D.1 Perchè avviene l’intervento
statale?
Lo Stato è obbligato a intervenire nella società
a causa degli effetti antisociali del capitalismo. L'ipotesi astrattamente
individualistica sulla quale è basato il capitalismo ("ognuno per
sè") si concretizza poi in un alto grado di statalismo poichè
il sistema economico in sè non ha mezzi per contrastare la sua stessa
azione di disgregazione sociale. Lo Stato deve intervenire in economia, non
soltanto per proteggere gli interessi della classe dirigente ma anche per
proteggere la società dall'atomizzazione e dall'impatto distruttivo
del capitalismo. Inoltre, il capitalismo ha una tendenza propria ad attraversare
periodi di recessione e di depressione, e il tentativo di prevenirli è
diventato parte della funzione dello Stato. Ad ogni modo, poichè prevenire
queste fasi è impossibile (fanno parte dello stesso sistema, vedi
sezione C.7), in pratica lo Stato può solo cercare di posporle e renderle
meno pesanti. Cominciamo con l’esaminare la necessità
dell'intervento statale.
Nel capitalismo terra e lavoro sono trattate come merci.
Ma come Karl Polyani ha specificato "il lavoro e la terra non sono nient’altro
che gli stessi esseri umani che costituiscono ogni società e il contesto
naturale nel quale essa è inserita; includere lavoro e terra nel
meccanismo del mercato significa subordinare la stessa sostanza della società
alle leggi del mercato." [The Great Transformation, p. 71] Questo
significa che "la società umana è diventata un accessorio
del sistema economico," e l'umanità colloca sè stessa
nelle mani della legge della domanda e dell'offerta. Una simile situazione
"non potrebbe sussistere a lungo senza annichilire la sostanza umana
e naturale della società; essa distruggerebbe fisicamente gli uomini
e trasformebbe il suo contesto in uno scenario selvaggio." [Ibid.,
pp. 41-42]
Aspettarsi che una comunità rimanga indifferente
allo scoraggiamento causato dalla disoccupazione, alle condizioni dannose
in cui si è costretti a lavorare, alle lunghe giornate lavorative
di 16 ore, al trasferimento dei posti di lavoro, e al danno psicologico e
morale che accompagna tutto questo - soltanto perchè viene prospettato
che a lungo termine le condizioni di sussistenza potrebbero migliorare -
è un'assurdità. Per i lavoratori, rimanere indifferenti - ad
esempio - a condizioni disagiate di lavoro, quietamente in attesa che i loro
datori di lavoro gli offrano migliori condizioni, o per i cittadini, attendere
passivamente che i capitalisti di loro spontanea volontà comincino
a mostrarsi responsabili nei confronti dell'ambiente, equivale ad assumere
un ruolo servile nei confronti dei datori di lavoro e apatico nei confronti
dell'umanità. Fortunatamente, i lavoratori rifiutano di essere considerati
una merce e i cittadini rifiutano di lasciare che l'ecosistema del pianeta
venga distrutto.
E’ da questi motivi che scaturisce l'intervento statale, come forma di
protezione contro le azioni distruttive del mercato. Poichè il funzionamento
del capitalismo si basa sull’atomizzazione della società, in nome
della "libertà" del mercato competitivo, non sorprende che la difesa
dagli effetti anti sociali del mercato abbia assunto forme stataliste: ben
poche altre strutture sarebbero in grado di offrire una tale protezione (proprio
la predominanza del capitalismo quale attore sociale ha indebolito, se non
distrutto, molte forme spontanee di organizzazione sociale). Ironicamente,
l' "individualismo" finisce per favorire una tendenza "collettivista" nella
società, nel momento in cui il capitalismo distrugge le forme comunitarie
dell'organizzazione sociale a favore di quelle basate sull'individualismo
astratto, l'autorità e la gerarchia. In una società libera
(comunitaria, ad esempio), l'autodifesa sociale non sarebbe demandata allo
Stato ma si manifesterebbe in forme simili al sindacalismo e alla cooperazione:
associazioni volontarie di individui che lavorano per una società
libera e giusta (vedi sezione I).
Oltre che per proteggere la coesione sociale, l'intervento statale si rende
necessario per salvaguardare le economie nazionali, e perciò gli
interessi economici della classe dirigente. Come rileva Noam Chomsky, anche
gli USA, la terra della "libera impresa", sono stati e sono tuttora caratterizzati
"fin dall'indipendenza, da interventi in larga scala nell'economia, e
dalla conquista di risorse e di mercati... [fino alla costruzione di] uno
Stato centralizzato che favorisce lo sviluppo, volto alla creazione e alla
difesa del commercio e del prodotto interno, al sostegno della produzione
locale e alla creazione di barriere rispetto alle più economiche importazioni
inglesi, alla costituzione di una base legale a protezione del potere delle
aziende private, e a numerosi altri mezzi atti ad offrire una fuga alla
stretta mortale della competizione." [World Orders, Old and New,
p. 114]
Nel caso dell'Inghilterra e di molte altre nazioni (più
recentemente il Giappone e le nazioni neoindustrializzate dell'estremo oriente,
come la Corea) la chiave dello sviluppo e del successo nel quadro del cosiddetto
"libero mercato" è stato paradossalmente proprio l'intervento statale.
Mentre, per quelle nazioni in via di "sviluppo" che, invece di seguire il
modello giapponese e coreano, hanno avuto la sfortuna di essere state soggette
alle "riforme a favore del libero mercato" (come i programmi – Structural
Adjustment Programs - del FMI e della Banca Mondiale), il risultato è
stato per la gran parte devastante: incremento drastico della povertà,
dei senzatetto, della malnutrizione, ecc. (ovviamente, le elite di quei
paesi sono rimaste indenni).
Nel XIX sec. gli Stati hanno accettato il laissez-faire
soltanto quando potevano beneficiarne e una volta sicuri di avere un'economia
abbastanza forte da sopravvivergli. "Solo alla metà del XIX sec.
quando divenne tanto potente da vincere ogni competizione, l'Inghilterra
abbracciò il libero commercio." [Noam Chomsky, Op. Cit.,
p. 115] Prima, il protezionismo e altri metodi erano usati per sostenere
lo sviluppo economico. Ancora oggi per proteggere le economie fragili viene
utilizzato il protezionismo e anche il militarismo, una delle scelte preferite
dalle classi dirigenti per aiutare l'economia, come ad esempio il "Pentagon
System" statunitense (vedi sezione D.8).
Fin dagli inizi, l’intervento statale è stato
una delle caratteristiche distintive del capitalismo. Kropotkin notava che“non
è mai esistito un sistema basato sulla mancanza di intervento statale.
Dappertutto gli Stati hanno costituito, e ancora lo sono, il pilastro principale
e il creatore, diretto e indiretto, del Capitalismo e del suo potere sulle
masse. Mai, da quando esistono gli Stati, le masse hanno avuto la libertà
di resistere all’oppressione dei capitalisti... Lo Stato ha sempre interferito
nella vita economica a favore degli sfruttatori capitalisti. Ha sempre garantito
la sua protezione al furto perpetrato dai capitalisti, fornendogli aiuto
e supporto per ulteriori arricchimenti. E non potrebbe essere altrimenti.
Questa è una delle funzioni - la principale - dello Stato.” [Evolution
and Environment, pp. 97-8] I tentativi limitati per adottare un vero
laissez-faire sono sempre falliti e hanno sempre condotto a ritornare alle
radici stataliste. Secondo Chomsky “Per Capitalismo deve intendersi principalmente
un sistema di mercantilismo aziendale, basato su tirannie private, per lo
più irresponsabili, che esercitano un forte controllo su economia,
politica, vita sociale e culturale, operando in stretta collaborazione con
il potere statale, il quale interviene pesantemente sull’economia interna
e in politica internazionale. Questo è particolarmente vero per gli
USA, nonostante le tante illusioni contrarie. Il ricco ed il privilegiato
non vogliono opporsi alla regolamentazione del mercato più di quanto
non sia avvenuto in passato, anzi la considerano quello che ci vuole."
["Anarchism, Marxism and Hope for the Future", Red and Black Revolution,
issue 2]
Perciò, contrariamente alla credenza convenzionale,
l’intervento statale sarà sempre associato al capitalismo a causa:
1) della natura autoritaria del capitalismo; 2) dell’incapacità del
capitalismo di prevenire gli effetti antisociali del mercato competitivo;
3) dell’infondata pretesa capitalista che la società debba essere
“un accessorio del sistema economico”; 4) degli interessi economici delle
elite dominanti; e 5) del bisogno di imporre relazioni sociali autoritarie
ad una popolazione contraria.
L’intervento statale è connaturato al capitalismo
quanto il lavoro salariato. Come riassume Polyani, “la contromossa statalista
opposta al liberismo e al laissez-faire possiede tutte le evidenti caratteristiche
di una reazione spontanea ... e un cambiamento dal laissez-faire al 'collettivismo'
ha luogo in molte nazioni a un determinato stadio del loro sviluppo industriale,
mettendo in rilievo la profondità e l’indipendenza delle cause sottostanti
questo processo. " [Op. Cit., pp. 149-150] “Il governo non
può volere la disgregazione sociale, perchè in questo caso
esso e la classe dominante sarebbero privati della fonte dello sfruttamento;
nemmeno può lasciare che la società si mantenga da sola senza
intervenire, perchè così il popolo capirebbe presto che il
governo serve soltanto a difendere i proprietari... e finirebbe con accelerare
lo sbarazzarsi di entrambi.” [Errico Malatesta, Anarchia, p. 22]
Non si deve dimenticare nemmeno che l’intervento statale
è necessario a creare il cosiddetto “libero” mercato. Citando ancora
Polyani, “Fintanto che il sistema del mercato non è istituito,
i liberisti chiedono l’intervento dello Stato per erigerlo e, una volta istituito,
per mantenerlo.” [Op. Cit., p. 149] Protezionismo e sovvenzioni
insieme all’uso liberale della violenza di Stato contro la classe dei lavoratori
sono le misure necessarie per creare e proteggere il capitalismo e l’industria
(vedi sezione F.8 - Che ruolo ha avuto lo stato nella creazione del capitalismo?)
In breve, il laissez-faire può anche essere la base ideologica del
capitalismo - la religione che giustifica il sistema - ma se mai è
stato praticato, lo è stato raramente. Mentre le ideologie predicano
la “libertà d’impresa” quale sorgente della moderna prosperità,
le aziende e le multinazionali banchettano alla tavola dello Stato.
L’entusiasmo recente per il “libero mercato” è nei fatti il prodotto
di un grande boom economico, che è a sua volta il prodotto di azioni
statali coordinate nel promuovere economie di guerra e profondi interventi
di impronta keynesiana (un boom che gli apologi del capitalismo usano, paradossalmente,
per provare che il capitalismo funziona) oltre a un’insana dose di nostalgia
per un passato che non è mai esistito. E’ strano come un sistema
che non è mai esistito abbia prodotto così tanto!
D.1.1 L’intervento statale è la causa
principale dei problemi?
Normalmente, no. Questo però non vuol dire che
l’intervento statale non abbia effetti negativi sull’economia o sulla società.
A causa della natura burocratica e centralizzata dello Stato, sarebbe impossibile
che non avesse effetti negativi. L’intervento statale, come spesso
fa, può peggiorare situazioni già deteriorate. Come nota Malatesta,
“l’evidenza pratica è che qualunque cosa il governo faccia è
sempre motivata dal desiderio di dominare, ed è sempre finalizzata
a difendere, estendere e perpetuare i suoi privilegi e quelli delle classi
di cui è sia il rappresentante che il difensore.“ [Anarchia,
p. 21].
Comunque, per i liberisti (neo liberali o conservatori),
l’intervento dello Stato è la radice di tutti i mali e, per loro,
è precisamente l’interferenza statale sul mercato a causare i problemi
che la società attribuisce al mercato.
Ma una posizione come questa è illogica, perchè
“chi dice regolamentazione dice limitazione: ora, come concepire di limitare
i privilegi prima che esistano?... sarebbe un effetto senza una causa”
e perciò “la regolamentazione è una correzine del privilegio”
e non viceversa. [P-J Proudhon, System of Economic Contradictions,
p. 371] Come spiega Polyani, la premessa liberista è falsa, perchè
l’intervento statale sempre “si occupa di problemi scaturiti dalle condizioni
industriali moderne o, comunque, dal modo in cui essi vengono affrontati
dal mercato stesso.” [Karl Polyani, Op. Cit., p. 146] Di fatto
poi, misure ‘collettivistiche’ sono regolarmente richieste dagli stessi convinti
sostenitori del laissez-faire, che sono regolarmente e totalmente contrari
ad ogni forma di socialismo (e tali misure sono spesso introdotte per indebolire
il sostegno alle idee socialiste, il quale sostegno aumenta proprio a causa
dell’eccesso di “libero mercato”).
Perciò l’intervento statale si verifica in risposta
a pressioni sociali e a bisogni economici. Questo è evidente durante
la metà del XIX secolo, periodo nel quale si è verificata
l’approssimazione più vicina al laissez-faire nella storia del capitalismo.
Come riferisce Takis Fotopoules, “il tentativo di stabilire un’economia
di puro stampo liberista - nel senso di libero scambio, un mercato del lavoro
competitivo e il Gold Standard - non durò più di 40 anni,
e tra il 1870 e il 1880, si tornò alla legislazione protezionista
... fu anche significativo... che a tutti i principali regimi capitalisti
che sono passati attraverso un periodo di libero scambio e di laissez-faire
abbia fatto seguito un periodo di leggi antiliberiste” ["The Nation-state
and the Market," p. 48, Society and Nature, Vol. 3, pp. 44-45].
La ragione del ritorno di leggi protezioniste fu la
depressione del 1873-86, che decretò la fine del primo esperimento
di un’economia di puro stampo liberista. Paradossalmente, quindi, il tentativo
di liberalizzare i mercati condusse ad una maggiore regolamentazione. Alla
luce di quanto finora esposto, questo non ci sorprende: nè la grande
proprietà nè i politici desideravano vedere una società
distrutta, cioè il risultato al quale conduce un laissez-faire sfrenato.
Agli apologeti del capitalismo sfugge che “all’inizio della Depressione,
l’Europa era nel pieno fulgore del libero scambio” [Polyani, Op. Cit.,
p. 216]. L’intervento statale fu la risposta e non la causa della distruzione
sociale determinata dal laissez-faire.
Alla stessa stregua, l’argomento di Ludwig Von Mises
è errato:
“fintanto che il sussidio di disoccupazione viene pagato,
la disoccupazione esisterà.” Quest’affermazione, oltre ad essere
antistorica, ignora l’esistenza della disoccupazione involontaria, che induce
lo Stato a pagare un sussidio al duplice scopo di contenere il crimine e
di evitare il formarsi della solidarietà nella classe lavoratrice,
la quale potrebbe minacciare seriamente lo status quo. Le elites sono ben
consapevoli del pericolo che potrebbero rappresentare dei lavoratori che
si autoorganizzassero per il loro benessere.
Gli apologeti del capitalismo, pur di fornire risposte
ideologiche coerenti, spesso ignorano lo stesso buon senso. Se si parte
dal loro presupposto, che la gente esista per l’economia e non l’economia
per la gente, le persone e la società nella quale sono inserite verranno
sacrificate, oggi, in omaggio ad ipotetici benefici economici delle future
generazioni (anche se in realtà il sacrificio avviene sull’altare
dei profitti attuali). Se si accetta l’etica della matematica, un incremento
futuro dell’economia è più importante delle distruzioni in
corso. Così ancora Polyani: “una calamità sociale è
principalmente un fenomeno culturale, non economico, non può essere
misurato sulla base dei ricavi aziendali” [Op. Cit., p. 157].
Ed è nella stessa natura del capitalismo, ignorare e disprezzare quel
che non può essere misurato.
D.1.2 L’intervento statale è democratico?
No. L’intervento sociale ed economico dello stato moderno
iniziò molto prima che si diffondesse il suffragio universale. Ad
esempio, in Inghilterra, misure ‘collettiviste’ furono introdotte quando
ancora il diritto di voto era limitato in base al sesso e al censo. Inoltre,
la natura centralista e gerarchica della democrazia “rappresentativa” implica
che la gran parte della popolazione non ha che un piccolo potere di controllo
sui politici, i quali sono molto più influenzati dal grande business,
dalle lobby di influenza e dalla burocrazia statale. Questo significa che
le pressioni realmente popolari e democratiche hanno poca influenza all’interno
di uno stato capitalista, mentre gli interessi delle elites sono fortemente
determinanti nella scelta delle azioni intraprese dallo Stato.
Il “New Deal” e le misure keynesiane del dopoguerra,
relative ad un limitato intervento statale per stimolare la ripresa economica
dalla depressione, erano motivate da ragioni più materiali che non
democratiche. Per questo Takis Fotopoules rileva che “il fatto che la
‘fiducia nell’economia’ era al suo livello più basso spiega perchè
coloro che controllavano la produzione fossero divenuti molto più
tolleranti nei confronti di provvedimenti che ne limitavano i profitti e
il potere economico. E’ soltanto quando - e fintanto che - l’intervento statale
ha l’approvazione di chi detiene il controllo della produzione, che esso
ha successo” [The Nation-state and the Market, p. 55, Society
and Nature, Vol. 3, pp. 44-45]
Un esempio di questo principio è il Wagner Act
negli USA del 1934, il quale decretò la prima e ultima vittoria politica
dei lavoratori negli Usa. Questa legge permette l’organizzazione dei sindacati,
ma questo vincola le lotte dei lavoratori all’interno di procedurre legali
e perciò ne facilita un più agevole controllo. Inoltre, questa
concessione fu la formalizzazione di una sorta di pacificazione i cui effetti
rendevano più difficile, ai lavoratori organizzati nei sindacati,
contestare le basi fondamentali del sistema capitalista. Una volta che la
paura nei confronti dei militanti del movimento dei lavoratori passò,
il Wagner Act fu indebolito e reso vano da nuove leggi, leggi che permettevano
di scavalcare il Wagner Act, aumentando il potere dei datori di lavoro sui
lavoratori.
L’implicazione dell’ideologia liberale classica che
la democrazia popolare costituisca una minaccia per il capitalismo è
alla radice dell’errata concezione che l’intervento statale sia il risultato
di un processo democratico. L'idea che, autolimitandosi i privilegi, i ricchi
faranno leggi di cui beneficieranno tutti, la dice lunga sulla fede nell'altruismo
dei ricchi che nutrivano i liberali classici, oltre a testimoniarci del
loro grado di comprensione della natura umana e di conoscenza della storia.
Il fatto che i liberali classici potessero concordare con John Locke e affermare
seriamente che tutti debbano adattarsi a ruoli concepiti da pochi dice anche
molto sulla loro concezione di "libertà".
Naturalmente molti dei liberali classici più
moderni (ad esempio, gli “anarco”-capitalisti) reclamano uno "stato democratico"
che non possa intervenire in materia economica. Questa richiesta non rappresenta
una soluzione, dal momento che si occupa solo di liberare la società
dalla risposta statalista a quei problemi, che rimangono reali, pressanti
e causati dal capitalismo, senza offrire nei loro confronti nessuna risposta
migliore.
Gli anarchici sanno che lo Stato, a causa della sua
centralizzazione e della sua burocrazia, schiaccia la natura spontanea della
società, penalizzandone il progresso e l'evoluzione. Però,
ipotizzare di lasciare il mercato in azione da solo significa credere che
la gente lascerebbe che le forze del mercato distruggano la loro comunità
e il loro ambiente. Liberarsi dell’intervento statale senza liberarsi del
capitalismo e senza creare una società libera e comunitaria vorrebbe
dire mantenere lo stesso bisogno di protezione sociale ma con minori possibilità
di conseguirla rispetto a quanto accade ora. Il risultato di una politica
di questo genere, come insegna la storia, sarebbe una catastrofe per la classe
lavoratrice (e l'ambiente) di cui beneficerebbero solo le elites (come è
nelle intenzioni di chi propugna queste richieste, naturalmente). Affermare
che l’intervento statale sia il risultato della democrazia varrebbe a dire
che lo Stato esiste per il benessere della maggioranza, la quale lo usa
per espropriare la ricca minoranza! Sorprendentemente molti apologi del
capitalismo accettano questo argomento come una valida obiezione alle loro
premesse, anche se è ovviamente una reductio ad absurdum di quella
premessa senza contare che prescinde dai fatti storici.
D.1.3 L'intervento statale è socialista?
No. Il socialismo libertario è autoliberazione
e autogestione delle attività di ciascuno. Chiedere allo Stato di
agire per noi è l'opposto di questi ideali. Inoltre, la domanda implica
che il socialismo sia connesso con la sua nemesi, lo statalismo, e che il
socialismo significhi anche più controllo e centralizzazione burocratica.
L'identificazione del socialismo con lo Stato è qualcosa su cui sia
gli Stalinisti che i sostenitori del capitalismo si trovano d'accordo entrambi.
Comunque come vedremo nella sezione H.2, il "socialismo di Stato" è
in realtà soltanto capitalismo di stato: modificare il mondo in "un
ufficio e una fabbrica" (per usare le parole di Lenin). Non desta meraviglia
che la maggior parte della gente si unisca alle anarchiche nel rigettarlo.
Chi vuole lavorare per un sistema nel quale se non ti piace il padrone (lo
Stato) non puoi neanche licenziarti?
La teoria che l'intervento statale sia "socialismo strisciante"
scopre il vero volto dell'ideologia del laissez-faire, un'ideologia che
non rispecchia la realtà. Il capitalismo è un sistema dinamico
che evolve nel tempo, ma questo non vuol dire che negare semplicemente la
sua premessa ideologica significhi diventare socialisti. Il capitalismo è
nato dall'intervento statale e, con l’eccezione di un periodo molto breve
di laissez-faire che terminò nella depressione, è sempre dipeso
dall'intervento statale per la sua sopravvivenza.
Denotare come "socialista" l'intervento statale, significa
ignorare anche la realtà della concentrazione del potere nel capitalismo.
Il socialismo equipara il potere ridistribuendolo alla gente ma, come Noam
Chomsky rileva, "in una società molto poco egualitaria, è
più difficile che i programmi governativi tendano ad aumentare l'uguaglianza.
Piuttosto, c'è da aspettarsi che essi saranno progettati e manipolati
dal potere privato a suo proprio tornaconto; e che questa aspettativa sia
soddisfatta in misura significativa" [The Chomsky Reader, p.
184]. "Welfare uguale socialismo" è un controsenso.
In Inghilterra, durante la nazionalizzazione di circa
il 20% dell'economia (che guardacaso riguardò il 20% meno profittevole),
compiuta nel 1945 dal governo laburista, fu il risultato diretto più
che del socialismo, della paura della classe dominante nei confronti del
socialismo. Come disse Quintin Hogg, un conservatore del tempo, "Se non date
alla gente riforme sociali, loro vi daranno una rivoluzione sociale." Il
ricordo delle rivoluzioni europee successive alla prima guerra mondiale era
ovviamente fresco per molti. Nè c’erano molte paure di introdurre
il “socialismo” attraverso la nazionalizzazione. Come gli anarchici di quel
tempo notarono, "la reale volontà dei capitalisti può essere
svelata dalle condizioni della Borsa e dalle richieste degli industriali
- piuttosto che dagli scanni del Fronte Conservatore - e da quelle vediamo
che la classe dei proprietari non è dispiaciuta del tutto dai contenuti
e dalle tendenze del Partito Laburista" [Vernon Richards, ed., Neither
Nationalisation nor Privatisation -- Selections from Freedom
1945-1950, p. 9].
Allora, cosa pensano gli anarchici dell'intervento statale?
Generalmente siamo contrari, anche se la maggior parte di noi pensa che
i servizi sanitari e i sussidi di disoccupazione (ad esempio) siano socialmente
più utili della produzione di armi e, in luogo di soluzioni più
anarchiche, siano da preferire rispetto al capitalismo del "libero mercato".
Questo non significa che noi siamo felici dell'intervento statale, che in
pratica indebolisce l'auto-aiuto, l'autonomia e il mutualismo della classe
lavoratrice. Inoltre, l'intervento statale è spesso "paternalistico",
promosso da e per le "classi medie". Ad ogni modo, finchè non si
determina una sufficiente controcultura anarchica non possiamo che "sostenere"
il male minore (ma non facciamoci illusioni: si tratta di un male).
Questo non significa negare che in molti casi un qualche
"sostegno" dello Stato possa essere usato come un modo di riprendere una
parte del potere e del lavoro rubato dai capitalisti. L'intervento statale
può dare ai lavoratori più possibilità di quelle
che altrimenti avrebbero. Se l'azione dello Stato non potesse essere usata
anche in questo modo, non si spiegherebbe perchè i capitalisti e i
loro "esperti" prezzolati spenderebbero tanto tempo nel cercare di indebolirla
e limitarla. Così come la classe dei capitalisti usa lo Stato per
rinforzare il suo potere e i suoi diritti di proprietà, è naturale
che la classe lavoratrice cerchi di utilizzarlo nel modo in cui può.
Queste considerazioni però non devono far passare in secondo piano
gli aspetti negativi del welfare state e delle altre forme di intervento
statale (vedi sezione J.5.15 sulla posizione anarchica a proposito del welfare
state).
Un problema a proposito dell'intervento statale, come
osservò Kroptkin, è che l'assorbimento delle funzioni sociali
da parte dello Stato "favorisce necessariamente lo sviluppo di un gretto
e sfrenato individualismo. In funzione del crescere degli obblighi che si
formano nei confronti dello Stato, diminuiscono quelli che legavano i cittadini
l'un l'altro" [Mutual Aid, p. 183]. Nel caso delle "funzioni
sociali" adempiute dallo Stato, come l'assistenza sanitaria, anche se esse
sono il risultato dell'atomizzazione sociale causata dal capitalismo, tendono
a rinforzare l'individualismo e la mancanza di responsabilità
sociale e personale, individualismo e mancanza di responsabilità
che sono proprio all’origine del bisogno di assistenza (le forme di auto-aiuto
comunitarie e sociali e i loro precedenti storici saranno discusse nella
sezione J.5.16)
La nazionalizzazione delle aziende costituisce un ottimo
esempio della natura non-socialista dell'intervento statale. Nazionalizzare
significa sostituire la burocrazia capitalistica con quella statale, con
scarso miglioramento delle condizioni di quanti sono assoggettati al nuovo
"regime". Al culmine del processo di nazionalizzazione inglese portato avanti
nel dopoguerra dal Partito Laburista, gli anarchici ne denunciarono la natura
antisocialista: la nazionalizzazione stava "rafforzando la vecchia classe
capitalista con una nuova ed efficiente classe di manager per affermare ...
il capitalismo di stato ... collocando industriali creativi in posizioni
direttive dittatoriali" [Vernon Richards, Op. Cit., p. 10].
Gli anarchici sono favorevoli alle attività autogestite
e all'azione diretta per ottenere miglioramenti e sostenere cambiamenti,
qui e subito. Organizzando autonomamente scioperi e proteste, ciascuno di
noi può migliorare la propria vita. Questo non significa che usare
l'azione diretta per ottenere l'approvazione di leggi favorevoli o la revoca
di leggi meno favorevoli sia una perdita di tempo, tutt'altro. A meno che
la gente non si adoperi direttamente e attraverso le sue organizzazioni per
far valere la legge, lo Stato e gli imprenditori onoreranno qualsiasi legge
che non sia loro favorevole esclusivamente da un punto di vista formale.
Una protezione sociale contro il mercato e contro le concentrazioni di potere
che confidi nello Stato è una richiesta inconsistente. Quello che
lo Stato dà (o viene spinto a dare), se lo riprende, ma quel che creiamo
e gestiamo da noi stessi risponde sempre ai nostri desideri e interessi.
Queste considerazioni diventano ovvie, dopo aver visto quanto vulnerabile
sia il welfare state di fronte alle pressioni della classe capitalista.