of Bakunin, p. 187]
Tale dominazione è la fonte del
surplus, in quanto “la schiavitù salariata non è una conseguenza dello
sfruttamento – lo sfruttamento è una conseguenza del fatto che la vendita di
forza lavoro implichi la subordinazione del lavoratore. Il contratto
d’assunzione trasforma il capitalista in padrone onnipotente; egli ha il
diritto politico di determinare come debba essere usato il lavoro dei lavoratori
e – di conseguenza – può attuare lo sfruttamento.” [Carole Pateman, Op.
Cit., p. 149]
Quindi, il profitto esiste perché
la lavorattrice vende sé stessa al capitalista che detiene l’attività e
dunque, la controlla (o più precisamente, cerca di controllarla) come
una macchina. I commenti di Benjamin Tucker con riguardo particolare
all’affermazione che il capitale dia titolo a una ricompensa, sono appropriati
nel nostro caso. Tucker fa notare che “combattere…la dottrina riguardo il
valore di surplus – spesso definito come profitto – appartiene ai lavoratori
in quanto creatori di surplus, con tutti i loro riferimenti al cavallo…che si
trova giustamente in diritto di ottenere un surplus esso stesso come garante del
lavoro che crea per il suo padrone. E così sarà quando avrà raggiunto
consapevolezza in modo da poter protestare e avrà ottenuto il potere di
prendersi tale surplus…questo argomento…si basa sull’assunto che alcuni
uomini siano nati già in possesso di altri uomini, alla stessa maniera dei
cavalli. E dunque questa reductio ad absurdum si ritorce contro.” [Instead
of a Book, pp. 495-6]
In altre parole, sostenere che
il capitale dovrebbe essere ricompensato significa asserire implicitamente che i
lavoratori e le lavoratrici siano solo macchinari, un altro “fattore di
produzione” piuttosto che esseri umani e creatori/trici di cose di valore. I
profitti esistono in quanto durante la giornata lavorativa il capitalista
controlla l’attività e il rendimento del/della lavoratore/trice (cioè, li
possiede durante le ore di lavoro e l’attività non può venir separata dal
corpo e “esiste una relazione integrale tra corpo e persona. Corpo e
persona non sono identici, ma le persone sono inseparabili dai corpi.” [Carole
Pateman, Op. Cit., p. 206]).
Puramente considerato in termini
di rendimento, ciò risulta in, come Proudhon fa notare, lavoratori/trici che
lavorano “per un imprenditore che li paga e conserva ciò che loro
producono” [citazione di
Martin Buber, Paths in Utopia, p. 29]
L’abilità dei capitalisti di mantenere questo tipo di monopolizzazione
e rendimento d’altri tempi, è racchiuso nei “diritti di proprietà”
sostenuti pure da stati pubblici o privati. In breve, dunque, la proprietà “è
il diritto di godere e disporre a piacimento dei beni di altri, i frutti
dell’industriosità di altri e del loro lavoro”.
[P-J Proudhon, What is Property, p. 171] E per via di questo
“diritto” la paga di un/a lavoratore/trice sarà sempre minore della
ricchezza che lui o lei avranno prodotto.
Le dimensioni del surplus,
l’ammontare di lavoro insoluto, può essere cambiato modificando la durata
complessiva dell’intensità di lavoro (cioè facendo lavorare i/le
lavoratori/trici più a lungo e più duramente). Se la durata del lavoro viene
incrementata, l’ammontare del valore di surplus si accresce in modo assoluto.
Se l’intensità viene aumentata, per esempio tramite innovazioni nei processi
di produzione, l’incremento del valore di surplus cresce relativamente (cioè
i/le lavoratori/trici producono l’equivalente del loro salario prima durante
la loro giornata lavorativa, che risulta in maggiore lavoro insoluto per il
datore di lavoro).
Questo tipo di surplus indica
che il lavoro, come ogni altro bene, possiede sia un valore d’uso che un
valore di scambio. Il valore di scambio del lavoro è rappresentato dalla paga
dei/delle lavoratori/trici, il suo valore d’uso dal lavoro, cioè far fare
loro ciò che il capitalista che compra vuole. Dunque, l’esistenza di
“prodotti di surplus” indicano che c’è una differenza tra valore di
scambio e valore d’uso, che il lavoro può potenzialmente creare maggiore
valore di quanto ne riceva in cambio come salario. Insistiamo sulla parola
potenzialmente, perché l’estrazione del valore d’uso dal lavoro non è
operazione semplice come l’estrazione di tanti joules d’energia da una
tonnellata di carbone. La forza lavoro non può essere utilizzata senza
assoggettare i/le lavoratori/trici alla volontà del capitalista –
diversamente da altri beni, la forza lavoro rimane inseparabilmente incorporata
negli esseri umani. Entrambe le estrazioni di valore d’uso e la determinazione
del valore di scambio dipendono e sono profondamente modificate dalle azioni
dei/delle lavoratori/trici. Né lo sforzo impiegato durante varie ore
lavorative, né il tempo speso al lavoro e neppure la paga ricevuta in cambio di
esso possono essere determinati senza prendere in considerazione la resistenza
dei/delle lavoratori/trici a venir trasformati in beni, a venir trasformati in
semplici esecutori di ordini. In altre parole, l’ammontare di “prodotti di
surplus” estratti da un/una lavoratore/trice dipende dalla resistenza alla
disumanizzazione insita nel posto di lavoro, al tentativo di lavoratori/trici di
resistere alla distruzione della libertà durante le ore di lavoro.
Così, il lavoro insoluto, la
conseguenza delle relazioni autoritarie implicite nella proprietà privata, è
fonte di profitto. Parte di questo surplus viene usato per arricchire i
capitalisti e un’altra parte per incrementare il capitale che in cambio viene
utilizzato per aumentare i profitti in un moto circolare infinito (un moto
circolare, comunque, che non è incremento statico ma è soggetto a periodici
smembramenti a causa della recessione o della depressione – “il ciclo del
business”. Le cause base di queste crisi verranno discusse più avanti, nelle
sezioni C.7 e C.8).