Vincenzo Guagliardo.
DI SCONFITTA IN SCONFITTA.
Considerazioni sull'esperienza brigatista alla luce di una critica del rito del capro espiatorio.
Edizioni Colibrì, Milano 2012.
Prima edizione: dicembre 2002.
Seconda edizione: marzo 2012.
Via Coti Zelati, 49 - 20037 Paderno Dugnano (Mi)
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Vincenzo Guagliardo, figlio di emigrati siciliani, nasce nel 1948 in Tunisia. Nel 1962 l'intera famiglia rientra in Italia, dove il padre trova impiego come operaio a Torino presso la Fiat. Vincenzo frequenta l'istituto tecnico per geometri e, dopo varie occupazioni, a diciannove anni, entra in fabbrica. Partecipa ai movimenti di lotta che nascono negli anni Sessanta e che scuotono l'Italia lungo tutto il decennio successivo e oltre. Nei primi anni Settanta diventa membro dell'organizzazione armata Brigate Rosse ed entra in clandestinità. Successivamente, viene arrestato e poi condannato all'ergastolo.
Nell'aprile 2011, dopo trentatré anni di detenzione, ottiene la libertà condizionale, e così anche Nadia Ponti, con la quale si è sposato in carcere nel 1987.
Tra i suoi scritti segnaliamo: "Il vecchio che non muore", Freebook, Milano, 1991; "Il MeTe imprigionato. Storia di un amore carcerato", Grafton 9, Bologna, 1994; "Dei dolori e delle pene", Sensibili alle Foglie, Tivoli (Roma), 1997; "Resistenza e suicidio. Appunti politici sulla coscienza", Colibrì Edizioni, Paderno Dugnano (MI), 2005.
In questo libro, giunto alla sua seconda edizione, Vincenzo Guagliardo affronta alcune dinamiche nascoste che hanno accompagnato l'antagonismo e la lotta di classe negli anni Settanta-Ottanta e giunge a una serie di conclusioni fondamentali circa la necessità di una liberazione dalla tendenza a riprodurre dentro di sé la figura del proprio nemico.
Come le rivolte e le insorgenze susseguitesi nel corso della storia, anche la vicenda brigatista reca il marchio di una sconfitta su cui, dice Guagliardo, mancano ancora adeguate riflessioni. Egli ne propone una che, evitando di reiterare la colpevolizzazione degli individui, «derivato psicologico di quel centro istituzionale che è il principio vittimario», permette di modificare se stessi: «perché cambi il mondo è proprio la riflessione sulle sconfitte quella più utile».
E l'attuazione di questa proposta esige un'analisi dell'intero corso della storia da una nuova prospettiva in cui la ricostruzione delle vicende può finalmente darsi in una chiave non manichea. Finché non verrà trovato il modo di "raccontarsi", superare e soppiantare il «principio vittimario», le ritualità che da questo derivano si ripeteranno all'infinito. Viceversa, il suo superamento sarà il punto di partenza per una nuova modalità di relazione fra gli esseri umani.
Prefazione alla nuova edizione.
Nota editoriale alla prima edizione (2002).
1. Un'eresia che si rivela ortodossa.
2. Le difficoltà a superare la violenza.
3. Necessità di riconoscere l'incompiutezza umana.
4. Gli inevitabili equivoci della lotta armata.
5. La «crisi» è l'inevitabile sbocco del rito del capro espiatorio.
6. Come si rinnova il principio vittimario.
8. Le resistenze al principio vittimario.
9. Vecchie resistenze, nuove speranze.
1. Sfidare zone rosse o sottrarsi alle zone grigie?
ANNI '70: UNA OSSESSIONE MEMORIALE SENZA STORIA, di Paolo Persichetti.
COERENZA E LIBERO ARBITRIO, di Tommaso Spazzali.
DIECI ANNI DOPO. Intervista di Massimo Cappitti a Vincenzo Guagliardo.
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Perché una riedizione dello scritto di Vincenzo Guagliardo "Di sconfitta in sconfitta"? La prima edizione non ha avuto una grande diffusione, non ha 'meritato' o 'attirato' nessuna attenzione mediatica, ma ha invece innescato un dibattito ed aperto tematiche sufficienti a giustificare la riproposta di questo testo.
Vincenzo Guagliardo applica la critica del rito del capro espiatorio alla storia delle Brigate Rosse sia nella fase della costituzione e dell'ascesa di questa formazione armata, in cui il "nemico" era esterno e certo, sia nella fase discendente, nella sconfitta, dove il problema della tenuta dell'organizzazione era prioritaria, il nemico diventava interno e, come prima, si continuava a rimandare a «un secondo tempo la discussione» su ciò che «si voleva costruire in alternativa al presente».
L'esperienza brigatista, che ha segnato la vita di Vincenzo Guagliardo, è comunque sullo sfondo, il fine della sua ricerca non è quello di fare storie o bilanci dell'organizzazione in cui ha militato, o della sua vita, ma quello di aprire una riflessione più ampia che riguarda la condizione umana degli oppressi e che si applica anche a quella degli oppressori.
La vicenda brigatista quindi si perde nelle migliaia di rivolte e insorgenze che si sono susseguite nella storia: tutte hanno il marchio della sconfitta, e su questo Guagliardo ci dice che manca ancora una riflessione. Propone al riguardo un approccio storico al problema che a suo avviso permetta di acquisire una visione che non rinnovi la colpevolizzazione degli individui, «derivato psicologico di quel centro istituzionale che è il principio vittimario» e questo per continuare a cambiare se stessi: «perché cambi il mondo è proprio la riflessione sulle sconfitte quella più utile».
Il rito del capro espiatorio per funzionare ha bisogno di un nemico, quindi di una sua individuazione e di una sua messa all'indice, ma ha anche bisogno di rimozioni, di mutilazioni, una di queste è quella del contesto; per l'«oppresso» è anche importante cancellare il suo antagonismo, poi tutto può procedere senza intoppi.
Paolo Persichetti, nello scritto presente in questo libro, si scaglia contro il «filone complottista» elaborato dalla sinistra, e non solo, che ha rielaborato la storia degli anni settanta ed ha individuato un nemico, le «formazioni terroristiche», a cui attribuire i propri insuccessi e poi, per dare una ragione alle loro ulteriori sconfitte, ha elaborato una teoria del «doppio stato» che manovrerebbe ai loro danni. Si segue anche qui il registro del rito del capro espiatorio.
Nella vicenda delle Brigate Rosse lo stato italiano, quello democratico, non si è accontentato di scriverne la storia come suo diritto in quanto vincitore, ha aggiunto qualcosa in più, l'ha fatta scrivere ai vinti. Questi hanno dovuto individuare il nemico, sia interno a se stessi che esterno, e mettere all'indice quelli che si sono sottratti ad un percorso di «autentico ravvedimento», hanno rielaborato e ricostruito la loro e l'altrui storia, ne sono diventati i detentori e, grazie a una corsia preferenziale sia giudiziaria che massmediatica, ne vorrebbero avere il monopolio. Si sono quindi costruiti una identità integerrima che non può scendere a patti con i vecchi compagni che ora sono i loro nemici. Queste identità individuali e di gruppo non sfuggono al rito del capro espiatorio in quanto ne sono un suo derivato, l'identità diventa una prigione con le relative conseguenze paranoidi.
A tutte queste costruzioni identitarie la realtà gioca sempre qualche scherzo, da ultimo vediamo il caso di Cesare Battisti, un «terrorista» degli anni '70 con quattro condanne all'ergastolo che si è sottratto alla giustizia italiana rifugiandosi in Brasile. Questi si professa innocente, dichiara che è tutta colpa dei pentiti eccetera ed avendo voce data la sua intricata situazione (anche la Francia è coinvolta in questo pasticcio), scompiglia un quadro già definito e considerato giudiziariamente chiuso. Il parlamento italiano come un «sol uomo» richiede che Cesare Battisti venga estradato. Un vero capro espiatorio, un nemico certo, il parlamento italiano è compatto, diventa in un attimo «giustizialista» a 360 gradi, svaporano tutte le ostilità come se ci fosse un'emergenza, uno tsunami da affrontare, non può mediaticamente comunicare ai suoi elettori che una delle motivazioni per cui non viene concessa l'estradizione è quella che in Brasile non esiste la pena dell'ergastolo mentre in Italia sì.
Tommaso Spazzali ci ricorda, sempre in questo libro, che in Italia vi sono più di 1200 detenuti condannati all'ergastolo.
Anche il potere è vittima del rito del capro espiatorio, deve seguire il suo decalogo, lo può manovrare, ne ha i mezzi, ma non può emanciparsi dalla sua logica, sa che le «classi subalterne», il «popolo», «la società civile» sono «"possedute da un inconscio espiatorio"» e agisce di conseguenza, un «nemico» è indispensabile, serve alla coesione sociale.
E' ora di dare inizio ad una storia che abbia come fondamento la non collaborazione alla servitù volontaria.
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NOTA EDITORIALE ALLA PRIMA EDIZIONE (2002).
Il lettore che si aspetti di trovare in queste pagine una «storia» delle Brigate Rosse, con eventuali rivelazioni sensazionali o notizie inedite, rimarrà molto probabilmente deluso.
La storia ufficiale, in genere, è frutto di una ricerca condotta a partire da un punto di vista apparentemente oggettivo, che tuttavia non sfugge all'inevitabile influenza del pregiudizio ideologico; il bagaglio culturale da cui lo storico non può umanamente prescindere sottende la ricostruzione degli eventi, e confina l'oggettività a cui si aspira nel dominio delle velleità e delle illusioni. Il prezzo che lo storico paga a questo circolo vizioso è la propria estraneità ai fatti di cui si occupa, estraneità che si pretende essere necessario presupposto di un approccio obiettivo.
La testimonianza che proponiamo al lettore in queste pagine scaturisce da un atteggiamento completamente diverso, che non ha nulla a che vedere con la metodologia storica e storiografica. Vincenzo Guagliardo, l'autore, è stato protagonista, in prima persona, delle vicende a cui si fa riferimento, e quindi, secondo il noto adagio popolare («chi sa fa, chi non sa insegna»), dovrebbe limitare il proprio contributo al terreno dell'azione e della pragmatica, poiché chi partecipa direttamente alle vicende umane non può avere il distacco necessario a raccontarle.
La storia giudiziaria e detentiva di Guagliardo gli consente tuttavia di aggirare l'ostacolo: con la legge Gozzini e con la legislazione degli anni ottanta e novanta in materia di riabilitazione sociale dei detenuti egli potrebbe dare una soluzione "personale" alla propria vicenda giuridica, che, in termini prosaici, abbrevierebbe di qualche lustro la sua permanenza in carcere.
La strada che egli sceglie, invece, è quella della soluzione "collettiva", di modo che la propria storia personale diventa patrimonio collettivo di una generazione, o almeno di parte di essa. Ciò consente al suo approccio soggettivo di raggiungere profondità che nessun preteso distacco può lontanamente immaginare.
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Mi si dice che da anni, nel mondo dei liberi, i pentiti di vario tipo della lotta armata premiati dallo Stato (dai delatori ai semplici abiuranti) amano ripetere a tutti: «Meno male che abbiamo perso», fino al punto di risultare noiosetti. Ebbene, anch'io dalla mia cella faccio mia questa frase, anche se con uno spirito diverso dal loro, ovviamente. Questa frase, infatti, può solo irritare chi incensa se stesso e crea monumenti sul proprio passato (in questo caso, sulla lotta armata). Tuttavia, la sua irritazione sarà frutto di un equivoco. E' solo da un punto di vista molto idealistico e in fin dei conti reazionario che si può ritenere di raggiungere la perfezione; chi è per il cambiamento, ovvero si ritiene «rivoluzionario», dovrà sempre riconoscere di non aver mai raggiunto la perfezione, e perciò dovrà accettare la verità che si vada sempre avanti da un errore all'altro. Se perciò inizio con questa frase la mia riflessione, non è sotto il segno del pentimento ma sotto quello dei rimpianti necessari per continuare a voler cambiare se stessi perché cambi il mondo. In questo senso è proprio la riflessione sulle sconfitte quella più utile, almeno finora, in questo mondo.
La prima cosa che dovremmo tutti imparare è allora che l'errore e la sconfitta non sono da vivere come una tragedia, ma come una caratteristica necessaria del mutamento reale per chi non sia soddisfatto dell'esistente. Chi non sa cambiare idea finisce involontariamente per essere complice di chi ha interesse a mantenere il dramma in cui viviamo tutti. Il riconoscimento della sconfitta è la base necessaria del mutamento: non riconoscerla con la propria coscienza è la fonte della tragedia perché allora ciò che è stato sancito dai fatti ci verrà imposto in modo catastrofico, senza esser foriero di nuova consapevolezza e minor dolore, lasciandoci solo la possibilità della patetica nostalgia o dell'indecoroso ritorno all'ovile.
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UN'ERESIA CHE SI RIVELA ORTODOSSA.
Quando decidemmo di far la lotta armata per il comunismo, nei primissimi anni Settanta, credo che fossimo tutti convinti di essere degli eretici, se non altro perché sapevamo - anche solo contandoci - di essere una minoranza che doveva nascondersi agli occhi dei più e non solo dello Stato. Tuttavia, poiché persino la via dell'inferno è lastricata di buone intenzioni, bisogna riconoscere che ambigua fu anche questa eresia per il paradiso.
Gli aspetti per cui ci sentimmo diversi e originali, in realtà, altro non erano che aggiustamenti tattici rispetto alla tradizione del «Movimento operaio» (come si diceva allora); tradizione che pensavamo illusoriamente di mettere in discussione in modo quanto mai radicale. Giovani e inevitabilmente ignoranti, ci entusiasmammo troppo per troppo poco. In fin dei conti nella nostra eresia, ricorrendo alla lotta armata, ci limitavamo a voler essere coerenti rispetto a chi, secondo noi, aveva abbandonato la purezza dell'ideale «imborghesendosi». In questo senso, il paradosso della nostra eresia consisté nell'essere degli ultra-ortodossi dal punto di vista pratico. A ben vedere, ci limitammo solo a scrostare la superficie di tutto ciò che era da mettere in discussione, e così non fummo una nuova alba, ma piuttosto il poco elegante canto del cigno del movimento che doveva morire, mettendo a nudo la sua crisi. E ciò, nonostante la natura indubbiamente autentica delle nostre inquietudini sull'avvenire.
Si diceva troppo facilmente e superficialmente, all'epoca, che la Resistenza contro il nazi-fascismo era stata tradita dato che (tanto per fare un piccolissimo esempio) era stato ordinato ai partigiani di consegnare le armi, così confinandola in una lotta nazionale e antifascista, mentre in realtà il proletariato più cosciente ce l'aveva col capitalismo. Varie componenti della sinistra extraparlamentare d'allora (in genere filocinesi) definivano come «revisionisti» gli orientamenti riformisti, socialdemocratici della sinistra ufficiale (o «storica», come si diceva allora per indicare P.C.I., P.S.I. e i sindacati).
Si trattava di analisi grossolane o, meglio, ingenue, seppure con parti di verità. Chi infatti accusa l'altro d'aver tradito non è più qualcosa di nuovo rispetto a lui, un vero eretico, ma l'ortodosso difensore di un antico patrimonio la cui validità non è messa in discussione. L'astio fa brutti scherzi, rende complici in inconsce fratellanze. Certo, si trattava di discorsi generici, ma diffusi nella generalità del movimento; i singoli individui che si rivolsero all'uso delle armi poterono avere e spesso ebbero motivazioni personali ben più complesse, ma contarono purtroppo ben poco nell'originare il fenomeno politico nel suo insieme; e quindi è inutile che io parli qui, ora, delle originalità di Tizio o Caio rispetto a questo quadro generale, i quali pur ci furono, ma le loro idee rimasero nel limbo delle opinioni personali, di diffuse inquietudini che tuttavia mai divennero politica vera e propria della lotta armata.
La più grossa e duratura esperienza armata di quegli anni fu quella delle Brigate rosse. E di questa parlerò soprattutto, poiché ne feci parte. Io non credo all'obiettività della storiografia come scienza, ma all'utilità della testimonianza di storie soggettive.
Ci sentimmo originali rispetto al passato in due punti.
Prima di tutto sapevamo di non star organizzando una insurrezione come pensarono di poter fare i comunisti della Terza Internazionale mezzo secolo prima di noi. Avevamo di fronte a noi uno scontro di lunga durata e ritenevamo che, ormai, armi e clandestinità fossero condizioni nevralgiche per lo stesso far politica. L'opposizione legale era di Sua Maestà; eravamo in una falsa democrazia. Di conseguenza la scelta della lotta armata era una «strategia» e non più una delle «tattiche» possibili (come era sempre stato riconosciuto nelle teorie e nelle pratiche del Movimento operaio). Ma, poiché era condizione del far politica in una dura situazione e non il risultato di prospettive mature per assalti finali, ecco che scoprimmo di possedere un'altra originalità: non essendo più l'aspetto militare il «braccio armato» del politico, noi agivamo in modo insieme politico e militare, in un'unica parola: «politico-militare».
E tale caratteristica fu per noi quella più importante per le sue numerose implicazioni nelle nostre menti: politiche, umane, morali. Fu in questa affermazione che di più ci sentimmo in discontinuità con il passato, avviati lungo una nuova strada che non avrebbe più conosciuto, a nostro parere, l'umiliante ritorno all'ovile, il tradimento.
C'era prima di tutto una forte dimensione morale dietro alla unificazione di quelle due parole, «politico-militare». Diciamo che, come in un ritorno alle antiche tradizioni cavalleresche, anche tra i guerriglieri come per gli antichi guerrieri il capo non era più colui che stava al sicuro, ma colui che stava in prima fila nel rischio. Per me, per esempio, si trattò di qualcosa di fondamentale. Davanti a sé si metteva il rischio della morte o della prigione; la possibilità di «tradire» il movimento operaio era perciò esclusa a priori da questa scelta, mi dicevo. L'intellettuale che veniva a combattere si proletarizzava di fatto, non avrebbe più potuto tornare indietro facendo rientrare dalla finestra quello che cacciavamo dalla porta: la divisione sociale del lavoro. Inoltre, anche un proletario avrebbe potuto ora avere un ruolo di rilievo nelle file dell'organizzazione perché quel che contava anzitutto erano la saggezza personale e la dedizione alla causa, non certo il dominio della parlantina... Quindi, finalmente, l'aggregazione rivoluzionaria si sarebbe sviluppata «per linee interne al movimento operaio», come dicevamo ossessivamente nei nostri primi documenti.
Tali mie (devo ripeterlo? ingenue) convinzioni d'allora erano ampiamente condivise, dato che avevano lì per lì non pochi riscontri nella nostra realtà. Le B.R. infatti nacquero e si svilupparono anzitutto nelle grandi fabbriche del Nord. Ci sentivamo e dichiaravamo anti-settari, anti-dottrinari. Qualcuno proveniva dai marxisti-leninisti (i filo-cinesi) e aveva magari osannato Stalin, qualcun altro all'opposto Trotzky; i più, provenienti dalle fabbriche, non avevano di solito osannato granché: e tutto questo però non aveva più importanza e ne eravamo orgogliosi; mentre i gruppi della sinistra extraparlamentare, che si erano in gran parte detti «nuova sinistra», ci sembravano la ripetizione un po' rachitica della vecchia sinistra, come questa presa da assurde e rancorose divisioni ideologiche sempre meno comprensibili...
E invece...
Intanto, la nostra mancanza di acidità dottrinaria, di ideologismo, se era un'indubbia qualità anti-settaria, nascondeva anche, più in profondità, un vuoto d'idee sulla visione del «dopo». E col tempo infatti, di fronte alle difficoltà, anche noi conoscemmo questi veleni (come dirò più avanti). Con la nostra freschezza anti-settaria non facevamo che rimandare a un "secondo tempo" la discussione su ciò che volevamo costruire in alternativa al presente. Sicché, alla resa dei conti, non mettevamo affatto in discussione il bagaglio che avevamo ereditato storicamente ma anzi, senza rendercene conto, ci limitavamo a porre una questione di coerenza, ovvero, nei fatti, come dicevo, di ortodossia. Era come se credessimo in sostanza che bastasse cambiare i "modi di fare" proprio per raggiungere quegli obiettivi condivisi con i nostri predecessori, che così restavano i nostri padri, per quanto poco noi li riconoscessimo o essi molto ci rinnegassero...
L'obiettivo restava anche per noi quello della conquista del potere politico, come tappa necessaria per arrivare al socialismo, e di qui al comunismo, la società senza classi. Proprio il nostro silenzio anti-settario era non già la gravidanza di una nuova lingua, ma il luogo in cui meglio si realizzava la continuità fra «padri e figli»: nella non ridiscussa ereditata ipotesi di conquista del potere politico attraverso il ricorso alla violenza rivoluzionaria come tappa necessaria e inevitabile per costruire una nuova società. Tutto il resto, per quanto importante ai nostri occhi come differenza, era nei fatti del tutto secondario...
E' pur vero che vivevamo «male» questa situazione. Come ho già detto prima, come individui potevamo avere tanti nostri dubbi. Ma poiché si traducevano nel... silenzio dubbioso, andava sempre a finire che prima o poi, e poi sempre più spesso, qualcuno ripetesse pappagallescamente quegli antichi orizzonti in qualche scritto per appagare il suo bisogno di consolanti certezze. Cosicché tutti rimandavamo la questione del «per che cosa» a un "secondo tempo", chi con le sue certezze, chi con le sue autocensure sui propri dubbi.
Da un punto di vista personale, psicologico, la teoria dei due tempi della rivoluzione insita nel progetto di conquista del potere politico, si spiega molto semplicemente e la si può riassumere grosso modo così: non possiamo essere già oggi degli esseri umani nuovi, questo mondo ce lo impedisce. Dunque accettiamo il costo che questo mondo c'impone affinché domani possa essercene uno migliore e, con esso, una nuova umanità.
Questa teoria, umanamente comprensibilissima, si è rivelata una grandissima trappola. E' stata per numerosi decenni la risposta a una contraddizione difficilmente risolvibile: il nodo della violenza su cui è fondata la nostra civiltà. Quando infatti si decide di rispondere alla violenza con la violenza, ritenendo ciò inevitabile, ci si ritrova davanti a un bivio: accettando di ricorrervi, si è delle persone «nuove» o no?
Fascisti, nazisti e - seppure in modo molto diverso - anche alcuni filoni anarchici individualisti, hanno creduto di poter rispondere affermativamente a questa domanda. Hanno ravvisato una funzione catartica della violenza reattiva, creatrice perciò di relazioni umane e solidali di fronte al pericolo, espressioni di un «uomo nuovo». Molto coerentemente, i nazi-fascisti affermarono che la loro violenza era già un nuovo mondo che realizzava valori alternativi all'eguaglianza e alla pace (ritenute «ipocrite e borghesi»). Molto più confusi furono i filoni anarchici citati, che di solito fecero ricorso a filosofie individualiste, nichiliste, dato che da un lato rifiutavano il cinismo insito nelle filosofie di destra, ma dall'altro accettavano la violenza rivoluzionaria ritenendola creatrice di nuove relazioni umane. Essi sono in qualche modo la versione primitiva della guerriglia urbana. Formalmente, non vogliono affermare nuovi valori, bensì distruggere prima ogni principio d'autorità, ogni dogma, ma finiscono così per cadere spesso in una visione individualistica puerile. La tradizione maggioritaria che si afferma invece nel movimento operaio prende molto sul serio i valori affermati nella Rivoluzione francese del 1789 (e in parte nel messaggio evangelico). Si può dire che il movimento comunista - vedi Babeuf - nasca proprio così, considerando libertà, eguaglianza, fraternità valori universali che la borghesia non potrà né vorrà mai portare avanti fino in fondo, onorandoli perciò solo formalmente (e ipocritamente). E questo orientamento contraddistinguerà tutte le componenti del movimento operaio, dalle sue prime versioni utopistiche fino alle successive esperienze anarchiche e marxiste.
Noi, dunque, essendo di formazione marxista, non potevamo concludere altro che il ricorso alla violenza fosse un «male necessario». Pertanto sapevamo di non poter essere l'«Uomo nuovo» che costruiva la nuova società, ma soltanto coloro che, nel vecchio mondo, lottavano per una migliore società. Intuivamo questa contraddizione, non sapevamo, non potevamo risolverla. E questa è stata del resto la contraddizione di tutti i marxisti, affrontata in modi diversi da tutti, e non è detto che il nostro sia stato il peggiore. Date certe premesse, la questione è infatti irrisolvibile, come capii molti anni più tardi.
Se devi rimandare al domani quel che senti di essere già oggi, dovrai per intanto essere «simmetrico» a coloro che avversi. E come può la coscienza approfondirsi in questo rimando, ossia ripristinando un dualismo che era inammissibile nello stesso quadro teorico del materialismo marxiano? Ma ne riparleremo meglio. Intanto diciamo che non ci accorgevamo assolutamente di accettare, con questa teoria dei due tempi, non solo una tattica ma l'intero modo di pensare di quella cultura i cui frutti contestavamo. Questo modo di pensare, apparentemente dettato da realismo e buon senso, incoraggiato dagli stessi «classici» cui facevamo riferimento (il Marx 'hegeliano' del regno della necessità che viene prima di quello della libertà, eccetera) era tutt'altro che privo di conseguenze. Se tu stesso riconosci che la violenza non è più una «scelta» tua ma la risposta inevitabile sul terreno scelto dal tuo avversario, devi poi accettarne la logica... E' vero che ti senti meno complice di tale violenza di come ti sentiresti se te ne stessi alla finestra, ma la contraddizione non è risolta.
Questa contraddizione attraversa un intero secolo a cavallo tra Ottocento e Novecento. Si tratta del conflitto tra sentimento e ragione, e così nasce: quando nell'Ottocento si afferma la «democrazia borghese», ci si accorge che la politica si trasforma per ridursi sempre più a un'attività 'senz'anima'. Ad accorgersene per primi non sono affatto dei rivoluzionari; basti leggere le lucide analisi di Alexis de Tocqueville sulla democrazia in America, basti ricordare che le prime teorie socialisteggianti nacquero anche da «reazionari» indignati dallo svuotamento di valori che s'andava realizzando in un mondo mercantile, eccetera. (E persino la moderna sociologia, in fondo, nasce prima in letteratura con l'immensa opera romanzesca di Balzac, che era orleanista...).
E' di fronte a questa politica «senza anima» che nasce il «terrorismo» moderno dell'Ottocento. Accanto ad essa e contro di essa, nel Risorgimento italiano come nella lotta dei populisti russi contro lo zar, si afferma una politica degli "impazienti" - ed è un fenomeno che ancora oggi attende la sua compiuta analisi per il suo necessario superamento. Nel terrorismo di fine Ottocento e primo Novecento si registra il primo segno politico di disagio verso un'intera civiltà e non solo semplicemente verso un regime, un governo. Molti osservatori dell'epoca vedono allora in esso, non a caso, una ribellione del sentimento alla ragione. Ancora nei nostri anni Trenta, c'è chi riassume bene questo giudizio; è l'allora esponente di «Giustizia e Libertà» Emilio Lussu, che cito:
"Nessuno può condannare chi, in un momento di oppressione politica, si renda giustizia da sé. Ma il terrorismo politico organizzato è una deviazione della lotta politica. Esso ne costituisce la forma primitiva, lo stadio inferiore. E' la spontanea rivolta del sentimento a dispetto della ragione: umana ma improduttiva, generosa ma vana. Un movimento rivoluzionario deve rinunziare a ogni azione terroristica" (Lussu Emilio, "Teoria dell'insurrezione", Jaca Book, Milano, 1969)
Si può dire che da Marx a Lussu, passando attraverso gli stessi bolscevichi, il terrorista non è mai giudicato moralmente. Criticato politicamente, è in genere umanamente rispettato dal mondo socialista. Egli esprimerebbe una soggettività troppo al di là del proprio tempo: il tentativo dei rivoluzionari 'ragionevoli' dell'epoca è perciò in fondo quello di recuperare dei fratelli minori 'sentimentali'. Questo rapporto col terrorismo, che potremmo definire di paternalismo critico, era forse una buona premessa per capire le ragioni dell'«impazienza» che si andava creando in alcune frange della ribellione occidentale. Purtroppo questo atteggiamento interrogativo subì una chiusura catastrofica a causa della realtà stabilitasi prima in URSS, sulla scia delle conseguenze della rivoluzione bolscevica, e poco dopo in tutto il mondo con l'affermazione dei partiti comunisti aderenti alla Terza Internazionale.
Nel 1917 la rivoluzione d'Ottobre, compiutasi in piena guerra, rivela da subito la sua fragilità. L'anno successivo inizia la guerra civile ed il 'terrore rosso', ma è con l'avvento dello stalinismo che si afferma sistematicamente il terrorismo di Stato nel nuovo Stato socialista e in modo quanto mai radicale, una vera e propria controrivoluzione che, come suo atto costitutivo, eliminerà tutta la vecchia guardia bolscevica. Il secondo atto fu la trasformazione dell'Unione Sovietica nella nazione con più prigionieri al mondo (finché non verrà la Germania nazista a competere per il primato). Da quel giorno la parola terrorismo diventa tabù, e verrà usata solo per l'accusa e l'insulto. Il ricorso alla tecnica dell'agguato, ossia dell'attentato individuale o del sabotaggio, verrà ancora sì approvato, anzi persino promosso e aiutato, e anche quando non avverrà sotto il segno dello Stato ma sotto quello della ribellione. Ma in questo secondo caso - la ribellione - sarà definito con altri nomi per rispettare il nuovo tabù: guerriglia, maquis (in Francia), resistenza partigiana... La ragione di questo mutamento linguistico rispetto al passato è semplice: da un lato l'URSS di Stalin nega con decisione, mentendo, il proprio terrorismo di Stato burocratico e poliziesco, dall'altro prova - e riesce - ad assorbire nella propria prospettiva delle pratiche di ribellione sociale fino ad allora definite terroristiche, ma che ora, così ridefinite e accettate, perdono in gran parte la loro autonomia: i «partigiani» che consegnano le loro armi alla fine della resistenza antifascista e di «liberazione nazionale» non vivono la loro scelta come rinuncia al comunismo, ma come l'atto di comunisti che non sono stati mai dei «terroristi».
Ora la parola terrorismo è carica di aggettivazioni negative fino a diventare di per se stessa sinonimo di qualcosa di spregevole moralmente, non solo di discutibile politicamente. Questo è un piccolo capolavoro semantico creato dall'Internazionale stalinista, cioè capeggiata da un abile terrorista di Stato. Le conseguenze di questo capolavoro furono enormi e ancora oggi ritardano una pacata riflessione.
Di fronte al riemergere della lotta armata tra gli anni Sessanta e Settanta in gran parte del Pianeta infatti, i partiti comunisti cominciarono a fare delle distinzioni: verso le lotte dei paesi del Terzo Mondo, specie se africani, vi fu una mezza e ambigua apertura. L'autonomia di quei movimenti armati, apparentemente corteggiati - con a volte piccoli aiuti condizionanti dell'URSS - per limitarne completamente l'orizzonte nei confini della liberazione nazionale, finì per perdersi dando spesso luogo alla nascita di quelle borghesie compradore che ora contribuiscono a inabissare le loro nazioni e i popoli nella miseria, in combutta con il cosiddetto ultra-liberismo (in realtà ormai ultima maschera ideologica di un ultra-monopolismo) delle multinazionali. Verso i fenomeni armati dell'Occidente avanzato (e in parte dell'America Latina) troppo orientati verso la liberazione sociale, e di formazione marxista, vi fu chiusura totale; essi vennero subito qualificati come frutto di avventurismo se latinoamericani (Che Guevara «stratega da farmacia» secondo Giorgio Amendola del P.C.I.) o di provocazione fascista se occidentali («le Brigate rosse in realtà sono nere»). A tal fine si mobilitarono persino degli attori comici, da Benigni a Villaggio a Dario Fo. Il singolare risultato di questa sistematica opera di falsificazione della verità è che oggi, a decenni di distanza, metà dei ragazzi che vanno a scuola credono che ad avere compiuto la strage di Piazza Fontana siano stati i «brigatisti», ossia proprio coloro che nell'indignazione di fronte a essa trovarono un'importante molla psicologica per decidersi all'uso delle armi...
Ormai tutti i critici ufficiali del terrorismo portano avanti lo schema interpretativo creato da Stalin, senza neppure saperlo. Ed esso ebbe effetti disastrosi anche su di noi, che ci ponemmo sulla difensiva, dicendo sempre che non eravamo dei terroristi, poiché solo a destra e nel terrorismo di Stato si colpiva in modo indiscriminato, volutamente, l'innocente invece che l'avversario. «Noi non siamo dei terroristi, siamo dei rivoluzionari guerriglieri. Terrorista è lo Stato»: questa affermazione divenne un nostro modo di pensare fondamentale, generale, automatico. E fu un suicidio. Partigianesimo, maquis, guerriglia urbana o rurale, resistenza... ecco tanti termini che un tempo lo stesso vecchio Movimento operaio avrebbe definito senza scandalo forme di terrorismo che nulla avevano in comune, nelle motivazioni e negli obiettivi, col terrorismo di Stato o di destra. Il metterci sulla difensiva implicò scarsa riflessione proprio sugli aspetti più importanti della nostra vicenda, alienò la nostra coscienza critica... Il modo di pensare difensivo stabilisce aprioristicamente una differenziazione dall'altro da sé, e così ci esonera dal pensare in che cosa siamo radicalmente diversi da lui. Alla fine... non ci permette più di vedere bene dove gli diventiamo somiglianti.
Diciamo che l'accusa che ci veniva fatta era tanto assurda che ci bastava rifiutarla per sentirci a posto: ma noi non avremmo dovuto misurarci con le accuse più rozze, avremmo dovuto misurarci con i nostri scopi...
Chi ricorre alla violenza rivoluzionaria la intende un po' come la medicina omeopatica: essendo la violenza inevitabile, il piccolo male curerebbe il grande male, consentendo alla violenza di «canalizzarsi» verso il superamento di sé invece di liberarsi in modi sempre più alienati e disperati. (E' esattamente ciò che pensano anche i difensori dello Stato e del suo monopolio della violenza). Come tante illusioni, questa tesi ha una sua dose di verità: oggi che non ci sono più le generose «illusioni» ideali di ieri, c'è forse meno violenza sociale? No, ce n'è di più. Perciò è opportuno riconoscere che, anche se la violenza rivoluzionaria è stata sconfitta nei suoi scopi (rivelandosi così illusoria), non per questo ha reso la società più violenta. Inoltre, va detto che, pur non riuscendo affatto a essere rivoluzionaria, ebbe dal punto di vista riformista una valenza difensiva per certi strati popolari: da secoli e secoli la violenza dalla parte degli oppressi, se non cambia le cose, contribuisce a far sì che non peggiorino eccessivamente, essendo tanti gli esempi storici in cui si vede che la volontà di dominio, là dove non incontra alcun ostacolo, diventa da subito terribilmente distruttiva. Insomma, in un contesto violento, la reazione violenta non serve a superare le cose, ma a sopravvivervi in parte. Mentre i cosiddetti riformisti si sono rivelati «pigri», i rivoluzionari violenti sono sempre stati, in fondo, dei riformisti... militanti.
Tuttavia non è difficile accorgersi che il ricorso alla violenza condiziona pesantemente in ciò che si vuol essere, e questo anche per chi è perfettamente convinto della sua salvifica necessità. Ogni violenza scatena infatti la reciprocità. E per questo che bisogna piegarsi a tanti accorgimenti «necessari» al di là della propria volontà ideale: per colpa del... nemico. Così, per esempio, era «necessaria» la scelta della clandestinità, la quale imponeva di tagliare i ponti con molti dei propri legami sociali ed affettivi. Ma diventava pure problematico crearne dei nuovi all'interno della vita clandestina poiché diventavano precari: le «necessità» della lotta potevano richiedere un trasferimento improvviso, all'interno di una struttura «necessariamente» compartimentata affinché il tuo arresto non portasse a quello di altri, magari provocato solo da leggerezze dovute a ragioni affettive...
Ma andando ancora più in là in tale ordine di questioni, la cattura essendo opera dello Stato, bisogna ricordare che ovviamente ogni cattura mutava il nostro organigramma. Alla fine, nelle situazioni di scontro militare, l'evolversi della direzione di un movimento dipende più dall'azione dell'avversario che dalle logiche interne di quel movimento... Nel suo epilogo per esempio, il movimento delle B.R., dissanguato dagli arresti che proseguivano più veloci dei suoi ritmi di ricambio al vertice, indebolito dalle scissioni, si ritrovò nell'esecutivo della sua maggiore componente (B.R.-P.C.C.) una persona che, sottoposta a tortura dopo la cattura, mandò in carcere qualche centinaio di persone... Ma questa dialettica dell'azione reciproca nella violenza, se ci si pensa, agisce ben prima, e in modi tanto poco vistosi quanto sottili. Che peso può avere, in un'organizzazione che combatte, il dubbio, ovvero il pensiero problematico? Questa esigenza può solo autoreprimersi o essere emarginata. Inevitabilmente un movimento combattente deve premiare l'uomo d'azione e creare gerarchie in funzione dell'efficienza militare per non rischiare perdite umane al momento dell'azione, eccetera.
Un giorno, parlando di queste contraddizioni con un compagno, egli mi disse: «Noi siamo costretti ad "accantonare" molte contraddizioni, purtroppo». Disse con onestà proprio così: «accantonare», cioè mettere da parte, e non già, come pensavo io allora, «"vivere" delle contraddizioni», tenerle aperte in qualche modo. E in effetti aveva ragione lui nel suo onesto cinismo, se così si può dire. In conclusione, con vari giri di parole per ingannare noi stessi, ci ritrovavamo a ficcare tutto ciò che motivava la nostra azione in una realtà interiore il cui compimento rimandavamo ai posteri, comunque in un secondo tempo anche per i più ottimisti. Esorcizzavamo le implicazioni del ricorso alle armi: ma non era questa una stramba ideologia sacrificale? Lo era. Ma la soluzione per giustificarci ci veniva dal più semplice e antico dei (falsi) rimedi che il ricorso da tutti praticato della violenza fornisce da sempre a tutti: quando qualcosa non funziona, non si mette in discussione se stessi, ma si dà la colpa a qualcun altro. Di questo parlerò però più avanti. Prima bisogna spiegare meglio in che modo si arrivi sempre e automaticamente a quella conclusione.
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LE DIFFICOLTA' A SUPERARE LA VIOLENZA.
Ciò che porta ad accettare la violenza è il fatto immediato di non vedere alternative all'orizzonte se non lo stare alla finestra, cosa che, se tu l'accettassi, ti farebbe sentire complice di ciò che t'indigna. La risposta violenta rompe l'impotenza del freddo raziocinio, ricompone la mente dell'individuo scissa da una politica che viene vista come senza anima. Così molti aspetti diventano secondari: l'essenziale è intanto dannarsi l'anima per la propria causa. Il guerrigliero novecentesco, come il terrorista ottocentesco, vuole rendere una cosa sola le proprie idee e la propria vita: questa è la sua volontà di fondo, non la violenza. Ma il modo in cui vuol fare rientrare la passione in una ragione che non sia più solo razionalità strumentale, in una politica degna di questo nome, riesce a garantire il ritorno di questo sentimento a un livello tutto sommato primitivo: la rabbia dell'oppresso. La violenza fa sì che trovi voce solo quel che c'è, non quel che dovrà esservi: c'è da ricordare che gli antichi pagani non avevano tutti i torti quando davano alla Collera il carattere di una divinità; la collera ci trascende, l'azione reciproca che si scatena ne è la costante riprova ai loro occhi; la loro non è una tesi psicologica in senso moderno, ma un'osservazione dei fatti... la violenza non è un mezzo, come si crede, ma una manifestazione.
La reazione violenta delle B.R. a un morto ogni due ore sui luoghi di lavoro, alle «stragi di Stato» eccetera, creò indubbiamente non poca simpatia intorno a loro da parte di molti lavoratori. E fu però proprio questo tipo di simpatia a essere una delle principali cause del fallimento del progetto armato; inevitabilmente non poteva essere molto dissimile al tifo che si nutre per la squadra di calcio preferita; conduceva a una nuova forma di delega che si aggiungeva alle tante già esistenti e non alla loro messa in discussione. Robin Hood viene facilmente applaudito perché è evidente che non sei chiamato a fare come lui ma è lui che fa per te. Tu non puoi seguirlo giacché la sua pratica richiede capacità, disponibilità e mancanze di legami che tu, popolano, non ti puoi permettere... Ma allora cos'è che in realtà ti dà Robin Hood? Ben poco, se si va a vedere: forse solo la soddisfazione del sentimento di vendetta, ossia un'emozione elementare che rischia di fermarsi al risentimento contro i potenti.
Nel risentimento, come si sa, non c'è più voglia di essere diversi in un mondo diverso da quello dei potenti; c'è solo invidia per le cose di questo mondo. Quel che ignoravamo dunque è che l'azione reciproca innescata dalla violenza crea un meccanismo incontrollabile per i suoi attori a un livello che non riguarda solo le mosse dell'avversario ma, più in profondità, anche quelle forme di coscienza che si vogliono salvaguardare o liberare. Ecco spiegato forse il carattere «divino» (non più umano) della logica della collera... In termini più terreni e moderni, noi che volevamo ridare anima alla politica, sentimento alla ragione, invece di contribuire ad arricchire l'intelligenza emotiva, ci ritrovavamo a rinnovare l'apparentemente eterna guerra tra ragione e sentimento.
Il dubbio che s'affaccia in ogni coscienza individuale faceva vedere anche a noi che qualcosa ci sfuggiva dalle mani. E... non trovavamo altra soluzione che andare fino in fondo. Il meccanismo che ti sfugge dalle mani nel gioco della violenza è la principale questione tuttora irrisolta dell'umanità, perché è irrisolvibile all'interno di quel gioco.
Noi c'eravamo posti al centro della questione, e non potevamo uscirne. Ed è proprio per questo, ritengo, che una disinteressata e quanto più allargata possibile riflessione collettiva sulla nostra esperienza possa essere utile a tutti coloro che non rinunciano alla liberazione: perché nessuno è fuori della contraddizione che noi siamo andati a visitare «al centro», perché fummo semplicemente le cavie di un esperimento riguardante una malattia che conosce pochi sani. Chi crede di esserlo è ipocrita con se stesso. Sotto il profilo generale la differenza tra il terrorista e gli altri è quantitativa. Ma diventa di qualità, e nel senso negativo del termine, attraverso la falsa percezione di sé, cioè appunto con l'ipocrisia verso se stessi di cui dicevo. Non dico certo questo per ripetere l'antico alibi «tutti colpevoli, nessun colpevole» ma, anzi, come spero dimostreranno le pagine successive, per superare tutti i ragionamenti limitanti legati al filo delle teorie giudicanti, della colpa e dell'innocenza; e individuare un altro filo conduttore. Intanto, ricordiamo alcuni aspetti del contesto d'allora.
Chi ci criticava non lo faceva dal punto di vista della nonviolenza, ma da quello dell'anti-terrorismo: criticava, in sostanza, l'eccesso, affermando così implicitamente che vi era un punto entro il quale la dinamica della reciprocità non sfuggiva al controllo di uno dei due avversari. Critica vana o comunque insufficiente se rivolta a chi, come noi, ribatteva che l'unica strada era quella di andare fino in fondo, a metà essendovi solo ipocrisia...
La sinistra 'ufficiale' d'allora attaccava il terrorismo soltanto per meglio esaltare il monopolio della violenza da parte dello Stato, e dunque non poteva avere alcun successo con noi dato che tale monopolio è la principale forma di terrorismo che conosca l'umanità. La sinistra 'alternativa' era invece per la cosiddetta «violenza di massa». Trovavamo questo proponimento (e per molti versi trovo ancora, lo confesso) né carne né pesce, incoerente e perciò illusorio o addirittura cinico a seconda dei casi. A nostro parere le masse andavano «conquistate» alla causa, non «coinvolte». Su questo la mentalità della guerriglia urbana, al di là delle affermazioni di stampo leninista, era molto simile a quella di Carlo Pisacane per il quale l'avanguardia era "soltanto" il primo reparto del movimento di massa, non il suo cervello; suo compito era quello di muoversi per prima, non già quello di fungere da guida per l'elaborazione di strategie che coinvolgessero le masse a... loro insaputa. Per quanto ci riguardava, per esempio, le manifestazioni di piazza erano momenti in cui si doveva poter andare anche con i bambini, senza rischio. La violenza di piazza, se ricercata e teorizzata era avventurismo eccetera. (Qualcuno si stupirà che, con tali distinzioni tattiche, si potesse pensare di non coinvolgere la gente suo malgrado: ma ricordo bene che pensavo davvero così... e non ero il solo).
Insomma, le obiezioni della sinistra ufficiale si presentavano di natura morale ma erano ipocrite perché complici della violenza peggiore, quella del sistema oppressivo; le obiezioni della sinistra alternativa, non essendo di natura morale, potevano dirci poco e inoltre sul piano politico ci sembravano risibili poiché potevano dar luogo a episodi ancor più violenti e avventuristici - come successe.
Vedi il caso dell'uccisione del commissario Luigi Calabresi avvenuta il 17 maggio 1972, quattro anni prima che le B.R. si decidessero per l'omicidio politico - l'episodio, all'epoca attribuito dal tam-tam del movimento genericamente a «compagni», ha dato adito in questi anni a una caccia alle streghe di cui ha pagato le spese per esempio in modo particolare Adriano Sofri, che sta scontando la pena inflittagli diventando così simbolo e capro espiatorio "malgré lui" del Sessantotto.
[N.d.R. Per l'omicidio di Luigi Calabresi il 24 gennaio 2000 vengono condannati in via definitiva a 22 anni di reclusione Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani. Questo dopo un lungo e complicato iter processuale che inizia il 2 maggio 1990. Pietrostefani si rende latitante, Bompressi e Sofri vengono incarcerati, Bompressi ottiene la grazia il 31 maggio 2006, Sofri torna libero nel gennaio 2012 dopo aver scontato la pena.]
Poiché dunque, nel contesto di quegli anni, nessuno ci pareva "meno violento" di noi, ci sentivamo semplicemente i più coerenti e i meno irrispettosi delle volontà provenienti dal basso. Quel che oggi è possibile osservare è che, in effetti, tutte quelle polemiche erano interne a un unico schema, il quale ignorava come da cosa possa nascere cosa al di fuori della propria volontà! Le tre sinistre - ufficiale e di Stato, alternativa ma violenta, armata ma poco eretica - condividevano uno schema che, solo per comodità, definirò di tipo marxista, pur sapendo che Marx c'entra poco (in particolare quello giovane) e che tale schema fu condiviso anche da componenti anarchiche e libertarie. Esso vede come condizione della liberazione della coscienza umana l'abbattimento dei limiti socio-economici. Ormai oltre un secolo di esperienze rivoluzionarie svoltesi in questo senso ci dimostra fin troppo abbondantemente che non è così, ci conferma che vi sono anche dei limiti «esistenziali» della condizione umana. Siamo delle creature "incompiute" e perciò il cammino della liberazione richiede qualcosa di più da subito, un mutamento che sia anche culturale. Ogni programma limitato a superare il difetto economico quale causa dell'alienazione umana soggiacerà di fatto a una visione come quella di Jean-Jacques Rousseau, per il quale l'uomo nasce naturalmente buono ed è la società a sciuparlo: basta allora cambiare il modello economico e verrà fuori la bontà, spontaneamente. La teoria dei due tempi della rivoluzione non ha fatto che ribadire questa illusione. Tanto nelle lotte che nelle conquiste del potere politico, il movimento socialista ha mostrato di riprodurre nuovi-antichi schemi di conformismo (nella lotta) o di dominio (nel cosiddetto socialismo reale). Solo scoprendo la nostra incompiutezza possiamo andare oltre nello scoprire i processi dell'alienazione umana: i limiti economici sono un loro riflesso e non una loro causa, come affermava il marxismo volgare, il quale in realtà altro non è stato che una forma di positivismo applicata al sociale. Dominio e sfruttamento appaiono in questa luce come delle resistenze alle possibilità umane di andare oltre se stesse. Questo principio di trascendimento spiega le nostre inquietudini profonde e apparentemente irrisolvibili poiché rivela l'umanità come un ponte tra l'animale e una realtà alla quale aspiriamo e che non sappiamo bene definire per essere veramente umani, o oltre l'essere umano che dir si voglia. La storia religiosa dominante non ha potuto cancellare questa inquietudine ma l'ha relegata nella trascendenza celeste di una dimensione divina separata dalla vita terrena, condannando quest'ultima alla non-metamorfosi, all'ubbidiente consolazione nelle certezze date una volta per tutte da verità rivelate. E' chiaro che la teoria dei due tempi del mutamento riecheggia quella dell'«al di là»; è una nuova versione, dissacrata, del dio separato: trascendimento nel domani, terreno al posto di quello celeste, anch'esso condannato a produrre nuove Chiese e consueti dogmatismi, gerarchie che possiedono la verità... Le religioni, intese come certezze consolanti che, attraverso le loro complesse ritualizzazioni, provano a rimuovere nell'inconscio l'inquietudine dell'incompiutezza, uccidono la fede e in questo senso sono «oppio dei popoli». La fede è apertura a ciò che è sconosciuto, speranza in una possibilità che si fonda proprio sulla precarietà e non sulla certezza. Da oppio funge ogni -ismo.
Tuttavia, cogliere questo aspetto della realtà fino al punto di trovare delle parole per definirlo, non basta. Bisogna poi capire come affrontarlo nella pratica articolandone la comprensione, individuandone gli ostacoli. Per esempio, nella storia della sinistra la sua scoperta è tutt'altro che nuova e io non ho fatto altro che riprendere a modo mio parole già dette dal marxista Ernst Bloch (1954) il quale proprio così giustificava il suo «principio-speranza»: come l'«utopia concreta» che non era più la descrizione di un mondo futuro elaborato a tavolino, ma la guida del nostro presente. Tuttavia, neppure E. Bloch poté elaborare proposte precise riguardo al nodo della violenza. Possiamo dire che egli si limitò a fare il professore, il teorico. Ma ecco un altro caso, di una persona che in Italia ebbe un ruolo importante e che non si limitò a fare il teorico. Sto parlando dello psichiatra Franco Basaglia, sostenitore dell'abolizione dei manicomi. Partendo dalla propria esperienza di lavoro, Basaglia vede anch'egli chiaramente che l'alienazione ha delle cause che lasceranno «aperta la contraddizione» per molto, ben al di là del capitalismo. Per questo egli riconosce, per esempio, l'esistenza della malattia mentale, ma al tempo stesso avverte che con questa definizione non si deve ridurre la follia a «parte della ragione» ed è anzi necessario che la ragione la riconosca come seconda faccia della comune realtà, che impari a «coesistere» con la follia. Da questa grande idea nasce in Basaglia una critica del proprio ruolo sociale. Egli, tuttavia, anche così facendo, può porsi solo il "suo" problema: come smettere, per chi è un privilegiato, un controllore, di fare quel che fa e cominciare invece a favorire gli oppressi. Unendo alla ricchezza del suo pensiero una grande onestà intellettuale, Basaglia riconosce spesso che il pensiero liberante dovrà nascere dal basso e non da un illuminato paternalismo, ma poco può dire sul come, se non dichiarare di voler agire non ponendosi come ostacolo. Egli dunque individua gli ostacoli a un cammino (come il ruolo tradizionale dello psichiatra), ma non definisce, perché non può, questo cammino.
Ma chi è in basso che cosa dovrà fare se prende coscienza della propria condizione? Né Bloch né Basaglia rispondono alla questione di fondo: quella di come poter essere tutt'uno con la causa che si abbraccia. Per la risposta che deve nascere dal basso c'è «silenzio», ovvero attesa, disponibilità, azione e parola su se stessi per non essere ostacolo... L'atteggiamento rispetto alla violenza non può che essere «ambiguo». Ed è significativo notare che questa «ambiguità» è presente anche in esponenti di teologie cristiane socialmente sensibili affacciatesi in questo secolo, come quelle «della speranza» e «della liberazione» (la prima delle quali, tra l'altro, deve molto all'ateo marxista Bloch). Questi cristiani sono anch'essi in qualche modo «atei»: rifiutano cioè l'idea di una trascendenza separata e celeste e salutano la «morte di dio» come la sua vera rinascita nell'amore tra gli esseri umani. Il loro pensiero è dunque chiaramente nonviolento. Eppure anch'essi, spesso, di fronte alle situazioni concrete della sofferenza, individuano nella reazione violenta degli oppressi una «dolorosa» necessità.
Vi sono infatti situazioni in cui la miseria lascia ben poca scelta e si può decidere solo come morire: se di diarrea o con un fucile in mano. In certe guerre dai risvolti etnici, oggi resta all'individuo soltanto la possibilità di assistere passivamente al massacro del proprio nucleo familiare oppure di difenderlo con le armi. Qui la violenza diventa scelta d'onore, (auto)difesa della dignità dei deboli, unica alternativa alla viltà... Ma esiste anche un'altra scelta «povera» che le anime belle di solito non colgono: quella tra due non-libertà. A una vita di fatica, subordinata a un lavoro alienato e alienante si può preferire il rischio riservato ai ribelli... Poiché la ribellione violenta degli anni Settanta fu soprattutto questo, essa non venne proprio accettata, neanche nella sinistra, dominata da ceti intellettuali che trovano nel sistema attuale una funzione comunque progressiva, in pratica uno spazio per una loro critica relativamente comoda, poco propensa a indossare i panni altrui, tantomeno ad andare nudi: le visioni «catastrofiste» sono roba mistica, antiscientifica, no?
Ma la risposta alternativa alla violenza rivoluzionaria non è mai efficace se non riesce a dare all'individuo uguale grado di soddisfazione di questa al «bisogno d'assoluto», ossia di movimento oltre se stessi in una ricerca d'identità tra scelta di vita e scelta ideale. E allora si capisce bene l'«ambiguità» fatta di silenzio o di comprensione nei suoi confronti: è rispetto. Parole come rispetto, onore, dignità sembrano a loro volta ambigue quando sono usate a sinistra; ma rispetto ai deboli sono quelle che rimandano di più alla vaga coscienza dell'incompiutezza umana, alla speranza come valore da aggiungere a quelli di libertà, uguaglianza e fraternità per renderli veri.
Il «terrorismo» ha dato risposta a tale questione presentandosi come luogo in cui l'oppresso esprime la sua voce, l'intellettuale si proletarizza, tutti «dannandosi» per la causa. Tale risposta, nel corso ormai di un secolo e mezzo, ha dimostrato il suo limite. La violenza condanna a un corto-circuito. Ma se quella terrorista è stata una risposta errata, la risposta va comunque data perché la domanda è irriducibile. Il nonviolento è tale solo quando rischia più del violento.
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NECESSITA' DI RICONOSCERE L'INCOMPIUTEZZA UMANA.
Ecco dunque individuato il problema irrisolto della liberazione: l'incompiutezza. E non si tratta di risolverlo, ma - si è detto fin qui - di accorgersi della sua esistenza e di considerare proprio la sua irrisolvibilità come ragione di speranza, di possibilità di oltrepassamento. Oggi viviamo ancora soprattutto nell'era dell'individualismo, ossia del misconoscimento dell'incompiutezza. Responsabile di ciò non è affatto la mentalità borghese, che, sotto questo aspetto, si è solo limitata a perpetuare ed esaltare quel che c'era già. Il misconoscimento trasforma la ragione di speranza in una realtà tragica. La possibilità viene vissuta come mancanza, dando luogo all'aggressione per impossessarsi di ciò che al presunto in/dividuo potrà dare presunta finitezza.
Una storiella (raccontata da una suora di clausura) racconta così l'inferno e il paradiso in versione «cinese». Nell'inferno, ai due lati opposti di un lungo tavolo sono sedute varie persone imbronciatissime. Ognuna di loro ha una ciotola di riso davanti a sé, ma nessuno riesce a mangiare perché i bastoncini sono incredibilmente lunghi. Nel paradiso, ai due lati opposti di un lungo tavolo, sono sedute persone allegrissime: ognuna di loro nutre quella che le sta davanti grazie ai lunghi bastoncini.
L'individualismo, insomma, sarebbe soltanto una visione corta, un 'animalismo', quali che siano i nomi datigli nel corso del tempo per giustificarlo, abbellirlo. Amore e altruismo richiedono uno sforzo intellettuale maggiore: la considerazione può apparire banale, una chiacchiera sentimentale, ma non lo è perché ci rimanda alle origini stesse dell'ominizzazione, alla resistenza dell'animalità...
Nei comportamenti umani, quasi tutto viene appreso, e ogni apprendimento si riduce all'imitazione, che René Girard preferisce però chiamare «mimesi» dato l'uso riduttivo che si fa oggi della parola «imitare». Ma - prosegue Girard, del quale qui provo a riassumere il pensiero citando soprattutto da "Delle cose nascoste fin dalla fondazione del mondo" (traduzione di Rolando Damiani, Adelphi, 1983) - anche i comportamenti di appropriazione possono essere copiati, e proprio di questo invece non parla mai abbastanza la nostra cultura, da Platone a oggi. Anziché vedere nell'imitazione una minaccia per la coesione sociale, noi vi scorgiamo ormai soltanto una causa di conformismo e di spirito gregario: piuttosto che temerla, la disprezziamo. E invece, nella storia dell'umanità, nel cammino stesso dell'ominizzazione i divieti sorgono in funzione della proibizione del mimetico perché è qui che i conflitti umani attecchiscono anzitutto, come rivalità per l'oggetto. Tali conflitti creano delle simmetrie, ossia dei "doppi". Non a caso i divieti riguardavano proprio questo aspetto, fino al punto di coglierne l'eco (deformata) nell'allontanamento dei gemelli o nel divieto degli specchi.
Ma i divieti non bastano per controllare i conflitti... Ecco allora intervenire i "riti", i quali, in modo solo apparentemente contraddittorio, 'liberano' proprio ciò che nei divieti non è concesso. Come la malattia che serve a guarire la malattia, i riti sono in un certo senso terapeutici, la parentesi volta a contenere la violenza connessa alla mimesi. In essi, gli esseri umani provano a liberarsi della loro violenza a spese di una qualche vittima. Tanto che non c'è nulla nella cultura umana che non possa essere ricondotto al meccanismo della "vittima espiatoria". L'unanimità violenta (intorno alla vittima espiatoria) fu probabilmente il regime normale dell'umanità durante la maggior parte della sua esistenza. Il meccanismo vittimario è perciò a fondamento del religioso, e da qui, secondo l'autore, si delinea una teoria completa della cultura umana a partire da questo solo e "unico" principio. Il cammino della (pur necessaria) desacralizzazione della violenza portata dalle scienze umane non ci pone al riparo da una nuova trappola che la libera: ormai «bisogna che gli uomini si riconcilino per sempre senza intermediari sacrificali oppure che si rassegnino all'estinzione prossima dell'umanità». Restiamo infatti capaci di odiare le nostre vittime, ma non più di adorarle... dopo. Il desiderio tende a disertare il proprio oggetto e a fissarsi sul modello stesso: tentando il soggetto a diventare mimeticamente la divinità, egli «non può decidere da solo quale oggetto deve desiderare, si affida al desiderio di un altro». Senza comprendere il «carattere automatico della rivalità, l'imitatore considera in breve il fatto di essere contrastato, rifiutato e respinto, il maggiore stimolo per il suo desiderio», che così incorporerà una violenza sempre maggiore. Contrariamente a quanto si crede, il desiderio è sganciato dal piacere, dall'appetito sessuale: questi sono a rimorchio di quello.
Già nell'Antico Testamento si nota un salto rispetto alla religiosità primitiva: il Dio, ancora ambiguo nella sua violenza, invita già tuttavia a non essere idolatri, a non praticare sacrifici e, nel "Levitico", giunge a dire di amare il prossimo come se stessi. Ma è solo con Gesù Cristo che si giunge alla grande ed esplicita rottura. Cristo rivela e al tempo sradica «la matrice strutturale di ogni religione». Annuncia l'epoca della nonviolenza, la desacralizzazione di tutti gli dèi della violenza. Al tempo stesso, però, la rivoluzione evangelica prevede il lungo tempo intermedio del proprio misconoscimento nonostante l'enorme pubblicità ricevuta, in posizione di vittima in atto di farsi espellere. Solo oggi questo misconoscimento sta crollando, «per tutti gli uomini nello stesso tempo». A muoverci è dunque, secondo Girard, il «desiderio di essere secondo l'altro» e il processo della vittima espiatoria è il centro - necessariamente misconosciuto per essere efficace - di tutti i meccanismi che regolano l'attività umana in ogni campo, nato per evitare la lotta di tutti contro tutti su tutto. Siamo letteralmente "posseduti" da un "inconscio espiatorio".
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GLI INEVITABILI EQUIVOCI DELLA LOTTA ARMATA.
Potrà sembrare assurdo, però, ricondurre a questo inconscio anche il conflitto tra le classi; e infatti qui non si sta dicendo questo ma si affermerà che nei "modi" in cui si reagisce a tale indubitabile oppressione (la quale è anche una delle più acute difese della presunta finitezza umana) si ricade nella possessione dell'inconscio espiatorio. Proverò dunque a dimostrare come questo sia avvenuto nell'esperienza che ho vissuto, invece che nell'analisi dei miti compiuta da studiosi come Girard. In ciò sono favorito dal notorio risultato finale di quell'esperienza. La lotta armata di sinistra in Italia è diventata famosa in tutto il mondo non come «l'avanguardia della rivoluzione», ma per quello che, tramite molti dei suoi membri, ha dato di sé nella sua sconfitta. Cito le parole di Jean Baudrillard:
"La figura del 'pentito' fa la sua comparsa in Italia agli inizi degli anni Ottanta e sorge nell'ultrasinistra, agli estremi della modernità politica, di cui rappresenta in qualche modo il viraggio postmoderno - gli estremisti hanno una cutireazione positiva e servono così da vaccino alla società liberale contro ogni tentazione radicale. Questa conversione era impensabile in precedenza - i processi di Mosca rientrano ancora nell'autocritica, che è un valore moderno, mentre il pentimento è postmoderno. Essa tuttavia è solo la prima fase di una reversione generale, che non si ferma agli estremi: il pentimento passa dall'estremismo di sinistra al comunismo, poi a tutto il movimento rivoluzionario. Coinvolge prima le avanguardie, punta della modernità, poi rifluisce sino al nucleo massiccio, sino alle ideologie collettive. E' tutta la storia che si pente degli 'eccessi' della modernità - e lo stalinismo fu certamente uno di tali eccessi. Ma, al di là degli eccessi, è tutto il movimento della modernità che viene coinvolto. Non è soltanto la rivoluzione, ma persino l'evoluzione moderna ad arrivare al suo punto di pentimento" (Jean Baudrillard, "L'illusione della fine", Anabasi Editore, 1993).
Bisogna chiedersi come mai sia stato questo il risultato più visibile dato da un movimento che si voleva rivoluzionario - mentre rimangono del tutto invisibili coloro che non hanno accettato tale esito (restando tra l'altro sepolti vivi nelle carceri e presentati come pazzi irriducibili continuisti senza che a nessuno o quasi sorga qualche dubbio in proposito).
Il pentitismo è, all'apparenza, il massimo punto di trionfo del rito del capro espiatorio, punto in cui diventa addirittura forma ideologica centrale della cosiddetta post-modernità. Ma è anche un suo pericolosissimo colpo di coda, di cui sarà bene osservare le stranezze. Ecco infatti che coloro che si offrono come colpevoli non finiscono in croce come Cristo - il quale peraltro proclamava ingiusto il ruolo della vittima, pur non chiedendo pietà. I nuovi colpevoli accusano tutto e tutti riguardo al passato e, per ciò, vengono premiati, assolti, cooptati eccetera. Il «pentito» non è la vittima che paga per tutti, ma il colpevole che fa pagare tutti gli altri. Per questa via l'ideologia odierna (autoproclamatasi non-ideologia) fa l'esatto contrario del messaggio evangelico che invitava a lasciare che fossero i morti a occuparsi dei morti. Ora, non solo ci sono costanti corse in aiuto ai vincitori, ma pure corse sempre più accanite e numerose per disseppellire i morti e continuare a colpirli. Il rito del capro espiatorio, diventato ideologia, è giunto a incolpare il passato di tutte le malefatte possibili; la storia non è più fatta di morti su cui elaborare lutti ma un inmmondezzaio, anzi, per la precisione, un verminaio che rischierebbe di contarminarci tutti e per ciò è tanto più necessario combatterlo con furore!
Che cosa ha potuto favorire che, dall'interno stesso della lotta armata, venisse l'inizio di un simile epilogo?
La violenza rivoluzionaria - dicevo più sopra - non si sceglieva, si accettava. Quella era la forma presa dal conflitto all'interno del quale si riteneva di poter scegliere «solo» da che parte stare. Tuttavia, se è indubbio che il contesto era violento, è anche vero che non c'era una guerra civile e che noi non eravamo un esercito. Pertanto la nostra pratica era di preparazione alla guerra di classe vera e propria e la chiamavamo infatti «propaganda armata»; con essa si intendeva agire sul piano della «disarticolazione politica» più che su quello militare vero e proprio. Ma in che modo? In modo assolutamente inconscio, eppure esplicito, questa... moderazione politica non faceva altro che riconfermare la validità del rito del capro espiatorio, come si vedrà.
In una guerra vera e propria (non importa qui, ora, se civile-rivoluzionaria o tradizionale) l'esercito, per esempio, occupa un territorio per invaderlo o, all'opposto, per liberarlo: in ambedue i casi l'ordine previsto, nel compiersi, realizza l'obiettivo che si era dato. Così è pure per altre forme di conflitto anche nonviolente quali lo sciopero, la non collaborazione politica, il boicottaggio. Solo l'incarcerazione e la condanna a morte hanno invece «di solito lo scopo di punire la disobbedienza a un ordine e non di raggiungere l'obiettivo per cui esso era stato dato, se non in quanto tali sanzioni possono impedire una futura disobbedienza da parte di altre persone» (G. Sharp, "Politica dell'azione nonviolenta", vol. 1, Gruppo Abele, Torino, 1973).
Il paradosso di una pratica guerrigliera che non si trovi in condizioni di guerra civile è tutto qui: la giustizia restaurativa che è al fondo dell'idea socialista non può che essere sostituita dal suo contrario, dall'idea violenta di una giustizia punitiva che, per la sua stessa natura, non può realizzare l'obiettivo socialista. La «propaganda» guerrigliera funziona come una sanzione penale giacché non può realizzare l'obiettivo nei propri atti liberando «zone occupate». Dunque essa si riduce a essere una sorta di Stato parallelo a sua volta ridotto alla sua funzione essenziale di tribunale penale, in base all'illusorio principio della... deterrenza terroristica già praticata dagli Stati veri. La differenza tra noi e gli Stati era che non ci rendevamo affatto conto o quasi di quello che facevamo! Ritenendo di prepararci a una futura guerra civile, davamo un valore transitorio e relativo a tutto ciò che facevamo: i nostri atti non erano «realmente» punitivi perché legati a una fase transitoria della lotta... In fin dei conti - ricordo che mi dicevo - noi non agiamo da giudici ma da soldati, non emettiamo sentenze ma realizziamo atti di guerra. E' vero che definimmo «tribunale del popolo» l'atto di interrogare coloro che sequestravamo, ma questo ai miei occhi non era un vero tribunale, la sua funzione principale era di propaganda e contro-informazione. Inoltre lo scopo di quelle catture non era di emettere delle sentenze, ma di ottenere uno scambio di prigionieri di guerra: per liberare, non per punire. E' vero, ancora, che vennero colpite delle persone ferendole alle gambe, ma anche questo fatto veniva vissuto, in fondo, come una «mediazione», per non uccidere l'avversario... Noi, dunque, non eravamo mai quel che facevamo: il nostro fare era solo la tattica del nostro ideale: purtroppo, dunque, tutto ciò riguardava soprattutto la nostra immaginazione. E infatti, uno dei primi volantini brigatisti spiegò non a caso un'azione di sabotaggio citando la legge del taglione. Ma soprattutto è il caso di ricordare uno slogan particolarmente rivelatore (e infelice) usato in quegli anni: «Colpirne uno per educarne cento». Il principio della dissuasione terroristica, che sta alla base del sistema penale, e l'essenza del rito del capro espiatorio qui ci sono per intero.
Quello del capro espiatorio è sempre un rito «economico», che funziona in vari sensi. Caifa propone di sacrificare (un innocente) Gesù affinché i romani non se la prendano con tutti gli ebrei. Noi invece dicevamo - ma il pensiero di fondo era lo stesso - che bastava colpire un colpevole per risparmiarne cento. Restava il fatto che quell'uno subiva una disparità di trattamento e perciò un'ingiustizia rispetto agli altri cento.
Ma, c'è da aggiungere, con questa operazione selettiva si finiva per compiere anche ben altro, come effetto collaterale se così si può dire.
Il taglio della violenza essendo soprattutto propagandistico anziché volto all'ottenimento di un preciso obiettivo immediato, la vittima colpita era ridotta a un simbolo. Così facendo l'iniziativa armata finiva per presentare una mappa del potere che corrispondeva sempre meno alla realtà, semplificandola fino a offrire la visione di un «tiranno» dai contorni netti e definiti nelle sue responsabilità. Se è pur vero che il mondo attuale, osservato in puri termini di privilegio, è dominato da pochi individui inavvicinabili e padroni di immense ricchezze, è però altrettanto vero che in termini di governo «il nuovo tiranno non è che la totalità dei servi» come hanno detto i coniugi Basaglia, ("La maggioranza deviante", Einaudi, Torino, 1971). L'azione armata, con la sua selettività, oscura questo aspetto tipico della moderna società atomizzata in tutti i suoi rapporti sociali; assolve, verso il basso, ognuno dalla sua micro-responsabilità di servo volontario facendo così scomparire la visione del più grande tiranno mai esistito.
Nell'ambito delle B.R., a parte i militanti clandestini che dovevano di fatto «rinunciare a tutto» (i cosiddetti «regolari»), tutti gli altri militanti (gli «irregolari») potevano condurre la loro consueta routine. L'operaio per esempio poteva farsi la sua assurda fatica per guadagnarsi il pane anche se era addetto alla produzione di armi o nel settore nucleare. La logica dell'infiltrazione è alternativa a quella della "non-collaborazione": la colpa di ciò che fai è del capitalismo. Ma se questo si può ben capire per i mestieri più umili, ecco però che persino un giovane studente poteva quindi inseguire la sua stupida laurea di aspirante privilegiato, senza dover coltivare una visione critica del proprio futuro ruolo sociale nella divisione del lavoro e dei saperi. Queste erano tutte questioni da risolvere in un secondo tempo, nel socialismo... La non-collaborazione non poteva essere intesa come critica del ruolo sociale, dato che era la scelta della militanza personale clandestina a risolvere questo secondo aspetto: in modo quanto mai radicale, è vero, ma in una isola. Un'isola che finiva per avere un ruolo fondamentale nel non portare ognuno a ridiscutere il proprio ruolo sociale, poiché era la punta di un iceberg che, «infiltrandosi», non incitava alla non-collaborazione verso le molteplici conseguenze del modo di produzione industriale. Il clandestino si nasconde, non smaschera. Da qui derivava un'inevitabile doppiezza: farsi accettare in quel che non si è per essere quel che si è...
Non si creda che un modo d'agire così sia difficile da realizzare in un mondo come quello attuale. E' vero il contrario, funzionava benissimo... All'epoca ero un operaio metalmeccanico in una grande fabbrica. A sapere chi ero erano moltissime persone e persino, come dovetti accorgermi un giorno, delle persone assolutamente spoliticizzate, per esempio delle operaie che neppure conoscevo se non di vista. Eppure, al tempo stesso, nessuno di questi numerosi compagni di lavoro andò mai a riferire di me ai sindacalisti. E poteva succedere che qualcuno di questi ultimi, che si dedicavano alacremente alla caccia al brigatista, venisse anzi a confidarsi con me su chi fossero, secondo loro, i sospetti brigatisti. E io, a mia volta, avvisavo questi lavoratori sospettati (i quali sapevano chi ero veramente): «Guarda che al sindacato pensano che tu sia me...» e quelli: «Bene, dato che pensano così, e io in realtà non sono te, va tutto bene». Sembra una commedia a raccontarla, ma così era. Dietro a quella doppiezza vivevano grandi fiducie tra le persone, e perciò sincerità, in un gioco complicato. I sindacalisti infatti (principalmente i militanti inquadrati nella politica del P.C.I.) avevano una visione del militante armato quanto mai erronea: lo immaginavano ultra-estremista e perciò in modo piuttosto folcloristico, quando non addirittura come un «provocatore» estraneo alla storia della sinistra. Essendo io una persona ritenuta saggia, che però manteneva un buon dialogo coi suoi compagni di lavoro estremisti, il sindacalista veniva ad avvisarmi, piuttosto che sospettare di me. Alla fine raccoglievo le confidenze di tutti...
Mi ci sono voluti anni per capire che questa diffusa fiducia verso di me non avrebbe dovuto affatto illudermi, ma che anzi nasceva proprio dal fatto che ognuno sapeva di poter parlare a qualcuno che, in fondo, non lo coinvolgeva più di tanto. L'operaia spoliticizzata che diceva a un mio amico «Sai, poco fa è passato il ragazzo brigatista», diceva così proprio perché la cosa non la coinvolgeva, tant'è che non pensava neppure di espormi a un rischio (parlava a un mio amico, e poi, eravamo in un'epoca pre-pentitismo...). Dunque, finché la lotta armata rimase in questa sua prima fase, i limiti su cui si reggeva rimasero in equilibrio e potemmo illuderci di esser quelli del «nostro ideale», al di là di quello che dovevamo fare per necessità «tattica».
E', da sempre, negli inevitabili periodi di crisi di questo presunto equilibrio che si rivelano meglio i meccanismi fondatori.
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LA «CRISI» E' L'INEVITABILE SBOCCO DEL RITO DEL CAPRO ESPIATORIO.
Ben presto la «ristrutturazione» industriale della metà degli anni Settanta, anticipo di ciò che poi sarà la terza rivoluzione industriale, cominciò ad allontanare da noi gli operai, sempre più ricattati nel posto di lavoro, specie - all'inizio - se erano ribelli. Questa è sempre stata una realtà tipica della condizione operaia nei periodi di crisi: la solidarietà tende a scomparire per dar luogo alla concorrenza fra individui. Fu questa la difficoltà concreta che meglio rivelò come anche i rivoluzionari violenti siano affetti da tutte le reazioni automatiche costruite dalla civiltà attuale, e determinate cioè da un inconscio espiatorio, religione comune indichiarata e indichiarabile che ricerca il capro cui attribuire la colpa collettiva. Ritengo che se si è convinti della validità di una simile chiave di lettura, tutto ciò che succederà da questo punto in poi nella storia della lotta armata in Italia apparirà semplice e prevedibile, meccanico fino al punto di avere una sequenzialità inevitabile nell'evolversi delle sue varie fasi verso l'autodistruzione. Nella "crisi" ci somigliamo tutti quanti, e i fatti di cui scrivo qui sono soltanto uno dei tanti esempi possibili dell'attuale condizione umana, e non già uno dei più estremi, ma solo uno dei più rivelatori. Solo chi riconosce l'esistenza di questo 'centro occulto' può riconoscere i limiti delle proprie ipotesi di fondo, superando l'automatismo che lo porta a reagire attaccando prima qualcosa e poi qualcuno di esterno a se stesso.
All'inizio cominciarono a sorgere strane ed eterodosse analisi sulla natura della crisi capitalistica la quale, contro ogni teoria della tradizione marxista, questa volta avrebbe portato alla rivoluzione. Credo che fosse il 1976. (O la fine del 1975? Non scrivo con documenti sotto mano, ma sul filo della memoria). E' importante ricordare che ogni crisi che porta allo scatenamento del processo vittimario inizia ("prima fase") negando la realtà; il futuro persecutore non inizia contro un presunto nemico, ma semplicemente provando a inventarsi un'altra realtà per non mettersi in discussione dinanzi alle proprie difficoltà. E' importante ricordarlo perché in tutte le successive tappe di ogni processo vittimario, potremo notare che:
"I persecutori credono sempre nell'eccellenza della loro causa, ma in realtà odiano senza causa. E questa assenza di causa nell'accusa (ad causam) i persecutori non la vedono mai. Bisogna dunque prendersela con questa illusione, se vogliamo liberare tutti questi poveretti dalla loro prigione invisibile, dall'oscuro sotterraneo dove marciscono, e che sembra loro il più splendido dei palazzi" (René Girard, "Il capro espiatorio", a cura di C. Leverd e F. Bovoli, Adelphi, Milano, 1987).
Ma tornando al nostro esempio, c'è altresì da notare che a fornire questa strana analisi ottimista ed estremista sulle conseguenze della «sovrapproduzione di merci e capitali» fu un militante che poi ebbe un ruolo d'avanguardia nel fare l'abiurante e nel presentare la storia delle B.R. come frutto di una provocazione... dopo il suo arresto. Egli però all'epoca era un detenuto e perciò questa sua visione del rapporto crisi-rivoluzione lasciò piuttosto scettici i militanti esterni, alle prese con le difficoltà del loro lavoro quotidiano. Ma ben presto, la proposizione della presunta «analisi giusta» offerta in modo implicitamente polemico verso chi non ne aveva sentito la mancanza, non potendo ovviamente ottenere risultati concreti dato che si limitava a negare la realtà, lasciò il posto a qualcosa di più radicale: alla critica di una supposta «linea sbagliata».
Dietro a questo mutamento stava accadendo che un numero sempre maggiore di militanti finiva in prigione ed essi, nella loro nuova scomoda posizione, erano portati a incitare i compagni liberi ad andare avanti con decisione. Non mi pare di compiere alcuna forzatura affermando che al fondo di questa tensione dei carcerati vi fosse un forte desiderio di esser liberati dai propri compagni. E con l'insorgere del «movimento del '77» questa tensione divenne, da desiderio che era, una vera e propria critica alla pratica delle B.R., e fu questa la "seconda fase" della ricerca del capro espiatorio. L'organizzazione esterna venne vista da molti prigionieri come una macchina burocratica incapace di cogliere il «nuovo» e pian piano il movimento del '77 venne visto come qualcosa di immenso e sovversivo rispetto a cui le B.R. si chiudevano da destra. Perché? Perché evidentemente seguivano una linea sbagliata; e ben presto ciò equivalse a dire, come vedremo, che erano dirette da una leadership da cambiare ("terza fase"): ma questa conclusione giunse gradualmente. Lì per lì, la critica alla linea errata si tradusse in necessità di «porsi all'altezza del movimento» e, infine, nella pratica, di... sparare di più e più in alto. Ma se questa era la richiesta pratica, politicamente venne portata avanti con un discorso assai contraddittorio. Gli «-ismi» di cui venne accusata la conduzione esterna furono il «soggettivismo» e il «militarismo» (in un documento così intitolato). Veniva dunque portata un'accusa che però, al tempo stesso, richiedeva proprio quel che sembrava criticare; le B.R. erano soggettiviste e militariste perché pensavano burocraticamente chiuse in se stesse, come una casta; ma se si fossero legate di più al movimento, si sarebbero poste su un terreno più vicino alla guerra civile... Perciò, il paradosso di questa critica è solo apparente: è coerente con il sogno di persone che si immaginano una situazione trionfante che non c'è. E questo sogno, mi pare, si spiega bene con la condizione del carcerato. E' difficile accettar l'idea di essere una fragile cosa - un individuo privato della libertà - di fronte a una forza immensa come quella dello Stato; è più facile pensare che la nostra malasorte possa esser risolta da chi ci è più vicino, giacché su di lui possiamo influire in qualche modo. Ho letto ormai molti testi di prigionieri e ho notato praticamente sempre in essi (e quindi anche in me per molto) questa tendenza ipersensibile, inevitabilmente colpevolizzante verso gli altri per l'inevitabile, "oggettiva", infine esasperante difficoltà di comprensione della propria condizione da parte di chi recluso non è. «Possibile che non mi capiate?» sembra dire ogni prigioniero «o non è vero piuttosto che ormai ve ne fregate di me?» Si leggano per esempio le belle e drammatiche lettere di Gramsci dal carcere, malato in lotta contro la morte che arriverà dopo non molti anni: in una lettera se la prende con sua cognata in modo quasi feroce; qualche lettera dopo si rende conto dell'inevitabile difficoltà a capirsi e perciò le chiede scusa.
La critica dei carcerati covò in modo impersonale e formalmente non polemico per un paio d'anni, fino a quando non fallì un progetto d'evasione dall'isola dell'Asinara a causa del ritrovamento di carte compromettenti addosso a un militante ferito e catturato a Roma. Solo dopo quel fallimento la critica divenne sfiducia esplicita verso il vertice delle B.R. (l'esecutivo) di cui si chiesero le dimissioni. Le B.R. si riuniscono per discuterne in una «direzione strategica» (l'equivalente del comitato centrale dei partiti comunisti) nel dicembre 1979 e dicono grosso modo: «Siamo quel che siamo, facciamo quel che possiamo, non neghiamo le nostre difficoltà ma non dipendono dalla nostra direzione, e pertanto la riconfermiamo. Abbiate dunque pazienza, le cose non stanno come credete». Tutto ciò però viene condito con parole infelici, risentite del tipo: ma che volete, buona strategia come il caffè al mattino?
Il solco fra liberi e prigionieri si approfondisce, ovviamente.
Poco dopo, le B.R. hanno il loro primo «pentito», Patrizio Peci, che fa arrestare molte persone, liquidando l'intera «colonna» torinese e portando i Carabinieri alla casa di Genova dove si era riunita quella direzione strategica delle B.R. che aveva rifiutato le dimissioni dell'esecutivo. Qui, i quattro militanti che vi si trovavano furono uccisi (28 marzo 1980) per volontà del generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa che, in questo modo pensava, con ragione, di «costringere» lo Stato a riconoscere pienamente il contributo dei pentiti nella lotta al terrorismo.
Tutto, dopo, precipita. E si giunge alla "quarta fase" della crisi: le scissioni, e con esse, la fine di fatto delle B.R., anche se vi saranno ancora per pochi anni azioni armate condotte da quel che ne resta, a nome di questa o quella fazione.
Il rifiuto delle dimissioni dell'esecutivo rende sfiduciati i detenuti critici. Si è all'interno di un circolo vizioso dove gli uni possono solo radicalizzare la loro critica e gli altri la propria pratica. I critici sollevano questioni indubbiamente reali, colgono l'inefficienza politica, l'"impasse" in cui si trova il fenomeno armato; ma lo fanno in base a un'analisi ottimistica della realtà e perciò individuano soluzioni altrettanto irreali. Dimenticano, per esempio, che in una piccola organizzazione militare di tipo guerrigliero la direzione è di carattere collegiale e perciò il suo vertice si rinnova in modo praticamente obbligato e «naturale», in base all'esperienza accumulata dal singolo e non in base a ragioni di potere. Quanto più si è al vertice, tanto più si è impegnati in una militanza totale che non dà affatto i privilegi connessi allo stare a capo di un movimento legale (e dove dunque è tanto più necessaria la rotazione delle cariche). Un movimento legale può conoscere solo degli abbandoni, quello illegale conosce anche delle perdite non volute che rendono difficile persino il ricambio «obbligato». Proprio per il fatto di non riconoscere tale fisiologico stato di cose, i critici sono perciò costretti a immaginarsi un'altra realtà di massa in cui, secondo loro, nel movimento proletario esiste una situazione quasi pre-insurrezionale. Nel movimento del '77 essi ravvisano ormai l'esistenza di «organismi di massa rivoluzionari», descritti come i soviet nella situazione che precedette la vittoria bolscevica.
Ma questa ubriacatura di buona parte dei prigionieri "non poteva" trovare un'alternativa ragionevole all'esterno. Si tenga inoltre presente che la distinzione che faccio qui tra liberi e prigionieri è in fin dei conti del tutto relativa, una convenzione utile per il racconto scritto. In realtà abbiamo spesso a che fare con una stessa persona che cambierà rapidamente posizione perché avrà cambiato condizione: dalla libertà al carcere... In questa fase della vicenda, si vedrà che spesso chi viene arrestato abbandona il «realismo» che aveva fuori e abbraccia l'estremismo ottimista (in realtà disperato) della maggioranza dei carcerati. E' normale. Se il militante arrestato nella seconda metà degli anni '70 assume spesso questo atteggiamento è per quel che era già fuori: le B.R. (esterne) non erano in grado di dare l'unica alternativa vera - mettere in discussione se stesse fino al punto di riconoscere la crisi irreversibile della strategia della lotta armata. C'era una profonda esigenza conservativa anche in esse; non potevano buttare a mare per l'incognito tanta vita compromessa in una strada così radicale. E così le B.R. accettarono infatti come inevitabile l'"escalation" dello scontro pur senza coltivare le visioni trionfalistiche (o disperate) provenienti dalle prigioni. La decisione di ricorrere all'omicidio politico avviene per la prima volta nel giugno 1976 (due uomini fascisti erano già stati uccisi a Padova nel 1974, ma allora non si era trattato di una scelta bensì della conseguenza di un incidente in cui i militanti B.R. avevano sparato per difendersi).
In sostanza quella tra dentro e fuori le carceri è la differenza che può sorgere nello stesso individuo a seconda di dove si trovi. Abbiamo a che fare con una stessa mentalità che si ritrova in due situazioni diverse, una mentalità che non sa focalizzare il suo "dopo". Le B.R. seguono la strada dell'«andare sino in fondo», militarizzandosi sempre più, dando così carne al fuoco della critica invece che soluzione. Si arroccano su se stesse, impossibilitate, per la via sulla quale sono nate, a mettersi in discussione.
L'incapacità di ridiscutersi, forte ormai in tutti come male di una civiltà, diventa fortissima in un'organizzazione armata e drammatica in una clandestina. I meccanismi militari pongono all'individuo vincoli rigidissimi perché sempre di più il mezzo va condizionando il fine, è già in sé premessa di una via obbligata. Il singolo ha compromesso la propria vita e perciò la collettività di cui fa parte, non può tornare indietro né andare avanti per una nuova strada. Tutto ciò verrà vissuto come un obbligo morale destinato a risultare vincente su ogni dubbio.
L'arroccamento delle B.R. sarà dimostrato con particolare evidenza dalla loro reazione «attonita» di fronte al pentitismo. Tant'è vero che non so neanche dove piazzare come «fase» questo evento della loro storia.
Patrizio Peci venne arrestato nel febbraio 1980, quando già le B.R. erano giunte a quella che ho definito terza fase della loro crisi (richiesta di dimissioni dell'esecutivo). La prima reazione dei militanti è quasi di non riuscire a credere al tradimento nonostante la sua evidenza. Il risultato di questo stato d'animo è ravvisabile nel comunicato in cui le B.R. assimilano questo fatto imprevisto al caso di un «pidocchio»: un parassita, qualcosa che non c'entra col corpo, nonostante questo parassita abbia provocato decine di arresti e quattro morti. Dal lato delle prigioni si dirà che la questione non può essere liquidata così. Nelle parole pronunciate da un detenuto a un processo si dirà che una simile vicenda può spiegarsi solo come scarsa preparazione dei quadri, scarsa dialettica col movimento, eccetera. Insomma si dà la colpa alla parte ormai avversa (che pure era la propria fino a poco tempo prima - ma entrando in carcere si diventa autocritici). E' come se si dicesse: Se quello è un pidocchio è solo perché "tu" non sei pulito e perciò te lo ritrovi addosso tu. Il pentitismo è roba tua, non un problema di "tutti noi". Io mi distacco da te e non avrò a che fare con roba del genere. (Com'è noto il carcere si rivelerà invece una grande fucina di pentiti di vario tipo e provenienti da tutte le scuole...).
Nessuna di quelle che ormai sono fazioni opposte riesce a cogliere - diversamente dal generale Dalla Chiesa - l'importanza di questo primo caso di delazione così devastante. Questo evento, anzi, aiuta la fazione critica a radicalizzarsi contro il presunto avversario. E ora infatti la critica nata nelle prigioni troverà una sponda anche all'esterno dando luogo alla "quarta fase" della crisi.
La prima scissione vera e propria nelle B.R. (uscite personali per dissenso c'erano state spesso) avviene nella seconda metà del 1980 con la colonna milanese «Walter Alasia». Essa non risponde ancora alle critiche provenienti dall'«interno», ma sfiducia l'esecutivo per ragioni proprie rivendicando un'autonomia legata alle vicende di fabbrica nel proprio territorio. E' l'espressione di un disagio in cui il vecchio modello centralizzato delle B.R. («centralismo democratico» - un famoso ossimoro) risulta essere ormai un abito troppo stretto: ma come è possibile realizzare una dimensione militare senza un qualche modello di centralizzazione quando quello dato non è più accettato? La scissione è la possibile risposta per chi non vuol mettere in discussione l'impronta armata.
Ma sarà la seconda scissione a rivelare fino in fondo l'agonia delle B.R. Essa ha in comune con la prima la composizione: è ancor di più composta da militanti di recente adesione, è contro i «vecchi» esterni. E', si può dire, un'espressione del movimento del '77, anche se di quella minoranza che sceglie la lotta armata «organizzata» contro lo «spontaneismo» che contraddistingue invece la maggioranza dei militanti violenti di quegli anni. Prima caratteristica di questa ultima generazione di brigatisti è, direi, il volontarismo: le complicazioni presentate dai vecchi sono ampiamente sottovalutate. Essi fanno parte del «fronte delle carceri» - sono cioè in collegamento con alcuni detenuti - e dell'allora appena nata colonna napoletana. Si riferiscono esplicitamente alle analisi fornite dai prigionieri critici e, infatti, quando la scissione verrà proclamata ufficialmente, la maggioranza dei reclusi aderirà idealmente alla nuova formazione: B.R.-Partito Guerriglia.
Il P.G. sarà una meteora destinata a durare nove mesi circa nel 1982. Prima ancora della scissione i suoi futuri militanti affermano che «la lotta ideologica va messa al primo posto» - una bestemmia per i «vecchi». Si riprendono, senza troppo pensarci, tesi di Carl Schmitt sulla «guerra totale» parlando di guerra, e non di conflitto, in tutti i rapporti sociali. Nella breve storia del P.G. si libererà del tutto quell'embrione che era la ricerca e la caccia del capro espiatorio quale soluzione di tutti i problemi, e sarà proprio questa liberazione a porre fine di fatto all'esperienza delle B.R., poiché di fronte ai suoi risultati espliciti, molte persone si tireranno indietro, considereranno comunque chiusa l'epoca della lotta armata rivoluzionaria.
Una delle prime azioni del «fronte delle carceri» (cioè prima ancora di diventare P.G.), è il sequestro del fratello di Patrizio Peci, Roberto, non perché suo fratello (come allora venne detto dai media) ma perché ritenuto anch'egli delatore. All'epoca, per tutti quanti noi lottarmatisti, uccidere un delatore era del tutto normale. Ma il P.G. condusse la vicenda in un modo che mise a disagio non poca gente. Quello che doveva essere un semplice e brutale atto di guerra divenne un complesso rituale, organizzato come un processo in cui gli «organismi di massa» dovevano fungere da giurati. Si chiese cioè a della gente che agiva nella legalità o che, come i detenuti, era nelle mani dello Stato, di pronunciarsi pubblicamente sull'esecuzione del sequestrato, come se ormai si vivesse in un altro Stato e nella sua nuova legalità... Inoltre, per questo «processo» che era inutile poiché si sapeva già di aver catturato un delatore, il P.G. filmò le scene del giudizio, le commentò persino musicalmente, e le diffuse, offrendo oltre che uno spettacolo di inutile crudeltà una parodia che superava gli stessi rituali del sistema avversato.
Date queste premesse, l'azione che concluse la vicenda breve del P.G. non può stupire. Ormai in crisi irrimediabile, falcidiati dagli arresti, un suo gruppo di militanti, a Torino, trova la spiegazione delle proprie difficoltà: una militante, Natalia Ligas, sarebbe «la belva» che li ha traditi. Per diffondere tale tesi, nell'ottobre 1982 (se non ricordo male) entrano in una banca e uccidono due guardie giurate, in pratica solo per dare pubblicità al loro comunicato contro la presunta «belva», la quale, tra l'altro, è stata arrestata da poco e in quei giorni è imputata nel «processo Moro» a Roma. Ciò dà luogo a una situazione paradossale e che sarebbe eufemistico definire kafkiana. Il giudice decide ovviamente di tenere isolata l'imputata dai suoi compagni, dato che non può sapere se la strangoleranno o no come spia una volta che essa sia posta in gabbia con loro nell'aula del processo. Lei, altrettanto ovviamente dato che non è affatto una spia, chiede di poter stare con i suoi compagni... Mentre si svolge un processo dello Stato, al suo interno il gruppo torinese ne vorrebbe scatenare un altro come quelli di Mosca. Non c'è stato insomma neppure bisogno di ritrovarsi al potere per assistere al tentativo di rivivere processi come quelli di Stalin a Mosca, e per giunta all'interno di un altro processo condotto dallo Stato esistente in Italia.
Un evento del genere, per quanto ognuno potesse dichiararsene estraneo, era talmente al di là d'ogni immaginazione che la situazione in cui si ritrovò momentaneamente Natalia Ligas contribuì probabilmente alla fine della lotta armata più di qualunque altra cosa. Lì molti toccarono con mano quali vette potesse raggiungere la caccia alle streghe. E, d'altra parte, come dirsi del tutto estranei a un simile epilogo? Era un epilogo, appunto...
Arresti e caso Ligas segnano la fine del P.G. Ora però è la lotta armata stessa che comincia a finire. In carcere molti militanti cominciano a ripensare un po' tutto... All'esterno resisterà ancora proprio quella parte delle B.R. che aveva subìto le scissioni e che a quel punto, per distinguersi dagli altri, si era autodenominata B.R. «per la costruzione del partito comunista combattente» (P.C.C.). Ma qualcosa di ancora più profondo sta avvenendo nell'evolversi della crisi. L'inconscio espiatorio si accinge ad andare oltre la lotta armata.
Nella logica persecutoria, le scissioni sono l'unico modo - seppure suicida - che una collettività ritiene d'avere per preservarsi. Essa si suddivide in varie micro-comunità che individuano nella parte più esposta o debole di sé (il capo, il diverso...) l'oggetto d'accusa, il traditore. Eretici e ortodossi si accusano l'un l'altro in nome della purezza rigenerante o della fedeltà salvatrice. Questa fase è dunque all'insegna del settarismo e ha intenti conservativi; in realtà porta al successivo stadio dello smarrimento in cui la collettività si dissolve. Nell'esperienza carceraria il pre-smarrimento ci fece conoscere le pagine più tristi. Chi è per la scissione vede l'altro come un arreso. I rapporti umani si deteriorano rapidamente. Indubbiamente la politica ci preservò da esiti peggiori; i detenuti comuni per esempio conoscono sovente esiti molto più deflagranti dei loro conflitti in una condizione, come quella della reclusione, che è fatta apposta per incoraggiare la dinamica sacrificale, essendone il più alto frutto storico. Come nell'esperienza del cattolicesimo dei primi secoli, per esempio, argomento importante fu come considerare chi aveva confessato. Alcuni militanti del P.G. arrivarono a sostenere che non bisognava far differenza tra chi aveva confessato sotto tortura e chi no. In quel convulso periodo si verificarono in carcere due uccisioni di persone che avevano confessato all'arresto ma che poi, pentite di essersi pentite, erano state irresponsabilmente (o cinicamente) messe dalle autorità fra gli altri detenuti. Inoltre vennero aggrediti fisicamente due militanti che simpatizzavano per il P.C.C. soltanto per le loro posizioni politiche. Tutto questo stancò non poca gente. Se è nel 1980 (con le delazioni di Patrizio Peci e la scissione della colonna milanese) che va situata l'agonia delle B.R., la loro fine va dunque situata nel 1982. Di quell'anno che termina con la vicenda P.G., è opportuno ricordare anche l'inizio: l'esito della cattura di un generale della NATO da parte delle B.R.-P.C.C., l'americano Dozier, conclusasi con la sua liberazione e la cattura dei sequestratori, un buon numero dei quali confesseranno sotto tortura, procurando qualche... centinaio di arresti. Uno di quelli che confessano faceva parte dell'esecutivo, come ho già detto.
Quanto succederà nei cinque-sei anni successivi sarà lo scoppiettio di un fuoco che si va spegnendo, vivendo solo su se stesso e allontanando da sé piuttosto che aggregando, fino a consumarsi "completamente" (checché ne dicano ancora oggi alcuni media o politici).
Piuttosto, in quegli anni nasce qualcos'altro, che lo scoppiettio agonizzante nasconde. Lungo la strada iniziata dall'inconscio espiatorio del '68 sconfitto, infatti, il bello deve ancora venire.
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COME SI RINNOVA IL PRINCIPIO VITTIMARIO.
In carcere, la stanchezza, quando non il disgusto in alcuni, non porterà tuttavia molte persone ad abbandonare la mentalità vittimaria. Abbandoneranno sì la lotta armata ma, almeno nella maggioranza dei casi, si dimostreranno incapaci di disvelare il suo limite di fondo, ciò che anzi aveva in comune con il mondo che dichiarava di avversare; e semmai questo limite si dispiegherà ulteriormente, determinando, al di là della lotta armata, un grande movimento di «ritorno all'ovile». E tale ritorno costituirà uno dei più illuminanti esempi del fenomeno che ora chiamiamo post-modernità. La prima pattuglia di quest'avanguardia planetaria nasce proprio nel carcere italiano e dai reclusi di estrema sinistra, come ricorda Baudrillard nel testo citato sopra.
Già nel 1981, un docente universitario di Padova, il professor Toni Negri, insieme con altri suoi coimputati dell'«Autonomia operaia» aveva cominciato a parlare di «dissociazione». Si trattava però per costoro di chiarire che non avevano nulla a che fare con i «terroristi», ossia con movimenti organizzati di lotta armata quali le B.R. o Prima Linea (P.L.), come in effetti era. In cambio di questa dichiarazione contro i malvagi («sono anch'io contro i brigatisti» dichiarò il professore sulla rivista "Panorama", rivolgendosi al magistrato Sica) essi in pratica chiedevano un trattamento più comprensivo dato che, per esempio, il prof. Toni Negri era stato addirittura accusato di essere il «grande vecchio» alla guida di tutti i movimenti eversivi di sinistra in Italia (e bisogna ben riconoscere che una tale tesi era semplicemente folle); tuttavia c'era ormai qualcosa di strano nella richiesta degli imputati: essi non si limitavano a rivendicare la loro innocenza ma accettavano di far scendere le idee politiche sul terreno della contrattazione giudiziaria. Al di là dell'innocenza ci si proclamava «contro» le B.R. e non semplicemente «altro» da esse.
Ma dopo il 1982 vedremo pian piano un intero gruppo armato, P.L., cominciare a riflettere su come «uscire dal tunnel» della lotta armata - e dunque in realtà anche dalla galera. Anche tra le B.R., vari reclusi, alla spicciolata, cominciano a porsi lo stesso dilemma. Per questi lottarmatisti, però, non può trattarsi semplicemente di prendere le distanze da un altro da sé; qui è evidente che la distanza va presa da se stessi nell'unico modo possibile: riguardo al proprio passato. Mentre gli «autonomi» come il prof. Negri possono mettersi a difendere il proprio passato provando a reinterpretarlo in modo edulcorato, quale presunta barriera al terrorismo in funzione anti-B.R. e anti-P.L., ciò ovviamente non è possibile per i lottarmatisti. Per loro non ci sono mezze vie. Ora che sono degli «smarriti» e non più dei «settari», il loro nuovo capro espiatorio non può più essere semplicemente l'Altro (il capo, il diverso, eccetera), ma una parte di se stessi; devono realmente frammentare la propria coscienza di sé, non possono ricostruire anche solo opportunisticamente una coscienza unitaria di sé quali soggetti. Non potendo dire «ce l'ho con l'altro», devono dire «ero un altro».
Che differenza c'è tra i «pentiti» (delatori), che nel frattempo sono aumentati di parecchio e questa nuova figura di semplici abiuranti? Al fondo, non molto: è cambiato soprattutto il contesto in cui viene a maturare la crisi individuale. E' tuttavia opportuno che il lettore tenga sempre presente che in queste pagine non parlo mai di psicologia e non m'interessa affatto colpevolizzare qualcuno a mia volta: parlo anzi di una logica politica e culturale inesorabile e su di essa voglio porre l'accento proprio per sottolineare l'assurdità delle logiche punitive e colpevolizzanti. «Chi è senza peccato scagli la prima pietra»: se qualcosa emerge dal mio racconto è proprio la fragilità dell'Io di fronte ai meccanismi storici del Noi, e questa considerazione invita più a una nuova comprensione che al riduttivo giudizio colpevolizzante sul singolo. E' chiaro che il carcere spinge di per sé al fenomeno che ho appena descritto. Inoltre, questo fenomeno venne seguito con estrema attenzione dal sistema giudiziario. Ciò che i politici non seppero né vollero affrontare, trovò i magistrati pronti a intervenire nel solo modo in cui potevano, ossia con strumenti giudiziari. La prima misura che toccò ai nuovi abiuranti fu un trattamento migliore in carcere, e all'uopo furono approntate delle cosiddette «aree omogenee». Ma la trattativa informale andrà ben più in là, e presto quasi l'intera organizzazione P.L. dichiarerà, in modo collettivo, di voler «uscire dal tunnel». Nel 1984 sarà varata la legge sulla dissociazione che dà immensi privilegi (rispetto agli «altri»). I beneficiari vedono l'ergastolo ridotto a 21 anni, il che vuol dire in pratica che già dopo 8 anni di carcere si può uscire dal carcere di giorno per andare a lavorare, eccetera. Essi insomma si ritrovano in una corsia preferenziale su tutto, mentre gli altri stanno nelle carceri speciali.
Le conseguenze di questi due anni, tra la fine del 1982 e il 1984, sono enormi.
Ritorniamo per un attimo ai militanti che sono al di fuori dei sentieri della delazione e dell'abiura. Noteremo qui che mentre prima (nella fase del settarismo) chi entrava in carcere diventava «estremista», ora pian piano va succedendo il contrario. Se chi, fuori, continua a voler armarsi, lo fa ormai nel segno più della disperazione che della speranza (fondata o meno che fosse), chi entra in carcere ora scopre presto in sé uno strano realismo, e, al contrario, saranno ora proprio alcuni vecchi reclusi a chiudersi in una dignità un po' da «reduci»... Vedremo delle dichiarazioni di gente da poco arrestata chiudere interi «cicli storici» più o meno con la data del proprio arresto... Ma tutto ciò è un fatto secondario. Sta avvenendo qualcosa di molto più importante.
Il successo ottenuto dallo Stato con la legge sulla dissociazione del 1984 incoraggia ora il potere legislativo a ripensare l'intera politica penitenziaria. E nell'ottobre 1986 viene varata la Riforma (legge Gozzini), approvata dal 90% delle forze parlamentari, che, per i condannati, si fonda proprio sull'opposto del diritto, cioè sul premio. Una legge fondata sul premio è il massimo dello spirito punitivo e dell'offesa alla dignità umana. Eppure incontrerà un enorme successo, venendo difesa da tutta la sinistra, a lungo da tutti i detenuti «comuni», e richiesta per godere dei suoi benefici dalla maggioranza dei detenuti politici rimasti, cioè quelli che non avevano voluto né pentirsi né dissociarsi.
Questa legge tanto difesa a sinistra, quanto vituperata come troppo permissiva a destra, merita qualche riflessione. Intanto, una legge premiale è un ossimoro: una legge dovrebbe garantire un diritto e/o minacciare una pena, non già fondarsi sul premio, che è l'esatto contrario di un diritto. Inoltre, è pure un paradosso nella pratica poiché funziona tanto di più quanto meno concede quel che prevede. E infine, dovrebbe far riflettere il grado d'accettazione che ha ricevuto da quasi tutte le parti. Incredibile infatti è la miopia che ancora oggi colpisce tanti garantisti. Essi lamentano la liquidazione della «Gozzini» dicendo che viene ben poco applicata a causa del clima generale e della severità dei tribunali. In realtà, questi tribunali stanno appunto esaltando un sistema premiale fino al punto di aver eliminato ogni diritto, ossia una concessione di benefici fondata ancora su criteri oggettivi, automatici, come potrebbe essere per esempio la quantità di pena effettivamente scontata unita al fatto che non si sia compiuto un nuovo reato.
Il varo di questa legge si può considerare come il principale esito della fine della lotta armata in Italia. Certo, c'è chi dirà che questa tesi è particolarmente distorta dalla mia particolare visuale, ovvero che è un'esagerazione. Ma è difficile contestare che:
1) la «Gozzini» riflette considerazioni fatte a proposito dell'esperienza dei dissociati, come ripeté in più occasioni lo stesso parlamentare che diede il nome alla legge;
2) essa farà da battistrada per un notevole mutamento di tutto il sistema penale, investendo anche il terreno processuale, come dimostrano tutti i nuovi riti fondati sulla premialità, quali il patteggiamento e gli sconti di pena per collaborazione con la giustizia eccetera;
3) il sistema penale nel suo complesso, grazie a questi nuovi strumenti, riesce a invadere molto più facilmente di prima campi della vita sociale e privata che prima gli erano estranei.
Comunque sia, è per me evidente che, almeno da quella data in poi, tutto ciò che riguarda la storia dei militanti della lotta armata (all'interno di una vicenda che per me s'era conclusa alla fine del 1982), non ha più nulla a che vedere con un fenomeno storico conseguente agli anni Settanta, ma riguarda il suo «dopo».
Se altrove, come negli USA, è dalla stessa logica del mercato che "sembra" esser nata l''antropologia' della post-modernità, qui in Italia è al sistema penale che bisogna senz'altro riconoscere un ruolo d'avanguardia. E' in questo campo che si costruisce un senso di sé ridotto a «terminale di molteplici reti», prima ancora che si diffonda il personal computer a livello di massa. E' qui che si crea il primo reparto di quella «società dell'accesso» di cui parla Jeremy Rifkin, nella quale la tua vita non ti appartiene più, ma te la dovrai comprare pezzo per pezzo, a rate; nella quale l'io è frammentato e al posto del "carpe diem" si sostituisce il suo opposto, l'"esser posseduti da ogni attimo" e dalle sue logiche funzionali, a relazioni contrattuali e non più reciproche. Nella società, questa vita fatta di recitazione per un mondo considerato come un palcoscenico, è vista da molti come la conquista di una grande libertà. Evidentemente costoro non conoscono bene il luogo in cui essa trova la sua massima espressione e il suo stesso luogo di nascita. Perché è chiaro, infatti, che gli USA hanno conosciuto molti anni prima di noi leggi che prevedevano l'assoluta discrezionalità, la totale arbitrarietà del trattamento riservato al recluso; e noi, qui, non abbiamo fatto altro che seguirli, in modo forse più mistificato.
Ciò che m'interessa ora sottolineare è la passività di tutti di fronte a questo processo, come dimostra anche l'esperienza rivoluzionaria italiana (armata o meno), perché c'è sempre un fattore culturale a consentire il "successivo" mutamento sul piano economico e sociale. Ed è necessario constatare che questo mutamento culturale è stato anticipato dall'ultimo anello da cui ci si sarebbe potuti aspettare che venisse: precisamente da quello giudiziario. Prima di trasformare in merce nuovi spazi dell'attività umana nella "new economy", si è fatto merce della coscienza degli esseri umani attraverso le forme di coercizione previste dal sistema penale.
Il terreno culturale è stato preparato dal sistema giudiziario, così favorendo il mutamento della formazione economico-sociale. Ma non è forse sempre stato così da tanto tempo? Non nasce forse sui tavoli di tortura del Duecento contro gli eretici il concetto moderno di individuo quale soggetto degli eventi - eventi che in realtà lo trascendono? In quell'epoca si svolse probabilmente l'ultima e più grande resistenza di un'altra visione della civiltà, finita sui roghi per catari e valdesi. E poi si potrà andare più facilmente avanti: con quella caccia alle streghe che è la prima configurazione del pensiero borghese; e così via. L'opera d'avanguardia culturale svolta dal sistema giudiziario non è altro che il riflesso obbligato di un sistema di pensiero dominato dal principio vittimario collettivo: altrimenti non si potrebbe spiegare.
Personalmente non sarei forse mai giunto a una tale conclusione solo sulla base di letture, ma anzitutto riflettendo sulla mia esperienza personale, sul fatto che praticamente nessuno dei miei ex compagni finiti in carcere riusciva a rifiutare in modo conseguente la legge premiale. Una minoranza ha addirittura preferito rifugiarsi in un suo mondo tutto ideale, come se la lotta armata fosse ancora attuale come prima. Essi hanno cioè preferito ritagliarsi un ambito di reduci come «maschera» necessaria per giustificare la difesa della propria dignità, come se dunque questa non potesse giustificarsi di per sé, al di fuori di ogni logica punitiva, ma avesse ancora bisogno di una realtà compatibile con questa. Si tratta dei cosiddetti irriducibili, oggi poche decine di persone, che si fanno magari la galera a vita considerandola paradossalmente non come il prezzo di una dignità personale da pagare, ma come una patente di rivoluzionarietà che salvaguarda il principio della vittima espiatoria. E' come se dicessero: oggi tocca a me patire perché domani toccherà a chi mi fa patire.
Ma questo è anche un modo di pensare che, prima o poi, il più delle volte, finisce come deve finire: nell'accettazione in forma realistica del sistema di cui già fa parte. E' per questo infatti che mi interessa di più riflettere sulla grande maggioranza dei miei ex compagni d'avventura ex irriducibili che, partiti come costoro, a un certo punto hanno finito per accettare una via d'uscita individuale dal carcere, per «realismo», dato che si erano ormai resi conto della fine del progetto armato degli anni Settanta, senza per questo uscire dalla logica vittimaria. E' qui evidente che l'accusa morale - loro rivolta dagli ancora irriducibili - di essere stanchi, opportunisti, arresi o «controrivoluzionari», vuol dire ben poco. Prima di tutto perché, già da un punto di vista puramente intellettuale, bisognerebbe comunque chiedersi razionalmente il perché di un tale esito. Ma in secondo luogo perché stiamo parlando di persone che a modo loro hanno dato tutto di se stesse e a tutt'oggi non accettano affatto di riconsiderare il loro passato - pur ridiscutendolo criticamente in gran parte (ma senz'altro meno del sottoscritto!) - alla stregua dei pentiti o dei dissociati. I militanti della lotta armata che hanno accettato la soluzione individuale del loro caso - e che individuale non poteva essere - lo hanno fatto perché erano ancora "culturalmente" impreparati al caso, né poteva esser diversamente nella maggior parte dei casi personali, a causa di tutte le ragioni che sono state dette in queste pagine. Essi si sono sentiti incapaci di affrontare la legge non scritta che presiede a tutte le leggi e, pur avendo messo in discussione la propria e l'altrui vita per cambiare il mondo, qui non hanno più saputo esprimere un'obiezione di coscienza.
E proprio quest'incapacità di fronte a quanto sta dietro al sistema penale indica che esso è l'altare principale di una religione praticata e non dichiarata alla quale neppure i rivoluzionari hanno saputo finora sottrarsi. Gli eretici che si mettono a criticare soltanto l'altare non rischiano di far altro che rinnovare la religione che vi presiede. Questa è stata perlomeno finora la storia delle rivoluzioni fondate sulla violenza politica invece che su una radicale non-collaborazione alla servitù volontaria.
Nei primi anni Ottanta, ancora una suora - pare destino che a capirci siano alcune di queste donne recluse volontarie - disse a mia moglie (con la quale condivido il carcere): «Che peccato, questi dissociati... Basterebbe che stiate tutti fermi ad aspettare, e prima o poi sarebbero costretti a farvi uscire tutti assieme». Ovviamente, aveva a nostro parere mille volte ragione. Ma anche in un certo senso un po' torto perché qui sta la cosa più difficile ancora tutta da fare. Chi rifiuta, davanti alla legge, di considerarsi un caso puramente individuale, ossia di affrontare la propria sorte a prescindere da quella altrui, rischia di farsi più galera di tutti. Qui, l'obiezione di coscienza, pratica notoriamente nonviolenta, non può che essere considerata arroganza e perciò in quanto tale violenta. (Ne so qualcosa per esperienza diretta).
Non c'è stata soluzione politica per la lotta armata degli anni Settanta. Per portare le autorità ad accettare un'ipotesi del genere a cose finite, ci voleva anzitutto il rifiuto collettivo degli interessati a una soluzione individuale, come proponeva quella suora. Chi lo ha fatto è stato allora costretto a farlo come scelta... personale, di coscienza, e perciò ignorata.
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IDENTITA' E PENA
(ALCUNE RAGIONI DELLA SCONFITTA COMUNISTA).
E' mia profonda convinzione che o l'umanità troverà il modo di superare il suo inconscio espiatorio o andrà verso la propria autodistruzione. So bene che una simile tesi è considerata apocalittica, millenaristica e perciò in quanto tale ridicola dai più. L'ideologia principale in voga oggi è infatti la minimizzazione, fino al punto in cui arriva a definirsi come non-ideologia, superamento di tutte le ideologie, qui intese come limite di una volontà che voglia ancora avere un minimo sistema d'idee dotato di qualche interna coerenza...
Nelle pagine precedenti ho fornito soltanto un piccolo esempio, per quanto significativo a mio parere, come situazione-limite, di una condizione umana generale. E mi sembra di poter affermare che quello che fino a ieri era solo l'altare di una religione «nascosta» - ovvero il sistema penale rispetto al principio vittimario - sta diventando, in un massimo punto di crisi, una minacciosa evoluzione in senso idolatrico e fondamentalista. Il mondo attuale dominato dall'Occidente - quello detto della globalizzazione, "new economy", post-modernità, cosiddetto liberismo eccetera - porta avanti i suoi processi di disgregazione sociale, crea vite sempre più atomizzate, e perciò individui che spesso si sentono personalmente «sfigati», in quanto obiettivamente precari e declassati. I rapporti conviviali venendo via via distrutti, ecco che i loro sistemi di regolazione sociale sono sempre di più sostituiti dal ricorso al sistema penale quale unica alternativa. In parole povere, a tutti i declassati si offre come base affettiva il risentimento, il quale si traduce in un ragionamento insieme confuso e semplicistico: «Se tutto mi va male, sarà pur colpa di qualcuno» (Alain Bihr, "L'avvenire di un passato. L'estrema destra in Europa", Jaca Book, 1997). La politica del risentimento è soltanto ricerca di capri espiatori: ci sono i criminali, gli immigrati, il Drogato, persino il Fumatore... a spiegare i nostri guai. E se il programma «sociale» delle nuove destre, per esempio, è tutto qui, le sinistre elettorali non fanno che rincorrerle...
Ma in questa minacciosa tendenza, il ricorso al sistema penale non è immediato; lo spirito forcaiolo trova in esso solo il suo risultato finale, la sua massima espressione istituzionale. E in mezzo, se vogliamo, c'è quasi tutta la storia del Novecento. Già Hannah Arendt individuava nei nazionalismi la più forte molla del totalitarismo novecentesco ("Le origini del totalitarismo", Edizioni di Comunità, Milano 1967), e in essi lo spirito dei declassati - ma bisogna ora riconoscere che dai tempi del nazismo (massima espressione di tale spirito secondo la Arendt) i processi di disgregazione sociale e di conseguente atomizzazione degli individui hanno purtroppo fatto passi da gigante. Abbiamo visto che nella storia a ogni disgregazione corrisponde, nella mente vittimaria, una ricerca di identità: di volta in volta religiosa (contro le eresie), sessista (caccia alle streghe), nazionale, razzista... L'individuo, realmente frustrato nei suoi interessi, è però oggi costretto a darsi una identità che è sempre più differenziata, precaria e in fondo poco probabile: sempre più virtuale e immaginaria. Spesso queste persone sognano nostalgicamente un passato ideale, che non c'è mai stato se non nelle loro fantasie. L'idea della razza pura, per esempio, è un classico esempio di questa illusione, dato che l'essere umano è migrante nella sua stessa storia evolutiva... Ma quanto più assistiamo al formarsi di micro-identità sempre più labili, tanto più la loro reazione risulta violenta, fanatica, fondamentalista. In conclusione, ogni affermazione di identità che pretenda di differenziarsi riduttivamente rispetto alla generica appartenenza al genere umano tende ad avere conseguenze assassine. Non si può allora non vedere in questa deriva identitaria prodotta dalla moderna disgregazione sociale una dinamica paranoide, aggressiva verso colui sul quale si proiettano i propri fantasmi. E in questo c'è qualcosa di antico, un nodo che viene al pettine. Riprendendo un'affermazione di Jung - «Gli Dei sono diventati malattie» -James Hillman ("La vana fuga dagli Dei", trad. Adriana Bottini, Adelphi, 1991) stabilisce l'equazione perdita degli Dei = paranoia, o perlomeno delirio (di cui la paranoia è l'espressione perfetta). La tensione interna diventa esterna se non trova quell'oltre di cui ha bisogno, connaturato alla nostra incompiutezza; l'identità diventa potenzialmente assassina perché è una prigione, riduttiva della realtà umana, riduttrice di senso, che interpreta i significati in modo sempre meno fantasioso e sempre più "letterale" come dimostrano i fondamentalismi (e molti esempi di matti).
Ma proprio per questo, allora, è opportuno, a mio parere, vedere nei particolarismi identitari, nei fondamentalismi, e nel carattere diffuso della paranoia, dei "derivati" 'psicologici' di quel "centro" 'istituzionale' che è il principio vittimario. E' possibile individuare una soluzione 'politica' del problema, considerarlo storicamente al di là di, e accanto a, ogni pur preziosa analisi psicologica e 'sociale' perché è necessario distinguere il centro (della questione) dai suoi derivati principali quali la chiusura identitaria e l'esaltazione della pena.
A questa conclusione mi porta proprio la riflessione, iniziata in queste pagine, sull'esperienza della sconfitta del movimento comunista del Novecento - ben al di là dell'eresia sessantottina e della sua appendice armata. In teoria, infatti, il movimento comunista ha cercato di essere il meno identitario possibile, eppure ha fallito riguardo a tale dichiarazione d'intenti. Il comunista doveva sentirsi «cittadino del mondo», non avere patria che non fosse la fratellanza universale per una nuova umanità, doveva perciò rifiutare differenze di sesso, razza, religione... Ma, non avendo mai messo in discussione il principio vittimario dato che accettava di usare le stesse armi del nemico (per sottrargliene il monopolio), egli è rimasto inconsciamente schiavo della più antica prigione identitaria e delle sue conseguenze paranoidi. I comunisti hanno creduto che il gruppo di cui facevano parte (di aggregazione in aggregazione o di scissione in scissione) fosse il miglior rappresentante della non-identità, dell'uguaglianza, della fratellanza universale. Sicché i comunisti non hanno saputo sottrarsi all'origine del meccanismo identitario: il livello tribale. Se ne ha la riprova finale osservando che tutte le conquiste del potere politico si sono rivelate «controrivoluzioni» dando luogo a orribili estensioni del sistema penale; ed è un argomento, questo, ancora sottovalutato (quando non esaltato a volte) non solo dalla maggior parte delle sinistre attuali, ma persino da nonviolenti. Dico tutto ciò con una certa cautela, perché mi è anche chiaro che in Europa occidentale i Partiti comunisti non hanno mai preso il potere - e non è stato un caso -, dando contributi alla rivendicazione sociale e alla democrazia. So bene che le esperienze più deleterie di cui parlo sono nate altrove, in buona parte impregnate di nazionalismo, ovvero di esaltazione del senso d'identità e non semplicemente di sconfitta di fronte a esso. Ma la contraddizione resta irrisolta anche da questa parte del mondo e ancora oggi vediamo per esempio sinistre e nuovi movimenti chiedere allegramente estensioni del diritto penale.
Il corto-circuito della 'psicologia' dei comunisti del Novecento è significativo dato che parliamo di gente che professava sinceramente princìpi d'eguaglianza; esso dimostra che le identità di gruppo sono un "derivato" del rito del capro espiatorio e non un punto di partenza per poter comprendere la paranoia come malattia di questa civiltà.
Questo approccio, storico invece che psicologico, presenta a mio parere il vantaggio di conquistare una visione che non rinnovi la colpevolizzazione degli individui, che non ricada in ciò che afferma di voler superare...
Ma ciò di cui stiamo discutendo è anche, oggi, dicevo, l'humus in cui divampa una nuova invadenza del sistema penale, del quale esso è anche potente concausa. Uno dei tanti paradossi del sistema penale è che meno funziona, più si vuole ricorrere ad esso. Contro la criminalità si vuole più carcere, mentre difficilmente si può negare che il carcere sia fabbrica d'emarginazione e scuola di criminalità... E' proprio quest'assurdità dal punto di vista logico a dimostrare il carattere religioso e irrazionale dell'argomento, un carattere tanto forte da aver provocato una paralisi cerebrale anche in chi si riteneva rivoluzionario. E' dunque inutile fare appelli alla razionalità, al senso d'umanità verso chi cerca capri espiatori per risolvere illusoriamente i propri conflitti. L'abolizionista olandese Louk Hulsman ("Pene perdute", Colibrì, 2001) consiglia infatti, di fronte a questa «psicosi collettiva», di fare solo ragionamenti strettamente logici (che qui riassumo con parole mie): «Non metto in discussione ciò che vuoi, ma ti faccio notare che il sistema penale non ti dà quello che ti promette; troverai più soddisfazione reale, anche per la tua sete di vendetta, nel diritto civile: meno forse di quel che vorresti, ma più di quel che hai...».
Una riflessione profonda e in parte autocritica andrebbe fatta semmai tra coloro che si considerano anti-repressivi. E' proprio qui, più che forse dove credeva lui, che è vera la famosa frase di Saint-Just: «Chi fa la rivoluzione a metà si scava la fossa».
Il sistema penale si sta espandendo in proporzione all'implosione della cosiddetta società civile. A questo movimento - ci tengo a ripeterlo - partecipano anche molti movimenti di liberazione sociale, chiedendo nuove estensioni dell'intervento penale, nuove definizioni di reato per i ricchi, gli inquinatori, i violentatori, i vecchi criminali di guerra e i nuovi a livello internazionale (con tribunali penali che sostituiscano illusoriamente la diplomazia) eccetera. Insomma, dinanzi al sistema penale si ritrovano uniti anche gli schieramenti opposti, tutti a chiederne di più, ciascuno a modo suo. E', questo, un corto circuito dell'antichissima storia del rito espiatorio, l'inizio di una catastrofe. Infatti, nell'antichità, la sacralizzazione della violenza serviva in qualche modo a contenerla. Colpire "una" vittima, magari proprio perché innocente, «dava sfogo» alla comunità e al suo principio mimetico, evitando danni più gravi.
E' nel diciottesimo secolo che questa vecchia storia conosce quel cambiamento che ci riguarda ancora oggi: con lo stabilirsi della reclusione come principale forma di pena.
Si va affermando un muovo modo di produzione, il capitalismo, che crea ampie emarginazioni sociali da controllare o da sfruttare, e le vecchie misure punitive (morte e supplizi) si rivelano ormai poco applicabili e inefficaci per numeri così grandi. E' perciò in questo secolo che si assiste alla nascita di un nuovo frutto dal plurimillenario seme velenoso: il monopolio del principio vittimario da parte del sistema penale. Questo monopolio non riuscirà affatto a contenere la violenza, ma riuscirà anzi a far esplodere dovunque la sua logica distruttiva, divorando spazi sociali e convivialità, sostituendosi ai loro sistemi di regolazione sociale dei conflitti e così favorendo una progressiva implosione del mondo che conosciamo. Da quando l'umanità ha conosciuto il carcere come pena fondamentale, non solo non ha smesso di conoscere massacri e guerre, ma ne ha anzi conosciuti di proporzioni sempre più ampie. Indubbiamente questa involuzione del pensiero lungo i sentieri della ricerca del capro espiatorio è funzionale alle volontà di dominio. Il risentimento è una interpretazione confusa della propria angoscia: è chiaro che se, mentre ormai ogni cibo che mangi ti avvelena, te la vai a prendere con chi si fuma una sigaretta, sei solo comodo a chi comanda... Ma tutto ciò è anche il risultato di una storia lunghissima, di una civiltà di 6 o 8 mila anni. Tant'è che intense preoccupazioni al riguardo emersero nei primi secoli d.C.
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LE RESISTENZE AL PRINCIPIO VITTIMARIO.
Basta leggere i Vangeli e mi pare possibile trarre questa impressione, anche solo limitandosi ad analizzare i quattro Vangeli canonici, quelli accettati dall'ortodossia cristiana come Nuovo Testamento (tralasciando quelli poi ritenuti apocrifi o eretici in seguito a quattro secoli di dibattiti e battaglie sulla cristologia). Il Nuovo Testamento è in pratica il primo testo «abolizionista» nella storia della nostra cultura occidentale, e anche in questo senso è dunque un documento storico di eccezionale importanza. Purtroppo, questo suo aspetto, fortissimo ed evidente, è quello che più è stato «stranamente» ignorato. Sono famosi molti passi in cui si dice che chi è senza peccato scagli la prima pietra; che chi ha molto sofferto e (soprattutto) amato non vada giudicato quale che sia il suo passato; che Gesù è venuto per i perduti e non per gli altri; sono notissime altresì la parabola del figliol prodigo e l'immagine della pecora smarrita, così come l'invito a visitare i carcerati, eccetera. Insomma, gli esempi di questo approccio sono tanti e il loro senso è ben riassunto nel Vangelo di Matteo, dove si dice (7, 1-3):
"Non giudicate, per non essere giudicati: perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati. Perché osservi la pagliuzza nell'occhio di tuo fratello, mentre non t'accorgi della trave che hai nel tuo occhi?"
Questa, e centrale, tesi antivittimaria è coerente con altre due affermazioni fondamentali che traspaiono dai Vangeli: il rispetto per le donne e un «provocatorio» atteggiamento nonviolento verso la violenza.
Bisogna pensare che i Vangeli nascono quasi 1700 anni prima del sistema penitenziario vero e proprio. Essi sono contro lo spirito punitivo (la logica penale), ma non conoscono ancora il carcere come pena sostitutiva del supplizio, e di cui lo stato reclusorio è ancora solo l'attesa. In essi però si ravvisa già che lo spirito sacrificale raccoglie quello della guerra proprio per contenerla, e che perciò ne riprende l'immaginario. E noi dobbiamo immaginare che il rito sia nato per regolare diversamente la tensione all'appropriazione di beni e ... donne. Ancora oggi, del resto, il linguaggio aggressivo, nelle sue forme gergali, riprende immagini sessuali, così come il linguaggio sessuale soggiace a una logica di guerra. Si «fotte» sia la donna sia il nemico. La coppia umana, piaccia o meno, è il rapporto cardine di tutti i rapporti sociali ed è nell'amore che si è costretti o portati (a seconda dei punti di vista...) a una conoscenza di sé che vada al di là del proprio io, il quale si scopra proprio nell'altro e nel rapporto con l'altro. Ora, una delle principali caratteristiche del sistema penale è, non a caso, la castrazione virtuale della persona reclusa (o, oggi, l'orribile alternativa del rapporto sessuale concesso come premio attraverso i permessi d'uscita dal carcere) e da sempre c'è un incredibile silenzio o una tranquilla approvazione per un tale delitto di misoginia, come se fosse una cosa naturale. Tanta gente peraltro sensibile qui e colà, su questo non dice nulla. Non è sospetta una tale non-reazione? Quanto alla violenza, è noto l'episodio in cui si dice all'offeso schiaffeggiato di porgere l'altra guancia. L'interpretazione più diffusa di questo esempio è «buonista». In realtà si tratta di una provocazione: non bisogna accettare il terreno di scontro di chi è portato a offendere, bisogna provare a spiazzarlo, perché sul suo terreno l'offensore è favorito a priori.
Violenza e misoginia sono dunque i valori mutuati dalla guerra che il rito punitivo comprende in sé per farli vivere in altre forme e che, tra le righe dei Vangeli, costituiscono il grande nemico che impedisce l'avvento del «Regno dei cieli», ovvero del grande cambiamento, dell'oltre. Ma questo male, Satana, può allora essere visto come l'Accusatore, ci suggerisce per esempio Girard (nell'opera già citata), dato che ad annunciare il grande cambiamento deve venire il Paracleto, parola traslitterata dal greco "parakletos" e che, tradotta in italiano, vuol dire semplicemente avvocato. Il Paracleto altri non è che il difensore di tutti gli accusati, di tutte le vittime. Nella maggior parte delle versioni dei Vangeli, questa parola viene però, appunto, traslitterata o tradotta, magari, qualche volta, come «consolatore»... Abbiamo perciò a che fare nel primo insegnamento cristiano con una concezione che non conosce colpa ed è quindi estranea ad ogni idea di punizione e di premio, portata a una pratica improntata alla rettitudine - una concezione che Nietzsche (nell'"Anticristo") definì «pura follia», pur dovendo riconoscere qualcosa di «sublime» nel pensiero del «santo anarchico». Ma questa posizione apparentemente astorica e folle ebbe invece una grande importanza tra i secoli secondo e quarto d.C., dando l'impronta a un vasto movimento, seppur minoritario, composto da cristiani e non (come i manichei o il pagano autore del "Poimandres", Ermete Trismegisto), conosciuto come gnosticismo e considerato dal cristianesimo ortodosso come prima eresia. Nelle diverse esperienze gnostiche c'è ancora al primo posto una lotta contro il dolore e non contro il «peccato». Veri e propri anticipatori del pensiero moderno sull'alienazione, questi gruppi eretici denunciano questo mondo come quello della Giustizia e gli contrappongono un mondo originario al quale tornare, che sarebbe quello della Bontà... Per quel che c'interessa qui, è ovvio che per questo movimento non esiste tanto la colpa del singolo quanto l'erranza di una condizione umana che deve riscoprire la sua incompiutezza in un modo che, superando i limiti della «Legge», sarà poi alla base non solo di successive eresie ma anche di tutti i misticismi, invitando l'umano a scoprire la propria possibile divinità, rompendo la frammentarietà. Ecco cosa dice per esempio il "Vangelo di Eva", nel frammento conservatoci dall'eresiologo Epifanio:
"Io sono tu e tu sei io, e dove tu sei io sono, e in tutte le cose sono disperso. E da dovunque tu vuoi, tu mi raccogli; ma raccogliendomi, tu raccogli te stesso".
Come un'ultima eco, vedremo questo impulso resistere ancora nel tredicesimo secolo, come risulta in questo brano del "Disdacalicon" di Ugo di San Vittore:
"L'uomo che trova dolce il luogo natale è ancora un tenero principiante; quello per cui ogni suolo è come il suolo nativo è già più forte; ma perfetto è quello per cui l'intero mondo è un paese straniero".
E' in quel secolo che si chiude tuttavia il germe di un'altra civiltà possibile, con l'assalto contro quella Francia a sud della Loira (e in parte l'Italia settentrionale), dei catari detti albigesi, dei valdesi eccetera, ed è in quella guerra che nasce l'Inquisizione.
Dunque, già molti secoli fa, il problema di cui stiamo ora parlando era stato individuato con un anticipo davvero profetico: ovvero era un terreno che doveva ancora conoscere purtroppo tutti i suoi sviluppi storici; e, paradossalmente, li vedrà in gran parte realizzati proprio in nome del cristianesimo storico!
Prima di arrivare a individuare la reclusione come suo nuovo altare, infatti, il rito che ci domina scoprirà ben altri modi per esprimersi. Non abbiamo visto solo l'addomesticamento dei Vangeli (dove la fine dei giudizi diventa... giudizio finale), ma le varie tappe di una "tendenza al genocidio". Si è appena detto del massacro di eretici che fu l'eliminazione di un'altra ipotesi di civiltà possibile. Ma, ottenuto questo risultato, la stessa Inquisizione si ricicla nell'attacco alle donne conosciuto come caccia alle streghe (e di tante persone anziane, uomini e donne, non più "produttive"). In contemporanea si scatena il genocidio dei nativi d'America per la caccia all'oro (e in nome della conversione!). Questi perciò dovranno ben presto essere sostituiti e prende avvio per alcuni secoli un altro genocidio, verso l'Africa questa volta, con la tratta degli schiavi. Questa ovviamente finisce «in nome dell'umanità» solo quando, nella seconda metà dell'Ottocento, comincia a svilupparsi un interesse ormai ben più lucroso: l'imperialismo colonialista, che continuerà a fare nuove stragi in altra forma.
E' tutto questo che si nasconde dietro all'ideologia dominante del "liberalismo": uno sguardo svagato sulle fonti della propria cultura, secoli di storie liquidate come accidenti, e cui neppure l'analisi rivoluzionaria ha saputo dare giusto rilievo. E' in questo scatenarsi dell'antico rito con effetti sempre più devastanti che si libera, si forma lo "spirito" del capitalismo; proprio attraverso questi «incidenti» così plurisecolari, sistematici e sempre rinnovantisi, crebbe la mentalità senza scrupoli che consentì l'accumulazione originaria del capitale. Questi massacri sono la premessa della nostra storia, la sua reale educazione sentimentale da sempre ignorata, comunque sottovalutata da una ragione diventata in tutti sempre di più il suo contrario, cioè pura razionalità strumentale. Nel 1791, Georg Forster, davanti al porto di Amsterdam, così rifletteva sull'impoverimento della ragione.
"La brama di avidità è stata all'origine della matematica, della meccanica, della fisica, dell'astronomia. La ragione ripagava con gli interessi gli sforzi investiti nella sua formazione. Essa collegava continenti lontani, avvicinava nazioni, accumulava i prodotti di tutte le diverse regioni - e contemporaneamente la vitalità dei suoi concetti migliorava" (cit. in Johannes Fabian, "Il tempo degli altri", trad. L. Rodeghiero, L'Ancora, Napoli, 2000).
In questo contesto storico, la nascita dell'attuale sistema penale nella seconda metà del Settecento è la conduzione di una guerra a bassa intensità sul piano interno di fronte agli attacchi da condurre all'esterno per il dominio del mondo e di nuove popolazioni. La correzione degli eccessi punitivi del passato diventa l'unico cemento morale che giustificherà i nuovi. Del resto, basti ricordare che con il manifestarsi del fenomeno della disoccupazione creato dal capitalismo nascente con l'introduzione delle 'macchine', si deportarono nel Nuovo Mondo anche i delinquenti. Poi la cosa divenne improvvisamente impossibile all'imperialismo di fronte a fenomeni imprevisti come l'indipendenza americana e gli stessi scontri interimperialistici. Il carcere moderno nasce come impossibilità di deportare la gente in sovrappiù e non certo da un'intelligenza umanitaria contraria agli antichi supplizi come narra la visione liberalista (o anche socialista) del progresso lineare. Sarà semmai proprio questo modo di trattare i propri emarginati a far considerare tanto più naturale ciò che si scatenerà verso le altre genti via via definite «primitivi», «terzo mondo» eccetera. Il sistema penale è la vetta della nostra morale, l'unica morale rimasta, il suo centro.
Le stesse esperienze rivoluzionarie, dicevo, restano estranee ad un'analisi dello «spirito» del capitalismo che pur criticano e perciò soggiacciono ai princìpi del liberalismo. E infatti costruiranno sistemi di potere capaci di portare il principio vittimario a nuovi livelli, ben oltre la stessa esperienza liberale... Se, infatti, il carcere-pena nasce dalle ragioni oggettive anzidette (controllare il sovrappiù umano), sul piano soggettivo esso suggella i secoli di massacri consacrando, in nome di un presunto progresso umano, una nuova visione dell'essere umano finalmente liberatosi della sua complessità e frutto di molti tagli chirurgici. Ora l'essere umano non è più una "persona", ma solo un "individuo". La visione del singolo come soggetto degli eventi corrisponde alle esigenze del soggetto proprietario e uccide ogni visione dell'essere umano come essere relazionale nonché il senso dell'infinito. E' in questo modo che l'umanità impoverisce la propria intelligenza emotiva, non elabora i propri sentimenti, si va disumanizzando. Già la Rivoluzione francese, nonostante il suo "Liberté, egalité, fraternité", soggiace a questa nuova visione individualista e contribuisce anzi a costruirla giuridicamente. Anche le successive esperienze rivoluzionarie richiamantesi al proletariato non riusciranno a sottrarsi ai princìpi strabici del liberalismo. Al Gulag come realtà interna del regime sovietico corrisponde sul piano mondiale il fatto di essere l'URSS un subimperialismo in un sistema a dominanza USA, come alla fine dimostrano gli accordi di Yalta alla fine della Seconda Guerra mondiale: Io controllo l'Est che tu mi lasci come satellite e ti lascio in pace all'Ovest; e nel Terzo Mondo, avremo solo pedine di un gioco cinico...
Non c'è da stupirsi allora se questo movimento così condizionato fino ad assumere la forma del falso conflitto con il liberalismo in nome del comunismo, non riuscì a essere un argine efficace al nazismo e al fascismo, che sono stati infatti le prime grandi prove della crisi del liberalismo. Se quella liberale è stata l'ideologia egemone negli ultimi due secoli a partire dal 1789 della Rivoluzione francese, è opportuno ricordare che i liberali, nella pratica, sono però sempre stati una minoranza di centro. E quello che oggi viviamo è, con tutti i suoi enormi rischi - in quanto possibile ma niente affatto inevitabile -, il problema dell'ascesa della democratizzazione e il declino del liberalismo. Dice in proposito I. Wallerstein:
"Non dobbiamo, infatti, dimenticare che democrazia e liberalismo non sono sinonimi ma, in gran parte, contrari. Il liberalismo fu inventato in risposta alla democrazia. Il problema che diede origine al liberalismo fu quello di contenere l'energia delle classi pericolose, dapprincipio all'interno dei paesi del centro e successivamente all'interno dell'intero sistema mondiale. La soluzione liberale concedeva un certo accesso al potere politico e una certa fruizione della quota del surplus economico, a livelli che non minacciassero l'incessante accumulazione di capitale o il sistema di Stato che lo sosteneva" (Immanuel Wallerstein, "Dopo il liberalismo", trad. Federica Censolo, Jaca Book, 1998).
Inefficace verso destra perché non realmente democratico il liberalismo finisce per trovare una insufficiente o falsa alternativa a sinistra. La stessa critica che nasce con il movimento del Sessantotto verso il liberalismo, la vecchia sinistra e il «socialismo» subimperialista di stampo sovietico ha vita effimera perché ancora non si libera dall'idea della conquista del potere statale, né sa cogliere a fondo l'importanza del tema della democrazia (magari dileggiata nel superficiale concetto di «democrazia borghese»).
Ma, proprio per tutte queste ragioni, il crollo dei «socialismi reali» e la profonda crisi di tutte le correnti socialiste (ivi comprese quelle del Sessantotto e la loro appendice armata) non segnano affatto il trionfo del liberalismo, come usa dire, bensì l'inizio della sua fine. La sinistra, riformatrice o radicale, è stata la sua foglia di fico, ed è caduta; mentre a destra, sul versante reazionario, abbiamo visto il suo lato oscuro.
E' allora opportuno cogliere il segno dell'implosione, del caos della fine di un'epoca per provare a riflettere sulle stesse radici di quest'ultima. E' importante non limitarsi a cogliere solo il limite delle rivoluzioni svoltesi tra il 1789 e il 1989 - succubi del «razionalismo cartesiano», della disumanizzazione avvenuta contro ogni liberazione dell'intelligenza emotiva -, ma anche il limite dei paradigmi di un'intera civiltà di sei o ottomila anni. E' qui, ovviamente, di fronte a questa immensa possibilità che sorge anche un'estrema difficoltà.
I dubbi positivi possono ora sorgere di fronte al fatto che di nuovo si scopre che l'essere umano è di natura relazionale e non... in/dividua: purtroppo, lo si deve riscoprire all'interno di una realtà che rischia di essere quella di un incubo invece che dell'amore. Ciò che ora mette in discussione il presunto in/dividuo, il «soggetto proprietario», è sì un insieme di relazioni di cui ognuno di noi è un particolare e unico nodo, ma di relazioni che non conoscono reciprocità perché sono tutte al di fuori dell'umano, mercificando tutto il nostro tempo e in cui ognuno si ritrova come «terminale» di molteplici «reti» che lo possiedono. E questo paradosso non è che l'ultimo sviluppo dell'illusione individualista, costretta a negare le stesse sue affermazioni di partenza per continuare a difendere se stessa. Se, nella «società dell'accesso», persino sul piano giuridico bisogna mettere tutto in discussione, ovvero le ultime garanzie ancora concesse alla singola persona (quale proprietaria di se stessa), ci si deve sì preoccupare, ma si può anche sperare che si aprano finalmente molti occhi.
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VECCHIE RESISTENZE, NUOVE SPERANZE.
Anni fa conobbi un vecchio carcerato «impazzito» in un modo che non è affatto infrequente dopo una lunga detenzione: viveva una sua deriva mistica. Era diventato un nonviolento assoluto profondamente religioso, citava il Nuovo Testamento a tutto spiano. Però, a questo suo discorso si accompagnava una profonda sfiducia nei confronti del genere umano. Quel vecchio con la bandana e gli occhi spiritati era diventato un misantropo e infatti, nonostante il suo carattere innocuo, stava quasi sempre in isolamento, e fu proprio in una di quelle situazioni che potei conoscerlo brevemente. La mia simpatia per quel mio compagno non aveva nulla di compassionevole, intuivo che egli aveva molto in comune con ciò che stava succedendo a me. Nelle situazioni estreme - come è una lunga carcerazione - o «si torna alla bestia» o si è portati a cambiare il proprio sistema di riferimenti. Questa vitale esigenza può allora assumere la forma che assunse in quel mio compagno. Del resto, follia e mistica sono state non a caso spesso accomunate.
Molti mistici cristiani sono stati definiti «pazzi di Dio», e alcuni mistici dell'Islam, tra i primi sufi, si diedero essi stessi per pazzi per non finire sotto la scure. Follia e mistica sono le due etichette e i due campi che ti vengono concessi per mettere in discussione il sistema di riferimento globale che altrimenti tutti dobbiamo avere come comune sentire. Ora però, c'è da dire che pazzi e mistici «accettano» di sentirsi al di fuori degli altri - in modo non autorizzato, al di fuori della realtà e infelice i primi; in modo autorizzato i secondi e in una trascendenza lontana, oltre la realtà ordinaria...
Ma io non volevo affatto essere un deluso del genere umano né rifugiarmi in un oltre a prescindere dal qui... Follia e mistica sono i due luoghi opposti in cui va confinata la riflessione critica su una intera cultura, cioè sulla civiltà. Ridiscutere di sei o ottomila anni e non solo di un cattivo governo, dei problemi del secolo, significa cogliere un lungo processo di disumanizzazione, capire che tutti i nostri ultimi progressi sono stati conseguenze della brama d'avidità, come diceva il già citato Foster. Ma affrontare simili argomenti significa anche riaprirsi - com'era forse più ovvio un tempo - a ragionare sull'esperienza delle «realtà ultime»: ed è, appunto, ormai da alcuni secoli che questa espressione è quella che definisce "soltanto" il misticismo. Lì è stato confinato quello che è un problema storico, attuale, ovvero immanente e non solo trascendente, terreno anziché celeste. Lì è concesso mettere in discussione i confini tra l'io e il tu, scoprire il primo nel e tramite il secondo; superare tutti quei dualismi che bisogna invece imparare a superare sulla terra. Tutte le riflessioni che possono sgorgare dall'amore della coppia umana vengono sublimate, trasposte in un regno lontano dalla realtà dove l'individuo diventa la sposa di un'entità lontana e separata dalla terra, il dio. La misoginia è ovviamente l'inevitabile «effetto collaterale» di questa operazione: ovvero, in pratica, è il suo presupposto. Proprio l'effetto collaterale è il centro suicida e spiega perché fallirono tante scelte che poterono essere liquidate come eresie prima, poi confinate nella mistica o represse e deviate nella follia. Un pensiero critico non può ignorare o disprezzare il principio femminile, non può non avere un'identità culturale androgina: sarebbe ignorare la propria fonte: facendolo (per farsi accettare), diventa folle, perdente. La critica all'attuale condizione del rapporto uomo-donna non può non esser posta al centro d'ogni vera critica dell'esistente. Se la pena è l'unico valore della nostra morale e il centro occulto della società, il sessismo ne è il sentimento principale e il centro ancora visibile. Tant'è che lo hanno fatto proprio anche molte eresie e praticamente tutti i misticismi monoteisti.
E' indubbiamente difficile ricostruire il modo in cui si è andato formando il nesso ora esistente fra sessismo e sistema penale. E' forse opportuno ricordare ancora una volta che il sacro si fonda sulla violenza proprio per limitarla e che, proprio coi divieti da esso creati, l'essere umano si va distinguendo dall'animale. Viene allora facile immaginare la creazione di meccanismi che regolano la vita delle comunità per impedire che il maschio si comporti nei confronti delle femmine in modo animalesco, predatore. E che da tutto ciò nasca via via da un lato l'umanizzazione (civiltà) - fondata perciò sul lavoro invece che sulla predazione e l'impossessamento, e quindi sul senso del "limite" -, e dall'altro lato una sessualità via via più raffinata, sempre meno legata alla pura e semplice riproduzione. Così, lavoro ed erotismo diventano i due poli estremi della condizione umana: di qua il limite e la frammentarietà degli individui, di là il tentativo, la tensione a superare il limite verso le sconosciute sommità dell'essere...; di qua la finitezza e la morte, di là l'amore e l'infinito... A un certo punto però, l'equilibrio tra i due poli si rompe, il primo polo prova ad asservire a sé il secondo, negandolo nella sua sostanza. Quel che nasce sotto il segno del "progresso" (per distaccarsi dall'animalità), cristallizzandosi diventa il suo opposto: una controrivoluzione, potremmo dire. L'istituzionalizzazione del rito del capro espiatorio ha come conseguenza una costante tensione regressiva, favorendo l'animalità: trasformando parte degli esseri umani in oggetto di sfruttamento nel lavoro, e tentando di subordinare il femminile a puro strumento di riproduzione eccetera. Il dominio, l'impossessamento dei frutti della fatica altrui, ristabiliscono attraverso complesse gerarchie la fine d'ogni fede nell'infinito, e il trattamento dell'umano come animale domestico. La logica penale è l'istituzionalizzazione di questa difesa del «finito»; se la sanzione conseguente a un divieto non è più riparatoria ma punitiva, vuol dire che il suo scopo non è più sociale, ma esclusivamente morale.
A qualcuno potrà indubbiamente risultare opinabile l'aver situato (per l'Europa) nel tredicesimo secolo la definitiva, totale rottura tra i due poli della «contraddizione umana», con la sconfitta delle eresie cristiane d'allora, avvenuta al termine d'una tensione di secoli, e la nascita dell'Inquisizione. Di tutto ciò si può ben discutere. L'ipotesi che azzardo è che quella vasta zona chiamata Occitania fosse un'altra visione di civiltà. Dopo la sua sconfitta, a partire dal Trecento, l'«eresia» diventa resistenza all'interno di questa nostra civiltà, precorrendo quei temi che poi risorgeranno con la nascita del movimento operaio. Per tre secoli e mezzo l'eresia si salda con gli ultimi della società dell'epoca, il mondo contadino, e ne costituisce il nucleo strategico. L'antica lotta di civiltà per un verso si impoverisce di contenuti e forza, ma per un altro si deve allora radicalizzare nelle forme, affermandosi ora come lotta di classe quanto mai feroce. Il comune richiamo delle eresie tardo-medievali è a un cristianesimo delle origini considerato puro perché nemico delle ricchezze: i «poveri di Cristo» (gli apostolici di Fra Dolcino e Margherita da Trento), i «poveri di Lione» (i valdesi) eccetera lo dimostrano nel modo stesso in cui si chiamano o vengono chiamati. Il senso dell'oltre si coniuga con un'acuta sete di giustizia sociale, dando luogo all'"utopia". Un ideale egualitario e comunistico s'incontra con il modo di vivere delle comunità contadine difendendole dagli attacchi del potere feudale e dei suoi vescovi, e per tre secoli e mezzo organizza guerriglie. E ricordiamo che queste esperienze, come quelle precedenti, sono ancora caratterizzate da un maggior rispetto per la parità delle donne e la libertà sessuale, rispetto all'avversario.
Di questa periodizzazione pre- e post- tredicesimo secolo, dicevo, si può discutere, ma non v'è dubbio che oggi si ripropone una questione di civiltà rimasta sullo sfondo per secoli, e non solo una questione di resistenza all'oppressione all'interno di questo nostro mondo. Gli argomenti di tale antica questione tornano d'attualità, è vero, in modo inquietante dato che oltre all'umanità è minacciata la stessa biosfera. Ecco che quell'«oltre-umano» verso il quale dovremmo andare - cioè il veramente umano - dominato dalla civiltà tecnologica rende l'umano inutile rispetto ai suoi prodotti... superato! Alla prospettiva del diventare dèi si sostituisce quella del disumanizzato. La minaccia apocalittica è la conseguenza di una perdita di orizzonti che ha diffuso la difesa di quel che si-è-già, combattendo la speranza per il non-ancora. Basti considerare il significato sempre più riduttivo attribuito alla parola libertà. Al riguardo, il pensiero comune ha finito per incorporare tipiche concezioni nate dallo spirito borghese del Settecento, banalizzandole ulteriormente. Si sente spesso dire che «la mia libertà finisce dove comincia la tua», il che si può ben tradurre nel suo opposto: «la "tua" libertà finisce là dove ostacola la "mia"». Ancora un piccolo passo, ed è: «Mors tua, vita mea». Qui si tratta invece di chiarire che la libertà d'ognuno comincia "a partire" da quella dell'altro. Ognuno si realizza proprio scoprendosi ostaggio, garante di libertà altrui. E' quel che si intravede, per esempio, nella pratica nonviolenta di alcuni movimenti pacifisti, quando i loro militanti vanno a fare da «cuscinetti» in difesa dei più indifesi, com'è successo per le comunità albanesi in Kosovo, prima che arrivasse la NATO. E' quel che s'intravede ancora, in piccola parte, nel volontariato, che prova a restaurare un sistema del dono da affiancare a quello di mercato (anche se spesso dietro alla parola volontariato passano non poche porcherie).
Questo atteggiamento verso la guerra andrebbe esteso fino a coinvolgersi riguardo al centro di tutte le questioni, fino all'idea di pena. Ma siamo indubbiamente ancora lontani da ciò. Eppure si deve notare che proprio le ultime guerre della NATO ormai sono davvero strane. La sproporzione fra le forze in campo è tale, che l'aggredito può solo subire passivamente l'attacco come una "sentenza" penale. Queste non sono più guerre vere e proprie; a essere colpiti, tuttavia, non sono i vari Saddam o Miloshevich, degli individui, ma i «loro» popoli: la guerra si piega al principio del sistema penale perché quest'ultimo si estenda dagli individui ai popoli... E si tenta infatti di sostituire la politica con la costituzione di un tribunale penale internazionale per affrontare questa nuova realtà come un problema di polizia internazionale. Non credo che vi sia un migliore, allucinante esempio per dimostrare la validità della tesi sostenuta in queste pagine.
Dinanzi a questi esempi, appare ancor più indubbia la crisi di quel limbo, o meglio porto delle nebbie, che fu il liberalismo, e che ha egemonizzato la cultura occidentale negli ultimi due secoli. Le destre di oggi tendono infatti a recuperare un bagaglio decisamente reazionario (persino a volte pre-1789), minaccioso, fatto di razzismo, odio per il presunto diverso: il «centro», ossia la ricerca di capri espiatori, diventa per costoro la "sola" cosa. Queste destre si orientano perciò decisamente verso la violenza anti-liberazione. La sinistra continua soprattutto a vivere la propria inevitabile crisi raccogliendo inutilmente dal fango le bandiere cadute del liberalismo. Oltre questa crisi può esserci solo una nuova strategia dei conflitti, dove la pratica nonviolenta corrisponda a un modo di vedere i conflitti come realtà positive da liberare e non già come avversità da reprimere. Per adesso va di moda soprattutto una versione piuttosto opportunistica e superficiale della nonviolenza. Il sostrato necessario a essa, una radicale non-collaborazione ai molteplici meccanismi della servitù volontaria, magari si vede ancora poco in esempi concreti. Ma la questione si pone.
Usare la propria vita come unica arma, nel senso letterale del termine, è certamente difficile. E' la scelta di un'élite che non si pone più in termini autoritari rispetto agli altri (quale illuminata guida), bensì soltanto in termini di maggior rischio personale. La maggior parte dei grandi cambiamenti degli ultimi anni sono avvenuti a seguito di grandi episodi di non-collaborazione nonviolenta; basti pensare alla, tutto sommato, pacifica quanto brusca implosione dei regimi dell'Est, dove semmai la violenza massima si scatena oggi, nella cosiddetta libertà raggiunta con la sconfitta del cosiddetto comunismo di quei paesi. Ma se oggi si assiste a questo triste risultato per la pur necessaria sconfitta del regime imperialista e dittatoriale dell'URSS, è perché quei movimenti non ebbero sufficiente coscienza di se stessi. Dove non si sviluppa questa coscienza la violenza diventa, inevitabilmente, l'unica risposta che si riesca a vedere nella propria mente: la reazione violenta non può essere condannata; fa parte del cammino della coscienza nelle situazioni difficili, è la sopravvivenza nell'esistente invece che la ricerca del cambiamento. E non ne usciremo mai se non individueremo la sua radice.
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NOTA PERSONALE.
Devo pur dire quale rapporto ho con le mie idee. A molti il mio bilancio personale al riguardo potrà sembrare piuttosto fallimentare o quanto meno comico. Non sono un esperto di successo nel tipo di nonviolenza che ho provato a descrivere. Finora mi è servita a farmi tanti anni di carcere pieno in più rispetto ad altri a parità di reati con me, dato che la mia visione delle cose si è limitata lì per lì per vari anni a non chiedere nulla per uscire dal carcere individualmente. E credo che questo mio atteggiamento morale, in difesa della dignità (di tutti) e non di un passato politico (mio), sia stato anzi considerato dalle autorità penitenziarie come segno di irriducibilità-continuista-violenta... Invito tuttavia chi ha avuto voglia di leggermi a riflettere sul fatto che sono ancora vivo e con voglia di vivere nel mio ventitreesimo anno di galera, mentre scrivo queste righe; ossia sul fatto che riesco a essere ancora "umano".
Parrebbe dunque, via via che il tempo passa, che io sia «costretto», insieme a mia moglie Nadia e ai nostri due amici e coimputati Rosaria e Giulio, a fare sempre dei passi indietro. E' come se, più galera ci siamo fatta, più aumenti il prezzo per uscirne, e perciò paradossalmente la libertà si faccia sempre più lontana. La faccenda è persino difficile da spiegare tanto sembra strana persino ad amici liberi che ci conoscono e ci scrivono. Comunque ci provo.
Via via che il tempo passa, io (come gli altri tre) sono sempre più disposto ad accettare compromessi per uscire perché la mia critica al sistema premiale non vive in astratto su particolari rivendicazioni: mi limito semplicemente a non voler essere un privilegiato, a cercare di usufruire dei benefici previsti dalla legge fra gli ultimi invece che tra i primi. In questo modo tacito la mia coscienza, giustifico i miei compromessi. Però, ecco che pur chiedendo meno di quanto in teoria ci si offra, il prezzo sembra lo stesso farsi più alto proprio perché chiediamo in ritardo. All'inizio della vicenda, infatti, non abbiamo chiesto di usufruire della legge penitenziaria (Gozzini) perché essa prevede la richiesta di premi individuali, che ognuno separi la propria sorte anche dalle persone più care. In particolare, per chi è condannato per reati di natura politica, la legge ignora a priori che ciò che ognuno ha compiuto è dipeso da decisioni collettive, non dal singolo. E', questa, una verità che solo una soluzione politica delle lotte armate dei passati decenni avrebbe potuto chiarire, e che invece governi e forze politiche non hanno voluto prendere in considerazione. Così, per rispettare verità e dignità, non ci siamo buttati nel «si salvi chi può». Questo ci ha portati finora a farci in media 12-13 anni di carcere pieno in più rispetto ad altri imputati per reati simili ai nostri. Oggi ci arrendiamo anche alla premialità individuale e chiediamo i permessi. L'aver affrontato tutto questo carcere in più, ci mette di fronte a una sconfitta rispetto alla premialità individuale, ma non rispetto al privilegio. Essere fra gli ultimi, e quindi non chiedere più - di fatto - un privilegio, è ciò che giustifica il compromesso ai nostri occhi. Quando non si riesce a essere i promotori di un nuovo meccanismo più giusto, ci si limita per lo meno a essere gli ultimi ad usufruire (forse) dei vantaggi previsti dal meccanismo discutibile. Se ci si arrende ad una realtà fra gli ultimi..., l'obiezione di coscienza praticata rimane riguardo al privilegio anche se non è riuscita a costruire qualcosa di più equo. Non si cambia il mondo, ma si salvaguarda la premessa necessaria della sua possibilità: la dignità personale e il riconoscimento della verità dei fatti. In questa resa a... un'evidenza, c'è però un mio cambiamento da militante a testimone che, mi permetto ora di dirlo, considero come una scoperta e una conquista per la mia coscienza. Forse il militante è colui che si illude di poter cambiare i tempi a partire da sé, mentre il testimone li vive secondo ciò che è realmente possibile fare per il proprio mutamento, stando tra gli ultimi. E chi s'illude finisce per far di meno di quel che crede, quando non addirittura altro da quello che credeva di fare (e di essere).
Non voglio annoiare nessuno con la descrizione dei complicati meccanismi di questa nostra vicenda nei meandri dell'Ordinamento penitenziario. Dirò solo che è stato proprio il doverli affrontare giorno per giorno per decenni ad avermi fatto capire molte cose. All'inizio della sua privazione di libertà, ogni recluso ce l'ha con i carcerieri: essi hanno in mano le chiavi che ti tengono al chiuso. Ci vuole tempo, molto tempo per riconoscere davvero, ossia anche emotivamente e non solo razionalmente, che da un lato essi non necessariamente ce l'hanno con te, mentre tu stesso contribuisci a far vivere il sistema di cui loro fanno parte pur lamentandoti delle sue conseguenze. Se te la prendi con i carcerieri salvaguardi il sistema che comprende sia loro che te, lotti solo contro la tua malasorte e non contro il carcere. Orbene, più in generale tutto questo vuol dire che ti poni verso questo mondo in modo ancora rivendicativo e, perciò, «militante».
Ora io non mi pongo più in modo militante; mi ritengo un testimone: non rivendico nulla di particolare, ma mi comporto come se i grandi cambiamenti che auspicavo da ragazzo, che nel profondo non ho mai rinnegato e per i quali ieri ho combattuto in modo discutibile, siano avvenuti. Ciò che il movimento marxista non è mai riuscito a cogliere fino in fondo, è che il ricorso alla violenza, anche se inevitabile in molte situazioni, non aiuta però mai a superare l'handicap di una scarsa coscienza delle proprie emozioni tipica di questa civiltà, una civiltà perciò schiava del rito del capro espiatorio quale suo inconscio. Il militante agisce allora per il domani degli altri, mentre il testimone agisce nel "suo" oggi, "è" già l'altro. Il militante si "pone con" gli oppressi, identificandosi sì (idealmente) con la loro causa ma non proprio con essi (fisicamente); il testimone (di un altro mondo) "vive come" oppresso. Questo modo di pensare e di essere non ha nulla di solo contemplativo, se non altro perché richiede di smettere di fare molte cose e questo ha il suo prezzo e richiede allora molte altre cose da fare per resistere, per far parte del movimento della coscienza universale, là dove nascono le persone e non c'è solo la riproduzione degli individui. Cerco di far sì che quel che dico, faccio e sono siano per quanto possibile una cosa sola. Non ci riesco così bene; è un'impresa difficile perché richiede un alto senso dei propri limiti, una capacità di definirli sempre con il loro nome vero. Ma trovo che esser rimasto in carcere pur potendo uscirne abbia poco di contemplativo; e per questo posso affermare che la mia è una vicenda che va sì avanti di sconfitta in sconfitta di fronte ai fatti, alle stesse ragioni di età o di salute nostre o dei nostri cari, e che però non è mai un cedimento interiore ma una resistenza.
Questa scelta diventa una radicalità nonviolenta perché deve consentire sempre degli atti dalle conseguenze non irreversibili (com'è la morte degli altri) e può però già permettere un miglior grado di comprensione delle nostre incompiutezze nel cammino dalla comunità illusoria e alienata verso quella veramente umana.
Non so bene se questo mio discorso appaia confuso o meno ai liberi cittadini: esso nella mia esperienza nasce e si sviluppa in carcere. In pratica è molto semplice e non ha mai regole fisse: si tratta di imparare a rispettare la propria realtà interiore per sentirsi a posto guardandosi allo specchio. Sperare forse di uscire 15 anni dopo un altro come te, neanche per finire la pena ma soltanto per una boccata d'aria, può sembrare stupido e perdente da un punto di vista utilitaristico. E non è neppure l'affermazione di un «principio militante». Ma, ripeto e ripeto, serve a stare fra gli ultimi e nel movimento della coscienza universale. Perché solo fra gli ultimi questa può vivere e promettere una nuova sorte della condizione umana, allusa da speranze e angosce di millenni che non possono essere nate dal nulla e che vanno ancora e sempre interpretate. In conclusione, per testimonianza intendo una concezione meno arrogante e più reale della militanza, più matura, meno rigida verso gli altri ma un po' più rigorosa con se stessi. Una vera militanza degli ultimi e non per essi, una partecipazione più impegnativa perché capace di mettere finalmente in discussione se stessi ... "di sconfitta in sconfitta". Non il Re va messo nudo. Se denudare il Re è stato finora l'immagine della vittoria attraverso la sconfitta del re, ora si tratta, al contrario, di capire che solo «denudandosi» si può andare verso una «vittoria». Proprio l'immagine della sconfitta diventa quella della vittoria: è la vera liberazione che dev'essere nuda, non il Re. Questi deve ritrovarsi inutile. E' una questione d'onore, di dignità, imprescindibile: di dignità e non d'«identità».
"Dell'onore senza gloria
Della grandezza senza splendore
Della dignità senza mercede"
Walter Benjamin
sottotitolo a
"Uomini tedeschi" (1936)
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1.
SFIDARE ZONE ROSSE O SOTTRARSI ALLE ZONE GRIGIE?
La teoria abolizionista del sistema penale si è diffusa nell'Europa del Nord ed è ancora poco conosciuta in quella meridionale. In Italia in particolare, la critica del diritto è anzi dominata dalla scuola del «diritto penale minimo». I minimalisti sono in generale degli accademici che, per ciò stesso, fanno parte a pieno titolo del sistema penale (università, contributi al potere legislativo eccetera). Attualmente, per esempio, uno dei più noti minimalisti, il prof. Eligio Resta, è presente nell'organo supremo del potere giudiziario - il Consiglio superiore della magistratura (C.S.M.). Anche un'associazione come Antigone, che da anni difende i diritti dei detenuti, è largamente orientata in senso minimalista.
Chi, non importa se in nome del realismo verso l'«inevitabile» o della fede verso ciò che sarebbe «giusto», accetta o difende l'idea di pena come forma di sanzione, si pone però necessariamente come difensore della violenza politica. L'abolizionismo ritiene che il conflitto sia invece positivo in sé, e che perciò sia possibile, liberandolo, farlo evolvere verso forme sempre più coscienti, ossia meno alienate e violente. Esso si presenta dunque come esempio di strategia non-violenta per la "soluzione dei conflitti". E proprio qui, di fronte alla questione della violenza e dei suoi tanti inconsci sostenitori, sorgono le difficoltà di comprendere questo movimento: se è relativamente semplice immaginare una pratica non-violenta, più difficile è elaborare un sistema di pensiero libero dalla violenza.
I minimalisti, per esempio, si presentano come una nuova scuola di riformatori. D'altronde ogni riforma si presenta come novità; e tutta la storia dell'evoluzione del sistema penale vive anzi delle teorie dei riformatori volte a umanizzare-ridurre la pena mentre proprio così, in realtà, la pena si estende sempre di più quale assurda volontà di "dissoluzione" dei conflitti. Anche Beccaria e John Howard erano dei minimalisti del loro tempo, e perciò furono i fondatori del sistema penitenziario moderno nel diciottesimo secolo. La pena funziona infatti esattamente come un cancro; è così che si rinnova, si estende e coopta sempre nuove figure nel suo sistema, aumentando in pari tempo i suoi fallimenti rispetto agli intenti dichiarati dai suoi teorici riformatori. Spunti una pena di qua, e rispunta di là in altra forma, insidiosa come le metastasi del cancro. Ad alcuni dei sempre nuovi riformatori umanizzanti dobbiamo ormai anche concetti come quello di premio che cancella già di per sé, per definizione, il concetto di diritto, in nome di una contorta teoria della «flessibilità» della pena: che elimina quindi ogni «certezza» non già della pena, ma del diritto. Il risultato è che sono aumentate le lunghe pene, quindi il numero complessivo dei reclusi, e infine i tipi di pena.
Di fronte a questo fenomeno tumorale poco più che bicentenario la proposta pratica abolizionista è, almeno all'apparenza, quanto mai moderata: spostare sempre più la sanzione dal campo del diritto penale a quello civile. Ma dietro a questa moderata proposta c'è l'abbandono di una mentalità punitiva, c'è uno sguardo che prova a interrogarsi invece di trovare ogni volta un capro espiatorio, l'«altro» su cui riversare ogni spiegazione della «situazione-problema» (termine di Louk Hulsman): ciò mette in discussione una civiltà, vale a dire la sua cultura. Lo scopo del sistema penale è infatti quello di... fallire riguardo a quanto dichiara di voler realizzare; in questo fallimento esso non solo paradossalmente si estende sempre di più, ma funge da cemento morale della comunità, costruisce il centro della sua scala di valori: il perpetuarsi del rito del capro espiatorio per ricostruire il senso di appartenenza alla comunità. Solo che via via, il «Tutti contro uno (per salvare il tutto)» va diventando «Tutti contro tutti (che minaccia il tutto)»...
Qualche superficialone potrebbe già pensare, in base a quanto ho detto fin qui, che la colpa della mancanza di un movimento abolizionista in Italia sia da attribuire ai minimalisti, dato che essi costituiscono la teoria stessa del sistema penale. No, la responsabilità principale di una tale situazione è da attribuire invece proprio ai «rivoluzionari», agli «antagonisti», alla sinistra in generale: a tutti coloro cioè che affermano di militare contro le ingiustizie sociali e le logiche repressive. Essi non sono all'altezza di quel che credono di essere già, e non si distinguono affatto dai minimalisti che lavorano alla costante autoriforma del sistema penale. Del resto, i minimalisti fanno anch'essi parte di questo movimento.
Lungo è l'elenco delle responsabilità anzitutto, potremmo dire, per omissione di soccorso. Provo a elencarne alcune.
Ecco una classica litania di sinistra: in galera ci stanno le persone sbagliate (i poveri invece dei ricchi, o i comunisti invece dei fascisti, eccetera): l'essenziale è salvaguardare l'istituto della galera, e dietro a essa il bisogno profondo del capro espiatorio, centro morale dell'inconscio collettivo della civiltà attuale. C'è così un dato di fatto in Italia: il Paese europeo che ha forse conosciuto le maggiori esperienze di protesta sociale (con il più grande Partito comunista d'Occidente, il più vasto movimento d'estremismo di sinistra eccetera) è tra quelli con le più lunghe pene da scontare, uno dei più indietro nel rispetto dell'affettività dei carcerati, e ora abbiamo raggiunto il traguardo dei 100 detenuti per centomila abitanti in una prospettiva che promette solo di peggiorare verso il modello americano. E tutto questo con una legge penitenziaria fra le più premiali d'Europa, che lascia imperare un arbitrio ai confini della follia. Un simile risultato dimostra che in Italia l'opposizione è stata quanto mai ambigua sul fronte punitivo.
I meccanismi di cui si sta qui parlando in modo necessariamente schematico, sono molto sottili. Intanto, anche fra i militanti più radicali, l'istituzione penale viene vista come una questione tra tante altre, non certo come una priorità, dato che nessuno riconosce in essa il più grande monumento eretto per celebrare la religione comune che guida l'inconscio collettivo della società. Ma ecco che anche chi decide di mobilitarsi sul carcere, per esempio, individua in generale sempre delle priorità a mio avviso sbagliate. Vengono ignorati proprio i casi più significativi, la base dell'iceberg, e ci si muove solo sugli aspetti che coinvolgono i grandi numeri. Ci si preoccupa per esempio (giustamente, per carità) della grande massa di reclusi che entrano ed escono e rientrano in galera, ma si trascura completamente che tutto ciò è il risultato del fatto che in Italia c'è una minoranza in aumento di persone che scontano pene tra le più lunghe d'Europa. La differenza tra i primi e i secondi è che quelli sono considerati meritevoli di comprensione (emarginati innocenti) mentre questi hanno spesso compiuto atti considerati odiosi. Eppure non ci vuole molto a capire che se si abolisse il vertice della scala (l'ergastolo), anche tutte le altre pene andrebbero a scalare. In Germania l'ergastolano "finisce" la sua pena dopo 15 anni, in Francia dopo 19, in Svizzera e in Europa del Nord prima ancora. Qui da noi capita d'incontrare un "non" ergastolano in carcere ancora dopo 30 anni (devo però dire che da qualche tempo va in permesso...). Non è forse poi un luogo comune dire che i «terroristi» sono tutti fuori grazie al pentitismo, alla dissociazione e poi alla Gozzini?
Credo che questo non voler vedere sia la base fondante del sistema penale.
Perché non si vuol vedere?
Intanto, notiamo che a sinistra come a destra, tutti amano attribuire gli «eccessi» del sistema penale all'avversario, alla sua ideologia. I lager sono colpa dei nazisti, cioè del nazismo; il gulag è colpa dei comunisti per la destra e della controrivoluzione stalinista per la sinistra. Sembra di dire un'ovvietà. Io credo che le cose siano al tempo stesso più complicate e più semplici da capire.
I nazisti furono da subito razzisti antisemiti. All'inizio pensavano di poter deportare tutti gli ebrei nell'isola di Madagascar... Solo dopo, durante la guerra, prevalse l'idea della «soluzione finale»: Perché i nazisti erano dei nazisti? O perché, di emergenza in emergenza, risultò come un «ovvio» dato di fatto, quale via di liberazione del loro «problema», ciò che il mondo penitenziario offriva già in modo praticamente spontaneo fra brutalità di norma e spesso assassine, fatiche e denutrizioni? Per il semplice fatto di dover andare avanti nelle «difficili» condizioni di guerra, il campo di concentramento non provocava forse la morte facile di molte persone? Il resto non poteva avvenire, dopo, come unica decisione «realistica» di gente che già era così ben predisposta con i suoi miti gerarchico-razzisti?
In URSS non c'era la stessa filosofia aprioristicamente razzista, ma l'estensione del sistema penale in nome della lotta ai «controrivoluzionari» produsse risultati altamente catastrofici per la vita di tanti esseri umani (e lo stesso avvenne e avviene ancor oggi in Cina).
L'Occidente liberale ama oggi denunciare questi orrori imputandoli alle ideologie nazista e comunista. Il liberalismo nasconde così la lunga, normale storia dei massacri sistematici (li si chiami olocausti o genocidi, se si vuole), e dei campi di concentramento (li si chiami lager o gulag, se si vuole), che precede e segue le esperienze germanica e sovietica. Nell'esperienza coloniale, tanto per fare un solo esempio.
La mia tesi è semplice: in ogni carcere esiste, come suo centro nascosto, l'embrione del peggio. Il suo ulteriore sviluppo dipende soltanto da «circostanze esterne», «emergenze» eccetera. E tutti i sistemi sociali e le ideologie che abbiamo conosciuto potevano accettare, hanno accettato e ancora accettano le presunte necessità che il rito espiatorio richiede. Perciò io non do del nazista, del liberista o del comunista a chi è forcaiolo o indifferente ai casi significativi e poco visibili della sofferenza umana prodotta dalla mentalità punitiva. So che questa sarebbe un'accusa superficiale, un modo di essere complice di tutto ciò che oggi bisogna denunciare: si demonizza qualcuno per affermare la sua unicità e non dover vedere cosa c'è in comune tra lui e noi. Non voglio dunque banalizzare le cause dei lager, del gulag, dei campi di concentramento costruiti dall'Occidente del capitalismo liberale, dei massacri sistematici che non sono solo l'Olocausto degli ebrei (dal trattamento dei nativi d'America, alla «Tratta Atlantica» che ha sconvolto l'Africa per 150 anni di rapimenti e morte per la schiavitù, al successivo colonialismo imperialista, alla sorte che vivono i palestinesi da oltre 50 anni, la storia è lunga).
La mia tesi è semplice, ripeto: ogni volta che vedi una prigione, là dentro c'è un'isola, qualche caso che "è già", da sempre e come realtà comunemente accettata, quell'orrore che denunci solo come caso estremo, solo quando lo vedi estendersi in dimensioni che vanno verso il cosiddetto «genocidio». Lì dentro, "alcune persone" conoscono il lager, il gulag, il «genocidio» o la «deportazione». Il carcere fa da cordone protettivo a questa realtà, da maschera, da vivaio eccetera. Ma per te, questi casi significativi, dato che non fanno alto numero a causa della disseminazione delle prigioni, non sono una «priorità politica». Hai altro a cui pensare, tu. E' come per gli alberi: si vedono il tronco, i rami, le foglie, i frutti; non le radici.
Oggi però, con poco sforzo, queste radici si possono vedere meglio. Le antiche minacce che si credevano confinabili (e perciò sepolte) perché imputabili al «nazismo» e al «comunismo» secondo la vulgata neoliberale, stanno tornando. Perciò della barbarie del sovraffollamento carcerario si parla come se fosse una notiziola fra le altre, ignorando che lo Stato sociale in crisi trova il suo... naturale sostituto nello Stato penale, che quest'ultimo tende cioè a diventare la nuova politica per i poveri, e che ciò costituisce un aspetto strategico nella politica delle grandi multinazionali. Meno asili più galera, insomma, è l'ultima metastasi. Ora, che in questa civiltà tale tendenza trovi persino l'entusiastica approvazione di tanti, è normale, dato quel che si è accennato finora sul bisogno «religioso» del principio vittimario. E' semmai opportuno riflettere sulla scarsa attenzione dedicata a questa minaccia sociale (ché di questo ormai si tratta) dal «movimento dei movimenti» (i No Global). Esso si muove su contenuti molto avanzati: non più ossessionato dal tema della conquista del potere politico (come fu per eredità resistenziale ai tempi della mia generazione) può entrare in conflitto in termini «pacifici» e al tempo stesso scoprire e criticare con delle pratiche intelligenti, come ha fatto, il modello di vita che le aziende multinazionali impongono. Eppure, nonostante questi due vantaggi rispetto a una trentina d'anni fa, la critica al principio vittimario latita troppo.
Le ragioni di questa scarsa attenzione mi sembrano discutibili dal punto di vista logico, ma anche comprensibili da un punto di vista storico. Vorrei accennare alle due principali.
"La non-violenza". Dopo Genova alcuni provano già a dire che il dilemma non è violenza o nonviolenza; altri affermano che è assurdo far ripiegare un movimento così ricco di contenuti sull'obiettivo (difensivo) del diritto a manifestare. Purtroppo, piaccia o meno, è difficile sfuggire a questo problema in una società come la nostra. L'avversario cerca di portarti sul suo terreno, che è la violenza, e tu perciò devi scegliere se essere violento o no. Il guaio è che spesso dalle nostre parti si spacciano per non-violenti tanti "moderati". Di riflesso, all'interno cioè dello stesso gioco di specchi, vi sono altri che "giocano" con la «violenza rivoluzionaria» (a volte più che altro simulandola) e non si rendono conto che questo gioco ha conseguenze pericolose. Questi due giochi fanno ignorare che la vera nonviolenza richiede anzitutto un coraggio e un rischio maggiori di quanto non richieda la violenza, dato che l'unica arma di cui si dispone è la propria vita. Accettare il rischio di farsi schiacciare da un blindato senza reagire non è facile... Occorrono militanti ancora più disciplinati e organizzati di un guerrigliero, e soprattutto coinvolti in una concezione ancora più «globale»... E' allora abbastanza naturale che la maggior parte delle persone sia poco portata a fare riflessioni così scomode e ripieghi su una più o meno vera accettazione della violenza «contro». E se lo fa, per giustificarsi, "deve" demonizzare l'avversario, astraendolo in una sua isola che lo renda altro da lui, ben diverso eccetera. Ma è proprio così facendo che si deve allora soprassedere su molte questioni, diventando simile all'avversario intorno al principio vittimario, in un costante circolo vizioso. La non-violenza è anzitutto una radicale non-collaborazione culturale, una sottrazione di ruolo.
"La falsa memoria". L'altra ragione, forse meno importante, ma che rafforza la precedente nella difficoltà a capire le dinamiche vittimarie, è che dai luoghi di sofferenza legale difficilmente possono giungere molte testimonianze veritiere. Esse esistono, ma per lo più sono condannate alla diffusione underground, oppure sono fraintese.
La storia dei lager in Germania ci è stata raccontata dai sopravvissuti, molti dei quali dovettero accettare terribili compromessi per farcela, a spese dei propri compagni. Primo Levi, ben conosciuto per la sua testimonianza e al tempo stesso persona lucida e corretta che sottolinea l'esistenza delle «zone grigie» della collaborazione, è un caso fortunato (per noi) e non così frequente. Non è facile per i testimoni disvelare poi le dinamiche che da sempre comprendono la complicità degli oppressi nel realizzarsi del processo vittimizzante. Demonizzare l'avversario dopo serve allora a nascondere questa triste realtà e così a rinnovarla per mancanza di coscienza. Essere non-violenti in carcere vuol dire non collaborare, sottrarsi a questa complicità inevitabilmente pretesa da chi ti opprime; vuol dire difendere la propria dignità e lo si paga diventando dei sepolti vivi, o dei cadaveri, a seconda dei casi.
Ci vuole una nuova mentalità, una grande com-passione per ammettere che anche gli antinazisti, per esempio, contribuirono, dal basso e sotto ricatto, a creare i lager. Ma quelli che ricostruiscono il senso della storia lo fanno sempre da duri e puri: il loro inconscio deve salvaguardare l'istituto della pena e perciò «assolvere» le debolezze dell'«io» e attribuire tutto e solo ai demoni, all'Altro.
Sotto questo profilo - fornire il senso della storia - le cose non sono cambiate se non in peggio. Sono cambiate nelle forme per estendersi, e per raffinarsi nella sostanza. La menzogna avanza e con essa, una crudeltà non più riconosciuta come tale, in una spirale distruttiva e suicida per l'umanità.
Vincenzo Guagliardo
Opera, agosto 2001
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LA PACE DELLE BEFFE.
Molti pacifisti, militanti di sinistra e persino dei 'non-violenti' dicono di opporsi alla guerra auspicando, come alternativa, la nascita di un Tribunale penale internazionale permanente (T.P.P.). Essi oppongono perciò alla guerra in atto contro i fondamentalisti dell'islamismo armato la necessità di istituire una polizia internazionale.
Pacifismo e sinistra sono indubbiamente definizioni e collocazioni molto ampie che possono avere al loro interno posizioni violente. A volte si può persino essere pacifisti rispetto a una determinata guerra pur essendo di destra. Il filosofo Kant, misogino, favorevole alla pena di morte, si dichiarava contro la guerra e parlava di «pace perpetua». Ma si può essere insieme non-violenti e a favore di un T.P.P.?
Istituire una simile corte costituirebbe un'estrema estensione del sistema penale. Questa scelta presuppone dunque che si sia così soddisfatti dei risultati raggiunti dalla storia del diritto penale da desiderare un suo ulteriore salto nell'affrontare i conflitti della vicenda umana, anzi, il maggiore salto possibile e immaginabile. Ma, in ogni caso, il sistema penale resta violento in quanto tale e perciò, a meno di non essere shizofrenici, chi non solo non lo mette in discussione ma addirittura lo vuole estendere, dovrebbe essere così coerente da non dichiararsi più un non-violento. Purtroppo, la prima affermazione che guida il ragionamento dei sostenitori del T.P.P. è la seguente: far la guerra è più violento che processare. Questa affermazione è un luogo comune, molto meno sensata di quanto sembri. Intanto, già il senso comune sa che la guerra non è permanente ma un'emergenza che ha meno pretese di una sentenza, non va per il sottile («la guerra è guerra...»). E allora che cos'è storicamente il diritto se non il risultato sancito di una guerra, di una violenza? Ciò che una guerra prima pone, la legge poi conserverà: «Ogni violenza è, come mezzo,» diceva Benjamin circa ottant'anni fa, «potere che pone o conserva il diritto» ("Per una critica della violenza" (scritto nei primi anni del primo dopoguerra; in "Angelus Novus", Einaudi, Torino 1962). Ed ecco che davanti ai nostri occhi si scopre oggi che questa differenza tra porre e conservare si è andata rivelando sottile nel tempo, confusa nello spazio, tant'è che se si vogliono fare certe cosiddette operazioni di polizia internazionale, o le si fa con i bombardieri B52 oppure non le si fa. E già nei nostrani «anni di piombo», le operazioni di polizia «contro il terrorismo» venivano inquadrate in quella condizione di indeterminatezza giuridica che va sotto il nome di «emergenza» e che ricorda, appunto, il diritto di guerra.
L'errore dei pacifisti neo-penalisti è che guardano solo al fatto che le operazioni di polizia, pur essendo di natura militare, generalmente usano mezzi meno massicci di un'azione di guerra. Ma questa differenza è puramente quantitativa e dipende esclusivamente dall'obiettivo concreto che ci si pone, ossia dai mezzi che quest'ultimo richiede. Quanto alla sua natura, invece, si può dire che da sempre la polizia è per tanti versi più pericolosa di un esercito. Questa pericolosità viene ignorata perché gli Stati liberali hanno fin qui limitato l'opera poliziesca a certi ambiti marginali della popolazione ai diritti dei quali l'inconscio collettivo dei cittadini non pensa affatto; salvo dire, in modo significativo e rivelatore, «non sono mica un delinquente (o un terrorista)» quando per caso si incontrano i tipici modi polizieschi. Quando uno Stato perde le sue caratteristiche liberali, diventando per esempio una dittatura (che si tratti del Cile golpista o dell'URSS non importa), si dice molto giustamente che si ha che fare con uno Stato poliziesco: ci si accorge cioè di quel che è sempre la polizia perché essa ha allargato il suo consueto intervento marginale volto a definire, fabbricare e regolare l'ambito di vita dei criminali in collaborazione con l'insieme del sistema penale (università, legislatori, giudici eccetera). Solo allora ci si accorge che la polizia è come uno spettro che agisce nella nebbia. Spettro perché appare dovunque senza compiti ben definiti ai propri occhi; nebbia perché dove si muove crea indeterminatezza giuridica. La polizia non si limita, come si crede, a conservare e difendere i fini giuridici che una società si è data, ma ne modifica il quadro come la guerra, agisce al di fuori del rigido formalismo del diritto. Ecco perché uno Stato liberale poteva fare delle guerre senza per ciò essere necessariamente poliziesco, mentre uno Stato poliziesco sarà in guerra con tutti i suoi cittadini anche se non farà magari delle guerre verso l'esterno.
Una guerra distruggeva sì il vecchio diritto (sovranità, proprietà eccetera) ma si doveva concludere ponendone uno nuovo attraverso una soluzione politica per gli sconfitti. Stabilire che sia invece un tribunale penale a regolare un conflitto di dimensione politica (addirittura internazionale), riguardante popoli e nazioni, vuol dire che si ritiene non vi sia nulla da ridefinire, che tutto è già dato a priori, che le cause del conflitto non vadano riconosciute, che si ha che fare, appunto, con una... «semplice vicenda criminale». Ed è questa ormai l'esigenza che si pone ai potenti dell'economia globale: agire in un contesto post-liberale.
I pacifisti neo-penalisti, dunque, senza rendersene conto, offrono come rimedio un male peggiore di quello che intendono criticare. C'è però da dire che la loro proposta è al momento attuale poco realistica. Non vi sono ancora tutte le condizioni per costruire un super-Stato mondiale superpoliziesco retto da una Corte in sostituzione di politica, governi ed eventuali guerre fino a ieri riconosciute come tali. Certo, dall'indomani della Seconda Guerra mondiale, una tendenza del genere esiste ed è fortemente desiderata da molti potenti della Terra, ma deve fare sempre i conti con le contraddizioni che sorgono dal basso, e a causa delle quali c'è sempre qualcosa da discutere o contrastare, ridefinire, non dare già per sancito... anche se non piace. Perciò la nuova proposta pacifista-penale segna soltanto una pagina grigia, dimostra la debolezza di tanta parte del «movimento» messosi superficialmente in sintonia con l''utopia' di coloro che vogliono vedere solo crimini e non cause irrisolte di conflitto da discutere.
Ma è anche evidente - e di questo conviene parlare - che la poco felice pagina emersa ad Assisi è a sua volta il riflesso di qualcosa di più grande: la crisi della politica nell'epoca attuale, politica che può essere ripresa solo da mani autenticamente non-violente e dal basso. Il sistema penale è una foglia di fico che cade, non una bandiera alla quale aggrapparsi. Finalmente emerge ciò che esso è sempre stato, benché ignorato perché, tanto, riguardava altri.
Intanto, ricordiamo che il sistema penale non ha mai realizzato gli intenti che ufficialmente proclama di avere, ha sempre fabbricato il contrario: emarginazione e criminalità per fornire capri espiatori al senso di appartenenza alla comunità - una comunità perciò sempre più illusoria. Tutte le sue illusioni ottiche e schizofrenie aumentano all'ennesima potenza quando vengono applicate a un terreno ancora più vasto, quello che finora competeva alla politica internazionale. Già con i tribunali costituiti "ad hoc" dal dopoguerra ad oggi, gli esempi abbondano: dal processo di Norimberga a quello di Tokyo fino all'attuale tribunale dell'Aia. Se in una Corte 'normale' prevale la morale dei forti contro il debole, in un'assise internazionale prevale la visione del vincitore sullo sconfitto. A tutto questo ora, con la costituzione di una sede permanente invece che "ad hoc", si aggiungerebbe il rischio di mascherare come normale opera di giustizia la straordinarietà di un intervento militare in corso: fornendo lo pseudo nuovo diritto del 'cammin facendo'.
Su questi terreni abbiamo già visto gente urlare perché degli ultraottantenni venissero messi in galera a oltre 50 anni di distanza dei fatti denunciati. Il nazista Rudolf Hess, dopo più di 40 anni di detenzione, non può neppure morire a casa sua e allora salvaguarda la dignità umana (non solo sua) ricorrendo alla morte volontaria. Il rito arcaico e sanguinario del capro espiatorio è riuscito a mascherarsi come grido di libertà contro il nazismo, la tirannia... trasformando chi lo lancia nel contrario di quel che crede di essere. Va invece detto chiaro e tondo: l'orrore è Priebke in galera. L'errore è che vi siano state in Europa più manifestazioni per punire Pinochet che per liberare quelli magari ancora in carcere per averlo combattuto. Un libertario dovrebbe manifestare per l'impunità di quelli come costoro, sotto il profilo penale, anche se non dovrebbe avere nulla in contrario verso un tribunale volto a stabilire la verità. Questa affermazione è però tutt'altro che ovvia: proprio l'ipoteca penale distorce l'amore per la verità, essendo guidata dalla strumentalizzazione del risentimento della vittima invece che da una ricerca di soluzioni per regolare il conflitto. La vittima non è protagonista, ma ridotta a testimone, perché la ricostruzione giudiziaria del conflitto richiede una riduzione interpretativa che si concentri sul reato a prescindere da ogni contesto. Il processo riduzionista è evidente nella definizione stessa di «delinquente», sovraccaricato di responsabilità tanto individualizzate da esser decontestualizzanti, ossia deresponsabilizzanti per la comunità. Ma nella stessa logica «giudiziaria» - formale, astraente - agisce già ora la figura del "terrorista". Dietro alla parola "terrorismo", è tutta la "guerra dei poveri", con il suo carico sia di speranze che di contraddizioni disperate, a essere liquidata come modesto affare per un tribunale (magari militare, "ad hoc"...).
Di fronte a questi nuovi scenari bisogna ricordare che i tribunali non penali, quelli della pace, sono possibili. Essendo anzitutto per la verità, essi sono l'esatto opposto di quelli penali, come cercò di essere quello «Bertrand Russell» ai tempi della guerra del Vietnam. Il loro nemico è la rimozione e possono venire in mente solo a chi sia perplesso già sulla validità del sistema penale in generale. Anche un tribunale della pace dà spazio al risentimento delle vittime, anzi, ne dà pure di più; ma non perché esse si sostituiscano ai carnefici per riprenderne il ruolo; esso «invita» l'oppressore a smettere di essere quel che è facendo riconoscere a tutti quel che è stato, perché il patrimonio di cui abbiamo realmente bisogno può e deve essere anche in negativo.
Un tribunale penale può processare degli analfabeti fanatizzati, paradossalmente chiamati studenti (taliban). Un tribunale della pace denuncia chi, "prima", li ha fatti sorgere come un fungo e, "ora", vuole trasformare tutti noi in nuovi taliban per massacrare quelli. E' opportuno ricordare che la guerra del Vietnam terminò perché, accanto alla resistenza vietnamita, conobbe anche la non-collaborazione di tanti giovani americani, informati, che non si fecero talibanizzare: si fecero forti di un patrimonio in negativo.
Vincenzo Guagliardo
Opera, novembre 2001.
***
ANNI '70. UNA OSSESSIONE MEMORIALE SENZA STORIA
di
Paolo Persichetti.
Chi legge "Di sconfitta in sconfitta" va incontro a grosse sorprese. I luoghi comuni più diffusi sull'esperienza brigatista veicolati da una pubblicistica dominata essenzialmente da un approccio scandalistico-dietrologico, caso unico di «storia senza storia» (1), vengono letteralmente rasi al suolo. Il discorso di Vincenzo Guagliardo spariglia gli schemi. Arrivati alla fine del libro è difficile non ritrovarsi un po' frastornati, colti di sorpresa. Lo è stato anche per me, che pure della vicenda brigatista ho rincorso, nella seconda parte degli anni '80, alcuni passaggi finali della sua storia.
Se oggi chiedete ad un ragazzo delle scuole medie o ad una ragazza di liceo cosa sono state le Brigate rosse potreste andare incontro a risposte sconcertanti. Diversi anni fa, credo fosse il 1989, una professoressa inviò una lettera a "Cuore", un noto inserto dell'"Unità", per raccontare come i suoi alunni, nei temi di un compito in classe loro assegnato, avessero attribuito ai brigatisti il ferimento di Giuseppe Garibaldi. Forse perché in t.v. e sui giornali avevano orecchiato il termine «gambizzazione», crudo neologismo impiegato nella seconda parte degli anni '70 per indicare il ferimento agli arti inferiori di capi reparto e quadri aziendali particolarmente zelanti nell'esercitare quel comando capitalistico e quel potere disciplinare che rendevano ancora più oppressive le condizioni di lavoro in fabbrica. Ancora oggi non è raro ascoltare persone che attribuiscono, sempre alle Brigare rosse, stragi come quelle di piazza Fontana del 1969 e della stazione di Bologna del 1980, nate: la prima dall'intreccio di manovalanza neofascista e interventi di apparati Nato; la seconda, seppur attribuita giudiziariamente ad alcuni elementi neofascisti dei Nar, ancora dalla matrice e dal movente incerti ma con acclarati depistaggi, accertati processualmente, da parte di esponenti della P2 e dei vertici del Sismi.
La stessa cosa accade per la memoria che si ha degli attentati diretti contro singole persone, la cui paternità a distanza di decenni è frequentemente attribuita alle B.R. (2), molte volte persino dai familiari stessi delle persone colpite, anche se la paternità di queste azioni è stata politicamente rivendicata da altri gruppi della galassia armata (ben 48 formazioni censite tra le maggiori «organizzazioni comuniste combattenti») e giudiziariamente accertata - con tanto di processi penali, condanne attribuite e in gran parte scontate (o non scontate nel caso dei collaboratori di giustizia o parzialmente condonate per gli abiuranti-dissociati). Se si aggiunge che, nella vulgata corrente, sotto il termine «brigatista» è riassunta l'intera galassia dell'esperienza sovversiva degli anni '70 e '80, quell'intero popolo di sediziosi si ritrova incastrato a forza in rappresentazioni coniate per rassicurare i poteri costituiti. Differenze, spesso autopercepite come abissali, diventano all'esterno sfumature impercettibili, poiché sono le categorie stesse del rivoluzionario o del ribelle, insieme a tutte le altre figure che l'accompagnano e le presuppongono, ad essere stigmatizzate e inglobate nell'immagine repulsiva del terrorista.
In parte ciò si spiega anche con gli inevitabili riflessi mediatici provocati dalla scelta istituzionale di proclamare il 9 maggio, giorno dell'uccisione di Aldo Moro, «giornata della memoria per le vittime del terrorismo», in alternativa a quella del 12 dicembre 1969, giorno della strage di piazza Fontana. Decisione che ha favorito il diffondersi di una narrazione rovesciata degli anni '70. Fabbricato ormai dai poteri pubblici, il ricordo spettrale di questo decennio ha preso forma attraverso solenni rituali commemorativi che cadenzano il cerimoniale istituzionale. Una memoria in bianco e nero che evoca immagini sbiadite di violenza politica e cancella i colori vivi della storia confondendo surrettiziamente episodi storici contrapposti.
Una ossessione memoriale finalizzata alla creazione di una nuova topolatria: il culto di luoghi e momenti sapientemente selezionati per rappresentare il sacrificio versato ai valori considerati legittimi. Emanate le sentenze, sepolti nelle galere o ripresi dall'esilio gli insorti, dimenticati e deplorati i morti di una parte, decorati quelli dell'altra, elevate le lapidi e innalzati i monumenti, inaugurate vie e piazze, ai soggetti vivi della storia si è sostituita una memoria che ha assunto le sembianze del morto che agguanta il vivo.
TEORIE DEL COMPLOTTO.
Per non parlare poi delle fantasiose teorie del complotto, delle innumerevoli letture dietrologiche che in barba a qualsiasi logica, buon senso e inesorabile smentita dei fatti, arrivano a sostenere tesi dimostratesi col passar degli eventi, delle mode e delle maggioranze, non solo infondate o peggio ridicole, ma addirittura facilmente reversibili. Al punto che tutto quanto in passato veniva attribuito alle interferenze, manipolazioni e infiltrazioni delle intelligences atlantiche (Cia, Nato e Mossad), oggi viene addossato ai vecchi servizi dell'Est socialista (K.G.B., Stasi, Cecoslovacchi, Bulgari e persino Jugoslavi), come sostiene da ultimo Antonio Selvatici in, "Chi spiava i terroristi" (Pendragon 2009). Alimentata dal dossier Mitrokin, questa nuova vulgata dietrologica prodotta da settori della destra, ex-post o ancora fascista, si è sostituita a quella fabbricata lungo tutti gli anni '80 e '90 da Sergio Flamigni, che da sinistra elaborava le più astruse complotterie (3), perfettamente speculari a quelle asserite oggi da Selvatici. Venuta meno la geopolitica legata alla Guerra fredda negli ultimi anni il delirio complottistico si è arricchito di una ulteriore variante che non esita ad immaginare regie comuni, tavoli consociativi dove i servizi delle piccole e medie potenze, in particolare Francia e Inghilterra, addirittura la Norvegia di Olaf Palme, hanno manipolato l'azione dei gruppi dell'estrema sinistra armata nel teatro italiano. Tesi sostenuta dal mirabile trio rappresentato da Alberto Franceschini, Rosario Priore e Giovanni Fasanella (4).
Quest'ultimo, giornalista e sceneggiatore oltre che veggente, ha ereditato l'attività disinformativa condotta per oltre un ventennio da Flamigni innovandola nel metodo. Grazie alla sua capacità di parassitare storie ed esperienze di attori diretti o indiretti delle vicende più scottanti del decennio '70 è divenuto coautore di innumerevoli pubblicazioni, nelle quali fa mostra delle sue capacità divinatorie scrutando - è proprio il caso di dire - l'ordito nascosto, la trama invisibile, lì dove gli altri comuni mortali non possono vedere.
Oggi questa pubblicistica da spazzatura inquina interi scaffali delle librerie. Una sociologa francese, specialista della violenza politica negli anni '70 e autrice di numerosi libri e saggi sull'argomento, che mi è capitato di accompagnare in uno di quei grandi megastore della Feltrinelli, ancora non riesce a riprendersi dallo stupore per il credito che in Italia viene attribuito a tanta pseudostoriografia che pure arricchisce i conti delle case editrici e rimbambisce i cervelli dei lettori.
LOTTA ARMATA: UNA VARIANTE DEL TOTALITARISMO?
Anche se molto diffusa nella prosa giornalistica solo recentemente è apparsa sulla scena un nuovo tipo di saggistica nella quale il brigatista è descritto come un rozzo portatore d'odio, raffigurato come un settario, un dottrinario, un fanatico imbevuto d'idee semplici, espressione di un «pensiero dicotomico».
La mentalità del brigatista - scrive Alessandro Orsini nel suo "Anatomia delle Brigate rosse. Le radici ideologiche del terrorismo rivoluzionario" (Rubettino 2009) «è elementare, istintiva, brutale nella sua immediatezza», il suo scopo è diffondere una «pedagogia dell'intolleranza». Si tratta di un tipo di letteratura che rinnova la tradizione dell'anticomunismo e che, orfana del muro di Berlino, dirige i suoi strali polemici verso altre esperienze del comunismo rivoluzionario, questa volta eretiche o eterodosse.
A dire il vero Orsini, allievo di Luciano Pellicani, non fa altro che riprendere le tesi del suo maestro, espresse in un volume apparso nel 1995, "La società dei giusti. Parabola storica dello gnosticismo rivoluzionario" (Etaslibri), per condurle oltre la vicenda storica del movimento comunista ufficiale ed integrarvi l'esperienza delle formazioni armate degli anni '70. Se Pellicani proponeva, alla maniera di Aleksandr Solzenicyn, una genealogia del comunismo e dell'idea stessa di rivoluzione che però, a differenza dell'autore dell'"Arcipelago Gulag", si protrae ben oltre le vicende rivoluzionarie di fine Settecento, l'esperienza giacobina e la tradizione dell'illuminismo, per approdare alle comunità evangeliche del Quattrocento, alla rivoluzione gnostica il cui furore purificatore e l'ascesi fanatica sarebbero alla radice del «terrore di massa» e del totalitarismo rivoluzionario del Novecento, incarnato dalla nuova «classe contemplativa» dei rivoluzionari di professione, Orsini descrive il brigatismo rosso come l'ultimo stadio dello gnosticismo moderno, avversario (anche se i fatti storici dicono il contrario) delle tradizioni riformiste, intese come le fonti battesimali della razionalità, del giusto e del vero, ancor più che alle destre conservatrici e reazionarie.
Secondo questa vulgata chi ha fatto la lotta armata sarebbe nemico della complessità e del dubbio, ostile al ragionamento, inadeguato alla modernità. Per Orsini, autore di una tesi universitaria sulla «mentalità religiosa presente nel terrorismo moderno», la vicenda delle Brigate rosse può essere letta con le lenti della sociologia religiosa.
I brigatisti, sostiene, «si ritenevano detentori di una conoscenza superiore destinata a pochi eletti: un manipolo di giusti, possessori della verità ultima sul significato della storia». Tuttavia pur partendo dalla difesa di una posizione che si vorrebbe razionalista e illuminista, nella prosa di questo giovane studioso, insignito del premio Acqui sulla saggistica socio-politica, si ritrovano gli stessi dispositivi inquisitoriali utilizzati dai frati domenicani che esercitavano il ruolo dell'accusa nei tribunali dell'Inquisizione.
Le Brigate rosse sarebbero colpevoli di eresia gnostica: «una setta nella tradizione dello gnosticismo rivoluzionario, di cui possiedono tutte le caratteristiche: l'ossessione per la purezza personale; un catastrofismo radicale, secondo cui il mondo sarebbe immerso nel dolore e nella sofferenza; di conseguenza la concezione salvifica della rivoluzione come un'apocalisse che squarcia le tenebre e instaura una 'società perfetta'; l'identificazione del nemico come il maligno, un mostro responsabile dell'infelicità umana e dunque da sterminare; infine la mentalità 'a codice binario' che riduce tutti gli aspetti della realtà alla contrapposizione tra forze del Bene e forze del Male». Dei monaci giustizieri, insomma.
Rovesciare lo sguardo manicheo portato dal mondo delle istituzioni e dei media sugli anni '70, come fa Orsini, attribuendolo ai brigatisti, è un atteggiamento concettuale rudimentale. Si palesa in questo modo tutt'altra disciplina dalla sociologia politica e l'analisi si trasforma in anatema per scadere in un trattato di demonologia moderna. Alla fine Orsini ruba il posto agli esorcisti.
Queste nuove analisi della lotta armata sorprendono per il loro contenuto arcaico che riporta indietro nei secoli lo studio del conflitto e dei meccanismi dell'azione collettiva. Sembrano tornare d'attualità i lavori di fine Ottocento realizzati da Gustave Lebon sulla psicologia delle folle, sui timori che cominciavano a permeare i ceti borghesi e le autorità costituite di fronte all'emergere sulla scena pubblica delle masse popolari e del movimento operaio nelle sue prime forme organizzate. Il nuovo protagonismo delle classi lavoratrici, fino allora silenziose, sol perché disturbava il monopolio borghese dello spazio pubblico e ne infrangeva la quiete, era ritenuto pericoloso, percepito come l'ingresso dell'irrazionale e dell'inconscio nei comportamenti collettivi, espressione di una violenza atavica e bruta. D'altronde basterebbe scorrere la letteratura e la pubblicistica successiva alla Comune di Parigi per rintracciarvi alcuni stilemi assolutamente tipici e ripetitivi nei secoli della demonizzazione rivolta nei confronti di chi è stato protagonista di episodi rivoluzionari (Paul Lidsky, "Les Écrivains contre la Commune", La Découverte, 1999). Accade sempre la stessa cosa quando il dissenso non viene accettato e la rivolta, violenta o meno che sia, non è tollerata: l'attività politica viene immediatamente etichettata come criminale e terrorista. Posizione che tuttavia già la scuola positivista di fine Ottocento aveva superato classificando la violenza politica come una manifestazione 'evolutiva' del divenire sociale, tesa cioè ad affrettare il futuro anticipando i sistemi politici-sociali a venire. A distanza di oltre un secolo ci saremmo attesi dunque un confronto incentrato su modelli interpretativi più aggiornati. Peraltro, contrariamente a quanto sostiene Alessandro Orsini, all'interno di tutte le ribellioni e i percorsi insorgenti «viene a formarsi sempre una componente autocritica e autoriflessiva che s'interroga costantemente sulla sua logica», (Vincenzo Ruggiero, "La violenza politica", Laterza, 2006).
Il discorso tenuto da Vincenzo Guagliardo in questo libro ne è la riprova ulteriore, grazie anche ad un curioso paradosso narrativo che rifugge qualsiasi piega identitaria o giustificazionista. Infatti è proprio il serrato bilancio critico condotto sulla propria esperienza e sulle matrici della sconfitta, letta oltre i confini organizzativi di un singolo gruppo politico ma indagata anche in quel che è avvenuto nel resto della società, che consente di mettere in risalto, e per contrasto, ciò che le Brigate rosse volevano essere e solo in parte sono state.
L'originale rappresentazione 'in soggettiva' proposta dall'autore accende i riflettori, meglio di tante critiche e attacchi esterni, ma anzi con una radicalità autocritica ancora maggiore, su quello che alla fine le Brigate rosse sono state malgrado le loro intenzioni iniziali. Come è potuto accadere che una volta apparse le prime difficoltà dentro questa organizzazione sia potuto dilagare il ricorso sfrenato al capro espiatorio fino all'autofagia della propria storia? Fino alla cannibalizzazione tra militanti? La riflessione autocritica parte da qui. Qualcosa evidentemente non funzionava dall'inizio. Andava rimesso in discussione tutto.
L'ERESIA ORTODOSSA.
Eresia poco eretica, eresia incompiuta, scrive l'autore. «Ci sentivamo antisettari e antidottrinari». Ecco un primo punto messo in chiaro: a differenza delle formazioni della nuova sinistra le Brigate rosse non ricercano mai una omogeneità teorica. L'eclettismo era la loro cifra ideologica sottoposta al variare delle fasi, segnate anche dagli arresti (la sopravvivenza in libertà di un militante «regolare» non superava la media dei 2-3 anni), e delle diverse generazioni che aderiscono ad una organizzazione la cui storia si protrae per 19 anni, dal 1970 al 1989, quando la storia delle Brigate rosse arriva a conclusione e da quel momento verrà a coincidere con la storia dei suoi militanti imprigionati. Una delle più longeve fra tutte le formazioni della nuova sinistra nate dopo il 1968.
Le componenti ideologiche di questo gruppo sono state le più diverse: dai marxisti-leninisti filo cinesi, ai fuoriusciti dall'organizzazione giovanile del P.C.I., agli operaisti (come lui stesso), ai delegati di fabbrica, ed ancora nelle biografie dei militanti più anziani si ritrovano percorsi anche più lontani che passano attraverso l'esperienza del PSIUP e persino del P.S.I. (5). Non manca neppure chi arriva da esperienze libertarie, basti ricordare Gianfranco Faina che successivamente uscirà per fondare Azione rivoluzionaria. I pochi studi sociologici presenti approssimano una verità ancora troppo ignorata: il grosso dei militanti, sia delle Brigate rosse che di altri gruppi, proviene dallo sfaldamento di Potere operaio e di Lotta continua. Dopo il '77 il grande serbatoio sarà invece l'area plurale dell'Autonomia. Più omogenea è invece la provenienza sociale legata al mondo operaio, ai lavoratori dei servizi e del terziario, alla realtà delle periferie urbane e ad un nuovo ceto studentesco che grazie alle riforme scolastiche post '68 accede per la prima volta nelle università.
L'organizzazione brigatista reclutava sulla base del «fare politico», del realismo delle pratiche. Nemmeno l'idea guida originaria, ovvero la scelta violenta intesa come «propaganda armata», era un tratto che la distingueva dagli altri gruppi politici che invece praticavano la violenza ricorrendo agli schemi della tradizione kominternista: separazione del politico dal militare, del legale dall'illegale. La cronologia storica dice che le Brigate rosse si armano molto più tardi di altre formazioni. Erano in embrione quando nei primi anni '70, alla Fatme, una fabbrica di Roma, il "Lavoro illegale" di Potere operaio realizza il primo ferimento di un quadro d'azienda. Le rapine di autofinanziamento arrivarono molto tempo dopo gli «espropri proletari» realizzati da Potere operaio e Lotta continua. Quando nel 1976 passarono all'omicidio politico, c'era chi aveva già ucciso prima di loro come testimonia l'attentato mortale contro il commissario Calabresi avvenuto ben quattro anni prima.
La scelta della clandestinità e l'azione congiunta del politico e del militare (formula organizzativa risolutamente antileninista (6) ripresa dalle esperienze di guerriglia metropolitana sperimentata in Sud America) sono il loro vero tratto distintivo, vissuto con una «forte dimensione morale», che avrebbe dovuto garantire - ricorda ancora Guagliardo - uno sviluppo dell'aggregazione rivoluzionaria «per linee interne al movimento operaio», tutelando l'organizzazione dalle derive burocratiche che avevano traviato la storia tormentata del movimento operaio. La critica mossa alla separazione del lavoro nella società capitalista era rivolta anche nei confronti della canonica separazione dei ruoli politici presenti nelle organizzazioni storiche del movimento operaio: teorico e di direzione da una parte; esecutivo e d'azione dall'altra. La divisione classica tra gruppo dirigente e base militante doveva scomparire: «Il capo non era più colui che stava al sicuro, ma colui che stava in prima fila nel rischio»; «L'intellettuale che veniva a combattere si proletarizzava di fatto». Oggi appare di difficile percezione l'impatto innovativo e dirompente che l'introduzione di una simile forma organizzativa comportò sugli altri gruppi politici della sinistra rivoluzionaria. All'epoca esercitò una fortissima attrazione e divenne un modello che si diffuse e contribuì allo sfaldamento dei «gruppi». Decisive furono le defezioni in blocco e la lenta emorragia di militanti che colpì Lotta continua. Nel 1973 questa rincorsa alle armi aveva già portato allo scioglimento di Potere operaio nel corso del convegno del 31 maggio/3 giugno svoltosi a Rosolina in provincia di Rovigo, aprendo la strada alla gemmazione continua di nuove formazioni armate.
Questa diffidenza verso il «settarismo dottrinario», rigettato perché ritenuto una delle caratteristiche negative che avevano segnato la vita politica dei «gruppi» della nuova sinistra, cela tuttavia un grosso limite: «un vuoto d'idee sulla visione del dopo». Si situa qui, secondo Guagliardo, uno dei nodi soggettivi della sconfitta. La politica dei due tempi che rimanda a domani quel che già si doveva essere oggi, l'incompletezza critica che produce una inevitabile simmetria con la realtà che si voleva cambiare. Questa incompiutezza secondo l'autore sarebbe divenuta la faglia antropologica che anticipa al proprio interno la sconfitta. «Era come se credessimo che bastasse cambiare "i modi di fare" proprio per raggiungere quegli obiettivi condivisi con i nostri predecessori, che così restavano i nostri padri, per quanto poco noi li riconoscessimo o essi molto ci rinnegassero [...] Proprio il nostro silenzio antisettario era non già la gravidanza di una nuova lingua, ma il luogo in cui meglio si realizzava la continuità tra 'padri e figli'». Si sgretolava dunque l'illusione dell'eresia per scoprire che la distanza teorica, alcuni decisivi nodi concettuali, con il tanto avversato partito comunista, erano meno distanti di quanto si potesse credere.
«SIAMO STATI LA TATTICA DEL NOSTRO IDEALE».
Proprio la scelta della violenza pensata come elemento di rottura si rivela per Guagliardo uno dei punti di minore distanza, non tanto con l'avversario, che veniva consapevolmente sfidato su un terreno che monopolizzava, quanto con quella tradizione culturale del comunismo ufficiale da cui i brigatisti intendevano smarcarsi. Più che una rottura, quella violenta fu una scelta all'insegna della continuità. La critica rivolta alle B.R., nota l'autore, era improntata all'antiterrorismo, cioè ad una critica sulla quantità e opportunità della violenza impiegata più che al paradigma della violenza in sé. La violenza istituzionale sfuggiva, infatti, a qualsiasi rilievo critico. Potremmo aggiungere che la stessa critica non violenta, quando venne mossa a partire dalla seconda metà degli anni '80, in coincidenza con il declinare della fase più acuta dell'emergenza antiterrorista, non risolse mai l'ambiguo rapporto con il nodo della legalità. Secondo Guagliardo il ricorso alla violenza, nonostante tutte le precauzioni e le cautele prese, si rivelerà alla fine una trappola. E' il secondo passaggio autocritico proposto. Tuttavia la sua riflessione non mette mai in discussione la legittimità dell'insorgenza ma si interroga senza sconti sul ruolo giocato dalla violenza.
A questo punto le domande che si aprono sulla natura, gli esiti e le cause dello strumento violento impiegato sono molte: la lotta armata è stata una resistenza dentro la sconfitta? Qualcosa che l'ha ritardata nel tempo di almeno un decennio o, al contrario, come sostengono i suoi critici, la vera ragione della sconfitta, non solo dei gruppi armati ma dell'intero movimento di quegli anni?
Negli anni '70 in Italia si sono affrontate due opposte culture del movimento operaio: una saldamente istallata dentro lo Stato, l'altra contro. Quale delle due era prigioniera dell'omologia col potere?
Alcune parodie di «processi del popolo», alcune esecuzioni di supposti «traditori», proiettano l'immagine di una terrificante simmetria con quel potere che si voleva abbattere. Ciò nonostante esiste ancora una differenza tra coloro che hanno assunto la vocazione del potere attraverso una radicata internità istituzionale e quelli che hanno generato un effetto simmetrico pur sempre involontario?
Ed ancora, non è forse un errore pensare che le ragioni della sconfitta stiano tutte dentro lo strumento di lotta praticato? Non andrebbero comprese all'interno di una disfatta politica più ampia, che all'inizio degli anni '80 investe per intero il movimento operaio e le altre ipotesi politiche incarnate dalla sinistra istituzionale e dal sindacato? Dietro la sconfitta non vi sono cause strutturali dovute al mutamento di paradigma produttivo e di società che vi ruotava attorno, tradizionalmente indicato come «fordista»? Il ragionamento proposto da Guagliardo va oltre questi quesiti, alla ricerca della radice antropologica del problema. Egli sembra dire che la lotta armata avrebbe perso comunque perché rimasta a metà del suo percorso. Cita in proposito una frase di Saint-Just: «Chi fa la rivoluzione a metà si scava la fossa». Ritiene la violenza, sulla scorta dell'esperienza vissuta, qualcosa che nella migliore delle ipotesi non oltrepassa la funzione difensiva, come sempre accade quando gli oppressi ne fanno uso. La violenza non conduce in paradiso anche se può essere calmieratrice dell'oppressione. Ogni potenza è esofagica, cioè divora tutti gli spazi vuoti e inerti che si presentano di fronte a sé. Opporre resistenza può aiutare a sopravvivere ma mai a generare una alternativa. Questo è il limite: «Se riconosci che la violenza non è più una 'scelta' tua ma la risposta inevitabile sul terreno scelto dal tuo avversario, devi poi accettarne la logica». Una logica che non ti appartiene, ma che per realismo sei costretto ad assumere rinviando al dopo quel che avresti voluto essere fin da subito. Una volta intrapresa questa strada non c'è via di scampo: alla fine ti ritrovi ad essere, nel migliore dei casi, «solo la tattica del tuo ideale».
I riflessi negativi sono molteplici, Guagliardo ne identifica diversi: la clandestinità, per esempio. Scelta preventiva ma 'necessaria' e non certo libera, indotta non da una passione ascetica che rifugge i clamori del mondo ma dall'effetto di reciprocità che produce lo strumento violento. L'urgenza di sottrarsi alla reazione dell'avversario porta a dover tagliare legami sociali decisivi e fondanti per l'azione politica e il successo finale. Ed ancora, la perdita d'autonomia dovuta all'effetto quasi meccanico del processo d'azione-reazione innescato dallo scontro militare, nel quale l'evolversi della direzione impressa al movimento dipende più dalle reazioni dell'avversario che da logiche proprie. L'esito del rapimento Moro, dove la morte dell'ostaggio fu la conseguenza del "rigor mortis" opposto dal fronte statale della fermezza che rifiutò il minimo spiraglio per una trattativa, può essere letto come uno degli esempi più evidenti di questo limite.
«Ignoravamo tutto ciò» prima di cominciare, riconosce Guagliardo. Ma c'è qualcosa di ancora peggiore che egli annota nella sua riflessione: la lotta armata concepita come propaganda, dunque azione non volta ad ottenere un obiettivo immediato, conteneva al suo interno un principio corruttore che alla fine ha assunto la fisionomia del tirannicidio virtuale, trasformandosi inevitabilmente in una pratica del capro espiatorio. Lo stesso, questo è il dramma, che sta alla base di ogni sistema penale statale. Aver mutuato la sanzione penale ha trasformato la lotta armata in una imitazione dello Stato, uno Stato "in pectore" (7). Assunto che da solo fa tabula rasa dell'intera esperienza brigatista e lottarmatista in generale. Un giudizio liquidatorio che lascia tramortiti. A nulla serve constatare che in taluni casi è lo Stato stesso ad aver compiuto il percorso inverso mutuando i gesti del proprio avversario, poiché ciò rende ancora più evidente l'omologia. Tutti i gruppi speciali della Polizia e dei Carabinieri operano oggi con tecniche cospirative riprese dalle organizzazioni che praticavano la lotta armata. Constatazione che induce a riconoscere una parte di efficacia performativa in quei metodi. Ma il nodo è politico. Non basta l'efficacia tecnica, serve anche la capacità di produrre legittimazione.
ALCUNE OBIEZIONI.
Le obiezioni a questo discorso possono essere molteplici, in particolare l'uso della nozione d'omologia si presta a numerose contestazioni. E già stato osservato che se è possibile evocare un rischio d'omologia di fronte all'uso offensivo della violenza, diverso è il problema posto dal ricorso alla violenza difensiva, impiegata secondo il criterio della risposta proporzionata. Come è possibile affermare che, di fronte ad un intervento realizzato per neutralizzare un torturatore che infierisce sulla vittima, o all'interruzione con mezzi adeguati di una violenza sessuale, vi sia una omologia con la forma dell'aggressione o dell'aggressore? La simmetria sarebbe tale solo se il torturatore venisse a sua volta torturato e il violentatore violentato. Non intervenire, oppure farlo con mezzi inadeguati che non riuscissero ad impedire la consumazione della violenza, non sarebbe forse eguale se non peggiore di un qualsiasi rischio d'omologia? Fu questo il dilemma dei pacifisti di fronte al nazismo. Molti alla fine presero la armi, ritenendole in quel momento il male minore.
Ed ancora, anche in chi ha concepito la necessità di fare uso di strumenti non immediatamente coincidenti con i fini, si riscontrano atteggiamenti etici che ritengono i mezzi impiegati "significativi" dell'obiettivo finale, segnalando in questo modo visioni morali dell'azione politica che recepiscono l'idea di una "soglia" comunque non valicabile. E' questa una fondamentale differenza che distingue il combattente che individua unicamente obiettivi nelle gerarchie militari, politiche, economiche e sociali dell'avversario, da chi arma il kamikaze che si fa esplodere in un autobus o s'impadronisce di un aereo, o ancora dall'attentatore che semina bombe in piazze, mercati, metropolitane e treni, oppure dal pilota militare che lancia missili da bombardieri dotati delle più sofisticate tecnologie, o dai capi di governo e dagli stati maggiori che ordinano micidiali bombardamenti i cui effetti devastanti sulle popolazioni civili vengono poi classificati tra i «danni collaterali» (8). Più che un'assenza di riferimenti morali, in queste concezioni che ritengono i mezzi significativi del fine - come è accaduto per la lotta armata di sinistra - è prevalsa l'idea che la semplice affermazione del mezzo avrebbe generato di per sé il fine.
Ciò che è interessante nel discorso di Guagliardo è il fatto che egli non rimuove il ruolo della forza all'interno della politica e, viceversa, non propone una banale religione nonviolenta scoperta tardivamente tra le mura delle carceri speciali. Le due soluzioni si equivalgono. L'incorporazione del male per raggiungere il bene che danna inevitabilmente ogni ricorso alla violenza non ha risparmiato nemmeno le pratiche nonviolente. Sappiamo che l'unico modello nonviolento pervenuto sinora alla vittoria, l'esperienza ghandiana, si è risolto in uno strabiliante paradosso che ha visto, dopo la conquista del potere, il mantenimento di tutti quegli attributi che fanno dello Stato il detentore del monopolio legale della forza (esercito, polizia, carceri), senza nemmeno porre fine all'ingiustizia della società castale ed ai sanguinosi conflitti di religione, creando quei nuovi rapporti umani e sociali che il metodo nonviolento prefigura fin da subito.
L'INDIGNAZIONE NON BASTA.
Dove sta la soluzione allora? Quale che sia lo strumento di lotta prescelto (le forme di lotta sono sempre storicamente determinate), osserva Guagliardo, l'importante è costruire modelli d'azione che consentano di "non collaborare" fin da subito. E' questo il vero punto di rottura. Non si tratta di sovrapporre l'etica alla politica, come alcuni hanno pensato, ma di guardare ad esperienze storiche che hanno dovuto affrontare una situazione simile, aggiungiamo noi. Qualcosa del genere fu proposto all'inizio del Novecento da Émile Pouget ("Il sabotaggio", ripubblicato nelle edizioni Massari nel 2007). Una vera e propria arte di "disobbedire" attraverso le mille figure del sabotaggio, nato da quello che gli operai scozzesi chiamavano, con un'espressione dialettale, "Go Canny" («Vacci piano!»). Lavorare con lentezza. Una strategia che riconduce l'esercizio della critica alla pratica quotidiana dei poteri economici e istituzionali, mettendoli alla berlina e cortocircuitando i loro discorsi di legittimazione. Anche allora fu un tentativo di uscire da una stagione di sconfitta (gli attentati anarchici di fine Ottocento), cercando linguaggi e strategie che rinnovassero la capacità di fare fronte alle nuove modalità del conflitto capitalistico insieme ad una nuova abilità nel costruire consenso attorno alle proprie battaglie. In un'epoca, come quella attuale, in cui l'attenzione ossessiva riposta sui mezzi di lotta (come dimostrano le laceranti polemiche, la caccia alle streghe contro gli «incappucciati», le paranoie complottistiche sui presunti infiltrati, ogni qualvolta dall'interno di una manifestazione emergono anche strategie violente che danno luogo a tumulti) sembra voler sopperire alla debolezza di contenuti e prospettive sui fini, ritrovare questa memoria e recuperarne la fantasia può aiutare ad uscire dalla maledizione di un dibattito che ha trasformato la scelta dei metodi di lotta in un paralizzante dilemma ideologico attorno al quale definire la propria identità.
IL PARADIGMA DEL CAPRO ESPIATORIO E LA NUOVA FILOSOFIA PENALE.
Una delle originalità di questo libro sta nella capacità di cogliere i processi generali attraverso i cambiamenti intercorsi nel microcosmo carcerario. Ancora una volta gli anni '70 appaiono un decisivo banco di prova. Se la logica della premialità e della differenziazione, introdotti con i dispositivi legislativi limitati inizialmente ai collaboratori di giustizia e ai dissociati, e successivamente estesi al resto della popolazione carceraria, hanno anticipato e sperimentato con successo l'ingresso della contrattazione individuale e della precarietà nel mercato del lavoro; allo stesso modo il rito del capro espiatorio è diventato il nuovo motore ideologico della società. L'analisi di Guagliardo, che fa del ricorso a questo paradigma l'aspetto centrale della sua riflessione critica, è frutto dell'esperienza diretta vissuta dentro il carcere speciale dove l'effetto combinato di fattori esterni e interni, come la crisi progettuale della lotta armata, le mutazioni sociali e produttive, le tecniche d'isolamento e repressione, sfaldano progressivamente la solidarietà «per dar luogo alla concorrenza tra individui». E' qui che Guagliardo scopre l'inarrestabile scatenamento del processo vittimario descritto in uno dei capitoli più forti (il quinto). Il rito del capro espiatorio è introiettato dai prigionieri al punto da divenire una forma autofagica della propria esperienza. Di volta in volta i militanti rinchiusi cominciano ad esportare verso l'organizzazione esterna le responsabilità per le difficoltà incontrate. E' una sorta di piano inclinato inarrestabile che si trasforma in una voragine e poi nell'abisso della disfatta etica che ha prodotto le figure del pentito-delatore, dell'abiurante-dissociato e dell'inquisitore-killer, che spesso anticipa e presuppone le prime due. In questo dispositivo il carcere speciale appare un laboratorio all'interno del quale covano fenomeni che poi si riprodurranno su larga scala all'esterno delle cinte murarie. Non a caso la dissociazione anticipa un modello culturale che farà strame dentro la sinistra minandone la capacità critica e anticipando la stagione delle grandi ipocrisie pentitorie, dove la categoria del ravvedimento non è più quella che assume su di sé la critica o, se vogliamo restare sul piano del linguaggio teologico, la colpa e l'espiazione, ma al contrario esporta fuori di sé ogni colpa e punizione introducendo la moda dell'"autocritica degli altri".
Gli strumenti giudiziari d'eccezione e la cultura inquirente congeniata per combattere la lotta armata tracimeranno al punto da travolgere anche il ceto politico della «Prima Repubblica», quasi a ricordare l'osservazione di Marx sullo scontro tra classi che può concludersi anche con la rovina reciproca delle parti in lotta. L'impegno profuso nel contrastare la sovversione sociale degli anni '70, la lunga stagione delle leggi penali speciali e dei maxiprocessi che hanno traversato il decennio '80, e lo tsunami giudiziario che ha preso il nome di «Tangentopoli» nella prima metà degli anni '90, conferiscono alla magistratura, e in particolare ad alcune procure, il ruolo di vero e proprio soggetto politico portatore di un disegno generale della società, di una filosofia pubblica capace di sostituirsi a quelli che erano stati gli attori tradizionali della politica: partiti e movimenti. Il modello del capro espiatorio svolgerà un ruolo centrale nella vicenda passata alle cronache come la rivoluzione di «Mani pulite». Le conseguenze, per nulla percepite dagli attori dell'epoca, che spesso pensavano di interpretare una stagione di rinnovamento del Paese, saranno enormi. E' da lì che prendono forma e si strutturano le ideologie del rancore e del vittimismo che fomentano le attuali correnti populiste, stravolgendo quell'idea di giustizia che per lungo tempo era stata sospinta da ragioni che disprezzavano gli strumenti della penalità e del carcere in favore della ricerca del bene comune. Se prima si trattava di raggiungere obiettivi universali in grado di ripercuotersi in un miglioramento delle condizioni di vita di ciascuno ora il traguardo più ambito diventa l'aula processuale, la conquista di un posto in prima fila nei tribunali, un ruolo sui banchi della pubblica accusa o delle parti civili. Un drastico mutamento di prospettiva che è conseguenza anche della crisi delle grandi narrazioni che descrivevano cammini di liberazione. Di emergenza in emergenza, passando per il terrorismo, le mafie, la corruzione, i migranti, la sicurezza, ha preso corpo un populismo penale che ha pervaso trasversalmente la società sovrapponendosi alle vecchie barriere ideologiche fino a farle scomparire. La sfera giudiziaria è diventata il perno attorno al quale ruotano i conflitti, si pensa e si parla solo attraverso le lenti dell'ideologia penale anche a causa di un processo d'autoinvestitura politica della magistratura, formulata sulla base di una vera e propria "teoria della supplenza" da parte del potere giudiziario, «in caso di assenza o di carenze del legislativo». Una sovrabbondanza che alla fine, è superfluo ricordarlo, non ha creato più giustizia. Come dicevano già i romani: "summum ius, summa iniuria" (9). Il mito della giustizia penale ha trasformato la politica nel cimitero della giustizia sociale, l'esaltazione della qualità salvifica del potere giudiziario ha fatto tabula rasa di ogni critica dei poteri.
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1. Sono molto pochi gli studi sulla lotta armata di sinistra condotti con le metodologie richieste dalle scienze sociali che, se non altro, proprio perché fondati su criteri di ricerca ed esposizione condivisi, si prestano al gioco delle verifiche e delle confutazioni possibili.
2. Uno dei casi più emblematici è quello di Walter Tobagi, assassinato il 28 maggio 1980 dalla Brigata Ventotto marzo, guidata da Marco Barbone. Un piccolo gruppo nato da una scissione delle F.C.C. (Formazioni comuniste combattenti). Gli autori di questo attentato pensavano di utilizzare la morte di Tobagi come biglietto da visita per accreditarsi con le Brigate rosse, che di Tobagi non si erano mai curate.
Editorialista del "Corriere della sera", molto attivo nell'associazione lombarda dei giornalisti con una propria corrente, «Stampa democratica», di cui era divenuto presidente, Tobagi era una figura complessa. Intelligenza viva del fronte che allora si definiva «riformista», capace di leggere fuori dagli schemi consociativi dell'emergenza antiterrorista, dominanti in quegli anni, le realtà sociologiche che stavano dietro la lotta armata. Discorsi che infastidivano molto i sostenitori del compromesso storico, al contrario delle B.R. che non avevano alcun interesse a percepire in modo ostile i critici, come Tobagi, della «linea della fermezza». Il gruppo di Barbone, come si seppe più tardi, era infiltrato da un confidente di nome Rocco Ricciardi gestito dai carabinieri di Dalla Chiesa. Sulla vicenda non è mai stata fatta piena luce. Barbone e i suoi compagni erano seguiti dai carabinieri che speravano così di poter arrivare, attraverso un paziente lavoro d'infiltrazione avviato dalla periferia, al cuore della colonna Milanese Walter Alasia delle Brigate rosse. L'operazione fallì clamorosamente, almeno all'inizio, e soprattutto produsse un micidiale effetto collaterale: la morte di Tobagi. Solo tempo dopo, l'11 dicembre 1980 grazie a questo infiltrato vennero agganciati a Milano e crivellati di colpi in strada due militanti della Walter Alasia: Roberto Serafini e Walter Pezzoli. Non si è mai capito se l'omicidio di Walter Tobagi avvenne per una grave sottovalutazione delle informazioni raccolte sui progetti del «gruppo Barbone» o per un cinico calcolo. Il procuratore Armando Spataro non si prodigò certo per fare chiarezza, preoccupato soprattutto di coprire i metodi, spesso non ortodossi, con cui operava l'antiterrorismo e soprattutto il patto delatorio stipulato con il pentito Marco Barbone, l'omicida di Tobagi, che dopo soli tre anni era già libero. Una sola cosa è certa: gli unici a non aver mai avuto nulla a che fare con questa storia sono le Brigate rosse, a cui tuttavia a distanza di 30 anni viene ancora oggi il più delle volte attribuita la paternità dell'attentato.
3. Secondo il filone complottista guidato da Flamigni, dal dopoguerra fino alla vittoria elettorale, nel 1996, del P.D.S. e poi D.S., ex P.C.I., confluito (ma non sarà certo l'ultima sigla) nel partito del compromesso storico realizzato, ovvero il P.D., la storia d'Italia va interpretata come la trama di un «doppio Stato»: l'uno corrotto e con propaggini occulte che ha criminalmente detenuto il potere nella prima Repubblica; l'altro leale e legale che avrebbe fatto da baluardo al sovversivismo atavico delle classi dominanti. Inutile precisare che il P.C.I.-P.D.S.-D.S.-P.D. ne sarebbe sempre stato il pilastro essenziale. Sulla natura del complotto si sono confrontate due «dottrine»: la prima, anche in ordine di tempo, che ha ipotizzato il «ruolo consapevole e diretto» giocato dai movimenti sociali e in particolare dalla lotta armata, il «partito armato», contro il P.C.I.; la seconda che ha ipotizzato «l'etero direzione», la «complicità inconsapevole», delle Brigate rosse in particolare, come se esse fossero state nient'altro che delle pedine manovrate da potenze occulte. Per chi voglia documentarsi sugli stati modificati della coscienza suscitati dalla frequentazione eccessiva con queste flatulenze cerebrali, suggeriamo come testo esemplare per comprendere gli effetti devastanti a cui possono condurre alcune forme irreparabili di psicopatologia della menzogna storica: Sergio Flamigni, "La tela del ragno. Il delitto Moro", Roma, Edizioni Associate, 1988. Sospinto da oscuri mandanti Sergio Flamigni replicava dieci anni dopo in "Convergenze parallele", Milano, Kaos edizioni, 1998, per ripetersi come un disco rigato nel 1999 e nel 2004 sempre per Kaos con "Il covo di Stato. Via Gradoli 96 e il delitto Moro e la Sfinge delle Brigate Rosse. Delitti, segreti e bugie del capo terrorista Mario Moretti".
4. Introdotta per la prima volta nella prefazione redatta da Rosario Priore al volume di Franceschini-Fasanella, "Che cosa sono le B.R.", (Rizzoli, R.C.S. 2004), questa tesi è stata rilanciata recentemente con l'edizione di due libri: "Intrigo internazionale. Perché la Guerra in Italia. Le verità che non si sono mai potute dire" (Chiarelettere 2010), sempre della coppia Priore-Fasanella; "Chi manovrava le Brigate rosse?" (Ponte della Grazie 2011) di Priore-De Prospo.
5. Le conoscenze sulla genealogia della vicenda brigatista sono state recentemente integrate dall'uscita di due volumi: "Maestrom. Scene di rivolta e autorganizzazione di classe in Italia dal i960 al 1980", di Salvatore Ricciardi, DeriveApprodi e "Il brigatista e l'operaio", di Giovanni Bianconi, Einaudi 2011, nel quale Vincenzo Guagliardo racconta la sua storia. Queste due testimonianze valorizzano il contributo del marxismo operaista dentro la storia brigatista ridimensionando l'immagine d'Épinal in salsa emiliano-trentina.
6. Il termine «antileninista» suscita contrarietà. Secondo altre interpretazioni, infatti, le Brigate rosse non si erano date un modello organizzativo estraneo al leninismo. I sostenitori di questa tesi ricordano che il concetto di "partito comunista combattente" fu coniato da Lenin in uno scritto sulla lotta partigiana, nel quale si sosteneva che tale modello sarebbe stato il partito ideale del proletariato nell'epoca della guerra civile. Senza dimenticare che al secondo congresso dell'Internazionale comunista, la terza delle ventuno condizioni di ammissione introdotte prevedeva che «nella fase della 'guerra civile' i comunisti sono tenuti a creare ovunque un apparato organizzativo clandestino parallelo, che al momento decisivo aiuterà il partito a compiere il suo dovere verso la rivoluzione», forse è più corretto affermare che per leninista in questo caso deve intendersi la codificazione dogmatica formulata negli anni del Komintern, ed in particolare la teoria organizzativa elaborata nella "Insurrezione armata" di A. Neuberg, un grande classico firmato da uno pseudonimo collettivo, al quale avevano partecipato tra gli altri sia Togliatti che Ho Chi Min, pubblicato dal Komintern nel 1931. In questo libro scuola si teorizzava la clandestinazione-dissimulazione di alcune funzioni del partito (come quella militare, ad esempio), al posto della clandestinazione dei militanti.
7. Nel primo comunicato letto dal cosiddetto «nucleo storico» durante il processo di Torino, nel 1976, nel quale si annuncia l'avvio della strategia del "processo guerriglia", i prigionieri delle Brigate rosse capovolgono i ruoli e si autonominano pubblici ministeri accusatori dello Stato. A questo punto qualunque avvocato nominato difensore, in quanto funzione del processo, è definito «difensore di regime» perché avrebbe sostenuto le argomentazioni dei giudici-imputati, non dei rivoluzionari accusatori. Il «difensore di regime» diventava così un nemico della rivoluzione combattuto dall'organizzazione in quanto tale (conf. Marco Clementi, "Storia delle Brigate rosse", Odradek 2007, p. 149). Un vero e proprio cortocircuito che portò all'uccisione del presidente dell'ordine degli avvocati Fulvio Croce che aveva assunto l'incarico di difensore d'ufficio dopo la revoca dei difensori di fiducia. Un'impostazione che viene solo parzialmente corretta nel successivo comunicato n. 13 nel quale i prigionieri spiegavano: «Processi e carceri del popolo sono per i comunisti espressioni improprie che vengono prese dal vostro vocabolario, solo per arrivare a dimostrare l'abisso che nei princìpi separa il proletariato dalla borghesia nella sua pratica di lotta. Il processo, per noi, non è un 'atto di giustizia', ma di lotta tra gli interessi antagonistici del proletariato e della borghesia, il momento in cui questa lotta assume la forma del confronto più generale davanti al popolo». Una riflessione di cui si è persa traccia in seguito, al contrario, come rileva ancora lo storico Marco Clementi (op. cit. p. 145), «uno dei risultati più duraturi provocati dal processo guerriglia fu il cambiamento nel significato delle azioni brigatiste, che divennero in alcuni casi autoreferenziali». Le Brigate rosse finirono per ricondurre ogni conflitto sempre e solo alla lotta armata.
8. Uno dei maggiori teorizzatori del «terrorismo aereo», come spiega Silvio Bertoldi sul "Corriere della Sera" del 1 novembre 2004, fu Wiston Churchill, «il quale già nel 1918 immaginava un bombardamento di mille aerei su Berlino». Alla fine si disse sollevato che non ve ne fosse stato bisogno, concludendo però con una cinica premonizione: «Forse, la prossima volta, si tratterà di uccidere soprattutto donne e bambini, insomma la popolazione civile». Quella «prossima volta» ci fu e come: durante la seconda guerra mondiale furono distrutte Amburgo, Dresda, Monaco, Lubecca, Colonia, Dortmund, Düsseldorf, Norimberga. Come disse il comandante dell'aviazione inglese, maresciallo Arthur Harris, a cui i suoi compatrioti dedicarono un monumento, occorreva «desertificare» la Germania. D'altronde Hitler non era stato da meno nel bombardamento di Coventry, del novembre 1940, al punto che il nome di quell'attacco aereo distruttivo divenne un verbo, «coventrizzare», impiegato nel gergo militare come sinonimo di annientamento completo della vita urbana, altrimenti detto di terrorismo su larga scala al cui cospetto Bin Laden sembra un chierichetto da madrasa.
9. «Somma giustizia, somma ingiustizia».
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di
Tommaso Spazzali.
Non ci è sempre possibile stabilire a priori quello che sarà l'effetto conseguente alle nostre azioni, anzi forse quasi mai; né, con esse, ci riesce sempre di ottenere il risultato sperato.
Questo scarto, però, anziché costituire un freno, può diventare uno strumento di conoscenza formidabile sulla materia e sul metodo del nostro agire, sempre che si voglia riconoscergli l'importanza che merita e che si possa dedicargli la necessaria attenzione. Questa operazione, non facile e non comune, richiede che si applichino almeno altre due premesse metodologiche, che con un vocabolario un po' approssimativo potremmo chiamare:
- "la premessa del libero arbitrio"
- "la premessa della coerenza"
Fuori da paradigmi trascendenti, si intende qui per «libero arbitrio» quello che Marx mette nella prefazione al primo volume del "Capitale": «Presuppongo naturalmente lettori che vogliano "imparare" qualcosa di nuovo e che quindi vogliano "anche pensare da sé"»; ovvero la capacità di esercitare discernimento senza vincoli di pregiudizio, senza rifarsi a dogmi, senza praticare facili settarismi pur non rinunciando all'esercizio della critica, a volte la più severa. E' un esercizio di "laicità" che priva chi lo fa suo di molte facili certezze e lo espone al rischio quasi inevitabile della sconfitta.
La seconda condizione necessaria ad operare per una trasformazione dell'incerto in divenire è quella di dotarsi di una buona dose di coerenza che non permetta di fare di noi stessi il caleidoscopio attorno a cui girano le nostre idee (prima) e le nostre parole e le nostre azioni (poi). La coerenza è, in questo senso, il mezzo grazie a cui un soggetto riesce a confrontarsi con se stesso senza permettersi dei "salti" che la materia, sociale o naturale, non sa fare. Beninteso è cosa normale trasformarsi e cambiare, ma in questo continuo mutare l'agire con coerenza implica che sia riconosciuto il divenire, dando conto del prima, durante e dopo, ricongiungendo questi tre momenti come parte di un unico movimento, quello del reale.
Ciò si applica tanto a soggetti singoli quanto a gruppi: coerenza e libero arbitrio attengono ad un processo di sintesi e azione nella rappresentazione del reale e possono essere espressione di una persona o di un collettivo. Ma torneremo su questo più avanti.
Una prima non banale conseguenza di queste due premesse è che con esse viene molto ridimensionato il concetto di "giudizio". Nella misura in cui siamo in grado di riconoscerci come esseri pensanti, senza dover pagare alcun tributo ad una "conoscenza superiore" ed estranea, nel momento in cui ci si confronta con le nostre e altrui lacune (così come si fa con le certezze) senza paura di sfigurare, senza doverci trasmutare in altro, più che di giudicare si scopre la necessità di capire. Ma se il giudizio è ciò che trasforma l'incerto in certo, è il capire che trasforma l'incerto in divenire. E a Vincenzo interessa il divenire.
"Di sconfitta in sconfitta" è una trattazione sospinta dalla passione del divenire all'interno della quale si ricostruisce l'evoluzione di un percorso che ha segnato (venendone poi esso stesso praticamente travolto) la storia del nostro paese: l'esperienza delle Brigate rosse. E' un esercizio della libera coerenza di un singolo applicata alla narrazione dell'evoluzione di un equivoco collettivo che non ha voluto o saputo riconoscersi come tale e che si è quindi perso nel peggiore dei modi. E' il tentativo di trarne una lezione che sappia andare al di là del senso di impotenza a cui conduce, talvolta, il confrontarsi con la storia.
La vicenda che "Di sconfitta in sconfitta" racconta è importante ed esemplare. In questo libro infatti si ricostruisce l'evoluzione di un percorso collettivo che trasforma l'appartenenza in abiura se non addirittura in delazione. Per comprendere il perché del succedersi di eventi così catastrofici è necessario riconoscere, o meglio disvelare, alcuni passaggi che comodamente sarebbero restati nascosti. Primo tra tutti il rapporto con i "padri", l'eredità misconosciuta del Partito Comunista (la rivoluzione tradita?) per scoprire che ci si porta sempre dietro un pezzo di quello da cui veniamo: «Era come se credessimo in sostanza che bastasse cambiare i modi di fare proprio per raggiungere quegli obiettivi condivisi con i nostri predecessori, che così restavano i nostri padri, per quanto poco noi li riconoscessimo o essi molto ci rinnegassero...» ("Di sconfitta in sconfitta", pag. 18). Ossia come capiti di credersi diversi senza per questo riuscire a smettere di riprodurre il modello di cui ci si vuole liberare (questo argomento diviene teoria, più avanti nel testo, a proposito della violenza).
Quindi la critica alla teoria dei due tempi che vede prima la lotta per la liberazione e solo in un secondo momento la costruzione della società liberata, secondo uno schema in cui chi lotta non è mai 'liberato' ma resta portatore di una speranza che non si può esprimere nei gesti: «Se devi rimandare al domani quel che senti di essere già oggi, dovrai per intanto essere 'simmetrico' a coloro che avversi» (ibid., pag. 20).
Poi c'è la delega, dal lato di chi la concede e dal lato di chi si assume il ruolo di essere protagonista di una trasformazione epocale prendendo sulle proprie spalle il peso e la scelta degli strumenti. Per finire, saltando ora all'epilogo della narrazione, la resa incondizionata, di anime e corpi: la delazione e l'abiura che divengono rapidamente norme di diritto, inglobate fino a farsi prassi dal sistema penale e penitenziario. La ricostruzione dei fatti non lascia tante vie d'uscita, è un coltello che seziona senza cortesie il corpo di chi lo maneggia.
In questa ricostruzione però non si legge solo il lavoro dello storico e tantomeno il protagonismo del testimone, ma si riconosce lo sforzo di chi, appunto, la sconfitta la vuole leggere fino in fondo e con questa ci si vuole confrontare direttamente.
Appoggiare il ragionamento ad una certezza esterna, che sia un dio, una ideologia o una scienza, è un atto di fede; non volersi riconoscere in un processo che cambia e che ci rende inevitabilmente ogni volta diversi, preferendo piuttosto assumere mutate sembianze, salvaguarda la certezza di essere (ed essere stati) costantemente nel giusto. Il primo elemento agisce nel rapporto con l'altro (sociale o materiale) mentre il secondo agisce su di sé. In entrambi i casi l'obiettivo è quello di mettere la propria identità al sicuro, anche a costo di giocarsi la vita.
Un esercizio coerente di libero arbitrio richiede quindi anche una buona dose di coraggio. Ed è là, in questa considerazione quasi banale e facilmente condivisibile, che si rintana buona parte delle magagne che ci attanagliano di questi tempi.
Perché è da là che viene la preferenza per un colpevole esterno (il "capro" in senso biblico) rispetto alla messa in discussione dei rapporti che ci toccano e di cui dovremmo saper essere responsabili; o è da là che discende l'affidare alla necessaria tutela della vittima la giustificazione dell'asprezza della pena (fermo restando che alla vittima non sarà comunque mai concesso di esprimersi sulla colpa, prerogativa, questa, dei forti, cosa che la vittima per definizione non è); o è là che viene deciso che vi è un'umanità che sta 'dentro' e un'umanità che sta 'fuori' e che l'unico modo per passare da uno stato all'altro è quello di cancellare e sostituire la propria identità. In ogni caso si affida ad 'altro da noi' il compito di rappresentare la battaglia in cui siamo volenti o nolenti coinvolti.
Per esemplificare:
- l'appartenenza alla sua comunità, per un rom, è oggi propagata come una colpa originaria cui non è possibile replicare. La sua colpa radicale lo rende colpevole (nella società della colpa) e criminale (nella società del crimine) a priori. Si è detto che la guerra al rom, come quella all'immigrato, è una macchina che produce consenso. Lo fa, e ciò che è più grave, nella piena consapevolezza che il trattamento imposto è inumano, ma con la convinzione che non sia altro che quello che rom o immigrati si meritano. Una comunità aprioristicamente al di 'fuori' del consesso civile. Di questo magari qualcuno si indigna quando la cosa riguarda lo "zingaro", o il magrebino, spesso la stessa indignazione viene meno quando riguarda il mafioso, lo stupratore, il "terrorista". Il mercato della tranquillità offre una gradualità di occasioni per mettere al sicuro la propria coscienza.
- in nome delle 3000 vittime dell'attentato alle Torri gemelle si giustifica Guantánamo, un buco nero del sistema penale americano. Ivi sono rinchiusi da anni prigionieri catturati anche minorenni senza alcun diritto di replica. La sofferenza della vittima giustifica (se non richiede) l'asprezza della pena;
- ed infine, per chi può trasmutarsi (perché non sempre è possibile cambiare colore alla propria colpa) è previsto un patto di legalità, un formulario per l'abiura e una clausola secondo la quale chi sbaglia è fuori, ossia resta 'dentro': non sarai mai più quello di prima.
Così l'aria si riempie di amore per la punizione e si inebria nella ricerca di giustificazioni e nella distribuzione di attestati di responsabilità. Poter attribuire una colpa sembra garantire di non poterne essere accusato, il crinale che separa i "buoni" dai "cattivi" fa paura. E il mondo si divide tra chi chiede la galera per Berlusconi e chi per i clandestini, chi per Priebke e chi per i frequentatori dei centri sociali. Al centro, a dirigere il traffico, autorità indiscussa e principio salvifico, resta come un totem l'emblema delle ragioni più alte: il "diritto penale", cui si affidano dubbi e tormenti e che resta (un esempio di fede laica) a sorvegliare sulla nostra tranquillità.
Il testo di Vincenzo sa raccogliere tutte queste cose, ed in questo senso è un testo coraggioso, destinato a farsi pochi amici ma, si spera, buoni. Non lo aiuterà ma un poco deve aiutare noi a capire.
Si è detto prima che "grosso modo" il ragionamento vale tanto per soggetti singoli quanto per gruppi. La valenza del gesto, però, rende incommensurabilmente diversi gli esiti nei due casi.
Il libro propone, a titolo di esempio, le forme di non collaborazione come principio di reazione non violenta, che non iterano il modello della sopraffazione pur non eludendo il conflitto. («Il nonviolento è tale solo quando rischia più del violento», ibid. pag. 35) Ma se la non collaborazione individuale manifesta il coraggio di voler capire, può testimoniare, "sa", è solo il movimento dell'insieme che può superare l'ostacolo:
"Nei primi anni Ottanta, ancora una suora - pare destino che a capirci siano alcune di queste donne recluse volontarie - disse a mia moglie (con la quale condivido il carcere): che peccato, questi dissociati... Basterebbe che steste tutti fermi ad aspettare, e prima o poi sarebbero costretti a farvi uscire tutti assieme". (ibid., pag. 65)
Una lezione che non è mai appresa abbastanza.
Infine una parola va detta che l'autore del libro non dice. Una parola che sta nelle pagine scritte anche se da queste non traspare con evidenza.
La vita di Vincenzo, e quella di chi gli sta vicino, è segnata dalla scelta di una coerenza critica che lo ha spinto a non dare spettacolo dei suoi sentimenti, a non raccontarsi pur parlando di sé, a non voler apparire. Ma il cammino della redenzione ha una partitura precisa, cui bisogna attenersi per arrivare alla porta di uscita, in fondo, ed essere solleciti e accondiscendenti aiuta a dimostrare che si è diventati altro mentre il solo fatto di rifiutare il teatro della spettacolarizzazione e dell'enfatica autocritica può mettere in cattiva luce chi deve essere giudicato più per quello che è che per quello che ha fatto.
Chi pensa che la pena sia funzionale al reinserimento sociale del reo (per quanto assurda possa sembrare l'idea che una pena aiuti a far qualcos'altro che a provare dolore) sbaglia di grosso. "Quell'uomo" o "quella donna" che chiamiamo reo non sarà mai ri-accolto in un contesto sociale 'normale'. Potrà esserlo solo se diventerà un'altro uomo o un'altra donna. Ma il ragionamento che fa Vincenzo non lo aiuta, evidentemente, a diventare abbastanza "altro", il suo essere critico non produce le sufficienti scissioni interiori, non lo guida al mercato della tranquillità anzi lo lascia tra quelli che vogliono pensare da sé, nella fattispecie in una situazione abbastanza tormentata.
Nel libro si racconta di come Vincenzo richieda tardivamente l'accesso ai benefici della legge Gozzini («mi limito semplicemente a non voler essere un privilegiato, a cercare di usufruire dei benefici previsti dalla legge fra gli ultimi invece che tra i primi», ibid., pag. 87). Vale aggiungere qui che la sua richiesta si dimostrerà tanto tardiva quanto inutile. Dal 2002 (data della prima uscita del libro) per Vincenzo e Nadia (sua moglie) dovranno passare ben altri nove anni prima che il tribunale, dopo averla rigettata due volte, conceda loro, nel 2011, i benefici della libertà condizionale. Nove anni con cui Vincenzo arriva a contare 33 anni di detenzione e Nadia 31, in un paese in cui si sente dire che l'ergastolo non esiste.
Anche questa piccola vicenda personale insegna qualcosa, ma in questo caso si può dire che la sconfitta non è solo loro, è anche nostra.
In Italia vi sono più di 1200 detenuti condannati all'ergastolo, molti di loro rischiano realmente di passare tutti i restanti giorni della loro vita dietro le sbarre, vittime anche del nostro silenzio.
Milano, 12 ottobre 2011
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Intervista di Massimo Cappitti Vincenzo Guagliardo
(Giugno 2010).
Massimo Cappitti - Mi sembra che il tuo libro ponga questioni sempre più rilevanti: tra queste, ad esempio, l'ossessione identitaria, dove il desiderio esasperato di inclusione produce nello stesso tempo l'esclusione, anche feroce, di tutti coloro che sfuggono a rigidi criteri di individuazione. Oggetto di stigmatizzazione sono pertanto singoli e gruppi - lo straniero, il rom, il povero, il "deviante" - ritenuti pericolosi e quindi nemici contro i quali scatenare l'opinione pubblica. Dalla creazione di dispositivi di questo tipo non sono esenti neppure ambiti a noi più vicini, "nostri", a proposito dei quali spero tu abbia voglia di dire che cosa si intende con "nostro". Questa visione identitaria della politica, dei rapporti tra gli individui e dei rapporti sociali sta diventando predominante. Ancora, si sta imponendo un giustizialismo diffuso per cui tutti manderebbero in galera tutti: concezione questa che è causa e insieme esito della pervasività del sistema penale o ancora peggio del sistema poliziesco. Trascorsi dieci anni dalla prima edizione del libro, la tua visione, non solo degli anni Settanta e dell'esperienza brigatista - come dice il sottotitolo del tuo libro - ma di tutta l'esperienza umana raccolta intorno alla categoria del capro espiatorio, mi sembra che venga tragicamente confermata. Da qui, secondo me, la necessità di ripubblicarlo come una sorta di sguardo che ha precorso i tempi.
Vincenzo Guagliardo - Siamo arrivati a una forma di stato che ha sancito, anche formalmente, il razzismo istituzionale. E questa nuova realtà non è stata costruita dal centrodestra e dal neoliberismo ma dalla legge Turco-Napolitano che nasce nel 1998 col centrosinistra e stabilisce la costruzione di quelli che allora erano chiamati Centri di Permanenza... Temporanea, un ossimoro ipocritamente eufemistico. L'unico cambiamento introdotto poi dal centrodestra è stato quello di definire con più precisione e meno ipocrisia che cosa erano i C.P.T. e cioè: Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE). L'esperienza di centrosinistra ha sancito, a livello istituzionale, il razzismo e ciò ha significato aver messo al centro un "fuoco" da cui poi si sviluppano facilmente tutti gli identitarismi secondari, diffusi e pervasivi. Oltretutto, proprio perché questo salto nasce dallo sviluppo della sinistra, bisogna osservare che la catastrofe riguarda tutta intera la sinistra all'interno di questa logica. Si tratta di studiare le ragioni della facilità con cui si è diffuso il meccanismo identitario. Sto notando che da una parte il proletariato povero è atomizzato, diviso, sottoposto a politiche repressive micidiali, "lagerocentriche", ma d'altra parte in tutto quello che è un nuovo tipo di soggetto sociale, precario ma intellettualizzato, formatosi in questi ultimi decenni, che spesso fa parte ancora della sinistra e magari si dice antagonista, c'è una debolezza molto preoccupante. Abbiamo a che fare, infatti, con delle persone laureate da una scuola di massa e che però non sai dove mettere. Il sistema, che oggi è istituzionalmente razzista, non sa cosa farne di questo surplus intellettuale "proletarizzato" e gli dà il ruolo di controllore, non in veste di poliziotto ma attraverso mille attività che un tempo facevano parte o dell'autonoma convivialità sociale oppure dell'iniziativa politica in parte assorbita dall'esistenza del vecchio stato sociale. è questa nuova specie di stato sociale di serie C che ha la funzione di espropriare relazioni e funzioni sociali, sino a ieri relativamente autonome, e di rafforzare, anche se in modo precario e apparentemente marginale, una nuova immensa burocrazia che ormai pervade e contraddistingue la vita quotidiana. In questa espropriazione delle relazioni sociali c'è sia la logica del mercato sia la filosofia del sistema penale che penetra in tutte le ex relazioni conviviali diventate dipendenze. Questo è l'ambito di cui vive ciò che rimane della sinistra, sia quella istituzionale sia quella "antagonista" di alcuni centri sociali. Si pone allora radicalmente il problema della critica del proprio ruolo sociale, questione che l'operaio anni fa si poneva. La sinistra rivoluzionaria voleva che ci fosse un mondo senza operai, che si diventasse esseri umani e basta: problema che, in forma diversa, continua, però, a riproporsi. Solo da questa critica si può ripartire per un'ipotesi di cambiamento, altrimenti si è "interni", e non si ha altra alternativa che la ricerca di una differenziazione "da": da quello che non la pensa come me, da quello che ha un'altra ipotesi politica, da quello che fa un centro sociale o cooperativa diversi da me e così via. A partire dalla coscienza critica di questi nuovi ruoli esproprianti di relazioni sociali e di controllo e eliminazione di spazi conviviali, si deve ritornare a decidere di far parte effettivamente del proletariato reale: in un certo senso la comunità non identitaria la devi costruire artificialmente attraverso un senso alto della politica che ritorni per alcuni aspetti all'esperienza del primo movimento operaio. Su questo si deve aprire la discussione. Non sarà solo un meccanismo alternativo alla logica di mercato, ma dovrà essere qualcosa che dovrà individuare nella critica al concetto di pena e di sistema penale il suo fulcro, altrimenti non dobbiamo stupirci di questa invadenza della filosofia penale anche in campi che tradizionalmente spettavano alle amministrazioni locali, ad esempio e, soprattutto, all'iniziativa spontanea della convivialità umana.
M.C. - Mi sembra che, accennando alle forme di convivialità sociale espropriata e svuotata, tu capovolga un ragionamento condiviso anche da ambiti della cosiddetta sinistra alternativa. Si individua, cioè, nella "messa al lavoro" dei sentimenti, delle relazioni e delle facoltà umane in genere il tratto rilevante, se non costitutivo, dell'attuale sistema capitalistico, nel contempo, però, sembra che questo tratto costituisca anche la possibilità del suo rovesciamento. Qualcuno si spinge a dire che siamo nel comunismo senza saperlo. Invece mi sembra che il tuo ragionamento vada nella direzione opposta.
V.G. - Qui ormai si tratta di ricostruire da zero e "artificialmente" quello che è stato distrutto nel profondo.
M.C. - Quindi per te il capitalismo è incompatibile con qualunque esperienza umana significativa?
V.G. - è proprio qui il punto di partenza del ragionamento. Mentre capisco razionalmente, pur non condividendoli, una serie di compromessi nella storia della vecchia sinistra, perché il capitalismo sfruttava, oggi invece abbiamo un capitalismo secondo il quale ci sono milioni di persone in sovrappiù, come conseguenza di una relazione distruttiva con le forze produttive. Il potere ha dunque bisogno di far fuori milioni di persone non solo dal lavoro ma, letteralmente, con guerre ed epidemie, dalla faccia della terra. Non si tratta più solo di conquistare nuovi mercati o di rendere capitaliste aree non ancora tali; essendo tutti coevi e perciò nello stesso "sistema" globale, si tratta di ridurci tutti entro quella dimensione, mercificando ogni aspetto, anche il più intimo, della vita personale. E per questo siamo troppi. Ma qui mi fermo perché il tema eccede lo spazio di un'intervista. Capisco che Marx non potesse proporre delle soluzioni come quelle che oggi siamo costretti ad elaborare, nonostante nel primo movimento operaio fosse vivo questo tipo di proposta, appunto perché all'epoca sua vigeva quel rapporto di sfruttamento delle "forze produttive" anziché di distruzione. Perciò bisogna rovesciare l'impostazione che fu della sinistra, anche di gran parte di quella rivoluzionaria. E rivedere il rapporto con la violenza, cioè bisogna anzitutto smettere di collaborare con un modo di vivere che è distruttivo dell'altro e si fonda sul rito del capro espiatorio, sull'esasperazione della logica penale, sulla mercificazione di ogni aspetto della vita umana.
M.C. - Attraverso il senso alto della politica.
V.G. - Sì, ed è questo che ci porta a dover rivedere anche il rapporto con la violenza. Insisto sulla non collaborazione anziché sulla violenza perché, paradossalmente, oggi, con questo sistema così pervasivo, è difficile che un'iniziativa violenta (mi riferisco esclusivamente della violenza politica contro l'oppressione) abbia una qualunque valenza significativa. Anzi può diventare la maschera di una collaborazione con questo sistema di vita che è piuttosto necrofilo e distruttivo. è questione di antichi nodi che vengono al pettine.
M.C. - Parlavi di un senso alto della politica.
V.G. - Lo dicevo senza approfondire, siccome politica vuol dire, in teoria, discutere dei rapporti tra gli esseri umani.
M.C. - Ciò presupporrebbe un soggetto all'altezza.
V.G. - Sì, che abbia, appunto, una coscienza critica del proprio ruolo sociale.
M.C. - C'è qualcuno, secondo te, che ha questa coscienza critica? Vedi all'opera un soggetto di quel genere? Perché, al contrario, la collaborazione aumenta.
V.G. - In realtà la gran parte della sinistra europea, istituzionale o antagonista che sia, è interna al "sistema", perché non discute affatto del suo ruolo sociale. Nell'immenso fenomeno della migrazione, negli ultimi della terra spesso vedo però disperate resistenze in difesa della dignità propria e di quella umana in generale, un senso che non è della carriera ma della ricerca di libertà e di forme solidali. Lo vedo sia nei migranti sia in alcune situazioni del Terzo mondo in generale, persone che riescono a sopravvivere perché difendono delle relazioni conviviali che il linguaggio economico ignora a priori e quindi non può neppure cogliere come realtà. Si pensi poi che, nonostante il cosiddetto trionfo del femminismo in Europa, la condizione delle donne nel mondo è peggiorata. Il 70% della fatica umana è sulle loro spalle, non qui dove le rivendicazioni femminili riempiono i tribunali e magari estendono il diritto penale, ma altrove, là dove c'è un sacco di miseria, su quella fatica, si regge ancora il mondo. Mi preoccupano, nello stesso tempo, a proposito dei soggetti, alcuni fatti apparentemente secondari dove, chi è preso dalla ricerca del capro espiatorio, se la va a prendere con il nostalgico giovane neofascista di Casa Pound, anziché mettere al centro il razzismo istituzionale della legge Turco-Napolitano, poi approfondita dagli altri; ci si occupa cioè dell'ultimo cerchio invece che del primo e del suo centro. Andare a inventarsi il nemico di comodo e poi volerselo anche violento: contro questo falso o ultrasecondario avversario, se proprio si vuole essere un "antifascista" dei nostri tempi si dovrebbe ospitare un extracomunitario a casa propria, ad esempio. Attraverso questi discorsi identitari e la violenza che li permea (se sono A è perché attacco B), si giunge a derive giustizialiste che esaltano la funzione penale, il ruolo del giudice come sostituto della politica, la depoliticizzazione totale della Storia, la decontestualizzazione dei conflitti...
M.C. - Tu scrivi, rovesciando il modo abituale di interpretare la storia, che questa procede di sconfitta in sconfitta, contro la tradizione che la interpreta, invece, come progresso. Nello stesso tempo però sottolinei che la sconfitta non è un fatto negativo, bensì «una caratteristica necessaria del mutamento reale per chi non sia soddisfatto dell'esistente». Fai un doppio rovesciamento. In primo luogo metti in questione la tradizione, che è stata anche di una parte rilevante del movimento operaio, secondo la quale la storia necessariamente e inevitabilmente sarebbe culminata nella liberazione dell'umanità; in secondo luogo, critichi la posizione di chi vede nella sconfitta un ostacolo che inibisce ogni possibilità di azione, chiudendo la storia entro un'opzione immodificabile. La sconfitta allora diventa anche un blocco emotivo, l'impossibilità di produrre nuova storia. Tu, al contrario, cogli nella sconfitta un'opportunità, un momento fondamentale nella costruzione di sé e di una società diverse.
V.G. - In parte nel libro è spiegato - come anche in "Resistenza e suicidio" (Colibrì, 2005) - che quella era una visione un po' "militare" proprio perché rispondeva a quel compromesso con la filosofia dominante che ai tempi di Marx poteva avere le sue ragioni, e di cui abbiamo parlato prima. La sinistra rivoluzionaria già aveva fornito un'eccezione a questa interpretazione, a quest'approccio filosofico, con la Luxemburg che sottolineava il carattere "vampiresco" e distruttivo del capitalismo. Ma, al di là delle grandi intuizioni della Luxemburg, lo schema prevalente è stato incentrato sulla liberazione dallo sfruttamento: il "compromesso" si è tradotto in questa visione "militaresca" che vede o delle vittorie o delle sconfitte. Ma se invece si parte da una visione che è quella dell'incompiutezza umana e che entro tale orizzonte vede la necessità di quella che un tempo si chiamava rivoluzione, ovvero la necessità del mutamento a partire dalla coscienza dell'incompiutezza umana, ecco che si va sempre lungo un cammino, che ogni volta aiuterà di più a registrare qualcosa che si deve riconoscere per capire come proseguire, che salto fare e verso dove. Il termine non è assunto solo rispetto all'analisi empirica delle esperienze politiche ma vuole avere un approccio metodologico diverso rispetto ai problemi di fondo della condizione umana.
M.C. - Scrivi ancora «non è sotto il segno del pentimento ma sotto quello dei rimpianti necessari [...] per continuare a voler cambiare se stessi perché cambi il mondo». Una riflessione sulle cause della sconfitta è importante, allora, non perché ci si debba pentire di ciò che si è fatto, ma per ritrovare il nesso tra il cambiamento di sé e il cambiamento del mondo. Puoi spiegare in cosa consiste questo nesso?
V.G. - Cambiare se stessi è una questione che ha sempre un risvolto esteriore, sul piano pratico. Non può essere visto solo come un cambiare "dentro": di questo non m'importa perché so che le "idee" possono essere solo una maschera di ciò che si è, una pura autorappresentazione. Quando parlo di cambiare se stessi, intendo un cambiamento nella vita reale, ad esempio nel rapporto con gli altri uno è cambiato perché non fa il "giudice", perché cerca di costruire relazioni di vita alternative a quelle dominanti. Abbandono il terreno filosofico per passare a quello della critica del proprio ruolo sociale che apparteneva alle origini, all'atto fondativo del movimento operaio, quando si voleva un mondo in cui non ci fossero più i lavoratori ma degli esseri umani e basta. In tutto questo c'è una critica alla visione riduttiva, economicista dell'idea del cambiamento, critica che, in fondo, era patrimonio almeno riaffermato nelle intenzioni già negli anni Sessanta/Settanta. Quando dico che il cambiamento deve essere in questi paesi di tipo antropologico-culturale, non dico niente di nuovo, ma riprendo e approfondisco temi antichi, presenti col primo movimento operaio, risollevati dal '68 e parzialmente intuiti dalla cosiddetta sinistra rivoluzionaria massacrata dagli esiti dell'esperienza sovietica.
M.C. - Scrivi che laddove i conti con la sconfitta non si fanno rimangono due vie: la possibilità della patetica nostalgia o dell'indecoroso ritorno all'ovile. Dove vedi la patetica nostalgia e dove l'indecoroso ritorno all'ovile?
V.G. - La patetica nostalgia è tipica di ogni reducismo, di ogni arroccamento mentale. è una storia antica, è il vecchio che dice "tu non sai quello che ho passato io" e racconta sempre fino a cent'anni quei tre mesi di guerra in cui ha vissuto in una storia sempre più eroicizzata. Forse è l'atteggiamento umano storicamente più diffuso. L'altro è quello che parte da Giuda, in modi più o meno mascherati. è facile da individuare ma è molto cambiato. Su questo ho scritto Resistenza e suicidio che va a vedere in che modo si può aggirare la verità dei fatti per rovesciarla, presentarla in modo molto più sofisticato.
M.C. - A proposito del rapporto tra il P.C.I. e le B.R. scrivi che «rispetto al P.C.I. noi eravamo convinti di essere degli eretici». Credo che tutto il movimento rispetto a quella tradizione si percepisse come eretico. Che cosa ha rappresentato il P.C.I. per la vostra generazione?
V.G. - Discorso complicato. Ci sono due livelli. C'è quello dell'avversità politica immediata: il P.C.I. è l'antiestremista, si sa che il P.C.I. ti darà del provocatore, che non vuole nulla alla sua sinistra. D'altra parte però c'è una storia che può essere vista così: per chi sta dentro a una visione che non mette in discussione nulla di tutto ciò che in questo momento epocale deve essere messo in discussione, il P.C.I. è quello che "tradisce". Qui, anche se magari non lo si dice in modo così banale, nello stesso tempo, però, il critico del P.C.I. diventa colui che è ortodosso. Se non si mette in discussione la stessa idea di rivoluzione, che si sviluppa dal 1789 fino alla storia che ne segue con l'epilogo attuale, in realtà si rimane schiavi di alcuni paradigmi di fondo che ti votano alla sconfitta. Allora diventa importante riconoscere la "sconfitta", ovvero la fine di quel tipo di ipotesi rivoluzionaria, perché altrimenti non se ne esce più.
M.C. - D'altronde non c'è stato gruppo che non abbia cercato di scimmiottare il P.C.I.
V.G. - Infatti c'è stato un meccanismo molto noto: subito la nuova sinistra si trasforma in gruppuscoli che diventano la caricatura della vecchia sinistra, di cui la lotta armata lì per lì vuole essere l'alternativa, non cambiando, però, la sostanza teorico-filosofica del proprio discorso: ce l'ha con i parolai, non ce l'ha con i contenuti.
M.C. - Su questo sei molto chiaro: «Chi accusa l'altro di aver tradito non è più qualcosa di nuovo rispetto a lui, un vero eretico, ma l'ortodosso: è il difensore di un antico patrimonio la cui validità non è messa in discussione». C'è un'altra questione che emerge leggendo il tuo libro: tu metti in rilievo con grande lucidità come lo scivolamento delle categorie etiche in quelle politiche o viceversa non fa che produrre confusione. "Pentimento", "tradimento", "colpa", "pena", ad esempio, sono categorie sospese tra l'ambito religioso e quello giuridico-politico.
V.G. - Nascono già con l'ortodossia cristiana, dai "dissociati" dell'epoca. Ciò che noi conosciamo come cristianesimo storico è il risultato dei falsi innovatori, dei dissociati dell'epoca. E da allora è un meccanismo fondante e ignorato che si ripete sempre. Tutta questa storia di tradimento o dissociazione c'è sempre stata ma viene sempre oscurata, tant'è vero che molti credono che ciò che riguarda la lotta armata sia una degenerazione di questi tempi, ma non è vero. Se ti leggi certi libri sulla rivoluzione bolscevica o quelli sulla storia delle eresie dei primi secoli fino al Cinquecento e su come è nata la civiltà cristiana, puoi riconoscere ogni volta lo stesso meccanismo lealizzatore di massa, molto diffuso e ogni volta però esorcizzato e rimosso, perché poi chi racconta la storia lo nasconde e lo presenta diversamente.
M.C. - Nel libro si legge, a proposito dell'esperienza brigatista, «io non credo all'obiettività della storiografia come scienza ma all'utilità della testimonianza di storie soggettive», con un'avvertenza che non si tratta però tanto della testimonianza oggettiva autobiografica. Che tipo, allora, di testimonianza?
V.G. - Non c'è una scienza se ogni volta non c'è un dibattito, un confronto, come metodologia. A me non interessa chi racconta le proprie memorie, quella è un'altra metodologia, di chi ritiene importante la propria storia di individuo. Ma questo non ha niente a che fare né con i criteri della storia ufficiale, né con i criteri di altre metodologie storiche fondate sul recupero delle storie orali, o cose simili. Questo genere di testimonianza riguarda l'illusione del protagonismo personale: si tratta più di letteratura che di storia, utile magari, ma in un ambito ben delimitato. Un'epica pseudostorica: è presentato sotto forma di romanzo ciò che dovrebbe avere il rigore di una ricerca storiografica: e questo va anche bene, viceversa è un disastro.
M.C. - Prima parlavi di insofferenza rispetto ai "parolai". è possibile che questa insofferenza abbia costituito uno degli impulsi che ha spinto a scegliere la lotta armata, insieme, ad esempio, alla valutazione che in Italia vi fossero le condizioni politico-sociali per esercitare quella scelta.
V.G. - Può esserci un limite teorico nell'accusare uno perché offre solo parole, però è un passo necessario perché quello che fai deve essere autentico e sincero, altrimenti di che cosa discutiamo? In quegli anni "sentivi" che non potevi stare alla finestra e questa, in sé, era una sensazione necessaria e giusta. Questo spirito lo voglio salvare. Se si vuol mettere in discussione la propria vita non per se stesso soltanto ma per gli altri, questo è da difendere sempre e da valorizzare. Puoi criticare il modo in cui lo si fa: violenza, non violenza, obiettivamente collaboratore e ingenuo rispetto al pensiero dominante e alle sue regole oppure no. Quest'errore ci sarà sempre, è inevitabile nella vicenda umana. Però, questo tipo di spinta, credo che tutti noi la riconosciamo come eternamente valida, la spinta, cioè, a non essere indifferente alla sorte altrui. Almeno quello...
M.C. - Quando la dimensione militare prevale su quella politica? Tu fai un'analisi molto lucida su questo rapporto. La dimensione politica-militare svelava una pratica politica - e non solo politica - consolidata: c'era un capo, circondato da una corte di fedeli, parlava in assemblea e poi se ne andava "senza sporcarsi le mani". Nell'altra dimensione, invece, - quella "politico-militare" - tendenzialmente spariva la divisione sociale del lavoro. Tu scrivi: «l'intellettuale si proletarizzava di fatto...
V.G. - All'inizio della lotta armata...
M.C. - ... non si era più potuto tornare indietro, facendo rientrare dalla finestra quello che cacciavamo dalla porta». Non si può intervenire in assemblea, pronunciando parole di un certo tipo, godendo della protezione del proprio status sociale e professionale. Quando ha luogo il pervertimento? Quando il militare prevale ed era inevitabile che prevalesse?
V.G. - Storicamente, almeno nelle B.R., ciò non avviene per scelta ma attraverso i colpi che dà il potere, col numero degli arrestati e quindi con l'intellettualizzazione di fatto della condizione del carcerato in cui non c'è più un rapporto personale diretto con la lotta armata ma si crea un meccanismo politico in cui tu vuoi rivedere le teorie sviluppate all'esterno del carcere perché devi dare a qualcun altro la colpa delle difficoltà... A partire dalla seconda metà degli anni Settanta questi meccanismi cominciano a svilupparsi perché di fronte alle sconfitte tu cominci ad avere la reiterazione del rito del capro espiatorio che ti porta a individuare i soliti meccanismi pervertitori della crisi. Lì nasce una spiegazione politica che pian piano per autodifesa non si rende conto di mettere in discussione elementi del proprio atto di nascita. L'aspetto militare favorisce questo meccanismo, quando cominci a subire dei colpi è perché il terreno della discussione te lo fissa l'avversario che è più forte su quel terreno, più forte a priori.
M.C. - Scrivi: noi eravamo antisettari, antidottrinari: avevamo provenienze diverse.
V.G. - Poi, però, dal carcere proviene sempre di più un atteggiamento settario, come dicevo.
M.C. - C'è un'altra questione di fondo: il cosiddetto "doppio tempo", cioè quella contraddizione che tu registri.
V.G. - Rimandi ogni discussione, per stare sul banale, di tipo antropologico-culturale - tu sei una novità su questo piano, ogni "rivoluzione" ha qualcosa di nuovo - ci pensi, ma ne discuti poco, discuti invece o dell'economico o del politico. Invece tutto ciò su cui dovresti avere il tempo di riflettere a lungo lo rimandi a un secondo tempo perché dici: come faccio in queste condizioni? Sarà l'uomo di domani che lo farà. Io sono l'uomo vecchio che agisce per l'uomo di domani. Questo fa parte della vecchia visione comunista, socialista e giacobina.
M.C. - E' un paradosso che tu hai sentito immediatamente o di cui hai preso consapevolezza nel tempo? Lo avvertivi come un limite già nel corso dell'esperienza che stavi vivendo oppure lo hai capito retrospettivamente?
V.G. - No, lo vedevo anche allora, lo vedevo che questa riflessione era scarsa perché venivo da un'esperienza che poteva permettersi il lusso di riflettere di più di queste cose negli anni pre-lotta armata. Avevo consapevolezza, però, di interrogarmi e basta. Su come tradurla in pratica, ancora adesso ce lo chiediamo. Sappiamo che c'è questa esigenza, ma ci chiediamo che cosa poter fare di alternativo. L'importante comunque è averne anzitutto coscienza, almeno per aver consapevolezza del limite di quello che stai facendo. Ma se tu poi ti dimentichi di questo limite e lo esalti, lo assolutizzi, ti sei alienato la tua stessa coscienza.
M.C. - E' una condizione tragica.
V.G. - Io in "Di sconfitta in sconfitta" schematizzo e semplifico al massimo le cose, spiegando qual è oggettivamente il risultato finale di tutto uno sforzo politico e mentale. Tutto questo cammino non è così lineare come appare in quella affermazione: è sempre pieno di dubbi, di tormenti personali. Però i tormenti e i dubbi personali che sempre ci sono rimangono solo nella coscienza individuale e non trovano le condizioni, dentro quel meccanismo, di riuscire a far parte di una politica. Quello che scrivo perciò è una banalizzazione, è utile ricorrerci per riuscire a spiegarci per iscritto, però non dà conto della complessità che c'è dietro.
M.C. - Hai già fatto cenno più volte alla questione della violenza. Poco prima di morire G. Anders in occasione del disastro di Chernobyl sostiene che, quando la vita, non solo della generazione presente ma anche di quelle future, rischia di scomparire perché preda della minaccia del nucleare, è legittima la resistenza, anche violenta, come perfino lo stesso diritto canonico autorizza. Lo dice con parole inequivocabili. Anders approda a questa posizione abbandonando il suo pacifismo radicale. Come si può reimpostare, allora, un discorso di critica alla violenza? Tu scrivi che la non collaborazione, la non-violenza per essere credibile devono essere più radicali della pratica violenta. Il nonviolento non deve esitare, deve rischiare.
V.G. - Questo vuol dire che la nonviolenza deve diventare più efficace della violenza. In termini politici la violenza, la storia degli oppressi, il primo passo della presa di coscienza, è comunque una autodifesa che serve a conservare o a difendere l'esistente o, anche quando non ci riesce, ad affermare una dignità come patrimonio ideale di colui che preferisce morire col fucile in mano piuttosto che, ad esempio, di diarrea. Se invece devo discutere di qualcosa che cambi il mondo, non che serva solo a difendersi o a sopravvivere in situazione estreme, come fa il gatto che quando lo chiudi in una stanza allora attacca perché non gli rimane altro da fare, la risposta essenziale e più efficace è quella che riesce a mobilitare le coscienze sulla base di una non-collaborazione. E' chiaro che se accetto la violenza ma poi collaboro a quel sistema che combatto, là dove non si è arrivati alla condizione estrema della difesa immediata della propria vita e della propria dignità, allora ecco che lì il ricorso alla violenza può diventare l'alibi della non messa in discussione di tutto ciò che pretendi di combattere. Questo è il ragionamento che propongo. Infatti della non violenza parlo più che in termini etici - non so neanche se qui sia ora la parola giusta - ne parlo come di una sorta di strategia militare che sia adeguata alla volontà di cambiamento reale. Oggi a me non interessa chi vuole fare l'antifascista nostalgico che combatte contro il fascista nostalgico, quando invece è la legge Turco-Napolitano che devi criticare. C'è pure da notare che chi parla di violenza in Occidente spesso non la pratica, non va a rischiare la propria vita in prima persona, mentre nella non-collaborazione o parti dalla prima persona o non parti del tutto. Anche su questo meccanismo bisognerebbe riflettere. è rivelatore, no?
M.C. - Sottolinei che ogni violenza scatena la reciprocità, quindi la non collaborazione dovrebbe bloccare questo meccanismo mimetico. Ad esempio tu affermi che la vostra esperienza era gravata dal meccanismo della delega. Eravate circondati da sostenitori che applaudivano le vostre azioni. Segno, semmai, non tanto e non solo di consenso quanto di una dissociazione interiore delle persone che assistono passivamente agli eventi come se si trattasse di uno spettacolo televisivo. In questo modo capovolgi la posizione dei patetici nostalgici che traggono la legittimità delle loro azioni proprio dall'applauso dei sostenitori. Meglio sarebbe stato se non vi avessero applaudito.
V.G. - Meglio sarebbe stato se si fossero preoccupati tanto da aver paura. Ho avuto in fabbrica molti amici che di fronte alla proposta della lotta armata, pur condividendola, ammettevano di aver paura per sé e per la propria famiglia. Questo tipo di atteggiamento l'ho sempre trovato comprensibile e umano. Quando un giovane fa la sua azione "antifascista" per bisogno identitario e però si prende la sua laurea per diventare un giorno, che ne so, "esperto" in un qualunque esproprio di relazione sociale fino ad allora appartenuta alla convivialità umana che invece bisogna sempre difendere e espandere, crea un meccanismo simile a quello in cui prevale nel collettivo politico chi parla meglio. Non si costruisce nulla, ma si distrugge molto senza saperlo. Invece io vorrei oggi che ci fossero scambi di attività, di tempi, tra un idraulico, un elettricista, un informatico, un falegname, un carpentiere, un laureato in medicina ecc., cosicché tutti contino nello stesso modo, al di là delle loro professioni e capacità, perché solo relazioni di questo genere possono costituire un'alternativa a ciò che il capitalismo sta distruggendo per impedire la sopravvivenza. In quel mondo alternativo il carpentiere semianalfabeta conta quanto il laureato: ciò che conta è lo scambio di attività sociali, conviviali, lavorative anziché il dominio politico, inteso come logica del dominio.
M.C. - Nei gruppi degli anni Sessanta-Settanta, però, l'atteggiamento era diverso da quello che hai descritto.
V.G. - Sì certo. Per esempio a Torino, nel 1968-69 in fabbrica c'era una struttura di lotta, che si chiamava "Lotta continua", che aveva prodotto dei volantini fatti dagli stessi operai con degli studenti, che venivano diffusi tra i vari reparti della fabbrica dagli operai o ai cancelli dagli studenti. A un certo punto, un gruppo che ne aveva i mezzi ha denominato "Lotta continua" un giornale e si è appropriato di quella esperienza e diceva di rappresentarla. E tutta quella complessa realtà che si esprimeva attraverso quei foglietti è stata messa da parte.
M.C. - Ma non pensi che questa sia una maledizione della tradizione comunista, la sua eredità giacobina?
V.G. - Questa è l'antica maledizione dell'intellettuale che non sa mettere in discussione il proprio ruolo. Anzi, lo esalta e lo conferma perché da declassato in via di proletarizzazione nella società si ritrova leader nella presunta contro-società, presunta perché vive solo nel politico, ma poi ciascuno a casa sua e ciao. Già gli studenti dicevano di non voler diventare pezzi del sistema, ingranaggi per il rinnovo della classe dirigente. Invece scopri che l'intellettuale, anziché mettere in discussione il proprio ruolo, lo esalta e ricrea dentro il movimento politico la divisione sociale del lavoro che dice di combattere nella società. Ciò discende di nuovo da uno schema di tipo giacobino-illuminista, cosa che il ricorso alla violenza non è riuscito a far superare, aiutando semmai a trasformare le rivoluzioni "vincenti" del Novecento in nuove forme di controrivoluzione sugli oppressi. Guai ai vincitori!
M.C. - E' l'intellettuale che spiega agli altri dove va e come va il mondo.
V.G. - Ritenevo che la lotta armata lo mettesse in discussione e su questo ho dovuto fare una sincera autocritica, perché non c'è stata. Adesso vediamolo rispetto al lavoro. Occorrerebbe recuperare tutta quella parte di vita sociale o di economia, comunque la si voglia chiamare, che viene ignorata a priori da questa vecchia visione matematica calcolante, ora esasperata dalla nuova finanza con gli esiti catastrofici da resa dei conti che conosciamo, e riprendere i fili della vita da lì. Per questo ritorno paradossalmente a certe caratteristiche del primo movimento operaio ma che ancora ritorna nel Novecento. Nel primo Novecento era normale che i bambini degli scioperanti venissero accolti da famiglie di operai non scioperanti, anche a diverse centinaia di chilometri di distanza e per i bambini era pure una bella vacanza altamente educativa.
M.C. - Probabilmente in quel momento storico il movimento operaio pensava a una forma alternativa di civiltà, la pensava e l'aveva. Era un modo alternativo di vivere, almeno fino alla prima guerra mondiale. Su questo punto la Luxemburg è stata molto chiara, individuando in quella guerra una frattura storica e una catastrofe per il proletariato. è stata una delle poche a capirlo e sottolinearlo. Tornando a ciò che dicevi, allora, neanche un'esperienza così radicale come la lotta armata ha messo in discussione la divisione sociale del lavoro: chi era intellettuale è rimasto tale.
V.G. - Magari non è rimasto tale ma, purtroppo, non ha importanza. Quello schema di tipo giacobino può averlo chiunque, lo può avere anche un operaio, è uno schema culturale che può essere adottato - o meglio subìto - da chiunque. Comunque quello è solo un aspetto della questione. Dietro c'è una filosofia e una storia plurisecolare. Bisognerebbe dire, come fa uno scrittore dell'Angola, dove si viveva questo problema durante la rivoluzione: devo mettere in discussione me stesso per mettere in discussione il tribalismo, se no il tribalismo ti rimane sempre. Il codice da cui si ricrea tutto è ancora intatto e nessuna rivoluzione l'ha messo in discussione.
M.C. - Sono quelli che tu chiami i limiti esistenziali, i limiti della condizione umana, ossia la sua incompiutezza.
V.G. - Sì intendo quello. Anche la religione rivelata serve allo scopo di farti sempre vivere con angoscia quella incompiutezza invece che come riconoscimento della condizione umana, che deve diventare invece il tuo punto di forza perché è quello che rende possibile il tuo mutamento.
M.C. - Infatti tu dici che la fede è un'apertura a ciò che è sconosciuto, quindi tutte le istituzionalizzazioni l'uccidono. Tu parli d'inconscio espiatorio: è un inconscio collettivo, individuale o tutti e due insieme?
V.G. - Quando una cosa diventa cultura va a far parte di un automatismo, quindi dell'inconscio. L'inconscio è sempre un immaginario collettivo incorporato. Anche il dio non è una bugia, ma era una rivelazione che ti appariva e che era l'immaginario collettivo che ti dava la sua risposta nel momento della crisi.
M.C. - Tu definisci il pentito non come: «la vittima che paga per tutti, ma il colpevole che fa pagare tutti gli altri».
V.G. - Oggi sì, questo è il pentito di quest'ultima epoca, frutto del cambiamento nel meccanismo del pentito, che è stato fatto legge. Prima c'era soltanto un meccanismo inquisitoriale, ma la società non l'aveva sancito come legge di stato, diffusa attraverso i mass media come rivoluzione del vocabolario. In fondo ora è una definizione molto banale che si riferisce alla cronaca, neanche alla storia, proprio alla cronaca di questi ultimi decenni.
M.C. - Però il pentito è una figura sempre più rilevante, un punto di riferimento. Ci sono i pentiti giudiziari, i pentiti culturali...
V.G. - Questo è il pentito contemporaneo. Un tempo era una figura diversa, che non faceva mercimonio. Ho anch'io i miei pentimenti. Provo persino ancora un senso di vergogna per delle piccole azioni che ho commesso nella mia infanzia per motivi poco nobili. Credo che questo faccia pure bene. Marx diceva che l'unica vera pena è quella che ti porti dentro. Il pentito c'era sempre stato, ma non era diventato ancora istituzionale come è diventato con la legge. Leggi dello stato come certificazioni di "buon cittadino" non ce n'erano mai state. Ti dicevano cosa non fare e cosa ti sarebbe successo se... è chiaro che il delatore ha sempre avuto il suo vantaggio - i trenta denari - però non era stata costruita tutta una legislazione come forma di santificazione del "buon cittadino".
M.C. - è scandaloso che una persona possa barattare la propria libertà con quella altrui, garantito e premiato dalla legge.
V.G. - E i mass media presentano questo come esempio di buon cittadino, questo è un uso abnorme di una cosa che c'è sempre stata.
M.C. - Intendevo proprio questo, cioè che venga premiato dalla legge, confondendo la sfera interiore e quella esteriore dei comportamenti. Il diritto non può intervenire sulle interiorità, qui invece è come se avesse messo le mani dentro l'anima delle persone.
V.G. - E' la politica dell'anima.
M.C. - Però, leggendo dall'altro punto di vista, ci sono stati almeno tremila dissociati politici. è fisiologico che ogni movimento rivoluzionario possa avere dei pentiti, però il numero dei pentiti della lotta armata "recente" non ti sembra enorme?
V.G. - No, i "pentiti", qui ora intesi come abiuranti e non come semplici delatori, sono sempre stati molti, però nascosti, non riconosciuti come tali.
M.C. - Però a me sembra che sia un dato inquietante che la gran parte di chi ha vissuto quell'esperienza si sia pentito o dissociato.
V.G. - Ma è sempre stato inquietante, però rimosso, nascosto o censurato e poi "ripresentato". Bisogna rivedere tutta la storia che conosciamo delle cosiddette rivoluzioni perché questa storia è sempre falsificata e nasconde da sempre questo aspetto incredibile della realtà.
M.C. - Quindi tu non vedi una peculiarità italiana.
V.G. - No, non la vedo, la peculiarità la vedo nell'uso dei "pentiti", nel nuovo vocabolario dato alle vecchie voci "delatore" o "abiurante". Ma perfino quando non c'era l'uso così abnorme di oggi, questo fenomeno è sempre stato rilevantissimo e su questo c'è da fare un lavoro storico che sarà difficilissimo. Si deve pensare infatti che il lager nazista che prometteva solo la morte si è basato in maniera rilevante sulla collaborazione dei prigionieri. In alcuni campi di lavoro sovietici i "comuni" erano usati come kapò contro i "politici", altrove, in Germania magari, dei politici erano organizzati come dei privilegiati rispetto agli altri internati. C'è un'altra storia che è stata attaccata, come è accaduto al libro di Rassinier "La menzogna di Ulisse". Rassinier è stato accusato di essere un falsificatore. Andando in fondo nella storia del Cinquecento, nella storia delle eresie, nella storia dei primi cristiani si vede come il meccanismo del pentitismo e della collaborazione sia sempre esistito, per non parlare della rivoluzione russa, della storia dei P.C., di quell'immenso processo "pentitorio" che fu lo stalinismo...
M.C. - Quindi la mia convinzione è errata.
V.G. - Ritengo di sì. Questa volta al pentitismo è stato dato rilievo non solo mediatico, ma anche a livello di rielaborazione della stessa politica statale, fino a farlo diventare pervasivo e lealizzatore persino nei rapporti di lavoro, cosa che prima non si era mai vista. La novità non sta nella debolezza del soggetto umano nel momento di cambiamento e di lotta; la novità sta nell'uso abnorme e strategico, davvero nuovo e originale per molti aspetti, che, in particolare in Italia e in parte altrove, è stato realizzato su questa realtà umana, che però, ripeto, è sempre esistita e contraddistingue anche la nascita del cristianesimo ortodosso.
M.C. - La peculiarità, quindi, sarebbe l'istituzionalizzazione dell'emergenza. Pensavo, invece, che ci fosse una sorta di deriva italiana tragica.
V.G. - Anch'io l'ho pensato per molto tempo. Poi, andando a informarmi per anni su storie di lotta per il cambiamento, ho cambiato idea. D'altra parte il libro di Grossman "Vita e destino" parla senza pudore di questo per la Russia. Perché Rassinier viene attaccato, (lasciando perdere il fatto che il libro è scritto con troppa risentita amarezza), perché viene censurato, perché lo stesso Primo Levi, pur ammettendo il fenomeno, lo dice, giustamente e comprensibilmente, in modo pudico, e anche così riesce a pubblicare il suo libro solo dopo anni? La zona grigia, la collaborazione eccetera sono fenomeni che ci sono sempre stati ed è molto difficile parlarne.
M.C. - A me colpiva oltre alla percentuale dei pentiti anche la dissociazione che è ben più insidiosa del pentitismo.
V.G. - Di quella soprattutto io parlo.
M.C. - Mentre il pentito è solo nella sua miseria, la dissociazione crea cultura. Diventa una soluzione politica. Come sei entrato nell'esperienza, ne esci e giustifichi davanti a te stesso questa uscita come un'uscita di massa, politica.
V.G. - Questa è la dissociazione italiana che ha prodotto poi la legge ad hoc. Ma successivamente moltissimi altri sono usciti non con la legge della dissociazione, che era scaduta, ma potendo o dovendo applicare individualmente la stessa logica. In pratica, sulla dissociazione di brigatisti dal carcere ne sono usciti pochi, la maggior parte dei brigatisti sono usciti "applicandosi" individualmente questa legge diventata nel frattempo legge penitenziaria. Se ora sono semilibero è perché ho "individualizzato" il mio caso davanti alla legge attuale, ormai uguale per tutti i detenuti, e basata sulla contrattazione del singolo. Perciò diseguale per ognuno rispetto a una controparte che è invece sempre l'Uno.
M.C. - Perché c'è una logica premiale nella dissociazione, che è quella che vi fa contestare la Gozzini.
V.G. - Che gli ex brigatisti hanno utilizzato individualmente, non come fenomeno organizzato. Adesso non c'è più bisogno della dissociazione per dissociarsi perché c'è il meccanismo penitenziario che è riuscito ad appropriarsi di ciò che allora era stato necessario predisporre per legge. Non lo si viene neanche più a sapere. La storia è questa: prima nasce la legge sulla dissociazione, poi la nuova legge penitenziaria che recepisce la realtà costruita da quella legge, la incorpora nell'ordinamento penitenziario e da allora c'è un altro meccanismo in cui tu formalmente non sei né dissociato né niente, sei uno che ha la condotta ritenuta giusta dal magistrato, dal personale penitenziario, dallo psicologo, dal criminologo, dall'assistente sociale, dall'educatore ecc. Quindi tu puoi anche fare, se vuoi, il dissociato senza essere dichiarato tale. In questo senso i dissociati ti dicono, per certi versi giustamente, di essere stati loro ad aprire la strada perché tutti potessero usufruire di questi frutti adesso, anche tu che parli male di me dissociato. Io, però, la legge non la volevo. Tu, dissociato, hai ragione, ma è proprio questo che ti rinfaccio, perché tu vuoi liberare il mio corpo, ma non ti rendi conto dell'inferno che hai costruito nell'anima per tutti. Un sovra-pena non dichiarata per una pena non più certa ma fluida: indefinibile e tesa verso l'infinito.
M.C. - D'altra parte questo nasce da una coscienza di sé, come tu dici, frammentata. Lo fai perché rinneghi una parte di te: io ero un altro. Questo è proprio l'esito di una visione "oggettiva" della storia, cioè la storia ha autorizzato a fare certe scelte, quando la storia ha smesso di farlo, allora i soggetti si adeguano. Non c'è assolutamente consapevolezza di sé.
V.G. - Ciò significa che avere tanti io è come non averne nessuno, eccetto quello degli altri.
M.C. - è la pratica di affrontare individualmente problemi che sono collettivi. Si agisce da soli, nonostante che i problemi siano comuni. Rotto il legame sociale, ciascuno è affidato a se stesso.
V.G. - Ci sono cose che nascono sui tavoli di tortura del Duecento e pian piano si sono sviluppate. Per questo m'interessa la storia degli eretici, perché quella fu la più grande resistenza umana al nuovo tipo umano che la logica del dominio voleva costruire e che alla fine del ventesimo secolo ha ottenuto con un altissimo grado di istituzionalizzazione che la stessa Inquisizione non si sognava. Ma quello era un tribunale ecclesiastico, qui invece abbiamo a che fare con una logica di stato che permea con i suoi regolamenti persino il lavoro d'ufficio.
M.C. - Quindi l'Italia è stata un laboratorio non tanto del berlusconismo quanto della promozione e dello sviluppo di questi dispositivi.
V.G. - Il berlusconismo è tutto successivo ed è interno a questo stato di cose.
M.C. - Nel tuo libro a un certo punto a proposito dell'esperienza lottarmatista tu scrivi che c'era un'idea violenta di una giustizia punitiva, la creazione di uno stato parallelo, la vittima colpita era ridotta a un simbolo. Da qui la riflessione sulla servitù volontaria. Questa tua riflessione sulla giustizia punitiva, sui tribunali del popolo, pensi che mantenga ancora validità? Pensi ancora che costituisca un limite di quell'esperienza?
V.G. - Sì. Mi ricordo come mi "aggiustavo" rispetto a queste cose: il tribunale "del popolo" è un momento di controinformazione, il rapporto col nemico non è quello di un giudice, ma quello di un soldato contro l'avversario. Un momento di guerra e non un vero processo. Aggiustamenti mentali che toglievano poco alla realtà dei fatti.
M.C. - La tua riflessione sulla vittima come simbolo sembra chiamare in causa l intera tradizione rivoluzionaria
V.G. - Certamente. Anche se nel marxismo, come nell' anarchismo, convivono molteplici posizioni, tra loro anche molto differenti. Gli anarchici, ad esempio, nella loro riflessione libertaria...
M.C. - La tua riflessione sulla vittima come simbolo sembra una critica a una certa visione dell' anarchismo oltre che a una certa interpretazione del marxismo.
V.G. - Non è solo anarchica. Gli anarchici hanno nella loro riflessione libertaria elementi molto validi, però l'anarchia è un movimento molto vasto, pieno di posizioni diverse. In realtà nel colpire il simbolo c'è qualcosa in comune fra tanti, anche se lo fanno in modi diversi. Insomma quando i bolscevichi decidono di ammazzare lo zar con tutta la famiglia, oppure vedi la decapitazione di Luigi Sedicesimo...
M.C. - Però quelle erano epoche in cui il re decideva veramente, è con la società burocratica che le cose cambiano.
V.G. - Va bene. Allora facciamo il nome di Gentile, di via Rasella, possiamo fare un sacco di esempi in cui ci sono punti in comune che però poi, siccome ci sono strutture organizzative diverse, vengono tradotti in modo diverso dalla tecnica dell'agguato individuale. Appartengono sia al rivoluzionario borghese, sia a certi momenti di ricorso alla violenza organizzata della tradizione comunista, che, anche se meno, al movimento anarchico.
M.C. - Il contadino del Seicento polacco che taglia la testa al latifondista si accanisce contro quello da cui patisce il dominio individuale. In una società burocratica è un'altra cosa.
V.G. - Certo, ma era anche quello sotto cui mi riparavo io: ero un soldato non un giudice.
M.C. - Qual è stata e qual è la tua valutazione sul movimento del Settantasette? Percepivi un senso di discontinuità oppure lo ritenevi una riproposizione di ciò che era già stato? Un Sessantotto senza la stessa intensità e la stessa estensione geografica?
V.G. - In carcere cercavo di capire. Quando sono uscito ho visto i suoi limiti. Ho visto il soggetto che sulla violenza la faceva facile, in realtà era molto fragile, riassumendo in poche parole.
M.C. - Quindi una generazione più fragile.
V.G. - Mettiamola così. Per me la scelta della lotta armata veniva dopo una lunga maturazione politica, anche del singolo. Qui data la situazione oggettiva diversa, diventava la "condizione per". Da questo derivava un forte limite.
M.C. - Non è proprio lì che si incardina la dissociazione? Cioè in persone che non avevano una storia personale consolidata?
V.G. - Però si è incardinata anche in Franceschini e tanti altri come lui pre-'77. Anch'io pensavo così, come dici tu, perché istintivamente cercavo di dare una spiegazione comoda a un atto che esorcizzavo. Poi, però, se ci rifletti di più, scopri che in tutta la storia questo meccanismo c'è sempre stato. è uno degli strumenti classici di ogni politica di dominio, che però non viene parlata, viene agita. Si nasconde dietro delle pratiche, delle strutture, dei riti. è solo allora che sono arrivato a leggere La Boétie, il suo discorso sulla "servitù volontaria", non prima, e anche Thoreau e anche Gandhi. Perché lì c'è un pensiero che si concentra sulla non collaborazione. Capivo che la fabbrica aiutava un tipo di coesione dove il tuo maestro era il tuo compagno di lavoro anziché uno che inculcava certi schemi e che, rendendoti obbediente, rinnovava la servitù volontaria. Allora pian piano capisco che c'è un meccanismo in cui è diverso l'uso, è diversa la mediatizzazione del fenomeno, è diverso il contesto a partire dal quale viene utilizzata questa esperienza, però è una storia che c'è sempre stata e la scopro a pezzi. Ci sono le vicende dentro i campi di confino, nelle carceri fasciste, nelle carceri in Grecia, nei campi nazisti, nel Cinquecento, nei primi secoli della nostra era. La reazione volta a delimitare il fenomeno del pentitismo è comprensibile, ma non tiene conto del fatto che tutto quello che succede fa parte della storia dell'umanità. E solo se lo si riconosce, si riesce poi a capirlo e, in seguito, a superarlo. Rimanendo pulito, ma arroccato e nostalgico, senza volerlo, costruirò degli "intoccabili schifosi", quando parlerò con altri, anziché aiutarli a liberare la loro coscienza.
M.C. - Nel libro si legge «ogni affermazione di identità che pretenda di differenziarsi riduttivamente rispetto alla generica appartenenza al genere umano tende ad avere conseguenze assassine. Non si può allora non vedere in questa deriva identitaria prodotta dalla moderna disgregazione sociale una dinamica paranoide, aggressiva verso colui sul quale si proiettano i propri fantasmi». Io in questa affermazione riconosco un possibile significato del termine e dell'esperienza del comunismo.
V.G. - Rimane l'aspetto tribale del comunismo, del comunismo come movimento, non dell'idea comunista, ma del comunismo storico.
M.C. - Per te ha ancora senso quella parola e, se ce l'ha, qual è? Siamo partiti dalla Luxemburg la quale diceva: socialismo o barbarie.
V.G. - Anch'io per certi versi sono ancora fermo lì.
M.C. - Quindi ha ancora senso.
V.G. - Quando si devono cambiare tutti i paradigmi, esistono problemi di vocabolario. Bisogna fare attenzione al significato da dare ai termini che si usano, perché possono essere interpretati diversamente dall'interlocutore. Allora bisogna usare poco la parola e rispiegare i fenomeni che stanno sotto alla parola che finora li ha riassunti. Uno come me viene dai discorsi in cui se lotti solo per te stesso sei niente, devi invece lottare anche per gli altri se lo vuoi per te, sei per l'internazionalismo, sei per la fratellanza universale, l'unica identità che riconosci è quella del genere umano e magari scopri un sodale nel cane. Per me, nella mia esperienza, tutto ciò ha sempre avuto a che fare con la parola comunista, anche perché la mia critica ai partiti comunisti non parte da questi anni recenti ma da molto prima. Sto parlando di un movimento carsico che ha millenni di storia, che rappresenta sempre questo tipo di scossa di terremoto in cui si affaccia il desiderio di verità e di amore, di superamento dei confini che ogni dominio impone. La mia concezione di comunismo era quella lì. Quando parlo degli eretici ci vedo dei fratelli di un tempo. Allora, quando parlo di questo movimento, tendo a usare questa parola "comunismo", però ogni volta tendo con l'interlocutore a spiegare che parlo di un movimento di secoli e secoli, cioè di un aspetto costante della storia dell'umanità che va liberato. Devo dire, allora, che i miei ultimi amici sono quelli che nel Duecento venivano combattuti dai cattolici dell'epoca e i loro re. Questo movimento radicale che aspira a realizzare le parole come amore, verità, solidarietà, fratellanza è un movimento che non muore, non può morire perché fa parte della storia umana. Io quel movimento lo chiamo comunismo.
M.C. - Tu spesso hai detto a proposito del carcere che a partire dalla situazione-limite si può giudicare la quotidianità. Il carcere diventa una specie di prisma attraverso cui leggere la società. Dietro ogni carcere, c'è una società.
V.G. - Mi ripeto per riassumere: oggi tutta una serie di ceti che possiamo definire ceto medio in crisi o proletariato intellettualizzato però contraddistinto ancora dalla fluidità e dalla precarietà, cioè i laureati in sovrappiù, tendono - e non se ne rendono conto e pensano che questo sia essere di sinistra - a diventare dei controllori sociali, degli esperti esproprianti di relazioni altrui. Ora, questo ha molto a che fare con il penale, perché è la filosofia penale che si estende, così come il carcere è in vitro il laboratorio pronto all'uso per diventare il lager, né più né meno. Finché non ti rendi conto di questo non capisci quanto sei complice involontario, ovvero "servo volontario" nel senso di La Boétie.
M.C. - In che misura è cambiato il carcere?
V.G. - Cambia come la società però in modo più estremizzato e disperato. Riflette la società, perché è quel laboratorio che dicevo, da dove nascono quelle tecniche che riguardano l'intera società e dunque tutto è portato all'estremo, perché comunque la sua base è sempre infliggere sofferenza legale. Da quel lato, ormai quello che vedi sempre di più è che la legislazione premiale, il suo arbitrio, l'inferno dell'anima aumenta a livelli incredibili e investe uffici, fabbriche, viaggiare in auto, andare al bar. è molto più disperante un carcere che apparentemente lo sembra meno, ma che, invece, lascia ognuno solo, gli sottrae quegli spazi in cui, anche quando stavi peggio, stavi meglio, perché non eri solo, avevi i tuoi compagni che ti sostenevano, che trovavano normale, appena tu arrivavi, saputo che non eri un infame, darti quello che di meglio ciascuno aveva in cella da mangiare.
M.C. - Secondo te una battaglia sul penale che cosa dovrebbe avere al suo centro?
V.G. - Questo l'ho spiegato in vari interventi. Finché non si tocca la punta massima, cioè l'ergastolo, tutto quello che fai più sotto è provvisorio. Perché il carcere è un cancro e si sviluppa per metastasi. Quindi o prendi la testa del problema, cioè l'ergastolo, e da lì avrai quasi automaticamente una tendenza alla diminuzione delle pene, che sull'ergastolo sono tarate, o non risolverai mai nulla. E poi l'altro punto assolutamente fondamentale è quello di creare meccanismi oggettivi nella punizione e mai premiali. Questa non è né una proposta rivoluzionaria né comunista, ma dovrebbe essere trasversale. Così come è stato giusto per prima cosa abolire la pena di morte, adesso diventa fondamentale abolire l'ergastolo, proponendo meccanismi oggettivi e non premiali di punizione, che abbiano come obiettivo quello di abolire le "sovra-pene". A partire da lì può svilupparsi una battaglia abolizionista, perché ormai siamo in un periodo in cui il corto circuito di questa logica penale comincia a mostrarsi, permette di andare oltre l'idea di punizione e di pensare alla riparazione. Tu vedi da una parte il lager per gli innocenti, i migranti, e dall'altro uno che riesce a prendere in giro da quindici anni i magistrati senza fare un giorno di galera e che per di più è il capo del governo: cosa si vuole di più per capire che è un meccanismo che non funziona più, che la pena e il delitto sono due concetti che non c'entrano più niente l'uno con l'altro? Non voglio la galera per Berlusconi, voglio meno galera per tutti.
M.C. - Perché la sinistra è diventata il partito dei magistrati?
V.G. - Perché c'è sempre stata dentro. Prima di tutto c'è una lunga storia del P.C.I. che ha un'idea punitiva della giustizia, secondo la quale bisogna punire i ricchi per quello che hanno, poiché ci si vuole appropriare della ricchezza invece di volere qualcosa di diverso. Per quella via dove vai? Questo è il punto di partenza, poi ci sono sviluppi storici ormai conosciuti. Pensa a Togliatti.
M.C. - Sono moltissimi i magistrati eletti nel P.D., la Finocchiaro per esempio.
V.G. - La Finocchiaro era la meno peggio perché almeno se ne intendeva e all'inizio era favorevole al nostro indulto, poi è stato messo da parte. Pensa poi al giudizio del P.C.I. da sempre sui movimenti alla sua sinistra.
M.C. - Sì però l'idea di un potere giudiziario che possa essere piegato al raggiungimento di un'ipotesi riformista è penetrata profondamente.
V.G. - Non sono più riformisti visto che hanno sancito il razzismo istituzionale. E l'idea del "socialismo", o riformismo, per via giudiziaria è l'illusione che ha permesso il successo di Berlusconi.
M.C. - Però loro si percepiscono come riformisti.
V.G. - Ma allora lo stesso si dovrebbe dire dei ragazzi della sinistra antagonista che collaborano controllando le reti sociali e che vogliono processi contro neofascisti di quarant'anni fa. Personaggi privi di consapevolezza. Bisogna che si abbia coscienza dei propri limiti. Bisogna avere coscienza del proprio ruolo sociale per limitare i danni del tuo lavoro. Poi, se puoi, cerchi un'alternativa; almeno ti metti nelle condizioni "personali" perché possa esserci e vederla. In Francia ci fu una campagna antirazzista che diceva "in casa di ognuno di noi uno straniero", che è una forma di disobbedienza civile, oltre che di solidarietà, che fa sempre bene perché migliora il tuo cervello a partire dal fatto di capire gli altri e i problemi che hanno.
M.C. - E' vero che c'è stato un equivoco perché si sono creati quelli che sembravano i saperi - psicologi, assistenti sociali - che avrebbero dovuto aiutare i più deboli a emanciparsi e hanno finito, invece, per controllarli e disciplinarli di più.
V.G. - Sono i controllori. Quei saperi non servono. Ti faccio un esempio. La cooperativa di cui faccio parte ha preso dei casi psichiatrici a fare gli operai. Funziona! Uno schizofrenico è diventato il capo di questi, ma capo solo nel senso che è capace di spiegare loro il lavoro che lui stesso fa, e lui si sente quasi felice perché ha la possibilità di avere un lavoro e dei soldi che probabilmente gli consentiranno di avere cose che non ha mai avuto, una casa, l'indipendenza: i suoi nuovi sogni. Quello lì non ha avuto bisogno dello psichiatra. Paradossalmente anche un lavoro indubbiamente alienante gli ha dato una pace e una soddisfazione in cui si sente, per la prima volta in vita sua, autonomo e utile.
M.C. - Quello che volevo dire è che c'è stato un rovesciamento per cui molti di quelli che negli anni Settanta volevano fare i sociologi, gli assistenti sociali, gli psicologi poi si sono trasformati in controllori. Ne è nato il business della sofferenza.
V.G. - E' l'espropriazione della relazione sociale. La risorsa più produttiva della condizione umana è proprio la convivialità. E' quella cosa banale per cui se hai fame non hai bisogno del medico ma di qualcuno che ti aiuti senza neanche il bisogno che chi ti aiuta sia un cuoco specialista. Il nuovo ruolo sociale, che ha dato alla gente il ruolo ulteriore del controllore dei più disagiati, è la stessa logica del Kapò ma mistificata attraverso lo sviluppo della divisione sociale del lavoro. Tutti questi ruoli sociali hanno perso la fisionomia che avevano nel Welfare State, già di per sé criticabile, ma questa pervasività "penale" ridefinisce tutti i luoghi di relazione umana, a partire dal lavoro fino al lavoro-ombra non riconosciuto, alla stessa convivialità.
M.C. - Costoro diventano obiettivamente dei custodi, anche al di là delle loro intenzioni.
V.G. - Adesso ci sono interi popoli che sono nelle mani di ONG.
M.C. - Qui c'è un limite culturale della sinistra.
V.G. - La sinistra dentro il suo schema illuminista ha costruito il ceto, da sempre, che è stato sempre denunciato come burocrazia oppressiva nelle migliori analisi di estrema sinistra, che faceva da "cervello per". Il proletariato invece ha già il suo cervello. La libertà non è il "nuovo" da creare ma il passato da liberare. La sinistra ha sempre coinciso con la formazione del ceto dirigente. Dunque bisogna arrivare a una critica dentro la sinistra del ruolo intellettuale.
M.C. - Riflettevo sul fatto che questi processi si siano avviati senza consapevolezza critica.
V.G. - Anche la cosiddetta nuova sinistra ha fatto parte di questo meccanismo, anzi ha cercato di rinnovarlo.
M.C. - Ne è stata all'avanguardia, nonostante ci fossero tutti gli strumenti per capire dove avrebbe potuto portare questo atteggiamento. Ad esempio la chiusura del manicomio in taluni casi ha provocato la "manicomializzazione" del territorio.
V.G. - Mentre i primi discorsi erano fondati sul riconoscimento della malattia mentale ma anche sul dover scegliere se essere psichiatrici o antipsichiatrici. Poi si è arrivati alla psichiatria democratica, che è un altro ossimoro come i Centri di permanenza temporanea. L'ossimoro, nella sua minaccia, è più pervasivo. E' per questo che bisogna andare oltre la sinistra. Per fare una battuta: a chi mi chiede se sono di sinistra, rispondo di non saperlo. Comunista in un certo senso rimango. Però forse sono più vicino agli eretici del Duecento che alla sinistra di oggi. Se uno deve proprio definire se stesso, mi devo etichettare nel modo meno riduttivo possibile.
M.C. - Qual è stata la tua formazione politica? Come arrivi a maturare una visione critica della società?
V.G. - Sono arrivato dalla Tunisia a quattordici anni. Mio padre faceva il fabbro. Arrivato in Italia, è andato in fabbrica. Siccome non sapeva bene l'italiano, mi portava i volantini e i giornali di fabbrica. Li leggevamo insieme e lui mi chiariva i problemi di fabbrica e io quelli d'italiano. Da lì, attraverso mio padre e i suoi amici, in quel nuovo mondo operaio e leggendo tutti questi giornali mi sono formato. Dopo vari lavoretti, sono entrato in fabbrica abbastanza tardi, verso i diciannove anni. Alla Fiat mi hanno subito sbattuto fuori, sapevano tutto di me. Mi sono iscritto alla F.C.G.I. a sedici anni. Ma dopo pochi mesi frequentavo già i Quaderni rossi. Quelli della F.C.G.I. ci hanno pedinato, me e altri compagni. Eravamo un gruppo di ragazzi, abbiamo letto dei libri e abbiamo capito che il P.C.I. forse non c'entrava con il marxismo. Ci siamo incuriositi dell'esperienza dei Quaderni rossi e siamo andati a sentirli. Lì era facile instaurare rapporti non burocratici, alla pari. Uno di noi si accorge che quelli del P.C.I. ci stavano pedinando e poi ci hanno pure convocati. Sono rimasto così stupito, prima ancora che indignato, che me ne sono andato dalla F.C.G.I. per non rientrarvi mai più. Questi - mi dicevo - sono ancora come la caricatura borghese che li rappresentava. Altro che via italiana al socialismo: questi erano fermi alla Russia!
M.C. - Dove hai lavorato dopo la Fiat?
V.G. - In fabbrichette, poi alla Magneti Marelli a Milano. Poi sono entrato in clandestinità. Infine mi hanno arrestato.
M.C. - Quando sei stato arrestato la prima volta?
V.G. - 18 gennaio 1976.