di Franco Basaglia e Franca Basaglia Ongaro.
1.
Il tecnico del sapere pratico.
«Gli intellettuali sono i 'commessi' del gruppo dominante per l'esercizio delle funzioni subalterne dell'egemonia sociale e del governo politico, cioè: 1) del consenso 'spontaneo' dato dalle grandi masse della popolazione all'indirizzo impresso alla vita sociale dal gruppo fondamentale dominante, consenso che nasce 'storicamente' dal prestigio (e quindi dalla fiducia) derivante al gruppo dominante dalla sua posizione e dalla sua funzione nel mondo della produzione; 2) dell'apparato di coercizione statale che assicura 'legalmente' la disciplina di quei gruppi che non 'consentono' né attivamente né passivamente, ma è costituito per tutta la società in previsione dei momenti di crisi nel comando e nella direzione in cui il consenso spontaneo vien meno». Gramsci, 1930 (1).
Quando si leggevano queste definizioni dell'intellettuale, della
sua funzione nel mondo della produzione, del suo rapporto con il gruppo dominante,
era facile interpretarle come un'analisi storica della condizione dell'intellettuale
in uno stato borghese, che non ci coinvolgeva direttamente in ciò che
eravamo o ci preparavamo ad essere. Usciti dalla guerra, si credeva di poter
costruire - contribuendo ciascuno nel proprio settore - un mondo che fosse diverso
da quello contro cui si era lottato, e ci si preparava a svolgere un ruolo positivo,
qualunque esso fosse, nell'edificazione di una nuova società.
La speranza aveva avuto vita breve. Quasi subito ci si era ritrovati, ciascuno
prigioniero del proprio ruolo, cioè ciascuno riconfermato nel proprio
posto, nella propria classe: i lavoratori e il sottoproletariato nel loro ruolo
di classe oppressa, che solo attraverso la lotta riesce ad attuare le sue conquiste;
la borghesia riconfermata nei suoi valori, nella sua legge economica, nelle
sue proprietà; i tecnici e gli intellettuali, riportati - attraverso
il binario della carriera professionale - alla borghesia da cui provenivano.
Nel momento in cui ci si accingeva a costruire qualcosa che tenesse conto dei
bisogni e dei diritti di tutti i cittadini, ci si riscontrava con la realtà
della lotta di classe e con la conferma della divisione del lavoro che manteneva
intatti i ruoli e le regole del gioco. La resistenza, come movimento popolare,
veniva neutralizzata dalla nuova classe dirigente che, mano a mano, la svuotava
del suo significato originario di partecipazione e di consenso popolare, facendola
diventare un valore astratto, mercificato dal gruppo dominante che, in suo nome,
riproponeva la propria dominazione.
In questo gioco ambiguo, dove la distanza fra ciò che si è e ciò
che si vuole essere è anche subordinata all'impossibilità di agire
e di trasformare la realtà, l'intellettuale, figlio della borghesia,
poteva prendere le parti della classe oppressa, senza che questo gli richiedesse
una messa in discussione dei valori cui automaticamente aderiva sul piano della
propria professionalità o del proprio mestiere. Poteva cioè permettersi
una vita professionale o intellettuale totalmente aderente ai valori, alle ideologie
che la classe dominante trasmetteva sotto i crismi dell'oggettività della
scienza, e continuava ad esserne - consapevole o no - il «commesso»
e il «funzionario».
L'ambiguità è ora evidente, ma allora non era altrettanto chiara.
L'intellettuale o il tecnico militante nei partiti di sinistra, svolgeva contemporaneamente
una pratica professionale di segno opposto alla sua attività politica:
ingegnere in fabbrica, medico d'ospedale, giudice, psichiatra in manicomio,
insegnante, ciascuno confermava con la propria pratica professionale, ciò
che altrove negava, senza la consapevolezza di quello che comportava essere
i «funzionari» dell'ideologia dominante nella propria sfera di lavoro.
Gli intellettuali si ritrovavano a essere i teorici, così come i tecnici
si ritrovavano a essere i pratici, dell'ideologia dominante, senza che la loro
presa di coscienza e attività politiche intaccassero il carattere ideologico
della loro teoria e della loro pratica.
La consapevolezza di essere «commessi», «funzionari»
del gruppo dominante nel proprio settore di lavoro pratico cominciò a
manifestarsi - dopo anni di polemiche a livello teorico sulla funzione dell'intellettuale
impegnato e sulla natura del suo impegno politico - in uno scontro diretto fra
ideologia e pratica, che partiva dalla pratica. Furono cioè quelli che
Sartre definisce i "tecnici del sapere pratico", gli esecutori materiali
delle ideologie e dei "crimini di pace" da esse legalizzati e giustificati,
gli intellettuali di serie C, o i ragionieri della scienza che cominciarono
a mettere in discussione il ruolo svolto nel proprio settore specifico, in rapporto
all'ideologia scientifica di cui erano portatori e rappresentanti nella pratica
di loro competenza: coloro cioè che affrontano problemi pratico-teorici,
traducendo l'astrazione della teoria nella pratica istituzionale.
Questa presa di coscienza cominciò a nascere in settori in cui i tecnici
professionali (o gli intellettuali, per restare nella citazione gramsciana)
hanno abitualmente il compito di assicurare "legalmente la disciplina di
quei gruppi che non «consentono» né attivamente, né
passivamente", dove cioè il tecnico ha a che fare con problemi di
ordine pubblico e la necessità sociale di "disciplinare i gruppi
che non consentono" è più pressante, anche se mascherata
dalle teorie scientifiche che giustificano i provvedimenti pratici con cui vi
si risponde. Fra questi settori, il manicomio, istituto terapeutico e di controllo,
di riabilitazione e di segregazione, dove il consenso del controllato e del
segregato è ottenuto a priori attraverso la mistificazione della terapia
e della riabilitazione.
In questo settore, in cui siamo direttamente impegnati, la distanza fra l'ideologia
("l'ospedale è un istituto di cura") e la pratica ("l'ospedale
è un luogo di segregazione e di violenza") è evidente. Inoltre,
la classe di appartenenza degli internati contrasta esplicitamente con l'universalità
della funzione dell'internamento ospedaliero: il manicomio non è l'ospedale
per chi soffre di disturbi mentali, ma il luogo di contenimento di certe devianze
di comportamento degli appartenenti alla classe subalterna.
Che cos'è la devianza di questi internati rispetto all'altra, quella
che si incontra altrove, nelle cliniche universitarie, nei gabinetti di consultazione,
nelle cliniche private, durante gli anni di preparazione scientifica e di addestramento?
Qual è il comune denominatore fra il primo tipo di malato e il secondo,
o quale ne è la differenza sostanziale? Che funzione terapeutica ha il
manicomio se riesce a distruggere chiunque vi entri? Chi è lo psichiatra
che si presta a questa distruzione? In nome di cosa agisce nell'applicare teorie
scientifiche che servono solo a eliminare chi ha la sfortuna di esserne l'oggetto?
In nome di chi si perpetrano questi crimini? Quale funzione sociale, che sfugge
abitualmente alla comprensione dello stesso psichiatra, svolge il manicomio?
Cioè, qual è la finalità di questa organizzazione ospedaliera
che non risponde a un solo bisogno di chi ne varca la soglia? E quali sono i
bisogni cui si dovrebbe rispondere? E' in grado lo psichiatra, rappresentante
in proprio o per conto terzi, dei valori e delle verità della borghesia,
di riconoscere e individuare questi bisogni? In che cosa consiste il servizio
che presta nei confronti dell'assistito, se non nell'esercizio di un potere
e di una violenza che è delegato a esercitare, per poter contenere una
«violenza» che non si sa bene cosa sia? Ma questo potere e questa
violenza non sono impliciti negli stessi strumenti che la psichiatria come scienza,
gli offre per garantire il controllo e, insieme, il «consenso» di
chi viene violentato? Che cos'è dunque la psichiatria e che cos'è
la «malattia» che si incontra nel manicomio? Come non vedere nel
dilatarsi e nel restringersi dei limiti di norma, a seconda della classe del
«disturbato» e a seconda della situazione di espansione o di recessione
economica, del paese che può o non può riaccogliere le persone
riabilitate, la relatività di un giudizio scientifico che, di volta in
volta, muta il carattere irreversibile delle sue definizioni? (2).
E' da questi interrogativi, nati dallo scontro pratico con la realtà
manicomiale, che è iniziata la lenta opera di corrosione delle «verità
scientifiche» e la messa in discussione del loro diretto rapporto con
la struttura sociale e con i valori dominanti, da parte di coloro che avrebbero
dovuto esserne automaticamente i rappresentanti. Questi tecnici pratici incominciarono
cioè a rifiutare - di fronte alla realtà con cui si scontravano
- il ruolo di funzionari del consenso, rifiutando di legittimare con il loro
avallo (che era l'avallo della scienza) la discriminazione di classe e la violenza
in cui, di fatto, si traducevano il loro intervento e il loro lavoro.
Creare le condizioni per cui potessero riaffiorare i bisogni dell'utente del
servizio per potervi rispondere, era già di per sé mettere in
crisi i bisogni di chi affidava al tecnico una delega di segno opposto. Il contenimento
e la segregazione non sono la risposta alla malattia mentale, ma la risposta
ai bisogni della società che in tal modo elimina il problema, delimitando
lo spazio del suo contenimento. Rifiutare di essere i sorveglianti di questi
oggetti contenuti, tentando di stimolare ogni capacità vitale e soggettiva
in essi distrutta o assopita, era già - per i tecnici - scegliere di
stare dalla parte di quelli che sarebbero stati delegati a opprimere, pur con
l'ambiguità che questa scelta comportava: il prestatore del servizio
restava il tecnico (appartenente alla classe borghese, con il potere e il prestigio
implicito nel suo ruolo), così come l'assistito restava il proletario
o il sottoproletario (succube e oggetto di quel prestigio e di quel potere).
Tuttavia il rifiuto da parte del tecnico intaccava - nonostante l'ambiguità
- qualche cosa di fondamentale: la coincidenza fra il mandato della scienza
e quello della società. La malattia mentale è incomprensibile
e irriducibile, quindi non si può che contenerla in uno spazio adatto
al contenimento; la società «libera» ha bisogno di isolare
e separare gli elementi di disturbo sociale e delega gli «scienziati»
a controllarne il contenimento. Spezzare questa unità era mettere praticamente
a nudo la subordinazione pratica della scienza agli interessi di una società,
che non rappresenta gli interessi di "tutti" i cittadini. Era rendere
evidente che la scienza - in questo settore - si limita a legalizzare le finalità
che una società che si definisce «libera», non può
proclamare apertamente: lo stato borghese tutela gli interessi della borghesia,
gli altri - sani o malati che siano - sono "sempre" elementi di disturbo
sociale, se non accettano le norme che sono fatte per la loro subordinazione.
E' solo con la lotta che riescono a far valere i loro diritti. Smascherare nella
pratica che la fabbrica è nociva alla salute, che l'ospedale produce
malattia, che la scuola crea emarginati e analfabeti, che il manicomio produce
pazzia, che le carceri producono delinquenti e che questa produzione «deteriore»
è riservata alla classe subalterna, significa spezzare l'unità
implicita nella delega data ai tecnici che hanno il compito di confermare, con
le loro teorie scientifiche, che pazzi, malati, ritardati mentali, delinquenti
sono ciò che sono "per natura", e che scienza e società
non possono modificare processi connaturati nell'uomo. Liberare i bisogni reali
dell'utente di un servizio dai bisogni artificiali, prodotti in modo tale che
la risposta al bisogno si traduca nel controllo della classe subordinata, significa
rompere questo meccanismo e rendere esplicita, sulla pratica, la funzione delle
ideologie scientifiche come supporto falsamente neutrale dell'ideologia dominante.
Ovviamente il movimento che tendeva a questa chiarificazione - sotto la spinta
dei bisogni reali dell'utente, una volta creata la condizione perché
potessero affiorare ed esprimersi - non ha trovato appoggi, né comprensione.
Tecnici che rifiutano il compito di funzionari del consenso non possono che
essere eliminati (e le forme di eliminazione vanno dagli incensamenti da parte
del settore più illuminato, alle incriminazioni e ai processi da parte
dei settori più retrivi), tanto più se i meccanismi attraverso
cui si attua questo consenso risultano chiari allo stesso utente del servizio.
Tuttavia, se, da un lato, è nella logica del controllo che i garanti
dell'ordine costituito si tutelino dai franchi tiratori, d'altro lato la comprensione
di questi processi, mentre appariva chiara all'utente che cercava assieme al
tecnico ribelle gli strumenti e la via della sua liberazione, risultava parziale
e confusa al rappresentante politico della classe cui egli appartiene. In ciò
è consistito il limite di un'azione emblematica, che, dimostrando praticamente
la funzione discriminante di classe di un'ideologia scientifica, è riuscita
a costruire una finalità comune fra tecnico borghese e classe oppressa,
solo nello spazio che si tentava di liberare. Ma in quegli anni, il rappresentante
politico dell'utente del servizio che lotta per la rivendicazione dei diritti
della classe oppressa, se proponeva la messa in discussione della presunta neutralità
della scienza come discorso generale, riteneva anche che essa dovesse essere
subordinata alla soluzione della contraddizione primaria fra classe operaia
e capitale. Non riconosceva validità né incisività politica
ad una critica della scienza che agisse su questa stessa contraddizione, partendo
dalla messa in crisi pratica di un'ideologia scientifica. Il che significa accettare
- in attesa che la contraddizione primaria sia risolta - l'obiettività
della scienza in certi settori, dei suoi strumenti tecnici e delle sue teorie
interpretative, come non si tratti di uno dei mezzi di manipolazione e di controllo
del la classe subalterna.
Gli elementi per la comprensione di questi processi e di questi meccanismi in
quel momento non potevano venire che dai tecnici, che li individuavano nella
pratica. Ma ciò che il tecnico stava imparando a rifiutare, era ancora
un valore oggettivamente scientifico per i rappresentanti politici della classe
oppressa e il linguaggio era ancora incomunicabile, trasmissibile solo attraverso
una lettura e un'interpretazione della pratica che si stava attuando. Il tecnico
non poteva perdere la sua autonomia in questa ricerca (e non si trattava, in
questo caso, della libertà rivendicata dall'intellettuale), o sarebbe
stato ripreso nella dimensione politica di tipo istituzionale, che lo avrebbe
riportato in posizioni acritiche nei confronti di ciò che faceva nel
suo settore di lavoro. La politicità della sua azione nel proprio terreno
professionale sarebbe stata, cioè, riportata nel gioco politico di tipo
istituzionale, nel senso che il suo ruolo sarebbe ridiventato quello dell'intellettuale
che si limita a scegliere la parte della classe oppressa, continuando ad agire
nel suo settore come garante dei valori dominanti. Ma la rivendicazione all'autonomia
in questa ricerca, era facilmente interpretabile come una rivendicazione all'autonomia
del tecnico che, comunque, restava un borghese e la sua azione è rimasta
isolata in mezzo a fraintendimenti ed equivoci. Si trattava, di fatto, di un
ampliamento del terreno di lotta, dove il tecnico, attraverso il suo rifiuto
a essere «commesso» della classe dominante, proponeva la ricerca,
in un settore pratico, del significato e della funzione di quella particolare
ideologia scientifica; ricerca che avrebbe potuto allargare la lotta in altri
settori, arricchendola di nuovi contenuti e di nuovi militanti.
Mentre la riflessione su queste esperienze cominciava a essere pubblicizzata,
con gli equivoci che ne hanno accompagnata la pubblicizzazione ("la malattia
mentale non esiste; è un'invenzione della borghesia" eccetera) esplodeva,
nel 1968, la ribellione degli studenti che rifiutavano globalmente il loro futuro
di «funzionari del consenso». Fra il '60 e il '70, gli anni che
avevano visto i movimenti operai far fronte ai tentativi neofascisti di Tambroni
per sfociare poi nelle lotte dell'autunno '69, dei tecnici cominciavano a rifiutare
praticamente la delega di potere implicita nel loro sapere, gli studenti rifiutavano
di assumerla.
Pur con le ambiguità tipiche di tutti i movimenti borghesi, siamo, in
questo caso, oltre la posizione dell'intellettuale che «sa» e che
guida le masse. La posta in gioco è ora il rapporto tra il tecnico, la
scienza e la sua pratica "di cui le masse sono l'oggetto", una volta
che il tecnico - in particolare quello delle scienze umane - abbia riconosciuto
che il suo ruolo, in questo sistema sociale, è quello di manipolare il
consenso attraverso le ideologie che egli stesso produce e mette in atto.
Che gli intellettuali e i tecnici di una società borghese, così
come tutte le sue istituzioni, esistano per salvaguardare gli interessi, la
sopravvivenza del gruppo dominante e i suoi valori, è cosa ovvia. Ma
non è altrettanto automatico riconoscere e individuare, nella pratica
quotidiana, quali siano i processi attraverso i quali gli intellettuali o i
tecnici continuano a produrre - ciascuno nel proprio settore - ideologie sempre
nuove che mantengono inalterata la loro funzione di manipolazione e di controllo.
Soprattutto non è altrettanto automatico che la classe subalterna, anche
la più politicizzata, riconosca nella scienza e nelle ideologie la manipolazione
e il controllo di cui è oggetto, e non invece un valore assoluto, che
accetta perché al di là della propria possibilità di conoscere
e di comprendere, e perché manipolata in modo da non conoscere, né
comprendere. Capire, insieme a coloro che sono oggetto di questa manipolazione
(pur con le ambiguità presenti in chi è contemporaneamente soggetto
di manipolazione e ne rifiuta l'uso nel senso della delega), e rendere praticamente
espliciti i processi attraverso i quali un'ideologia scientifica riesce a far
accettare alla classe subalterna misure che apparentemente rispondono ai suoi
bisogni e che, di fatto, la distruggono (in questo consistono le ideologie)
può essere forse politicamente più efficace, anche se meno avventuroso,
del fingersi gli operai che non siamo, o del prendere a prestito da loro le
motivazioni alla lotta, quando il terreno in cui agiamo ci coinvolge in una
serie di complicità, la cui natura non è esplicita né riconoscibile
da chi le subisce.
Il rifiuto del ruolo, il rifiuto della delega comportano un uso dialettico del
ruolo e della delega, attraverso la critica della scienza e delle ideologie
di cui i tecnici non accettano più di essere garanti. La critica teorico-pratica
della scienza in quanto ideologia (cioè in quanto strumento di manipolazione
in vista del consenso) comporta la conoscenza del rapporto diretto tra committente
(gruppo dominante), funzionario (l'intellettuale o il teorico che produce l'ideologia
e il tecnico che la traduce in pratica) e la finalità d'uso, da parte
del committente, dell'ideologia in quanto tale. Ma i meccanismi della delega
e l'uso che il committente fa dell'ideologia scientifica, non sono espliciti
e neppure tanto evidenti. Chi è oggetto della manipolazione e del controllo
di una branca della scienza qual è ad esempio, la medicina, è
difficile che identifichi diagnosi e cura come una forma di manipolazione e
di controllo, quando non di distruzione; al massimo la ritiene una risposta
insufficiente ai propri bisogni. Ma anche questi bisogni sono manipolati e condizionati
in vista della risposta che si vuole darvi. Il ricoverato in ospedale psichiatrico
è, tradizionalmente, ritenuto da tutti tanto più delirante quanto
meno riconosce l'internamento come la risposta al disturbo di cui soffre (mentre
allo stato attuale della quasi totalità dei nostri manicomi, l'unico
ad avere ragione è lui). Individuare e chiarire assieme a chi è
oggetto di questa manipolazione, i processi attraverso i quali essa avviene,
e fare critica della scienza e, insieme, agire politicamente nel senso che la
classe subalterna, oggetto di questa manipolazione, può impadronirsi
della conoscenza di questi processi in modo da arrivare a rifiutarli.
In questo campo di lotta il tecnico borghese non ha più mediazioni né
deleghe: è sullo stesso piano dell'utente del servizio che deve prestare,
perché è "con lui" che deve trovare le risposte a bisogni
che non sono quelli tradizionalmente riconosciuti dalla psichiatria, dalla medicina.
Il tecnico, sia per il tipo di preparazione avuta, sia per la classe cui appartiene,
conosce solo i bisogni precostituiti e condizionati dall'ideologia: se non è
l'utente con cui agisce a esprimerli, ripropone una risposta che resta all'interno
della cultura da lui incorporata, e che si traduce in misure repressive nei
confronti di coloro ai quali dovrebbe prestare il servizio. E' solo con l'utente
che può imparare a conoscerli e a individuarli, al di fuori dell'ideologia
che condiziona e determina la realtà. Così come il tecnico storicizza
l'internato o l'utente del servizio sanitario, abitualmente destorificato dal
fatto di essere oggetto di questo servizio, egli stesso entra in una storia
nuova, che non è la storia della classe cui appartiene. In questa dimensione
egli si pone fuori della logica della domanda e dell'offerta (dove la domanda
è sempre subordinata al tipo di offerta che si è disposti a dare
o che conviene dare), rompendo la logica economica secondo cui ogni risposta
ai bisogni si traduce in un'organizzazione che vive e prospera sulla dilatazione
dei bisogni cui dovrebbe rispondere. Storificando e quindi soggettivando l'oggetto
della sua ricerca, il tecnico si storicizza al di fuori della logica borghese,
trovando nella ricerca della liberazione dell'oppresso, anche la liberazione
dall'oppressione di cui egli stesso è insieme soggetto e oggetto.
Il tecnico borghese vive una condizione di alienazione da cui può uscire
rompendo la condizione di oggettivazione in cui vive l'oppresso. Il modello
che il tecnico rappresenta automaticamente nella logica del capitale è
il passaggio dall'oppressione all'alienazione, cioè l'identificazione
da parte della classe oppressa nei valori che egli esprime e garantisce. E'
quindi solo dalla ricerca di uno spazio reciproco di soggettivazione che possono
scaturire i bisogni e, insieme, il tipo di risposte necessarie, ed è
nella comune ricerca di una liberazione pratica che il tecnico tradisce il proprio
committente. In questo caso, il ruolo, la classe di appartenenza, il prestigio
lo tutelano relativamente agli occhi del committente tradito, perché
egli smaschera i meccanismi attraverso cui le ideologie sono strumenti di manipolazione
e di controllo, insieme alla stessa classe manipolata e controllata. Il che
significa mettere in piazza i segreti di famiglia, quelli che di solito conosce
solo il padre e che neppure i figli devono sapere, altrimenti avrebbero poco
rispetto per il padre e per la famiglia.
La nascita delle scienze umane sembrava dare inizialmente nuove
aperture e nuove prospettive alla lotta per la liberazione dell'uomo. Psichiatria,
psicologia, psicoanalisi sembravano poter offrire nuovi strumenti di indagine
e di intervento per lenire la sofferenza umana. La criminologia proclamava di
voler proteggere - assieme alla società - il criminale dalle sue tendenze
abnormi. La sociologia sembrava offrire uno strumento di analisi e di conoscenza
dei fenomeni sociali, tale da consentire la trasformazione della realtà
e il superamento delle contraddizioni indagate e individuate. Ma, una volta
immesse queste nuove scienze nella logica della divisione in classi, quindi
nella logica dell'oppressione di una classe sull'altra, esse si sono praticamente
tradotte in ulteriori strumenti, utili alla conferma di questa oppressione.
Tale processo ha dato origine a una serie di corpi culturali che codificano
e determinano i comportamenti, passano sotto silenzio i bisogni primari, ne
creano di artificiali, insegnano agli uomini il significato della loro nascita,
cosa sono, quale deve essere la loro vita, quale è il rapporto da instaurare
fra di loro, quale deve essere e quale forma deve assumere la loro morte. Se
le religioni hanno avuto la funzione di manipolazione e di controllo attraverso
la distinzione fra bene e male, fra premio e castigo, colpa e punizione, le
scienze umane pare si siano specializzate nella focalizzazione del "normale"
rispetto al patologico, del comportamento corretto rispetto a quello deviante
o criminale, il tutto non più in rapporto a un valore assoluto che, se
pure a livelli diversi, accomunava gli uomini di fronte alla morte e alla responsabilità
dei loro «peccati», ma in rapporto all'interesse del committente.
Queste discipline, nate in nome dell'uomo e della sua liberazione, hanno cioè
avuto la funzione di determinare i comportamenti «normali», di definire
i limiti di norma, di controllarne, attraverso terapia e reclusione, le deviazioni,
non sulla base dei bisogni dell'uomo (cioè dei bisogni di tutti gli uomini,
compresi quelli che deviano) ma come risposta alle esigenze della legge economica,
ai bisogni del gruppo dominante, che deve contare sul controllo dei più
per garantire la propria sopravvivenza. Di questo controllo, intellettuali e
tecnici delle scienze umane sono stati i legittimatori.
Forse mai come in questo momento storico e alla luce di questi casi limite drammaticamente
emblematici, si è profilato così chiaro il ruolo del tecnico professionale
nella società capitalistica. Esso pare riassumere - a distanza di secoli
- quello dell'intellettuale alla corte dei signori, dove il poeta, il pittore,
il musicista lavoravano esplicitamente su commissione. Ma allora era così
grande la distanza tra signore e servo, che il signore non aveva bisogno di
mediazioni per coprire i suoi abusi: ciò che commissionava agli «artisti»
erano opere che dovevano confermare il suo prestigio e il suo potere. La commissione
era esplicita. Solo quando il servo ha cominciato a organizzarsi per opporsi
al signore e la realtà sociale si è modificata, inquinata come
è stata dai concetti di uguaglianza e di democrazia, le ideologie sono
servite a consentire al signore di proclamare come reali e indiscussi questi
principi, conservando, insieme, il dominio e gli abusi propri della sua classe.
Ovviamente è un discorso storicamente "poco corretto", ma nel
suo schematismo simbolico può servire alla comprensione dell'uso di un
certo tipo di tecnico o di intellettuale, in qualità di funzionario del
consenso, quando occorra far passare per qualcosa di diverso ciò che
potrebbe contrastare con i principi dei diritti dell'uomo, che non possono non
essere formalmente sostenuti.
Ora, non è privo di significato ricordare che negli ultimi duecento anni
la tortura risultava ufficialmente scomparsa, come ragione di stato, nei paesi
«civili». Le forme di controllo in vigore attraverso deleghe, commessi,
funzionari, produttori di ideologie erano evidentemente sufficienti a garantire
l'ordine. Soltanto nei paesi in cui non è ancora conosciuta la falsa
libertà dai bisogni rappresentata dallo sviluppo industriale, e dove
non si conoscono ancora i vantaggi offerti dall'uso delle scienze umane e delle
ideologie, come forma di controllo sociale, la tortura si praticava illegalmente,
con tutti i caratteri dell'«inciviltà».
Ma a duecento anni di distanza il «disagio della civiltà»
pare stia facendo ricomparire un po' ovunque la tortura. E ciò che più
sorprende è che si tratta di una tortura preventiva, dove si tortura
e si uccide chi non ha niente da confessare, se non il proprio rifiuto a essere
massacrato, distrutto, ucciso. Una tortura attuata per ottenere il consenso
incondizionato, l'accettazione passiva, l'adeguamento a una norma sempre più
rigida e ristretta che risponde sempre meno ai bisogni di chi vi si deve sottomettere.
La "ragione di stato" sta prevalendo sull'ultimo umanesimo, e la violenza
non teme più di rivelarsi per ciò che è. Il controllo da
parte dei suoi legittimatori è risultato quantitativamente insufficiente?
O si tratta della messa in moto dell'"apparato di coercizione statale...
costituito per tutta la società in previsione dei momenti di crisi nel
comando e nella direzione in cui il consenso viene meno"?
Sull'onda delle grandi lotte sociali, sotto la pressione dei movimenti che rivendicano
i diritti all'uguaglianza e alla non discriminazione, è sempre più
difficile per la classe al potere ottenere il consenso spontaneo; il gioco è
troppo chiaro, soprattutto dove sono più chiare ed esplicite le contraddizioni.
Occorre rafforzare l'"apparato di coercizione statale", l'infrastruttura
politica può gestire direttamente, tramite le istituzioni più
dichiaratamente repressive (magistratura e esercito), il proprio potere e i
tecnici delle scienze umane possono essere utilizzati per garantire la «scientificità»
e la «legalità» della tortura e dei crimini. Ne è
un esempio ciò che sta accadendo nei paesi dell'America latina dove psicologi
e psichiatri sono delegati ad assistere "tecnicamente" i torturati
(3).
A seconda dei livelli di sviluppo di un paese e della consistenza delle forze
di opposizione, si ricorre dunque all'"apparato di coercizione statale"
o alla dilatazione del numero dei «funzionari del consenso». Negli
Stati Uniti, il paese a maggior sviluppo industriale e tecnologico, la maggior
accessibilità a una preparazione tecnico-professionale di tipo superiore
e la creazione di ruoli intermedi in cui le nuove leve professionali possano
identificarsi, hanno contribuito - attraverso la costituzione di una classe
media universale - alla distruzione delle forze popolari che hanno, per lo più,
aderito ai valori e all'etica della classe dominante. Il tutto a scapito del
proprio sottoproletariato e del proletariato e sottoproletariato di paesi meno
sviluppati.
Da noi, anche se la struttura scolastica ha ancora un carattere altamente discriminatorio,
si sta mettendo in moto lo stesso processo, ma i nuovi ruoli per cui si preparano
i nuovi tecnici delle scienze umane (sociologi, psicologi, operatori sociali)
addirittura non esistono e lo scontento dei giovani è ancora in atto.
La sfasatura è tutta da colmare perché la realtà sociale
del nostro paese è casuale, abborracciata, inventata, provvisoria. In
più - fatto il cui peso è di importanza fondamentale - esiste
una classe operaia che non ha ancora ricevuto, come dice Dedijer, «il
bacio della morte», cioè non è ancora stata assimilata ai
valori della borghesia in modo da sentirli propri e difenderli.
In questo momento sembra, dunque, utile tentare di analizzare e di chiarire
la funzione del tecnico in una società borghese per capire - al di là
delle astratte polemiche sulla negazione del ruolo e sul timore di essere assorbiti
e reintegrati come produttori di nuove ideologie - in quale misura sia possibile,
per il tecnico che ha preso coscienza di questi processi, agire in modo che
la classe subalterna si appropri di queste conoscenze, ottenibili, del resto,
solo se "si cercano assieme ad essa" attraverso l'individuazione dei
suoi bisogni. Il pericolo che il lavoratore del negativo (come lo definirà
Lourau più oltre) sia riassorbito come produttore di nuove ideologie,
è reale, e lo sarà quanto più si resterà isolati
dai bisogni che dobbiamo individuare, ma non possiamo permetterci di essere
paralizzati da questi timori. Ogni contraddizione aperta richiama la chiusura
di un'ideologia che la definisca e la codifichi, ma essa porta in sé
la futura contraddizione. Sta in noi riuscire a individuarla, e continuare,
anche attraverso un'analisi critica di ciò che siamo e di ciò
che facciamo, di ciò che significa essere «funzionari del consenso»,
e di ciò che può significare rifiutare di esserlo; individuando
sul terreno pratico quali possano essere le modalità di questo rifiuto,
in modo che esso possa assumere peso e significato in rapporto alla classe che
dovrebbe essere portata al «consenso spontaneo», all'adesione ai
valori dominanti, anche attraverso la conferma, quotidianamente attuata dal
nostro intervento tecnico.
Siamo consapevoli di entrare in una problematica politico-culturale da anni
dibattuta, che potrebbe risultare fine a se stessa, ma ciò che a noi
interessa di questa polemica è tentare di affrontarla da un'angolatura
che la riporti sul terreno pratico: funzionario del consenso non è solo
l'intellettuale classico che produce ideologie. Oggi ogni tecnico spicciolo
- anche proveniente dalla classe operaia o da una piccolissima borghesia quasi
proletaria, che ha tratto vantaggio dalla maggiore accessibilità alla
cultura borghese - per il fatto di identificarsi nel suo ruolo e di difenderlo
per sé, rappresenta e impone i valori dominanti. Si devono analizzare
anche a questa luce i processi attraverso i quali la classe dominante ingloba,
nei propri valori e nel proprio terreno, parte della classe dominata, allargando
il cerchio dei suoi funzionari con l'accessibilità a ruoli nei servizi
terziari, che danno l'illusione di partecipare al potere e che, in quanto tali,
garantiscono la fedeltà di chi li copre.
Scopo della nostra analisi è quindi trovare una risposta agli interrogativi
che ci si pone dopo la denuncia pratica, perché essa non resti separata
dalla classe per la cui liberazione è stata attuata.
Il rifiuto da parte del tecnico della delega datagli dal committente e la ricerca,
assieme a chi dovrebbe essere l'oggetto della sua manipolazione, di un rapporto
alternativo, può facilitare la comprensione e la conoscenza, da parte
di chi è manipolato, dei processi attraverso cui si attua questa manipolazione?
Può, cioè - ad esempio nel caso dell'assistenza psichiatrica -,
questo rifiuto pratico andare oltre la creazione di realtà che abbiano
un valore simbolico, per arrivare a stimolare nel malato l'appropriazione e
la soggettivazione della malattia? Può essere uno strumento per promuovere
la coscienza del proprio ruolo sociale, all'interno del gioco sociale generale?
L'intellettuale o il tecnico professionale deve, a questo fine, abdicare a ciò
che è, ma ciò che è, è anche la classe cui appartiene,
e non si può abdicare a una classe per sceglierne un'altra: può
tuttavia usare gli strumenti di cui dispone per mettere a nudo praticamente
i processi di manipolazione e di controllo che sarebbero impliciti nel suo intervento?
Quali sono i limiti di questa messa a nudo e in che modo la conoscenza di questi
processi può diventare di dominio della classe manipolata? Se il tecnico
professionale è il funzionario - consapevole o inconsapevole - dei "crimini
di pace" che si perpetrano nelle nostre istituzioni, in nome dell'ideologia
dell'assistenza, della cura, della tutela dei malati e dei più deboli,
o in nome dell'ideologia della punizione e della riabilitazione, può
essere utile mettere in piazza, non solo lo stato di violenza e di arretratezza
- ancora reale, ancora pressoché identico - delle nostre istituzioni
repressive (manicomi, carceri, istituti per minori, eccetera), quanto i meccanismi
attraverso cui la scienza giustifica e legittima queste istituzioni? E queste
conoscenze possono diventare patrimonio della classe subalterna, così
che fra le sue rivendicazioni essa esiga una scienza, da essa controllata, che
risponda ai suoi bisogni, consapevole dei modi e dei meccanismi attraverso cui
la scienza borghese può continuare a non rispondervi?
Nella nostra realtà sociale le diverse branche delle scienze non possono
che pianificare risposte formalmente universali (cioè programmate per
tutti i cittadini), che di fatto si traducono nella risposta ai bisogni del
gruppo dominante e nel controllo o contenimento dei bisogni del gruppo dominato.
Ogni servizio progettato serve agli organizzatori e all'organizzazione in sé,
più che agli utenti, altrimenti non si spiegherebbe, ad esempio, l'enfatizzazione
dei servizi sanitari in rapporto alla qualità dell'assistenza prestata.
Nella logica del capitale, ogni istituzione diventa un organismo produttivo,
dove la finalità e la giustificazione del suo esistere (per l'ospedale:
l'assistito) risultano marginali. Per quanto possa apparire paradossale, l'ospedale
è fatto per i medici e per il personale, non per i malati. Inoltre l'intervento
tecnico si presenta sotto la veste della neutralità, dove si presume
non esista divisione tra la figura sociale del prestatore del servizio e quella
del cliente che lo richiede.
Un esempio esplicito del modo in cui abitualmente si programma un servizio sanitario pubblico (cioè in totale assenza dell'utente e come espressione di una logica scientifica che tende essenzialmente a rispondere ai bisogni degli organizzatori) è un questionario, inviato nel '72 sul tema "Utopia e realtà dell'organizzazione psichiatrica futura". Il questionario era stato inviato dal professor Christian Müller, direttore della clinica psichiatrica di Cery, Losanna, a uno di noi e a pochi altri psichiatri rappresentanti, agli occhi del ricercatore, la punta avanzata della «scienza» nel settore specifico. Se ne riportano qui solo la premessa introduttiva e stralci della risposta allora formulata:
«Supposez que vous viviez dans une societé occidentale, de type européen ou américain, organisée selon vos idées et conceptions politiques. Vous seriez appelé à organiser des services de santé mentale et de psychiatrie pour un groupe démographique limité de 100000 habitants dans un cadre urbain. Vous seriez libre de choisir seul les moyens dans le cadre d'un budget en proportion raisonable par rapport au revenu de cette population».
Ciò che si vuole puntualizzare, rispondevamo, è
la premessa di carattere generale: chiedere di formulare un'ipotesi teorica
("l'organizzazione di un servizio psichiatrico per un'astratta popolazione
di centomila abitanti") precisando contemporaneamente i limiti e i confini
concreti in cui la teoria deve essere circoscritta ("un paese occidentale
europeo o americano") significa proporre un discorso puramente astratto
dove l'ipotesi, anziché servire a trasformare la realtà, è
da questa fin dall'origine determinata e neutralizzata. Il mondo occidentale
contiene tante e tali contraddizioni primarie e secondarie che qualunque servizio
ipotizzato senza tenerne conto o senza approfondirne il significato e il peso,
non può che muoversi sul piano dell'astrazione, dato che, in assenza
di queste conoscenze, è impossibile individuare quali siano i bisogni
cui il servizio dovrebbe rispondere. Senza questi riferimenti, l'ipotesi «tecnica»
non può che rispondere alle esigenze del tecnico, mai a quelle dell'assistito,
come risultato appunto di un'astrazione che non si confronta sul terreno concreto
dei bisogni.
Come si può ritenere che l'organizzazione psichiatrica, oggi, sia un
mondo chiuso che continua a rifarsi all'ideologia tecnico-scientifica di chi
ha il compito di gestirla? Dove e come individuare i bisogni concreti cui si
dovrebbe rispondere, se essi sono costantemente determinati e creati nella forma
più adatta alla risposta? Nel nostro contesto sociale i termini "realtà"
e "utopia" proposti dal questionario, non sono termini contraddittori,
tesi a produrre una nuova, successiva realtà che realizzi e incorpori
parte dell'utopia: essi sono ridotti a termini complementari per i quali sono
progettate sfere d'azione separate, in modo che l'una possa tradursi senza contraddizioni
nell'altra. "Realtà" e "utopia" esistono entrambe
come facce solo apparentemente diverse dell'ideologia, quale falsa utopia realizzata
a solo beneficio della classe dominante. La realtà in cui viviamo è
essa stessa ideologia, nel senso che non corrisponde al concreto, ma è
il prodotto di definizioni, codificazioni, classificazioni, norme e provvedimenti,
messi in atto dalla classe dominante per costruire la realtà a propria
immagine, cioè secondo i propri bisogni. Tanto meno queste norme e questi
provvedimenti rispondono alle esigenze dell'intera comunità, tanto più
essi agiscono come strumento di dominio sulla classe che li subisce. Così
come ogni ipotesi utopica, in quanto elemento contraddittorio di una realtà
che non può rivelare le sue contraddizioni perché non vuole trasformarle,
si traduce in una ideologia della trasformazione, realizzabile se usata come
strumento di dominio.
Nella nostra struttura sociale, determinata da una logica economica cui sono
subordinati tutti i rapporti e le regole di vita, non esiste né la realtà,
cioè il "praticamente vero" su cui verificare le ipotesi come
risposte reali ai bisogni, né l'utopia come elemento ipotetico che trascenda
la realtà per trasformarla. L'utopia può esistere solo nel momento
in cui l'uomo sia riuscito a liberarsi dalla schiavitù dell'ideologia,
in modo da esprimere i propri bisogni in una realtà che si riveli costantemente
contraddittoria e tale da contenere gli elementi che consentano di superarla
e trasformarla. Solo allora si potrebbe parlare di realtà come del "praticamente
vero", e di utopia come elemento prefigurante la possibilità di
una trasformazione reale di questo "praticamente vero". Ma allora
non si tratterebbe più di una utopia, quanto di una ricerca costante
sul piano dei bisogni, delle risposte più adeguate alla costruzione di
una vita possibile per tutti gli uomini.
Inoltre, si può presumere di organizzare un'area ipotetica secondo la
propria "filosofia" politica e tecnica, se l'area ipotizzata è
inserita in una sfera politico-economica ben determinata, che non lascia spazio
alle contraddizioni, se non quando siano state tradotte in ideologie? Come ipotizzare
un servizio di assistenza psichiatrica che non sia la risposta ai bisogni specifici
che si rivelano nella realtà? Come ipotizzare i bisogni cui si dovrebbe
rispondere, se non trasferendo nell'area dell'astrazione la conoscenza ideologica
che ne abbiamo? Cosa conosciamo di questi bisogni se essi sono precondizionati,
se essi sono il risultato di una logica e di una cultura che determinano il
modo in cui devono manifestarsi, in rapporto alla qualità della risposta
che si è disposti a dare?
Quando ci si prefigge di organizzare un servizio sanitario (nel nostro caso
psichiatrico) la difficoltà sta nel trovare risposte concrete alle domande
concrete che provengono dalla realtà in cui si agisce. Ma le risposte
aderenti alla realtà dovrebbero insieme superarla per trasformarla. In
questo senso, nell'ipotizzare un'organizzazione sanitaria, si corre il rischio
di cadere in due errori opposti: da un lato quello di proporre risposte che
vanno oltre il livello di realtà in cui si muovono i bisogni, creandone
altri, attraverso la produzione di nuove realtà-ideologie cui le misure
adottate sono pronte a rispondere; dall'altro, quello di restare così
aderenti alla realtà, da proporre risposte chiuse nella stessa logica
che produce il problema da affrontare. In entrambi i casi la pratica resta immutata
- resta cioè sempre una realtà-ideologia, e le risposte si limitano
a definire e a circoscrivere la problematica di ogni settore specifico.
Nel terreno dell'assistenza, il primo caso corrisponde alla creazione di nuovi
servizi che, anziché far fronte alla malattia da curare, ne rileveranno
nuove forme non ancora codificate, per le quali i servizi progettati saranno
l'adeguata risposta ideologico-reale. L'ipotesi prospettata non nasce come diretta
risposta a bisogni individuati, ma come evoluzione di un pensiero scientifico
che procede seguendo la propria logica e, insieme, la logica economica dell'area
in cui agisce. In questo modo prefigura ideologicamente la realtà cui
si propone di rispondere, creando bisogni artificiali e occultando quelli reali.
I servizi psichiatrici a carattere preventivo, così come si progettano
e si attuano oggi, restano inseriti nella logica scientifica e nella logica
economica che hanno risposto alla malattia mentale con la segregazione: la malattia
è incurabile e incomprensibile; il suo sintomo principale è la
pericolosità e l'oscenità; quindi l'unica risposta scientifica
è il manicomio dove tutelarla e controllarla. Questo assioma coincide
con l'altro in esso implicito: la norma è rappresentata dall'efficienza
e dalla produttività; chi non risponde a questi requisiti, deve trovare
una sua collocazione in uno spazio in cui non intralci il ritmo sociale. Scienza
e politica economica vanno di pari passo, confermando la prima i limiti di norma
più confacenti e utili alla seconda. La scienza serve così a confermare
una "diversità" patologica che viene strumentalizzata secondo
le esigenze dell'ordine pubblico e dello sviluppo economico, assolvendo la sua
funzione di controllo sociale. Conservando questi presupposti, i servizi a carattere
preventivo che non portano alla trasformazione della logica dell'esclusione
e della strumentalizzazione della malattia, sono la dimostrazione pratica del
dilatamento del campo dell'abnorme, più che del suo restringimento in
seguito alla cura. Essi di fatto non rispondono al problema della malattia e
all'insieme dei processi che la alimentano, ma si limitano ad assorbire nel
suo campo comportamenti, in precedenza tollerati come normali (vedi ad esempio
le forme di devianza prima accettate e ora definite come abnormità malate).
L'utopia-ideologia, in questo caso, non fa che trasferire a un differente livello
la codificazione di "diversità", confermandone la natura «disuguale»,
quindi confermando la logica della separazione fra salute e malattia e la conseguente
esclusione a determinati livelli sociali.
Il caso invece dell'aderenza totale alla realtà corrisponde alla costruzione
di strutture sanitarie tecnicamente più efficienti, che ovviamente conservano
intatta la logica in cui sono inserite la malattia, la sua definizione e codificazione,
nonché la natura delle misure finora adottate per rispondervi. Per troppo
realismo si continuano a dare solo risposte aderenti allo scetticismo nei confronti
del problema, implicito nelle strutture degli «asili»; si continuano
cioè a dare risposte "negative" e riduttive che si limitano
a confermare la negatività della realtà in cui l'«ipotesi
utopica» non ha presa e non serve a trasformare la logica su cui essa
si sostiene.
Ciò che deve mutare per poter trasformare praticamente le istituzioni
e i servizi psichiatrici (come del resto tutte le istituzioni sociali) è
il rapporto fra cittadino e società, nel quale si inserisce il rapporto
fra salute e malattia. Cioè riconoscere come primo atto che la strategia,
la finalità prima di ogni azione è l'uomo (non l'uomo astratto,
ma tutti gli uomini), i suoi bisogni, la sua vita, all'interno di una collettività
che si trasforma per raggiungere la soddisfazione di questi bisogni e la realizzazione
di questa vita per tutti. Ciò significa capire che il valore dell'uomo,
sano o malato, va oltre il valore della salute o della malattia; che la malattia,
come ogni altra contraddizione umana, può essere usata come strumento
di appropriazione o di alienazione di sé, quindi come strumento di liberazione
o di dominio; che ciò che determina il significato e l'evoluzione di
ogni azione è il valore che si riconosce all'uomo e l'uso che si vuol
farne, da cui si deduce l'uso che si farà della sua salute e della sua
malattia; che in base al diverso valore e uso dell'uomo, salute e malattia acquistano
o un valore assoluto (l'uno positivo, l'altro negativo) come espressione dell'inclusione
del sano e dell'esclusione del malato dalla norma; o un valore relativo, in
quanto avvenimenti, esperienze, contraddizioni della vita che si svolge tra
salute e malattia. Quando il valore è l'uomo, la salute non può
rappresentare la "norma" se la condizione umana è di essere
costantemente fra salute e malattia.
Quando invece i rapporti sociali di produzione sono fondamento di ogni relazione
fra uomo e uomo come nella società capitalistica, si capisce anche come
la malattia - di qualunque natura essa sia - possa diventare uno degli elementi
usabili all'interno di questa logica, sfruttabile come conferma di un'esclusione,
la cui natura irreversibile è data dalla categoria di appartenenza del
paziente e dal suo potere economico e culturale. Questo non significa - come
spesso è stato frainteso - che la malattia mentale non esista e che non
si tenga conto in psichiatria, cioè in medicina, dei processi fondamentali
dell'uomo. Significa che la malattia, come segno di una delle contraddizioni
umane, può essere usata all'interno della logica dello sfruttamento e
del privilegio, venendo così ad assumere un'altra faccia - la faccia
sociale - che la fa diventare di volta in volta qualcosa di diverso da ciò
che è originariamente.
Programmare un servizio sanitario che parta dalle premesse politico-sociali
ora accennate e che ne lasci inalterati i meccanismi, significa accettare di
includere nel terreno della malattia anche ciò che con la malattia non
ha niente a che fare. Il servizio progettato, anziché rispondere ai bisogni
reali, contribuirà in tal modo a dilatare il terreno della malattia,
inglobandovi gli elementi di natura sociale che le si sovrappongono e in cui
si finisce per identificarla. Se l'ipotesi tecnica non è possibile che
come traduzione automatica di ideologia-realtà, le strutture terapeutiche
non rispondono mai alla malattia, ma al "doppio" che ne viene costruito
come risposta alle esigenze della produzione e del consumo (4).
Se si vuol dunque rispondere ai bisogni reali, è necessaria la consapevolezza
dell'uso che viene esplicitamente fatto della malattia a certi livelli sociali,
in modo che i servizi progettati non servano a dilatarla anziché ridurla.
Da queste premesse è facile dedurre che è impossibile e insieme
inutile progettare un servizio per un'ipotetica popolazione astratta. Impossibile,
se la risposta si limita a muoversi sul terreno (ideologico) dell'utopia realizzata
solo a beneficio di pochi, dato che non siamo in grado, così facendo,
di conoscere i bisogni dei più cui rispondere; inutile, se resta chiusa
nei limiti della realtà attuale (che è realtà-ideologia)
senza superarla per trasformarla. Il medico o i gruppi interdisciplinari, non
organizzano i servizi sanitari come semplice risposta tecnica a un bisogno umano.
Essi si limitano a svolgere la delega implicita nel loro ruolo: quella che proviene
dalla loro appartenenza alla classe dominante e che consente di usare la propria
conoscenza tecnica come strumento di potere e di dominio sulla classe dominata,
per la quale l'alternativa allo sfruttamento in caso di malattia o di menomazione,
è solo l'eliminazione o la segregazione, quindi la distruzione totale.
Se questo rapporto di dominio sta alla base del rapporto fra uomo e uomo, come
presumere che il rapporto terapeutico tra medico e paziente sia esente dalla
componente di classe implicita in ogni relazione sociale? Come parlare di profilassi
psichiatrica, se uno dei luoghi più nocivi alla salute del cittadino
è l'istituzione sanitaria (ospedali, ambulatori, dispensari) dove vige
a tutti i livelli il rapporto di sopraffazione implicito nella struttura della
nostra società? Se le istituzioni create e programmate per la prevenzione
(primaria, secondaria e terziaria) sono esse stesse produttrici di malattia,
la prevenzione non serve che a confermare la loro funzione in quanto strumenti
di controllo "attraverso" la malattia che sarà, quindi, alimentata
anziché curata. In questo senso esse risultano inefficaci se confermano
la natura dei rapporti di dominio, attraverso il rapporto tecnico-assistito.
Nel momento in cui nascono queste organizzazioni sanitarie, dobbiamo essere
coscienti del ruolo che esse giocano. Il tecnico, nel mettere a disposizione
dell'assistito le sue conoscenze, mette in atto automaticamente il ruolo di
potere che gli viene dalla sua figura sociale, dalla classe cui appartiene,
dal prestigio che gli deriva dal posto che detiene. Se nel rapporto con l'assistito
appartenente alla sua classe, questo potere è controbilanciato dal potere
dell'altro, nel rapporto con l'assistito appartenente alla classe subalterna
esso agisce solo come una forma di dominio e di distanza, che impedisce all'altro
di esistere come figura sociale, come uomo avente dei diritti.
La rottura del binomio sapere-potere, attualmente automatico e inscindibile
nel ruolo del medico, è l'unica alternativa alla perpetuazione di questa
distanza e di questo dominio. E' in tal senso che tendono ad agire i tecnici
che hanno preso coscienza di questi processi, perché attraverso la rottura
del potere medico, gli assistiti possano esigere un'assistenza che è
loro diritto avere e che è dovere dei tecnici prestare. Ma finché
esiste questo potere, come prodotto della divisione in classi, non si possono
affrontare le contraddizioni umane come contraddizioni naturali (in medicina,
la contemporanea presenza nella vita di salute e malattia), perché la
malattia della classe subalterna continuerà a diventare un valore negativo
assoluto, strumentalizzabile in ogni senso, contrapposto al valore assoluto
positivo, rappresentato dalla salute che resta la condizione indispensabile
per mantenersi all'interno del ciclo produttivo. Finché è la classe
dominante a programmare i nuovi servizi sanitari (5) che dovrebbero rispondere
ai bisogni di tutti, le nuove strutture continueranno a rispondere ai bisogni
della classe che li programma. Per questo l'organizzazione risponde ai bisogni
del tecnico più che a quelli dell'assistito, anche se apparentemente
il medico cura e l'assistito viene curato.
Fin qui la nostra risposta al questionario. Ed è qui che si ripropone
il ruolo del tecnico che, presa coscienza nella propria pratica professionale
di questi meccanismi, deve individuare, assieme a chi è oggetto di oppressione,
l'uso concreto che viene quotidianamente fatto dalla scienza borghese ai danni
della classe subalterna, perché attraverso questa ricerca essa arrivi
a conoscere tutti i meccanismi attraverso cui passa l'oppressione e li inglobi
come altri contenuti della sua lotta. E tanto più l'intervento del tecnico
riuscirà ad essere diverso da quello dell'intellettuale che insegna a
chi è oppresso la via della liberazione, quanto più egli stesso
si riconoscerà oggetto dei medesimi meccanismi, in quanto delegato a
metterli in atto e a legittimarli.
La chiusura dell'esperienza, vissuta per undici anni nell'ospedale psichiatrico
di Gorizia (6), può forse rappresentare un tentativo, da parte del tecnico,
di portare fino in fondo il suo rifiuto a essere complice della copertura di
un'emarginazione di classe che la scienza legittima attraverso l'alibi del controllo
della devianza psichica. Le dichiarazioni allora rilasciate dal gruppo curante
sembrano chiarire, più di qualunque commento, il significato di quell'azione
e la posizione assunta dai tecnici nei confronti di una problematica che non
trovava modo né possibilità di evolversi, se non riproponendo
la logica manicomiale, precedentemente distrutta, che si sarebbe ricostruita
nell'isolamento e nell'impossibilità di proporre a un livello diverso
la problematica.
Al di là del valore reale-simbolico che può aver avuto la dimostrazione
pratica della possibilità di «aprire» un manicomio e della
graduale riabilitazione degli internati, si trattava principalmente di portare
alla ribalta una problematica sociale che - partendo da una pratica particolare
- proponesse temi e confronti generali. La validità di un tale tipo di
azione - pur con i limiti impliciti nel fatto di essere condizionata e circoscritta
dalle stesse strutture burocratico-amministrative cui l'organizzazione ospedaliera
è legata - resta comunque l'uso che se ne fa, nel momento in cui essa
esprime un nuovo tipo di contraddizioni. Ma parlare di «uso» di
un'azione non significa, come le interpretazioni più grossolane e volgari
hanno spesso ipotizzato, che i malati vengono strumentalizzati in nome della
«rivoluzione»; né che, se non possono essere usati per «la
rivoluzione», è inutile ogni tipo di intervento. L'uso di quest'azione
significa che gli internati, nel graduale processo riabilitativo, esprimono
e rappresentano - in rapporto alla struttura sociale e all'ideologia - un punto
nodale dei problemi che, di volta in volta, devono essere rilanciati per essere
affrontati a un livello diverso. E il compito dei tecnici è continuare
a rilanciarli.
In questo senso vanno letti i documenti qui trascritti, come segno dell'uso
politico di un momento repressivo del condizionamento sociale generale.
*
Comunicato alla stampa (7).
A undici anni dall'inizio della trasformazione del manicomio di
Gorizia oggi ho consegnato alla Procura della Repubblica la proposta di redigere
il certificato di guarigione nei confronti di 130 persone internate presso il
nostro istituto, insieme alla proposta di trasformare, in virtù dell'art.
4 della Legge n. 431/1968, 68 degenti in ammalati «volontari», persone
cioè che volontariamente chiedono un'assistenza psichiatrica, conservando
tuttavia il diritto di essere dimessi su loro richiesta. Restano 52 degenti
che rientrano ancora nella Legge 1904, oltre i già attuali «volontari».
Ho consegnato al Presidente dell'Amministrazione Provinciale una relazione dettagliata
dal punto di vista amministrativo sulla situazione attuale dell'Ospedale e la
proposta da me avanzata al Procuratore della Repubblica. Ho messo al corrente
della cosa il medico provinciale ed ho contemporaneamente rassegnato le mie
dimissioni da direttore dell'ospedale assieme ai medici dell'équipe.
Partiti dall'ipotesi che il manicomio, oltre che servire di asilo per i malati
di mente servisse come luogo di scarico per le persone genericamente devianti
prive di soluzioni economiche e sociali, si è proceduto in questi anni
alla lenta riabilitazione di chi era stato distrutto più dal lungo periodo
di segregazione che dalla malattia in sé. Oggi non si può accettare
di continuare a mantenere la maggior parte dei degenti segregati in un'istituzione
che, per il fatto stesso di non consentire aperture e sbocchi, li farebbe velocemente
retrocedere al grado di istituzionalizzazione e di distruzione personale in
cui li avevamo trovati. Non è qui il caso di indagare perché l'Amministrazione
Provinciale di Gorizia si sia rifiutata di aprire i centri esterni proposti
e programmati fin dal '64 (vedi in particolare quello di Cormons, pronto da
più di due anni) né di spiegare il suo atteggiamento concretamente
negativista - al di là delle parole e delle dichiarazioni pubbliche -
che ha sempre reso difficile ogni avvicinamento da parte dell'ospedale con gli
enti locali con cui sarebbe stato possibile tessere una rete protettiva, sia
in fase di post-cura che in fase preventiva, che avrebbe consentito e consentirebbe
la finale riabilitazione di molti «volontari», costretti invece
a riistituzionalizzarsi nella routine comunitaria.
In questa situazione "la nostre presenza nell'Ospedale Psichiatrico goriziano,
oltre ad essere inutile, ci sembra dannosa per quei degenti - ed è la
maggioranza - per i quali noi continuiamo a rappresentare, in qualità
di psichiatri, la giustificazione al loro internamento". Se si tratta di
persone per le quali non è stato possibile trovare una soluzione esterna,
perché sole, perché povere, perché rifiutate, non per questo
noi possiamo continuare a mantenerle rinchiuse nell'etichetta di ammalato mentale,
con le conseguenze ed i significati che tale etichetta comporta.
Non sappiamo attualmente quali possano essere le decisioni del Procuratore della
Repubblica, né quelle del Presidente dell'Amministrazione Provinciale.
Sappiamo solo che ci allontaniamo con amarezza dall'ospedale di Gorizia dove,
nonostante le polemiche e gli attacchi e nonostante l'assedio in cui siamo rinchiusi,
siamo riusciti a dimostrare in dieci anni di lavoro come sia possibile esercitare
onestamente la medicina e come si possa fare della psichiatria uno strumento
di liberazione e non di oppressione come lo è stato per troppo tempo.
La pubblicizzazione della nostra azione sarà ancora una volta interpretata
come desiderio di notorietà e di successo. Ma dichiarando apertamente
conclusa l'impresa iniziata più di dieci anni fa, risulta forse più
facile far comprendere al pubblico interessato a questo problema, suo come nostro,
il senso del discorso pratico che abbiamo incominciato e portato avanti fino
ad ora. Non è stato facile né per noi, né per quelli che
ci hanno preceduti e che stanno ora lavorando in luoghi diversi, allo stesso
fine. Ma crediamo di aver dato con questo una dimostrazione pratica di che cosa
sia l'etichetta psichiatrica di malato mentale e quale uso ne possa venir fatto.
Forse l'unica cosa che potremo dire, a conclusione di questa dichiarazione,
è che i malati, gli ex malati, gli ex internati che sono stati per tanti
anni con noi, hanno dimostrato di avere compreso appieno la nostra azione, esprimendo
come loro esigenza, maturata insieme alla nostra stessa maturazione, la necessità
di una soluzione che vada oltre i confini della medicina e di cui hanno dato
testimonianza con la maturità e la chiarezza con la quale hanno affrontato
nelle nostre assemblee la discussione sul loro futuro. Per loro ci auguriamo
che nessun collega possa tornare in questo ospedale per rifabbricare con un
tratto di penna la loro malattia e la loro tragica carriera.
*
Egregio Signor Presidente (8),
dopo la dichiarazione da Lei rilasciata a «Il Piccolo» sulla situazione
che è venuta a crearsi nell'Ospedale Psichiatrico di Gorizia in seguito
alla posizione presa dal Direttore incaricato dottor Domenico Casagrande, sento
la necessità di intervenire pubblicamente per fare alcune precisazioni.
Condivido incondizionatamente l'operato del dottor Casagrande che ritengo estremamente
corretto sul piano tecnico, morale e civile. La decisione da lui presa non è
che la conseguenza logica del lavoro iniziato undici anni fa e la conferma pratica
della sua validità. Definirla una reazione «emotiva» e quindi
immatura, mi sembra significhi prendere questa decisione come un'azione isolata
e totalmente staccata dal contesto in cui è nata. Reattiva a che cosa
potrebbe essere una presa di posizione di questo genere, se non all'impossibilità
di procedere in un'azione che rischia di riproporsi nuovamente come una «gestione
manicomiale» nel momento in cui non ha prospettive né sbocchi?
Quale segno di immaturità rappresenterebbe, se da anni si aspettano a
Gorizia (e le aspettavo da anni anch'io) le soluzioni esterne che sole potrebbero
consentire la riabilitazione ed il graduale reinserimento dei degenti che non
hanno più motivo di rimanere in manicomio? Non è forse segno di
serietà professionale richiamare l'attenzione del pubblico sui limiti
che incontra il tecnico nell'espletamento del suo lavoro, limiti rappresentati
dalle responsabilità degli enti pubblici da cui l'assistenza dipende?
E non è segno di responsabilità civile e sociale richiamare alla
propria responsabilità gli organismi preposti alla gestione del bene
pubblico?
Se tutto questo è segno di immaturità, sarebbe da augurarsi che
gli immaturi fossero più numerosi.
Del resto le Sue stesse dichiarazioni sono contraddittorie dato che, se da un
lato afferma e riconosce la validità di quello che Lei definisce «il
metodo Basaglia», dall'altro l'Amministrazione Provinciale da Lei presieduta
non permette praticamente di procedere oltre, decretando in questo modo la morte
per asfissia di questo stesso metodo. Se Lei è disposto a riconoscere
che l'opera di trasformazione avvenuta nell'Ospedale Psichiatrico di Gorizia
è stata un'azione determinante per il risveglio del problema psichiatrico
in Italia, perché dovrebbe aspettare l'indicazione per un ulteriore sviluppo
dallo studio della situazione psichiatrica italiana in generale? Quali indicazioni
possono venire da uno studio astratto di una realtà da trasformare quando
invece siamo di fronte a dei bisogni concreti cui rispondere in una realtà
già trasformata? Le commissioni di studio non sono, in questo caso, che
l'alibi per il rallentamento burocratico di ogni azione che vuole procedere,
perché spinta da esigenze e da necessità reali. Ciò che
si è tentato di fare nell'Ospedale Psichiatrico di Gorizia è stato
rispondere ai bisogni immediati dei malati, bisogni che gradualmente, di pari
passo con la riabilitazione dei pazienti, sono venuti qualitativamente maturando
ed evolvendo. Che cosa potrebbe fare ora il gruppo curante dell'ospedale se
non fermarsi, dichiarando che non è di loro competenza rispondere al
tipo di bisogni che attualmente la maggior parte dei degenti presenta?
Il tecnico che vuole agire a difesa e a tutela di chi chiede il suo aiuto e
la sua opera può usare gli strumenti che «la scienza» gli
offre solo se riesce a farli diventare mezzi di liberazione e non di oppressione.
La scienza - così come la legge - nasce sempre come esigenza di tutela
e di liberazione dell'uomo, ma è facile si traduca in un nuovo strumento
di oppressione. La tecnica - così come la legge - può dunque essere
usata come strumento di liberazione se riusciamo ogni volta a comprendere i
bisogni reali cui si deve rispondere, evitando di presumere o di accettare che
la scienza e la legge servano a rispondere ai bisogni dei tecnici o della società
che li delega. L'ospedale è costruito per la cura dei malati e non per
dare un ruolo al gruppo curante o difendere la società dal malato. Nel
momento in cui il degente di un ospedale presenta necessità che vanno
oltre la malattia di cui ha sofferto, il medico - continuando a mantenerlo rinchiuso
nell'etichetta della malattia - non risponde più ai suoi bisogni ed in
questo modo ne arresta il processo di riabilitazione e di liberazione.
Per questo la presa di posizione del dottor Casagrande è perfettamente
coerente con tutto quanto abbiamo finora sostenuto e questa sua proposta - nata
dalle esigenze stesse dei malati dell'Ospedale Psichiatrico di Gorizia - potrebbe
essere la proposta pratica per un'alternativa alla scienza ed alla violenza
dell'istituzione: una proposta che richiama le responsabilità di tutti
alla ricerca di una soluzione comune, dove non ci sia l'eterno capro espiatorio
che paga per la salvezza e la sicurezza degli altri.
*
Cari amici (9),
dopo undici anni di lavoro oggi lasciamo l'Ospedale e sapete con quale animo,
dato che è anche il vostro. E' inutile parlare ancora con voi del significato
di questa nostra ultima presa di posizione: la conoscete perfettamente perché
è nata dalle vostre stesse esigenze, alle quali non era più di
nostra competenza rispondere.
Si doveva in qualche modo rendere chiaro all'opinione pubblica, direttamente
interessata a questi problemi, quale era il punto a cui si poteva arrivare in
un'istituzione trasformata e quali erano gli ostacoli contro cui si scontrava
ogni sua successiva evoluzione, in modo che fossero chiare le responsabilità
e le competenze.
L'Ospedale Psichiatrico di Gorizia ha dato in questi anni un'indicazione pratica
sul modo in cui si possono affrontare i problemi dell'uomo malato e della sua
sofferenza. Tutti insieme abbiamo fatto fronte a fatiche, incomprensioni, lotte,
ma siamo riusciti fino ad ora a portare avanti un'azione che ha avuto un valore
dimostrativo tale da far rinascere in molti la speranza della possibilità
di un rapporto diverso fra gli uomini.
Nella Provincia di Gorizia e ben oltre i suoi confini, è ora il cittadino
il potenziale malato, il potenziale utente del servizio sanitario, che parlano
e discutono dell'ospedale aperto, dell'ospedale chiuso, della necessità
di una riforma sanitaria che risponda ai bisogni dei malati. Ciò significa
che è il cittadino che si è impadronito - attraverso un'azione
pratico-dimostrativa e la sua divulgazione attuata con tutti i mezzi a disposizione
- del problema della sua malattia e della sua cura.
Quest'ultimo gesto che porta il nostro allontanamento dall'ospedale non è
che la coerente dimostrazione pratica del rifiuto di accettare i limiti che
ci vengono imposti dall'esterno e che interferiscono nel nostro lavoro distruggendolo
e deteriorandolo attraverso la tecnica dei tempi lunghi, del rimandare a domani
quello che si può fare oggi. In queste condizioni noi stessi, alle vostre
legittime domande: «quando vado a casa?», dovremmo riprendere le
menzogne dei vecchi manicomiali che rispondevano «domani», sapendo
bene che quel domani non esisteva nel vostro calendario.
Quello che ci unisce anche in questo atto di rifiuto responsabile di una complicità
che noi non possiamo sostenere nei vostri confronti, è quello che abbiamo
fatto insieme a voi degenti, infermieri ed a tutti i medici che ci hanno preceduto.
Forse il significato più profondo di quanto è accaduto nell'Ospedale
Psichiatrico di Gorizia è che quanto è avvenuto è veramente
il risultato di uno sforzo, di un lavoro di responsabilizzazione di tutti i
membri dell'istituzione che risultano - tutti insieme - autori dell'opera di
capovolgimento pratico attuata.
Quando uno di voi ha detto che la trasformazione in atto nel nostro ospedale
non era opera dei medici, ma che i medici avevano messo le chiavi nella toppa
ed i malati le avevano poi girate per aprire la porta, aveva dimostrato di aver
capito quello che altri organi responsabili non hanno ancora compreso.
L'Ospedale Psichiatrico di Gorizia - per la sua storia e per essere diventato
un punto di riferimento nell'evoluzione della psichiatria italiana - aveva la
responsabilità di denunciare quali e di quale natura fossero gli ostacoli
che impedivano il procedere della sua evoluzione. Non è stato un gioco
irresponsabile fatto alle vostre spalle: noi siamo perfettamente consapevoli
del grado di maturità e di responsabilità cui è arrivato
attualmente l'intero ospedale. Abbiamo fatto una lotta assieme e in molte circostanze
abbiamo vinto e siamo riusciti a dimostrare qualcosa di molto importante. Se
noi ci lasciamo ora, questa non è una sconfitta nostra né vostra:
è un'altra tappa della nostra lotta che dobbiamo continuare insieme,
anche se separati.
I nuovi medici che ci sostituiranno forse non sapranno e non capiranno subito
che cosa siamo stati l'uno per l'altro; non sapranno e non capiranno subito
che cosa significa costruire o tentare di costruire insieme la propria liberazione;
non sapranno e non capiranno subito che cosa volevamo ancora fare assieme e
ci è stato impedito di fare.
Ma adesso sta a voi dimostrare tutto questo: l'Ospedale non potrà mutare
perché siete voi a determinarne l'andamento ed il ritmo di vita. Le parti
si sono ormai capovolte. Sarete voi a dimostrare ai nuovi medici le esigenze
a cui devono adeguarsi; sarete voi a curare e sedare la loro ansia perché
il loro compito non è facile, meno facile del vostro dato che ormai sapete
di che cosa avete bisogno; sarete voi a far capire loro che cosa è stato
il nostro lavoro di questi anni e a testimoniare come si fa a responsabilizzarsi
quando si è irresponsabili.
Per questo, nel lasciarvi, siamo sereni anche se addolorati: perché sappiamo
che quello che abbiamo fatto assieme è "vostro" e nessuno potrà
distruggerlo. Non solo, ma perché abbiamo la certezza che tutti voi,
degenti ed infermieri, siate in grado di continuare la vostra e nostra battaglia,
sapendo che noi saremo altrove, ma sempre lottando per le stesse cose.
*
Egregio Signor Presidente (10),
nella sua qualità di Presidente della Commissione del concorso dell'Ospedale
Psichiatrico di Gorizia e di Presidente dell'Amministrazione Provinciale, Le
comunico di aver deciso - dopo i noti fatti - di presentare le mie dimissioni
da membro di detta Commissione.
Gli avvenimenti che si sono succeduti in questo ultimo mese mi hanno portato
a maturare questa decisione. A questo punto, che senso ha il mio avallo in un
concorso ormai chiaramente definito, quando la staffetta che ha già preso
possesso dell'Ospedale Psichiatrico di Gorizia porta il nome del «Caposcuola»
che la seguirà?
L'Amministrazione Provinciale di Gorizia è finalmente libera di dar corso
alle operazioni di chiusura di un'esperienza che - secondo quanto Lei stesso
ha avuto modo di dichiarare più d'una volta - ha dato l'avvio alla trasformazione
dell'assistenza psichiatrica in Italia, ma ha evidentemente provocato, insieme,
troppe tensioni e polemiche portando alla ribalta nazionale un problema che
era bene restasse ancora coperto in tutte le sue ambiguità. E' troppo
facile imputarci di avere strumentalizzato un'azione per farci della pubblicità:
Lei sa bene che se il problema dell'assistenza psichiatrica è ora patrimonio
dei suoi utenti, lo si deve soprattutto a ciò che è stato fatto
a Gorizia e al modo in cui è stato divulgato il significato di questa
esperienza.
Ora comunque il gioco è finalmente chiaro. L'Amministrazione Provinciale
di Gorizia non può più dichiarare di essere pronta a continuare
la cosiddetta «linea Basaglia» perché l'ultima opportunità
di dimostrare "praticamente" questa intenzione, era capire il senso
implicito nell'ultimo gesto dell'attuale gruppo curante che voleva, in vista
di un cambio della guardia chiaramente auspicato dall'Amministrazione Provinciale
attraverso il suo comportamento nei confronti della gestione dell'Ospedale,
impegnare concretamente gli organi responsabili per il futuro della loro istituzione
psichiatrica.
L'impegno è stato eluso burocraticamente e questo sgombra da ogni equivoco
l'operato dell'Amministrazione Provinciale che non potrà più schermarsi
dietro la «linea Basaglia» ufficialmente appoggiata e praticamente
osteggiata in tutti i modi. Il momento è chiarificatore e particolarmente
importante per quello che lo svolgersi dei fatti ha lasciato capire: perché
la realtà pratica rappresentata dall'Ospedale Psichiatrico di Gorizia
sta fungendo da verifica della moralità politica sia della classe medica
che di quella politico-amministrativa. Non è infatti casuale che gli
ultimi interventi dell'Amministrazione Provinciale di Gorizia siano stati appoggiati
e riconosciuti come propri dal M.S.I. e dalle ali più regressive e immobiliste
di ogni schieramento politico. Contemporaneamente, da parte dei medici si assiste
al rompersi del corporativismo che finora ha tenuto ferreamente legata la categoria,
mostrando esplicitamente la natura della frattura interna, fondata su una scelta
tecnico-politica fondamentale: l'uso della scienza come strumento di liberazione
o di oppressione.
Il modo in cui l'Amministrazione Provinciale di Gorizia ha inteso uscire dall'impasse
in cui il suo ospedale e i suoi degenti l'avevano messa, testimonia dunque definitivamente
la sua scelta per il futuro. Per questo non intendo avallare con la mia presenza
una decisione che esclude dal proprio terreno di lavoro chi ha lottato per trasformare
non solo il manicomio di Gorizia, ma i manicomi italiani, l'atteggiamento generale
verso il malato mentale e la stessa definizione di malattia come qualcosa di
infamante e di irreversibile.
A questo punto, per quanto ci lega ai degenti dell'Ospedale Psichiatrico di
Gorizia e per quello che è stata per noi e per loro questa lunga, faticosa
esperienza comune, non mi resta che augurarmi che l'Amministrazione Provinciale,
disponendo di un'équipe medica più arrendevole e meno «facinorosa»
si trovi nella necessità di far fronte velocemente, senza resistenze
e rinvii, all'esigenza dei suoi degenti e che questo atto si traduca in una
spinta ad agire per tappare le falle di una situazione altrimenti insostenibile.
Per questo, per non turbare il procedere della vita dei degenti, non interverremo
più, né con polemiche, né con attacchi, sul problema della
conduzione dell'Ospedale Psichiatrico di Gorizia sperando che nessun degente
abbia a pagare per il gesto di irresponsabilità dettato da un'evidente
ripicca politica dei suoi amministratori.
*
I medici dimissionari di Gorizia rifiutavano dunque di proporre
un modello di conduzione ospedaliera che si sarebbe inevitabilmente tradotto
in una gestione di tipo manicomiale, dove il tecnico non avrebbe potuto che
riassumere il ruolo di manipolatore e di funzionario del consenso. La terapeuticità
della prima fase critica era implicita nel processo di trasformazione di un
terreno istituzionale in cui tutti i componenti erano presi in causa, così
come i rapporti fra questo e il sistema sociale di cui esso è espressione.
Nel momento in cui la nuova gestione è accettata solo se si propone come
un nuovo modello tecnico, chiuso in sé e senza la possibilità
di un'evoluzione successiva, cioè senza la possibilità di aprire
a un livello diverso le contraddizioni, il processo di trasformazione si arresta
e viene ridotto a un processo di adattamento alle nuove norme, che distrugge
la terapeuticità dell'organizzazione ospedaliera, attraverso la stereotipizzazione
della dinamica iniziale. E' questo processo regressivo di adattamento che i
tecnici goriziani hanno rifiutato, proponendo un'indicazione di quella che poteva
essere la successiva evoluzione, se questa non fosse stata impedita e bloccata.
Le contraddizioni aperte devono essere richiuse, e allora sono «irresponsabili»,
«emotivi», «immaturi» coloro che le hanno rese evidenti
(senza ricordare che forse non ci sono aggettivi per qualificare quelli che
ci avevano preceduti e che tuttora agiscono nei manicomi) e l'ordine si ricompone
con la repressione e l'occultamento dei problemi reali.
L'esperienza di Gorizia doveva essere "comunque fisicamente" eliminata,
perché la finalità di quest'azione non era proporsi come un nuovo
modello tecnico, come lo poteva essere in Inghilterra la comunità terapeutica
di Maxwell Jones, o in Francia il Tredicesimo Arrondissement, vetrine psichiatriche
in cui esporre il nuovo prodotto pronto al consumo. Essa, partendo dalla psichiatria
e dal manicomio come situazioni emblematiche, proponeva una problematica politica
e sociale che non voleva limitarsi alla trasformazione umanitaria dell'ospedale
- pur attuandola - ma che considerava questa un'occasione per mettere praticamente
in discussione la finalità dell'esistenza del manicomio e delle modalità
della sua esistenza, in rapporto alla nostra struttura sociale.
Nel momento in cui la contraddizione non poteva essere portata all'esterno,
nella società più vasta, le dimissioni del gruppo curante - prigioniero
nell'isola comunitaria che aveva costruito - erano un modo di rilanciarla e
di riproporre il problema dell'assistenza psichiatrica su un piano ulteriore
di esplicitazione e di lotta.
E' su questo tema e sulla posizione dei tecnici del sapere pratico, che abbiamo
avuto, nell'inverno del '72, una conversazione con J.-P. Sartre, conversazione
che prosegue, in un tempo successivo, in quella di Dedijer e da questi trascritta
nei suoi appunti sulla storiografia.
FRANCO BASAGLIA Il tecnico borghese, delegato alla gestione delle
diverse specificità professionali, può essere considerato un intellettuale
in senso gramsciano, in quanto depositario e insieme produttore di temi e di
idee che servono al mantenimento dell'istituzione in cui opera, e di riflesso
alla sopravvivenza della propria classe e del sistema sociale in cui è
inserito.
In questa prospettiva, anche alla luce dei movimenti che si sono verificati
in questi ultimi anni da parte di tecnici che rifiutavano la delega sociale
implicita nel proprio ruolo, come vede la problematica dell'intellettuale e
del tecnico-professionale in rapporto alla pratica istituzionale? Questo, sia
per quanto riguarda l'azione nelle istituzioni in generale, che in quelle psichiatriche
in cui noi siamo più direttamente coinvolti.
J.-P. SARTRE Sono poco informato sulla psichiatria. Ho seguito i suoi lavori
e sono perfettamente d'accordo su quanto lei ha detto. Posso comunque parlarle
di ciò che penso dell'intellettuale.
Per me l'intellettuale non è semplicemente un tecnico. Per esempio uno
studioso americano che si occupi della bomba atomica non è un intellettuale,
bensì ciò che io chiamo un «tecnico del sapere pratico»:
diventa un intellettuale nel momento stesso in cui comincia a interrogarsi sull'importanza
della bomba atomica e finisce col contestare il lavoro che fa; vale a dire nel
momento in cui constata la propria contraddizione, che è quella di servirsi
di tecniche che si fondano sull'universale per fini particolari, appartenenti
a un gruppo particolare. Egli si trova allora in contraddizione con se stesso:
creato per tecniche universali, serve i fini, per esempio, di una borghesia
o di una casta che lo utilizzano per i propri interessi. Dunque egli si trova
in totale contraddizione con se stesso.
Questo è ciò che io chiamo il vecchio intellettuale, quello che
si trovava fra il 1930-60. Questo personaggio aveva due difetti: in primo luogo
reputava di dover restituire l'universale ovunque apparisse chiaramente che
lo si utilizzava per il particolare. Conseguentemente doveva avvicinarsi alle
masse, che rappresentano il vero universale e alle loro necessità o ai
loro bisogni, ma nello stesso tempo egli doveva restare un intellettuale: vale
a dire continuava a essere soddisfatto di costituire questa «coscienza
infelice», questo rapporto fra l'universale e il particolare che gli consentiva
di mantenersi quasi a livello di capo, ossia continuando ad essere l'intellettuale
che firmava proteste, che promuoveva dibattiti e che poteva prender parte a
certe azioni politiche. In definitiva era un capo. Egli non riteneva di avere
una disposizione innata per essere tale, ma reputava che il suo potere gli venisse
dal sapere acquisito e dalla contraddizione che trovava in sé. Inoltre
- e questo è il secondo difetto - gli intellettuali costituivano un gruppo
particolarmente definito, poiché erano tecnici scontenti del lavoro che
facevano. Giungevano a considerare la rivoluzione come la dittatura del gruppo
intellettuale.
Dopo il '68, da noi è apparso evidente, ai più giovani, come ci
fosse qualcosa di completamente contraddittorio nell'intellettuale, nel senso
che egli era partigiano d'azione per un fine universale e, nello stesso tempo,
sapeva di essere individualizzato da ciò che gli si domandava a livello
statale, a livello della classe privilegiata, ed egli soffriva di questa sua
contraddizione, ma eleggeva la sua sofferenza a buona sofferenza: era contento
di sé perché trovava che questa contraddizione gli permetteva
di mettere a nudo tutte le azioni pretese universali, ma in realtà particolari,
intraprese da un governo o da una classe.
Ora è evidente per questi giovani che, se la contraddizione dell'intellettuale
fosse stata vera, totale, egli avrebbe dovuto sopprimersi in quanto intellettuale;
avrebbe cioè dovuto rifiutarsi di mantenere quella contraddizione non
necessaria, per vedere ciò che rappresentano le classi, le istituzioni
forgiate dalla società civile e dalla società politica. E' sufficiente
raggiungere le masse per trovare il loro vero scopo, non limitandosi a criticare
la classe dirigente, ma entrando nella vita reale e costante che queste conducono
contro di essa.
Ciò significa che un intellettuale, oggi, dopo il '68, cosciente della
sua contraddizione, deve sopprimersi in quanto intellettuale; il che non significa
in quanto tecnico: egli può essere medico o ingegnere, ma deve sopprimersi
come intellettuale per raggiungere le masse. Non deve più essere una
coscienza tormentata che plana sopra le masse (eravamo tutti così prima
del 1968), ma deve essere come uno dei tanti della massa, che ha il proprio
mestiere e che esamina i problemi dal punto di vista della «necessità
universale», cioè dei bisogni della massa in generale. Gli intellettuali
d'oggi affermano: bisogna che ci sopprimiamo in quanto tali. Non vediamo l'intellettuale
nello stesso modo. Coloro di cui parlo, coloro che vogliono sopprimersi, capiscono
che la contestazione deve essere contemporaneamente globale e particolare.
Ecco il mutamento, che potrebbe essere capitale, che si sta ora verificando
da noi. Molti giovani, educati per essere tecnici del sapere pratico, a un certo
momento hanno smesso di esserlo; sono entrati per esempio, nelle fabbriche,
ne «les établis», come si dice da noi. Questi intellettuali
sono ora degli operai e fanno nello stesso tempo un lavoro politico. Essi hanno
dunque certe qualità che acquisiscono durante i loro studi e che possono
sempre servire; ma queste qualità non le mettono al di sopra della massa.
Ciò dà loro un'occupazione o un lavoro vero e proprio. Essi possono
forse redigere meglio una cosa richiesta da un gruppo popolare, ma nell'azione
sono eguali agli altri.
Nasce allora un problema difficile perché naturalmente la società
non ammette questa gente. Si tratta, è evidente, di persone che sono
automaticamente dall'altra parte della società. Il che significa la contestazione
di tutte le istituzioni, poiché queste istituzioni comprendono proprio
l'elemento particolare che conosciamo. Questi giovani sono quindi nell'illegalità,
perché contestano contemporaneamente e il tipo di istituzione e tutte
le istituzioni formate da una società che usa l'universale come mezzo
per soddisfare necessità particolari, e, insieme, essi si negano in quanto
intellettuali.
Originariamente l'intellettuale è un prodotto dell'istituzione borghese,
ma quando egli giunge a cogliere le sue contraddizioni con forza, non gli resta
che una soluzione: gettarsi nell'illegalità, cioè insieme agli
altri, gettarsi nel rifiuto e nella contestazione dell'insieme della società
che lo ha formato. Ciò presuppone che egli militi per una società
in cui l'intellettuale non esisterà più, ma in cui tutti saranno
contemporaneamente tecnici del sapere pratico e manuale, per esempio come in
Cina: lavorano coi contadini, poi fanno anche un lavoro proprio. E' questa,
secondo me, la situazione e l'aspirazione degli intellettuali che devono tornare
alle masse.
Quindi va da sé che tutto ciò li porta alla contestazione di quanto
fa la società nei riguardi dei marginali - prendo questo esempio, ma
avrei potuto prenderne altri - e tra questi marginali di coloro che sono chiamati
normalmente i pazzi, da una società che si riconosce buona e rifiuta
a priori i marginali.
Che si può fare se sono rifiutati? Li si mette in prigione per un tempo
più o meno lungo. La società che noi vogliamo realizzare è
una società in cui non ci saranno emarginati. Non ce ne saranno perché
questi marginali sono, in realtà, come gli intellettuali, persone che
non si adattano alla società così com'è attualmente. Poiché
al giorno d'oggi c'è gente che agisce così, in modo solitario
ed è chiaro che li si può chiamare pazzi. Ma in verità
si può dire semplicemente che essi sono stati posti in una situazione
solitaria e che contestano isolatamente l'insieme sociale, ivi compresa la ragione
stessa.
Il problema non è dunque l'istituzione della psichiatria (che crea pazzi);
il problema è sapere come si possano aiutare nella loro contestazione
uomini che contestano da soli, in modo oscuro, complicato, ingarbugliato; come
li si possa aiutare a contestare in modo più chiaro. E possibile? E'
molto difficile. E' certo, comunque, che la psichiatria è esattamente
il contrario di ciò che dovrebbe essere per poter aiutare queste persone.
L'idea stessa della guarigione mi sembra assurda: guarire, in questa società,
significa adattare le persone a dei fini che esse rifiutano, significa quindi
insegnar loro a non contestare più, adattarle alla società. Questo
è stato uno dei grandi torti della psicoanalisi. Evidentemente lo scopo
della psicoanalisi è quello di prendere un individuo, che è più
o meno ai margini, e adattarlo. Se diventa un buon dirigente o qualche altra
cosa, lo si è guarito. Ora, non lo si è guarito affatto, lo si
è massacrato. Non è questo il punto. Bisogna cercare in lui, capire
la sua contestazione, capire ciò che voleva dire.
Per quanto ci riguarda, nel momento stesso in cui neghiamo l'intellettuale,
attribuiamo molta importanza alla soppressione di ogni istituzione psichiatrica
che parta da principi esattamente opposti a quelli che dovrebbero costituirne
la base. Non si prendono mai le persone come individui da considerare in se
stessi; si prendono in rapporto a degli schemi: questo è sano, questo
è malato, eccetera. Tutto ciò non ha alcun significato per noi,
e mentre lottiamo contro ogni forma di prigione (il Gruppo d'informazione delle
prigioni è un gruppo di intellettuali che si occupano delle carceri e
cercano di trasformare il regime carcerario per poterlo sostanzialmente sopprimere
in futuro) ci sono persone, che qui in Francia chiamiamo «antipsichiatri»,
ma il cui fine è esattamente quello cui ho appena accennato: cioè
prendere gli individui in quanto tali, il che è una forma dell'universalità
(coloro che li criticano credono che sia individualismo; in realtà è
una forma di universalismo) e provare a dar loro una forma più sociale
di contestazione, senza per altro mutare nulla dell'individuo.
BASAGLIA Il tecnico borghese accetta automaticamente la gestione dell'istituzione
come una cosa morta, come non fosse possibile ridomandarsi che cosa ne sia il
contenuto, o come non dipendesse da lui la definizione che il suo stesso intervento
tecnico conferma. Quali sono, secondo lei, i problemi teorici e pratici del
tecnico di fronte alla realtà, tenuto conto che la realtà stessa
in cui viviamo non è che ideologia?
SARTRE Effettivamente il tecnico ha un'attività pratica ed è circondato
dall'ideologia che, d'altra parte, è sostanzialmente in contraddizione
con se stessa. Per esempio uno psichiatra, nel momento in cui ha la sua pratica,
si trova a contatto diretto con degli emarginati, cioè con quelli che
la società chiama pazzi; si trova circondato non solo da un'ideologia,
ma da un'istituzione, per esempio l'ospedale psichiatrico, il quale definisce
i pazzi (l'istituzione e l'ideologia definiscono il pazzo): il tecnico pratico
non ha per nulla lo stesso rapporto del tecnico. L'uomo che vede, che cura,
non ha alcun rapporto con il tecnico teorico. Finché non avrà
rinunciato a questo tipo di istituzione, sarà costretto a continuare
ad applicarla; sarà medico di un ospedale psichiatrico e gli si dirà:
ciò che si deve fare, si deve fare: sta scritto. Si tratta contemporaneamente
dell'istituzione e dell'ideologia, essendo l'ideologia nient'altro che la traduzione
a livello diverso dell'istituzione.
A questo punto, in quanto pratico, egli si trova in conflitto con una concezione
che è semplicemente quella della classe dominante. Ma essa si trasferisce
anche nelle classi contestatrici, poiché tutto ciò che noi diciamo
sarà necessario spiegarlo alle masse perché capiscano: anch'esse
sono abituate a pensare che un pazzo è un pazzo: la classe dominante
ha dato loro la sua ideologia a questo proposito.
Allo stesso modo si incontrano delle difficoltà, per esempio, nella verità
pratica delle carceri: c'è l'ideologia (si punisce) e poi c'è
la verità (i detenuti subiscono una punizione diversa da quella che è
stata loro inflitta). Non si pone neppure il problema se si ha il diritto di
punire e in quale modo. Ma se si condanna un uomo a quattro anni di galera,
teoricamente, nello spirito del giudice si tratta di quattro anni di isolamento
in una camera con del cibo e basta. In realtà significa metterlo all'inferno,
perché c'è gente che ha paura di lui, che lo picchia o lo tortura:
una costante tentazione al suicidio (ha visto che ci sono uno o due suicidi
al giorno, attualmente?) Questa è la verità. Non si potrebbe mai
supporre che un giudice che dà quattro anni di galera a un colpevole,
lo condanni per quattro anni a essere picchiato, torturato e messo in condizioni
di tentare il suicidio. C'è qui una contraddizione profonda: da un lato
l'uomo del potere e dall'altro l'uomo del potere pratico, il direttore della
prigione, il guardiano, i quali vedono che in pratica non è così.
Essi si schierano dalla parte del tecnico ed è questo che porta ai suicidi,
alle rivolte o alle torture.
Anche qui è chiaro che la verità pratica è diversa da quella
ideologica. Un'ideologia esce dalla pratica ed è esattamente quella che
noi dobbiamo mettere a punto oggi. Però non sono gli intellettuali che
devono fare questo, ma l'insieme delle persone.
BASAGLIA E' questo il problema. Si tratta della costruzione di un'alternativa
pratica che non risponda più ai bisogni di chi la crea, ma a quelli per
cui sarebbe formalmente creata. Occorre agire direttamente nella situazione,
per arrivare a comprendere quali siano i bisogni cui si dovrebbe rispondere.
Bisogna cioè costruire assieme agli altri, al malato, al carcerato, a
chi abitualmente è oggetto di oppressione e di manipolazione da parte
di una classe, anche attraverso la scienza e la tecnica, uno strumento capace
di rispondere praticamente ai bisogni, opponendosi alla strumentalizzazione
che traduce la scienza in uno dei mezzi di oppressione di classe.
SARTRE Penso che, nel mondo borghese, la scienza sia anche ideologica. Essa
cioè contiene elementi universali, ma è talmente orientata che
contiene degli enunciati particolari presentati come universali. Si tratta di
enunciati erronei, che tuttavia appartengono al campo della scienza e ciò
si verifica soprattutto al livello in cui la scienza teorica diventa scienza
tecnica e pratica. Su alcuni punti specifici, per esempio, la psichiatria e
altri, sta alle masse reclamare una concezione diversa della scienza. Le scienze
umane sono scienze borghesi. Esse arrivano al punto di giustificare i massacri
degli indiani, e sappiamo tutti che cosa significhi.
Abbiamo pubblicato in «Temps Modernes» dei numeri sull'antropologia.
Gli etnologi capiscono questo problema e affermano: poiché siamo sempre
legati all'imperialismo, consideriamo questa gente come selvaggi; se non ci
fossero i soldati, non ci accetterebbero. Allora, cosa si può fare? Si
è fatta una lunga discussione a questo proposito.
Si tratta di un punto molto preciso in cui scienza, imperialismo, tutto si mescola.
Occorrerebbe chiarire ciò che vi è di ideologia borghese nella
scienza, a livello degli stessi concetti pratici. Per esempio, secondo me, la
psicoanalisi, è completamente borghese. Non ha i mezzi per svilupparsi
tra le masse, dove non ha alcun senso. Si fa la psicoanalisi di gruppo, ma è
una pazzia, perfino dal punto di vista di Freud. D'altra parte è vero
che coloro che la praticano sono borghesi e, in quanto tali, incapaci di capire
le situazioni attuali. Ricordo il caso di un amico di ventisette anni che faceva
parte di un movimento di contestazione di sinistra. Ha avuto molti guai, è
vissuto solo, si è drogato con L.S.D. ed è andato da uno psicoanalista.
Ma costui non è stato in grado di distinguere ciò che sono la
vita di un giovane militante di questo tipo e le sue pulsioni. Per esempio,
sosteneva che il giovane aveva un certo ascendente sui compagni perché
voleva interpretare il ruolo del padre. E' assurdo. Non voleva rappresentare
il padre. Si tratta di ben altro. Gli psicoanalisti non sanno rendersi conto
di ciò che succede a un giovane che è stato sconvolto nel '68.
Lei ha perfettamente ragione, infatti: ci sono concetti scientifici che possono
essere accompagnati da concetti borghesi.
BASAGLIA Di fronte al compito di rovesciare praticamente un'istituzione e insieme
l'ideologia su cui si fonda (scuola, ospedale, carcere, eccetera) il tecnico
ha due possibilità: o un capovolgimento ideologico che si limita a proporre
un successivo modello di gestione, o un capovolgimento pratico che abbia in
sé elementi utopici capaci di prefigurare una possibilità di rapporto
in grado di rovesciare il "segno" secondo cui la scienza e la tecnica
borghese sono orientati. Ma il pericolo di questo rovesciamento pratico è
la caduta in una successiva ideologia, dato che ci si continua a muovere sul
terreno minato dell'ideologia-realtà borghese.
SARTRE Si tratterebbe di proporre dei mutamenti ulteriori che non sono ancora
realizzabili. Capisco il suo punto di vista, ma non sono del tutto d'accordo.
Mi sembra che se ci si limita a considerare la negazione di queste istituzioni
insita nelle masse e a studiare questa negazione stessa, a rinforzarla, non
ci sarà bisogno di passare attraverso l'utopia. Ci si attacca alla scienza
pratica, ci si attacca alle istituzioni, senza formulare ciò che sarà
dopo. Semplicemente ciò che si vuole non è dato e ciò che
si vuole non è mai esattamente ciò che sarà dato. Può
essere meglio. Capisce cosa voglio dire? Non sono molto lontano da lei, solo
che non mi piacciono tanto le utopie. Si nega ciò che si ha, lo si nega
globalmente e anche individualmente, e si cerca di distruggerlo: secondo me
questa è la strada per arrivare a qualcosa.
BASAGLIA Ma in questa nostra realtà, cercare una scienza costruita assieme
ai suoi utenti reali o potenziali, è già un'utopia (anche se capisco
che il mio modo di usare questo termine non è filosoficamente corretto).
Questo non significa staccarsi dalla realtà pratica, ma tentare di trovare
risposte ai bisogni reali delle persone, alla cui cura, la scienza si dichiara
votata: realizzare questo diventa «utopico» nella nostra realtà.
SARTRE Molti accetterebbero questo discorso, ma per me la parola utopia è
troppo carica di non essere, di ciò che si immagina. D'altra parte, in
fondo, l'utopia deriva già dal sistema, come negazione delle istituzioni.
Secondo me, sono problemi di questo genere, problemi positivi che devono necessariamente
uscire dalle distruzioni che vogliamo: perché non si tratta di negare,
di rifiutare globalmente il sistema attuale. Il sistema attuale c'è e
bisogna lottare a poco a poco contro di esso.
E' nella pratica che si trovano gli elementi che, in un momento molto vicino,
possono diventare delle indicazioni ideologiche nuove. Si tratta d'altronde
di sapere se possiamo sopprimere tutte le ideologie. Anche questo è un
problema. Esiste un'ideologia valida, quando l'ideologia in generale non è
la scienza? Questo pone il problema della filosofia. Ed è un problema
che non voglio trattare, oggi. Soprattutto per me, questi sono dei problemi:
potrebbe esserci un'ideologia universale che fosse la buona filosofia, diversa
dalla scienza? Oppure si deve sopprimere ogni ideologia? E' difficile. Dipenderà
anche da ciò che sarà la nuova scienza. Essa potrà sostituire
la filosofia se userà procedimenti diversi dai vecchi metodi analitici,
i quali fanno sì che una legge sia y = f(x). Se sarà qualcosa
di diverso, se dalla dialettica nascerà un'altra scienza, allora forse
la filosofia sarà inutile. Ma tutto ciò lo si saprà solo
attraverso la negazione. E' questo che bisogna vedere. Per esempio, se l'uomo
diventa ciò che sarà attraverso la negazione del suo ruolo di
psichiatra e del ruolo di malato, se si arriverà a qualcosa come una
nuova concezione dell'uomo, della realtà sociale, se ciò esisterà,
forse non ci sarà più bisogno della filosofia. Se invece non lo
si farà, se la scienza resterà del tipo y = f (x), allora occorrerà
che esista una concezione dialettica, che sarebbe la filosofia, la sola ideologia
possibile. Ma tutto questo io non lo so, non si sa.
BASAGLIA Anni fa lei ha scritto una frase che mi aveva molto colpito: «le
ideologie sono libertà mentre si fanno, oppressione quando sono fatte».
Non so se si tratti di una mia proiezione, ma mi sembra che in questa enunciazione
sia presente la necessità di vivere a mano a mano le contraddizioni che
si aprono, anche se ricorrendo a una ideologia nata originariamente come rifiuto
e negazione, senza attaccarsi alla stessa ideologia per sopravvivere. Ma il
problema è come, in questa società, riusciamo a sopravvivere senza
aver bisogno di ricorrere a strumenti di difesa, evitando di cadere nella stessa
logica contro cui si lotta.
SARTRE Capisco all'incirca quello che ho potuto voler dire. C'è una parte
di creatività in qualsiasi ideologia, anche in una ideologia borghese.
Ma una volta fatta, si è alienati. Se ci deve essere una nuova creazione,
che sia una ideologia alla quale non si sia alienati. Che si sia noi stessi
ideologia. Tutti questi sono problemi.
BASAGLIA Rifacendomi a questo proposito al caso che lei conosce, di Gorizia,
potremmo dire che, dopo la prima fase di denuncia pratica della funzione dell'ideologia
psichiatrica, si correva il rischio di cristallizzarsi nella nuova ideologia
(la nuova gestione «buona» dell'istituzione, il nuovo modello tradotto
in una nuova tecnica terapeutica) che avrebbe riproposto, anche se a un livello
diverso, la stessa logica oppressiva contro cui si era lottato. Il secondo passo
attuato è stato quello di proporre a un livello successivo la problematica
istituzionale. A passi graduali fino ad arrivare alle dimissioni clamorose dei
medici, è stato possibile proporre praticamente il problema dell'assistenza
sanitaria su un piano a mano a mano più reale, rendendo esplicito che
si trattava soprattutto di un problema di assistenza pubblica, cui gli organi
responsabili hanno sempre eluso con la complicità della psichiatria e
delle istituzioni psichiatriche. Questo gesto può essere interpretato
come una rinuncia o lo ritiene un intervento valido nella strategia della lotta
nelle istituzioni?
SARTRE E' difficile saperlo. Potrei prevedere un po' ciò che farebbe
il governo francese, ma non conosco abbastanza quello italiano. Mi sembra che
i politici e gli amministratori italiani siano più elastici di quelli
francesi. Forse tenteranno di evitare la totale disgregazione provocata dalle
dimissioni, forse... semplicemente perché mi sembrano più elastici.
Da noi, con il governo attuale si accetterebbero le dimissioni dei medici e
li si sostituirebbero con altri medici fascisti. Ci sono stati casi, non altrettanto
importanti, in cui le cose sono andate esattamente così.
BASAGLIA Si potrebbe concludere, allora, che l'importante è uscire dalla
logica implicita nell'opposizione fra i termini «vittoria» e «sconfitta».
L'unica possibilità è ancora quella di continuare a lottare, perché
nella lotta si aprono nuove contraddizioni e, insieme, la possibilità
di un rapporto con gli altri.
SARTRE Questo è quello che penso per il momento. Vorrei però sapere
a che cosa porterebbe una rivoluzione, perché ci sono certi modi di contestazione,
che sono anche i nostri, e poi c'è sempre qualcuno che vuole prendere
il potere. Non sarebbe allora semplicemente un rovesciamento di potere da parte
di un altro? Non c'è nessun vantaggio. Oppure si tratterebbe, malgrado
tutto, di una maggior possibilità per noi? Comunque è certo che
io sono dalla parte di quelli che sperano di prendere il potere con una lotta
rivoluzionaria, sono in realtà essenzialmente dall'altra parte, cioè
auspico la soppressione delle istituzioni, dell'ideologia che è insita
nella scienza e un po' dovunque. Mi auguro che si cerchino di istituire rapporti
diversi fra gli uomini e non può esserci fallimento perché tutto
ciò che si fa resta in un certo modo. Penso che tutto ciò che
è fatto in questo momento, resti.
*
Per Sartre l'intellettuale è dunque colui che, presa coscienza
delle proprie contraddizioni e di quelle della realtà in cui vive, si
nega in quanto tale, attraverso una contestazione che è insieme globale
e particolare. Nel nostro discorso il termine «intellettuale» era
invece usato nell'accezione gramsciana di «funzionario del consenso»,
il che mantiene una certa sfasatura nella discussione. Quando, tuttavia, si
parla qui di un tecnico del sapere pratico che ha preso coscienza del proprio
ruolo di potere nel gioco sociale e agisce all'interno di questa presa di coscienza,
l'interpretazione non è diversa se entrambi, intellettuale e tecnico,
tendono ad agire sulle contraddizioni proprie e della realtà. Lo stesso
Sartre parla, altrove, della necessità di scindere il binomio sapere-potere,
mantenuto indissolubile nei depositari della cultura tradizionale, il che corrisponde
al rifiuto del proprio ruolo sociale (il "potere" del tecnico) e all'uso
del "sapere" non più in nome di interessi particolari (la tutela
dei valori dominanti), ma in nome degli interessi della classe dominata. Il
problema che si vuole qui approfondire è, però, in che cosa consista
praticamente questa "negazione dell'intellettuale in quanto tale",
o la scissione fra sapere-potere del tecnico che, pur negando il proprio potere,
implicitamente lo conserva.
Che, ad esempio, uno studente di medicina faccia l'operaio rinunciando, come
scelta politica, a fare il medico, forse può servire più a lui
che agli operai. Non sarebbe più utile avere un medico in più
a difesa degli interessi degli operai, pur con le ambiguità che il medico
continuerebbe a portare con sé, nella sua scelta di voler «stare
dall'altra parte»? Non è ancora una scelta di purezza totale, nell'ambito
di una soluzione personale, per uscire dalla «coscienza infelice»?
Un borghese non resta borghese anche se fa l'operaio, per il fatto stesso di
avere la possibilità di scegliere di farlo, e di non esservi spinto dalla
necessità o dall'impossibilità di fare altro? Non continua a disporre
di tutti gli strumenti culturali tradizionalmente incorporati, che lo fanno
essere sempre un operaio «diverso», anche se non usa questi strumenti
per fare il capo? Sono problemi e posizioni che in questi ultimi anni si vanno
chiarendo e su cui torneremo più oltre. Per il momento ci interessa qui
riprendere un tema, accennato nelle risposte di Sartre, che ci sembra mettere
a fuoco il filo principale della nostra analisi: la necessità di far
sì che le masse si approprino delle conoscenze dei tecnici che rifiutano
di essere funzionari del consenso, perché anche «le masse sono
abituate a pensare che un pazzo è un pazzo: la classe dominante ha dato
loro la sua ideologia a questo proposito».
E' in questo senso che si muove questa nostra analisi, nel tentativo di mettere
a fuoco la necessità di individuare e smascherare assieme alla classe
oppressa, facilitando l'espressione dei suoi bisogni reali, i processi attraverso
cui si attua la sua manipolazione; processi che si sovrappongono allo sfruttamento
e all'oppressione, richiedendo e imponendo un adesione inconsapevole e spontanea
a valori che implicitamente la distruggono.
Non è privo di significato il fatto che uno dei problemi centrali della
rottura della logica manicomiale sia l'atteggiamento degli infermieri e del
personale (appartenenti alla stessa classe degli internati). Abbiamo tutti incorporato
il concetto positivistico della malattia, come una modificazione biologica per
la quale non c'è nulla da fare, se non isolarla e proteggerla con l'internamento:
che è come dire che tutti riteniamo che se uno è pazzo è
pazzo e vada in manicomio. E' dunque anche su questo terreno che si deve agire,
ed è questo il nostro terreno di lotta.
La questione allora è rendere sempre più esplicito nella pratica
a cosa serve la psichiatria in quanto scienza, a cosa servono il manicomio e
le altre istituzioni punitive nel nostro sistema sociale, e come queste istituzioni
dell'esclusione sopravvivono anche in quanto fonti di lavoro per infermieri,
secondini, medici, assistenti, operatori sociali, eccetera. All'interno della
logica economica da cui siamo determinati, ogni apparente risposta ai bisogni
di tutti è, di fatto, una risposta ai bisogni del gruppo dominante, che
si attua, da un lato, attraverso il contenimento degli elementi di disturbo
sociale, dall'altro attraverso l'istituzione di posti di lavoro che possono
garantire il consenso spontaneo, offrendo un'identificazione nel proprio ruolo.
Qui si gioca esplicitamente sulla divisione all'interno della stessa classe:
fra emarginati, pazzi, malati (sempre appartenenti al proletariato o sottoproletariato)
e infermieri, inservienti, personale paramedico eccetera che, se pur proletari,
esplicano un ruolo positivo nel ciclo produttivo (cioè nell'organizzazione
ospedaliera) che difendono per sé e per la propria sopravvivenza assolvendo,
anche se a livelli diversi, il compito di funzionari del consenso.
Su questa divisione si scontra ogni azione di trasformazione, perché
è su questa ambiguità che si mantiene la difficoltà, per
il personale infermieristico o ausiliario, di raggiungere una coscienza di classe.
La logica manicomiale gioca dunque su due piani: l'incorporazione da parte di
tutti del concetto di malattia, e la divisione tra personale e internati.
Nel campo della psichiatria, la scuola positivista, che trova il suo epigono
in Lombroso, aveva chiusa la problematica aperta dalle sue stesse ipotesi, assolutizzando
in un'ideologia scientifica l'individuazione, nei malati di mente così
come nei criminali, di un'ipotetica alterazione originaria cui non si poteva
rispondere che con un'assolutizzazione pratica: l'internamento. L'internamento
di questa diversità biologica aveva così trovato la sua giustificazione
scientifica nell'ideologia medica che - secondo la nuova legge del 1904 sull'assistenza
psichiatrica - doveva da un lato sancire la necessità della cura dell'assistito,
dall'altro salvaguardare la società dalla pericolosità del folle.
Ma la contraddizione su cui si fonda questa legge - contraddizione insanabile
fra concetto di custodia e di cura, fra interesse del singolo (il malato ricoverato)
e sicurezza sociale (la collettività da difendere dalla pericolosità
rappresentata dalla malattia) - si è tradotta in un totale prevalere
della custodia sulla cura a danno ovviamente dell'internato e a favore della
società. L'accettazione di questa logica è servita, quindi, dall'inizio
del secolo a oggi, a garantire il controllo sociale di comportamenti definiti
come biologicamente diversi, di natura irreversibile, assicurando insieme l'incolumità
della società «civile».
Ma l'azione di trasformazione attuata negli ultimi anni nelle istituzioni psichiatriche,
ha reso evidente come molto spesso questa diversità, codificata sotto
l'etichetta della malattia, possa essere una diversità di tutt'altra
natura: un peccato originario, quello di appartenere alla classe dominata, la
cui presenza nel consorzio sociale è accettata solo finché essa
si adegua a regole istituite per la sua subordinazione.
Se ora si cerca di esaminare quali siano stati finora i movimenti rivendicativi
da parte della classe operaia in questo secolo, sconcerta vedere come sia stato
trascurato - fino a questi ultimi anni - il problema della sua salute, preso
in esame solo in rapporto alla nocività dei posti di lavoro, dove esso
si presenta macroscopicamente e in una relazione esplicita più diretta.
Il fatto è però facilmente spiegabile con l'incorporazione, da
parte di tutti, del concetto positivistico della malattia, che poneva il problema
su una sfera «oggettiva», «scientifica», totalmente
separata dal terreno proprio dell'azione politica.
Ciò significa che finora abbiamo tutti accettato le definizioni di malattia
che ci venivano proposte e, insieme, le conseguenze che una simile accettazione
comportava: la separazione netta fra il terreno della malattia, di competenza
dei medici e della medicina, e quello della salute dove si poteva inserire il
gioco della lotta politica. Ma dal momento in cui è risultato chiaro
che l'evoluzione di una malattia può essere diversa a seconda della classe
del malato, così come la codificazione stessa della malattia, la scissione
fra i diversi terreni di competenza non è più accettabile, come
non è più accettabile la delega data ai medici e agli infermieri
di custodi e garanti di questa scissione.
E' qui che si inserisce il problema di una trasformazione del tipo di lotta
politica all'interno delle istituzioni sanitarie, di cui si conoscono finalità
e funzioni appunto politiche. Ma per quanto è dato vedere, ad esempio
nelle istituzioni psichiatriche, la lotta del corpo infermieristico che assolve
la prima delega di controllo e di dominio sull'internato, sta muovendo soltanto
ora i primi passi che non seguano il sentiero della pura rivendicazione sindacale
di tipo corporativo. Se si tralascia come uno dei temi di questa lotta, la qualità
del rapporto di dominio che esiste fra infermiere e internato in un'istituzione
psichiatrica (il discorso vale ovviamente per tutta la medicina in generale),
non si fa che confermare anche a livello della lotta proletaria la qualità
del rapporto di dominio fra medico e infermiere. Le rivendicazioni salariali
(più che legittime, soprattutto dopo la conferma dell'enorme distanza
sancita dalla recente legge sull'aumento degli stipendi dei medici) non possono
essere disgiunte dalle rivendicazioni di una riqualificazione del lavoro dell'infermiere,
che dovrebbe passare attraverso la ricerca di un tipo di rapporto diverso sia
con il proprio oggetto di lavoro (l'internato), che con il corpo medico che
rappresenta nell'ospedale la garanzia del mantenimento dell'ideologia dominante.
Ma anche in questa sfera il bersaglio della lotta presenta notevoli ambiguità.
La richiesta di una nuova dignità professionale dell'infermiere ospedaliero,
di un suo addestramento che ne qualifichi diversamente l'intervento tecnico,
è vista come l'adeguamento al modello medico, come nuovo modo, più
qualificante, di essere infermiere. Ma la sudditanza e la subordinazione dell'infermiere
al medico (che sarebbe conservata e mantenuta intatta, anche attraverso questa
nuova identificazione proposta all'infermiere nella nuova qualifica ) ricalca
il modello di dominio precedente; modello che se resta valido nel rapporto fra
medico e infermiere, si riconferma in quello fra infermiere e internato, dove
l'internato troverebbe le indicazioni verso l'appropriazione della salute nella
dipendenza dall'infermiere e dal personale curante. Esattamente come nell'attuale
logica manicomiale.
Nella lotta per la difesa e l'appropriazione del proprio posto di lavoro da
parte del corpo infermieristico, non è ancora apparso in modo generalizzabile
e generalizzato un elemento fondamentale: la complicità dell'infermiere
con l'internato (che appartiene alla sua stessa classe), per liberarsi dalla
sudditanza al potere medico che rappresenta, nell'istituzione ospedaliera, la
garanzia del controllo. La lotta che si va attuando in questi ultimi anni nelle
istituzioni psichiatriche, ha posto nei giusti termini l'identificazione fra
intervento tecnico e intervento politico. Ciò significa che tutti i ruoli
che giocano nell'organizzazione ospedaliera assolvono una funzione precisa nel
controllo e nell'eliminazione dell'internato, attraverso una serie di deleghe
di cui tutti siamo complici. Ma il rifiuto di questa delega non è automatico:
esso passa attraverso una serie di mediazioni, poiché l'istituzione esiste
e sopravvive, nella forma in cui riesce a esistere e a sopravvivere, soprattutto
per i ruoli di potere che offre individualmente e cui è difficile rinunciare.
Privilegi che si consolidano, gerarchie burocratiche che consolidano i privilegi,
un sottobosco di ricatti, di potere, in cui l'aggressione viene sempre a ricadere
sull'ultimo anello della gerarchia istituzionale: l'internato.
La lotta per la trasformazione delle istituzioni psichiatriche ci ha dimostrato
quanto sia difficile rompere questo cerchio di deleghe di potere anche per quanto
riguarda il corpo infermieristico, il quale si è sempre trovato, come
tutti i dominati, a incorporare come modalità di rapporto l'aggressione
del dominatore (in questo caso il medico) e a tradurla nell'aggressione dell'internato.
Il mantenimento dell'istituzione manicomiale e della logica dell'internamento
è sempre stato attuato, e lo è tuttora, soprattutto attraverso
la delega di questa aggressione all'infermiere, come colui che è a diretto
contatto con l'internato. Il manicomio può continuare a esistere semplicemente
perché crea le condizioni per cui i giochi di potere, dal medico a tutte
le gerarchie subalterne burocratiche e amministrative, possono sprigionare -
anziché la loro carica terapeutica nei confronti dell'internato - la
loro aggressività. In questo modo la funzione di controllo del manicomio
è garantita a tutti i livelli e per tutti i ruoli.
Ora, la liberazione attuata in alcune istituzioni psichiatriche apre la funzione
del gruppo curante a prospettive di lotta diverse, che coinvolgono le stesse
organizzazioni politiche e sindacali, e che possono essere individuate anche
nelle indicazioni pratiche emerse in questi anni di lavoro.
Nella fabbrica e nei luoghi di sfruttamento della classe operaia, l'individuazione
dei modi di lotta è chiara: l'oggetto del lavoro mostra esplicitamente
l'alienazione cui è costretto l'operaio; la nocività della fabbrica
mostra esplicitamente le conseguenze sulla sua salute; la sua azione rivendicativa
è direttamente a scapito della logica padronale. Ma quando l'oggetto
del proprio lavoro è un "uomo", il problema si complica, perché
l'operaio dell'istituzione psichiatrica o sanitaria è messo in condizione
di scaricare l'aggressione che subisce, e che dovrebbe essere rivolta contro
il padrone, sull'oggetto del suo lavoro che è un uomo, per di più
sofferente, in balia del suo potere. Se l'operaio in lotta ha solo da perdere
le proprie catene, l'infermiere che lotta nell'ospedale si trova a dover perdere
la possibilità di imporre le catene a chi dipende da lui. In questo senso
ha buon gioco l'ideologia della custodia e della cura che copre tutto (ed è
suo compito coprire tutto) così che lo stesso agente dell'aggressione
non sia mai consapevole di quello che fa. Il medico, l'infermiere, l'operatore
psichiatrico devono scontrarsi con l'ideologia medica che giustifica ogni loro
intervento ai danni dell'internato, e non è subito chiaro quali siano
i termini della lotta per distruggere questa logica.
E' solo nel momento in cui l'opera di trasformazione di una istituzione psichiatrica
pone l'internato come soggetto primo della trasformazione, che i ruoli del corpo
curante cominciano a stagliarsi più chiaramente nelle loro esplicite
funzioni. Cioè è solo nel momento in cui esistono, l'uno di fronte
all'altro, l'"assistito" e "colui che lo assiste", che si
intravvede la possibilità di considerare questi due poli (su cui l'istituzione
si fonda, creandoli come poli oppositivi, antagonisti) come termini contraddittori
di un problema: salute e malattia, rispettivamente rappresentate l'una dal gruppo
curante, l'altra dall'internato. Ma si tratta di una salute e di una malattia
che non sono nettamente separate. Così come l'internato è "anche"
«malato» della violenza e della segregazione di cui è oggetto,
l'infermiere e il gruppo curante sono "anche" «malati»
della violenza e della segregazione di cui sono i soggetti, in quanto delegati
a metterle in atto. Su questa comunità di intenti - la lotta contro la
sofferenza, comune sia all'internato sia al suo custode - può nascere
una nuova strategia di intervento che vada oltre la sola rivendicazione economica
da parte dei lavoratori; rivendicazione che, per quanto legittima, continuerebbe
a mantenere internato e internante chiusi nella medesima catena di violenza,
se non si arricchisce di nuovi temi e nuove finalità.
La lotta attuata in questi anni ha messo in crisi, oltre l'ideologia scientifica
che legittimava la violenza manicomiale, il rapporto fra i diversi livelli dei
gestori di questa violenza. Ciò che si è visto e che varrebbe
la pena di analizzare, è che uno dei cardini su cui ha buon gioco il
nostro sistema sociale per la conservazione di queste istituzioni, è
dunque - oltre al medico, suo diretto rappresentante - l'infermiere che, pur
appartenendo alla stessa classe dell'internato che custodisce, è oppresso
dalla delega medica e giuridica, dalla minaccia della perdita del posto di lavoro,
dalla responsabilità che scala gerarchica e burocrazia scaricano su di
lui ed è, insieme, corrotto dalla possibilità di vivere il suo
ruolo di carceriere come alternativa all'oppressione di cui è oggetto.
In queste condizioni non può che identificarsi totalmente nel ruolo che
gli viene imposto, tanto da non riuscire più a vedere in che cosa consista
lo schieramento di classe in una situazione in cui tutto è confuso fra
custodia e cura, fra responsabilità giuridica e rischio personale, fra
la subordinazione al medico come detentore della salute e una malattia di cui
l'infermiere - esattamente come il medico - capisce i parametri solo in base
a un comportamento più o meno tollerato dall'organizzazione ospedaliera.
In questa situazione, la scelta dell'infermiere non è facile, né
è facile maturarla insieme. Tanto più che parte delle contraddizioni
aperte dall'azione attuata in alcune istituzioni psichiatriche, sono state recuperate
dalla classe medica che - messa in crisi da queste realizzazioni - si difende,
nel migliore dei casi, attraverso un corporativismo illuminato che tende a razionalizzare
il problema attraverso la messa al bando puramente verbale dell'ideologia custodialistica
e l'assunzione di un'altra ideologia: quella sociologica. Le parole d'ordine
più attuali e più moderne sono ora la medicina preventiva, il
mantenimento della salute, la lotta nel territorio che spesso si riducono praticamente
ad alibi, utili appena a coprire la realtà che resta immodificata alle
loro spalle: perché restano immodificate la struttura istituzionale e
il modello delle deleghe e del potere su cui essa si fonda.
Queste parole hanno e avranno senso se si riesce a rompere il cerchio istituzionale:
cioè se si riesce a rompere per primo il potere medico, al cui modello
si adatta e si adegua il potere dell'infermiere. Ma ci si muove ancora in un
terreno diviso, dove tecnica e politica agiscono in sfere separate e non come
due aspetti complementari dello stesso problema. La presa di coscienza delle
proprie complicità può portare a soggettivare il lavoro (ad assumerlo
in proprio, in prima persona, sulle proprie spalle, a proprio carico, con tutto
ciò che una tale posizione comporta), non delegandone ad altri significato
e conseguenze: la scienza da un lato e l'organizzazione politico-sociale dall'altro.
La lotta corporativa piccolo borghese cui si assiste nella quasi totalità
dei manicomi, è l'evidenza di questa scissione: l'infermiere non lotta
quasi mai in modo organizzato per la trasformazione del proprio lavoro, del
proprio rapporto con l'internato, per la propria liberazione dall'ideologia
che ha incorporato e che crede utile alla propria difesa, mentre è fatta
per impedirgli di prendere coscienza di sé del proprio posto nella società,
della delega repressiva implicita nel proprio ruolo. Continua a mantenere separata
la presa di coscienza del significato del proprio lavoro pratico, dalla lotta
politico-sindacale che attua fuori del campo, in nome delle sue rivendicazioni
di tipo corporativo, perpetuando ancora una volta la divisione su cui si fonda
l'unità totalizzante del manicomio.
Quando si determina la crisi dell'organizzazione ospedaliera, ci sono due possibilità:
o una sua razionalizzazione e l'inglobamento dell'istituzione nell'ideologia
della psichiatria sociale e nella formazione di un nuovo tipo di controllo che
richiuda a un livello diverso le contraddizioni aperte (11); o la presa in carico
di questa crisi anche da parte dei lavoratori che, se vogliono agire coerentemente
rispetto alla presa di coscienza politica del proprio lavoro e del proprio ruolo,
devono partecipare direttamente alla trasformazione del loro rapporto con l'internato
e dell'ideologia che hanno incorporato. In questo caso il peso della crisi può
essere "diviso" con il medico che l'ha originariamente provocata,
ma il soggetto determinante dell'azione deve diventare l'infermiere che, nella
complicità con l'internato, deve arrivare a togliere dalle mani del «padrone»
la smagliatura del sistema, per usarla politicamente a favore della propria
classe.
E' in questo momento che le organizzazioni politiche e sindacali - se non vogliono
rappresentare l'organo frenante di questa operazione - possono diventare i protagonisti
della trasformazione, aprendo nel campo della salute un nuovo tipo di lotta,
che sia una lotta unica per il sano e per il malato. In caso contrario, l'ambiguità
delle posizioni assunte, manterrà la divisione all'interno della stessa
classe, divisione che inconsapevolmente continuerà ad agire per l'oppressione
del lavoratore sano (l'infermiere che, giustificato dal suo impegno politico
nelle forze sindacali, vive nell'illusione di avere "anche" una parte
di potere che esercita come violenza sull'internato), e del lavoratore emarginato
(l'internato che resta soggetto a questo potere).
In questi ultimi anni le forze di sinistra hanno, spesso giustamente, vista
l'ambiguità di tanti movimenti eversivi nel campo. Gruppi separati che
entrano in competizione in un gioco intellettualistico, nel quale spesso la
sofferenza del malato e lo stato di disagio nel lavoro degli infermieri, sono
l'occasione per l'affermarsi di nuovi giochi di potere. Il tecnico, per la cultura
che ha incorporato e contro cui lotta, e per la classe cui appartiene, può
facilmente ricadere nel ruolo classico riproponendo la sua distanza e il suo
dominio, quindi riproponendo la divisione nella lotta. E' per questo che il
confronto con le forze sindacali e operaie è indispensabile, sia come
verifica che come controllo. Ma si stanno facendo solo ora i primi passi per
una chiarificazione di una linea comune nelle lotte, sul terreno delle istituzioni
e delle loro ideologie. Finora non c'è stata, da parte di queste forze,
un'azione esplicita, diretta a rompere il cerchio istituzionale che chiude internati
e infermieri nella stessa morsa. Il rapporto diretto con l'utente di un servizio,
che viene spesso auspicato tralasciando il rapporto istituzionale, può
avvenire solo quando l'organizzazione politica sia in grado di affrontarlo:
quando cioè l'attore della trasformazione nella gestione della salute
sia realmente il lavoratore, che pretende un servizio che risponda alle sue
esigenze e che possa controllare direttamente. Ma non lo si ottiene dichiarando
che questo presupposto già esiste, come spesso viene affermato. I limiti
dei movimenti anti istituzionali psichiatrici - che sono stati finora guardati
con giusto sospetto dalle forze sindacali - è ancora quello di nascere
da un'avanguardia medica, seguita da un'esigua avanguardia di infermieri. E'
questo che mantiene l'azione su un piano individuale, di gruppi separati dove
hanno buon gioco rivalità, tensioni psicologiche e bisogno di affermazione
di tipo intellettualistico. Ed è questo che si tenta di superare con
la costituzione di gruppi che si prefiggono di rompere sia il corporativismo
dei medici che quello degli infermieri (eludendo il pericolo dell'identificazione
da parte dell'infermiere nell'ideologia piccolo borghese alimentata dall'identificazione
nel modello medico), con la proposta di una lotta unitaria dove il tecnico riesca
"a offrire una pratica che serva di verifica a istanze politiche, non solo
sanitarie e tanto meno non solo psichiatriche" (12).
Ma le prospettive di lotta non sono semplici. Anche perché, oltre alle
difficoltà implicite in una lotta che coinvolge il potere medico e insieme
l'ideologia dominante, si accavallano i problemi che provengono dal nascere
di nuove ideologie fra gli stessi operatori che lottano.
Il rapporto con i giovani tecnici immessi nel terreno istituzionale, è
un rapporto di crisi permanente, il che sarebbe una condizione ottimale, se
di questa crisi fosse ben chiara la natura. Appena usciti dalle rivolte studentesche,
essi hanno alle spalle un'esperienza dove era possibile mantenere aperte le
contraddizioni della situazione in cui si trovavano ad agire, poiché
rifiutavano globalmente il futuro preparato per loro dal nostro sistema sociale.
Nella condizione dello studente questo rifiuto può essere globale, non
esistendo una compromissione diretta da parte di chi ha, per definizione, un
ruolo «passivo» all'interno della logica dell'apprendimento. L'unico
strumento di difesa a sua disposizione è il rifiuto che, se generalizzato
a tutti gli studenti, diventa l'unico strumento di potere di cui questi godono.
Si ha, tuttavia, l'impressione che, dal '68, si viva una situazione di onnipotenza,
frutto della presa di coscienza da parte degli studenti della loro forza. La
validità di questo rifiuto globale, nei momenti di riflusso come quello
attuale, si riduce, e non si può non riconoscerne il limite quando esso
sia costretto, per l'impossibilità di un'azione pratica, a tradursi in
slogan come espressione di una forma di istituzionalizzazione nella lotta, nella
verifica della correttezza del discorso politico di un gruppo rispetto a un
altro, nella parcellizzazione in gruppi, conseguente a questa verifica che avviene
solo sul piano verbale, o nell'ironia come segno di impotenza (l'altra faccia
adialettica dell'onnipotenza) di fronte alla realtà su cui si deve incidere.
Il senso di onnipotenza sorto nei momenti «caldi» corrispondeva
alla presa di coscienza di esserci come forza, e di riconoscere il proprio peso
nel gioco sociale, in un momento storico in cui l'azione è stata possibile.
Ma perché questa forza sia concreta e sopravviva nei momenti di riflusso,
bisogna tendere all'unità delle forze in lotta per contrapporsi - non
divisi - al mondo che ci vuole distruggere, e bisogna conoscere i meccanismi
della logica con cui veniamo distrutti. In caso contrario, tutte le fughe sono
possibili e tutte si traducono nella creazione di una nuova forma di oppressione.
Nonostante i legami professati con la classe operaia, raramente essi sono "praticamente
veri". Considerarsi il deterrente che fa esplodere i movimenti operai,
non è allora molto diverso dall'essere l'intellettuale che sceglie di
stare dall'altra parte e che dà le indicazioni per le modalità
e i tempi della lotta. Inoltre, i movimenti studenteschi del '68 stanno assumendo
agli occhi degli stessi studenti, un valore ideologico - come lo ha assunto
la resistenza - che giustifica fratture, giochi di gruppo, mancanza di unità.
Ed è da questa consapevolezza che, dopo le prime incertezze, si sta assistendo
a una maggiore concretezza del movimento, forse come risposta alla minaccia
di una nuova forma di fascismo e di repressione che incombe sul paese.
Resta tuttavia un fatto di importanza, a nostro avviso, fondamentale: lo studente
ha anche un suo terreno specifico di lotta su cui finora non ha sufficientemente
inciso, perché era più facile la fuga verso una politicizzazione
più allargata che gli consentiva di sentirsi «politicamente corretto»,
anche se accettava di subire le forme essenziali della politica dell'apprendimento:
cioè la sua graduale distruzione. Su questo piano ciascuno reagisce isolatamente,
con insofferenze psicologiche individuali, ma non c'è un'azione organica
contro l'ideologia educativa, che impegni gli studenti a misurarsi sul loro
terreno, anche se le denunce a questo proposito sono numerose.
Ad esempio, sempre restando nell'ambito della medicina, per poter accedere a
posti di ruolo negli istituti ospedalieri, si esige la frequenza ad una scuola
di specializzazione della durata di tre o quattro anni. Ma il numero delle domande
supera, come sempre, i posti disponibili, e, mentre non esiste un movimento
organizzato che rifiuti questa selezione, si assiste alla corsa ai pochi posti
nelle scuole di specializzazione, con tutti i mezzi dalle raccomandazioni ad
alto livello alle pressioni di tipo clientelare: non esiste un rifiuto organizzato
che esiga l'accessibilità a tutti alle scuole di specializzazione (ammesso
che queste servano nel modo in cui sono organizzate) o che rifiuti in blocco
l'istituzione della specializzazione. Chi ottiene il posto se lo tiene, e chi
è escluso accetta di esserlo, come una fatalità. Ma ciò
implica l'accettazione del fatto che lo specializzando dovrà incorporare
per altri tre o quattro anni un numero di nozioni assunte acriticamente, così
come acriticamente vengono propinate, perché la sua critica tende a svolgersi
altrove, fuori del terreno dell'ideologia scientifica, propria del ruolo che
esplica. In questo senso la frattura tra l'azione politica e quella nella propria
specificità particolare, così come quella fra teoria e pratica,
ricalca i modi della formazione classica del funzionario del consenso.
Superata la fase di denuncia e di rifiuto della scuola di classe, dove si esplica
la politicizzazione di questi studenti o neolaureati? In che modo incidono nell'istituzione
e nell'ideologia di cui sono oggetto? In che modo usano la forza di cui hanno
preso coscienza? L'onnipotenza vissuta nei momenti «caldi», in un
momento di riflusso, come quello attuale, in cui gli spazi d'azione man mano
si restringono, può facilmente tradursi in un'impotenza pratica, proprio
nel terreno in cui ci si dovrebbe misurare. Il passaggio nella politica generale
senza la mediazione del proprio terreno specifico, potrebbe allora essere una
fuga in una nuova ideologia che giustifica e nasconde l'impotenza pratica, spostando
su un terreno più allargato e meno definito la lotta, riagganciandosi
alla contraddizione primaria fra classe operaia e capitale. In questa dimensione
lo studente non può che limitarsi a prendere a prestito dalla classe
operaia i temi e le motivazioni alla lotta, tralasciando quelli che provengono
dalla sua situazione reale che, una volta intaccata, amplierebbe l'arco dei
settori messi in crisi, e potrebbe creare collegamenti pratici con le lotte
operaie.
E' ancora Gramsci a darci, a questo proposito, una chiave interpretativa del
momento che stiamo vivendo.
«La quistione dei giovani. Esistono molte 'quistioni' dei giovani. Due mi sembrano specialmente importanti: 1) La generazione 'anziana' compie sempre l'educazione dei 'giovani'; ci sarà conflitto, discordia eccetera, ma si tratta di fenomeni superficiali, inerenti ad ogni opera educativa e di raffrenamento, a meno che non si tratti di interferenze di classe, cioè 'i giovani' (o una cospicua parte di essi) della classe dirigente (intesa nel senso più largo, non solo economico, ma politico-morale) si ribellano e passano alla classe progressiva che è diventata storicamente capace di prendere il potere: ma in questo caso si tratta di 'giovani' che dalla direzione degli 'anziani' di una classe passa alla direzione degli 'anziani' di un'altra classe; in ogni caso rimane la subordinazione reale dei 'giovani' agli 'anziani' come generazione, pur con le differenze di temperamento e di vivacità su ricordate. 2) Quando il fenomeno assume un carattere così detto 'nazionale', cioè non appare apertamente l'interferenza di classe, allora la quistione si complica e diventa caotica. I 'giovani' sono in istato di ribellione permanente, perché persistono le cause profonde di essa, senza che ne sia permessa l'analisi, la critica e il superamento (non concettuale e astratto, ma storico reale); gli 'anziani' dominano di fatto, ma... après moi le déluge, non riescono ad educare i giovani, a prepararli alla successione. Perché? Ciò significa che esistono tutte le condizioni perché gli 'anziani' di un'altra classe debbano dirigere questi giovani senza che possano farlo per ragioni estrinseche di compressione politico-militare. La lotta, di cui si sono soffocate le espressioni esterne normali, si attacca come una cancrena dissolvente alla struttura della vecchia classe, debilitandola e imputridendola: assume forme morbose, di misticismo, di sensualismo, di indifferenza morale, di degenerazione patologica psichica e fisica, eccetera. La vecchia struttura non contiene e non riesce a dare soddisfazione alle esigenze nuove: la disoccupazione permanente o semipermanente dei così detti intellettuali è uno dei fenomeni tipici di questa insufficienza, che assume carattere aspro per i più giovani, in quanto non lascia 'orizzonti aperti'. D'altronde questa situazione porta ai 'quadri chiusi' di carattere feudale-militare, cioè inacerbisce essa stessa i problemi che non sa risolvere» (13).
Dobbiamo essere consapevoli del fatto che la ribellione degli
studenti ha, attualmente, un carattere «'nazionale', cioè non appare
apertamente l'interferenza di classe... I 'giovani' sono in istato di ribellione
permanente, perché persistono le cause profonde di essa, senza che ne
sia permessa l'analisi, la critica e il superamento... La lotta, di cui si sono
soffocate le espressioni esterne normali, si attacca come una cancrena dissolvente
alla struttura della vecchia classe, debilitandola e imputridendola: assume
forme morbose, di misticismo, di sensualismo, di indifferenza morale, di degenerazione
patologica, psichica e fisica, eccetera. La vecchia struttura non contiene e
non riesce a dare soddisfazione alle esigenze nuove: la disoccupazione permanente
o semipermanente dei così detti intellettuali è uno dei fenomeni
tipici di questa insufficienza che assume carattere aspro per i più giovani,
in quanto non lascia 'orizzonti aperti'...»
Solo essendo consapevoli della natura e del carattere di questo stato di ribellione
permanente, ci sembra che esso possa tradursi in un movimento di appoggio reale
alle lotte operaie; evitando il pericolo della mistificazione di una nuova forma
di interclassismo, dove le motivazioni che spingono alla lotta sono inevitabilmente
diverse. E' attraverso l'analisi e la coscienza della diversità di queste
motivazioni, che si può forse evitare la caoticità di cui parla
Gramsci, riconoscendo il carattere «nazionale», quindi non di classe,
del movimento stesso e applicando, anche nel caso della ribellione degli studenti,
l'analisi che si è qui abbozzata per la ribellione del tecnico del sapere
pratico che, solo attraverso la messa in crisi del proprio ruolo nel proprio
terreno specifico (quindi dell'ideologia di sua competenza) in rapporto alla
struttura sociale, può agganciarsi praticamente alle lotte della classe
oppressa. Senza la mediazione nello specifico, da dove nasce la vera motivazione
alla sua lotta, la ribellione dello studente assume il carattere di uno scontento
vago, dove si prendono a prestito altre motivazioni, mancando la coscienza delle
proprie.
Una volta individuate le contraddizioni sul proprio terreno specifico (e quindi
le proprie motivazioni alla lotta), sono queste che devono essere portate "fuori"
e diventare patrimonio della classe oppressa e non viceversa. E' la classe operaia,
con il suo lavoro, che finanzia scuole, università e istituzioni, ed
è anche di queste che deve appropriarsi. Ma per farlo deve anche appropriarsi
delle conoscenze dei processi attraverso i quali queste istituzioni perpetuano
la divisione, ed è lo studente, così come il tecnico del sapere
pratico, che deve portare sul terreno della lotta politica generale queste conoscenze.
Se non si esce da questo equivoco, si corre il rischio di continuare a restare
invischiati nel proprio settore specifico, da un lato recitando la parte dell'operaio
oppresso (perpetuando la separazione fra il settore privilegiato della lotta
politica e il proprio settore di studio o di lavoro), e dall'altro limitandosi,
nel proprio terreno specifico, a una sterile polemica, spesso fine a se stessa,
per evidenziare contraddizioni interne, il cui sbocco e il cui unico significato
è che diventino oggetto di conoscenza e motivo di rivolta da parte della
classe oppressa con cui si vuole combattere.
Non si può lottare "per" la classe oppressa, o "in nome"
della classe oppressa, altrimenti continueremmo a mantenere la distanza dell'intellettuale
classico. E' "con" la classe oppressa che dobbiamo lottare, ma questo
essere insieme, per non ridursi a una pura enunciazione verbale, significa portare
praticamente le nostre motivazioni alla lotta, così da ampliarne i settori
e la profondità, e non prenderne a prestito altre che, in bocca nostra
- di noi tecnici o studenti borghesi - suonano vuote e stonate destando il giusto
sospetto della classe con cui si vuole lottare. In questo modo la ribellione
dello studente può trovare reali agganci con la lotta operaia.
L'equivoco è evidente nel momento in cui lo studente - una volta laureato
- affronta la realtà di un ruolo professionale che teoricamente rifiuta;
cioè nel momento in cui diventa tecnico del sapere pratico. Il ruolo
che si trova a coprire è il primo strumento di difesa individuale di
cui dispone e - nei momenti di crisi - può usarlo, confondendo la natura
delle contraddizioni in cui si trova a vivere e che egli stesso contribuisce
ad aprire con la sua azione.
Il caso particolare del lavoro in un ospedale psichiatrico in trasformazione,
può dare un'esemplificazione, anche se schematica e parziale, di questo
fenomeno.
La contraddizione aperta dalla liberazione dell'internato e dalla creazione
di alternative che lo facciano uscire dall'unica dimensione istituzionale in
cui era costretto, lascia inevitabilmente nell'angoscia il corpo curante, compresi
gli infermieri; angoscia che è inversamente proporzionale al grado di
coinvolgimento e di partecipazione che si riesce a creare. Si tratta di una
crisi che è essa stessa elemento di rottura, per la messa in discussione
dei ruoli e per la presa di coscienza della delega in essi implicita. Ma la
crisi in cui cade un'organizzazione, nel momento in cui si rompe la rigidità
dei ruoli di tutti coloro che ne fanno parte, deve essere affrontata come una
contraddizione costante, avendo il gruppo curante non solo la responsabilità
della liberazione del manicomio, in quanto luogo di violenza e di segregazione,
ma anche quella del graduale riappropriarsi della libertà degli internati,
in precedenza distrutti da questa violenza e da questa segregazione.
La libertà acquisita dai degenti limita implicitamente la libertà
di cui, per tradizione, gode il gruppo curante, e che coincide con la libertà
della società, di cui i tecnici e le leggi sono garanti. L'impegno totale
nei confronti dell'internato è uno dei segni della partecipazione alla
sua oggettivazione, per arrivare alla conquista della soggettivazione di tutti
- internati, infermieri e medici. Ma questa limitazione, implicita nella responsabilità
nei confronti dell'impresa comune della trasformazione, è talvolta vissuta
dai giovani tecnici come un'imposizione autoritaria (l'autorità, altra
ambiguità e altra paura da sfatare nel momento in cui si voglia raggiungere
una finalità comune) che limita la loro autonomia e il senso di onnipotenza
incorporato nelle rivolte studentesche. Il manicomio in trasformazione viene
facilmente vissuto come se si trattasse di un terreno liberato, che non comporta
compromissioni con l'organizzazione sociale, amministrativa, burocratica, e
dove l'azione possa agganciarsi direttamente alla lotta politica generale, senza
mediazioni attraverso lo specifico particolare.
La contraddizione fra negazione e gestione dell'istituzione è la prima
di cui si deve tener conto. Ma davanti a questa, che appare come una compromissione
con il potere, i nuovi tecnici, reduci dalle rivolte studentesche, tendono spesso
a privilegiare la radicalizzazione di un solo polo della contraddizione - la
negazione - senza tener conto che questa si inserisce all'interno di un'organizzazione
e di una ideologia scientifica la cui logica è nostro compito spezzare.
Cioè, una volta aperta la contraddizione, anziché agire in essa,
si finisce per agire su un solo polo, cadendo nell'equivoco del gauchisme, come
estremo lusso di chi non ha una pratica su cui incidere e da cui essere contraddetti.
Abituati a una situazione di non compromissione apparente, che per la prima
volta si confronta in un terreno limitato da regole all'interno dell'ideologia
e della burocrazia, si trova difficoltà a misurarsi con una realtà
drammatica, la cui inerzia sembra sempre inghiottire tutto.
Inoltre, l'abitudine ad avere davanti a sé un nemico, chiaro quanto generico
e globale, contro cui lottare (il sistema sociale, il capitalismo) rende difficile
l'individuazione di ciò contro cui si lotta in un'azione in cui la negazione
della tradizionale logica istituzionale è contemporanea alla costruzione
di una logica di rapporto da inventare e da creare insieme. E' facile allora
scegliere un nemico interno, che varia di momento in momento e di situazione
in situazione. Su questo terreno minato, la costruzione di una finalità
comune si frantuma in rivoli e in gruppi antagonistici che ripropongono la logica
della divisione, contro cui si vuole lottare.
Dopo tre anni di lavoro concreto, queste posizioni vanno sfumando come risultato
di un addestramento pratico in cui gli operatori sono venuti via via misurandosi,
adattando il tiro alla realtà nella quale agiscono. Tuttavia, nella prima
fase, la frustrazione che subentra davanti al fatto che «il lavoro in
un ospedale psichiatrico in trasformazione non è poi tanto rivoluzionario»
e risulta più compromesso di quanto il bisogno di purezza totale e l'aspirazione
a una lotta globale possano consentire di accettare, ha avuto due sbocchi che
vale la pena di analizzare:
a) La ricerca di un agente rivoluzionario che, per l'appartenenza alla classe
proletaria, dovrebbe garantire «la linea politicamente corretta»
dell'azione. Di qui lo spostamento dell'interesse politico dall'internato (che
pure appartiene alla classe proletaria) all'infermiere, come lotta tendente
allo sviluppo di una sua presa di coscienza politica. Si tende cioè a
tralasciare come problema secondario quello dell'internato, di conseguenza quello
del rapporto dell'infermiere con l'internato, per la cui liberazione si sta
lottando; rapporto che, scientificamente e burocraticamente istituzionalizzato
nell'ospedale, coincide però con il rapporto di sopraffazione su cui
si fonda il nostro sistema sociale. Si tralascia cioè il problema della
rottura della logica istituzionale, che è rottura del rapporto di sopraffazione.
Questo comporta il rischio di proporre all'infermiere una identificazione diretta
con il medico e con i valori della borghesia, anziché la presa di coscienza
di appartenere alla stessa classe dell'internato; presa di coscienza che porterebbe
a identificare la lotta per la propria liberazione con quella per la liberazione
dell'internato. L'infermiere si trova così ad assumere facilmente una
nuova delega, quella che il medico ribelle gli propone attraverso l'identificazione
nei suoi valori e nelle sue motivazioni mediate alla lotta proletaria: la delega
alla «rivoluzione» astratta e globale che, impostata al di fuori
delle motivazioni reali della sua classe, assume nell'infermiere il carattere
della rivoluzione borghese che gli propone il medico. Il risultato che ne consegue
non può che essere l'indebolimento dell'infermiere stesso e l'assorbimento
di un giudizio e di un linguaggio che sono tipici del medico e della sua classe.
b) La difesa a oltranza della propria autonomia di lavoro, possibile in un'istituzione
in trasformazione, che, se separata dalla responsabilità nei confronti
della strategia comune nella lotta - il secondo polo della contraddizione può
facilmente tradursi nella difesa di privilegi acquisiti - anche se non propriamente
conquistati - e quindi nella difesa del proprio potere, mascherato sotto lo
slogan del l'antiautoritarismo e della lotta alla gerarchia. In questo modo
può riproporsi il gioco delle dinamiche di gruppo, delle resistenze e
controresistenze, dove la finalità comune scompare, per lasciar posto
a una situazione ambigua in cui si può essere facilmente ripresi nel
vortice delle interpretazioni psicodinamiche e delle tendenze paranoidi.
Inoltre, in questi ultimi anni, l'ideologia genericamente definita hippy o della
propria liberazione individuale è contemporaneamente presente, come parte
della loro cultura, in coloro che si impegnano in una lotta anti-istituzionale.
Ciò significa che l'ideologia del tutto-subito contrasta con l'inerzia
dell'istituzione, che corrisponde all'inerzia della società su cui si
agisce. Il tutto-subito ha senso se sono il popolo, il proletariato, le masse
a esigerlo, ma reclamato dagli studenti o dai tecnici (se non esiste un rapporto
su un piano pratico comune, e la coscienza della diversità delle motivazioni
alla lotta) suona come uno slogan vuoto e come la razionalizzazione della nostra
impotenza, o come un'ulteriore rivendicazione del nostro privilegio. Nella lotta
per il tutto - non si sa quando - che esigerà la classe oppressa, dovrà
essere incluso anche il tutto che studenti e tecnici vogliono per gli altri
e per sé, e gli studenti e i tecnici, che imparano a conoscere i meccanismi
e i processi attraverso i quali le ideologie producono ciò che producono,
devono trasmetterne l'esigenza in modo tale che la classe oppressa se ne appropri
come parte del tutto verso cui tende.
Le perplessità che nascono di fronte alla situazione che ne deriva devono
essere approfondite perché lo stato di ribellione permanente si traduca
in uno strumento di lotta positivo. Ma i livelli di comprensione della realtà
su cui si agisce variano secondo l'esperienza e la cultura che ognuno di noi
si porta appresso e se, nel momento in cui l'azione pratica è possibile
e il suo significato è chiaro per tutti, la finalità della lotta
risulta comune, nei momenti di chiusura e di riflusso si ripropongono le diversità
e le esigenze individuali. Sono dunque le stesse difficoltà a procedere,
gli ostacoli contro cui dobbiamo sempre scontrarci, il clima di minaccia di
violenza in cui ci si trova a vivere, che ripropongono la divisione e i giochi
psicologici, come difesa di fronte alla paura di soccombere. Ma dobbiamo saperlo
e non cadere nella trappola della divisione, senza neppure accorgerci di esserne
direttamente vittime e responsabili.
Agire nella pratica significa muoversi nell'incertezza della ricerca di nuove
forme di lotta che si esprimono attraverso la pratica. Ma ciò che tutti
abbiamo incorporato è la necessità, per sopportare questa incertezza,
di vivere un solo polo delle contraddizioni che via via andiamo aprendo, polo
che può essere di volta in volta l'uno o l'altro a seconda del bisogno.
Se si vuole trasformare la realtà - e la realtà di cui disponiamo
è questa e solo questa - resta sempre il problema della contemporanea
trasformazione di noi stessi, e il discorso vale ovviamente per tutti. Ma la
trasformazione dell'uomo è la più difficile, impregnati come siamo
di una cultura che ci porta a chiudere ogni contraddizione - comprese le nostre,
individuali - attraverso la razionalizzazione e il rifugio nell'ideologia che
ne enfatizza e ne prende in considerazione un solo polo.
In questi ultimi anni, ci siamo trovati ad agire su piani diversi
e insieme analoghi, con Ronald Laing - entrambi impegnati, se pur con modalità
e con strumenti diversi, in una lotta concreta per questa trasformazione.
La pratica e la teoria di Laing tendono a mettere a fuoco e a privilegiare -
pur mantenendo presenti gli altri piani del discorso - il momento della trasformazione
soggettiva; così come noi tendiamo a privilegiare, pur mantenendo presenti
gli altri piani del discorso, quello della trasformazione sociale. La pratica
e la teoria di Laing tendono cioè a smuovere dall'interno l'inerzia dell'uomo,
nel rapporto con se stesso e con l'altro; così come noi tendiamo a smuovere,
attraverso la nostra azione in uno specifico particolare, l'inerzia del mondo
sociale.
Ma privilegiare non deve significare assolutizzare, perché questi due
momenti - il soggettivo e il sociale - sono due facce di una sola realtà,
dato che nell'uomo esse coesistono e da esse egli è contemporaneamente
determinato.
Per questo e alla ricerca di un denominatore comune fra le esperienze in atto
nel campo della psichiatria, abbiamo avuto una conversazione con Ronald Laing,
alla fine del '72, in occasione di una sua conferenza, il cui testo figura in
questa raccolta.
FRANCA BASAGLIA In questi ultimi anni movimenti politici e culturali
hanno proposto praticamente nuove forme e nuove prospettive di lotta. In un
momento di stasi come l'attuale potrebbe essere utile riflettere su ciò
che è stato modificato nel panorama sociale, culturale e politico dagli
interventi di forze che, in campi diversi o analoghi, hanno agito secondo una
linea di rifiuto dei valori in corso.
Nel momento dell'azione queste forze si sono trovate a muoversi ciascuna sul
proprio terreno di competenza, come risposta immediata ai bisogni che emergevano
dalla situazione in cui erano inserite. In questa ricerca di una risposta reale
ai bisogni - così nel campo della psichiatria in cui siamo direttamente
coinvolti, come nel campo della scuola da parte dei movimenti studenteschi o
nelle carceri o nei movimenti operai - l'impotenza pratica che subentra nel
momento in cui l'azione viene bloccata o razionalizzata, può facilmente
tradursi nel bisogno di privilegiare come scelta di carattere assoluto la propria
modalità di intervento o lo stesso terreno d'azione, in opposizione e
in antagonismo ad altri. Ancora una volta ciò che nasce come risposta
a bisogni reali in un momento dato, può tradursi nella risposta ai bisogni
del gruppo che agisce. La relativa possibilità d'azione e quindi la relativa
possibilità di realizzare "praticamente" quello che si vorrebbe
essere e che si vorrebbe fosse la vita, facilmente si trasforma nel vivere ideologicamente
la propria posizione assunta e il proprio campo d'azione, privilegiandoli come
gli unici possibili, come forma di difesa per garantire la propria sopravvivenza.
Ma procedendo in questo modo, non si riesce mai a creare un legame di complementarietà
fra i vari settori in cui ci si muove, restando prigionieri della stessa logica
che produce le condizioni di un antagonismo permanente che sempre si rinnova
all'interno di ogni forza, nata originariamente per combatterla.
In questo senso può essere utile avvicinarsi a delle esperienze pratico-teoriche
diverse, nello stesso campo d'azione o in campi analoghi, con una reciproca
disponibilità per comprendere ciò che nell'esperienza dell'altro
può servire a chiarire la propria e viceversa.
Il problema dibattuto dell'agire dentro alle istituzioni o fuori delle istituzioni,
dentro al sistema o fuori del sistema, presuppone che esistano un "dentro"
e un "fuori" delle istituzioni, un "dentro" e un "fuori"
del sistema, come posizioni nettamente separate e antagoniste. Ma il dentro
e il fuori sono creati come poli opposti e incomunicabili proprio dal sistema
sociale che si fonda sulla divisione a tutti i livelli. Quindi, accettando questa
premessa, noi siamo già all'interno del gioco. E' forse sull'unione dentro-fuori
che si dovrebbe tentare di agire, perché la realtà è un
dentro e fuori costantemente collegato, dove si inserisce "l'ideologia
del dentro" e "l'ideologia del fuori", come realtà-ideologie
separate.
C'è chi lavora dentro e chi lavora fuori delle istituzioni, ma si tratta
di una denominazione formale, per definire il terreno d'azione, la natura dei
legami burocratici e le responsabilità legali presenti più in
un settore che in un altro. In realtà non esiste un "fuori totale",
ipotizzato invece dalla stessa logica contro cui si lotta, a conferma della
"totalizzazione del dentro": se esiste un fuori totalmente staccato
dalle istituzioni e dal sistema, il "dentro" si conferma come inattaccabile.
Ciò che importa è sapere cosa si fa fuori o dentro, e quale legame
fra dentro e fuori si riesce a mantenere, per non cadere nell'errore di creare
il dentro come alibi del fuori, e il fuori come alibi del dentro.
Tu hai lavorato per molti anni nelle istituzioni psichiatriche e da molti anni
lavori all'esterno. Quali pensi siano i limiti dell'uno e dell'altro tipo di
lavoro?
LAING Si parla da sempre dei limiti del lavoro nelle istituzioni: il ruolo istituzionalizzato,
il controllo economico dal vertice, un'organizzazione burocratica molto complessa;
tutto controllato dalle forze politiche. Le cariche, al vertice, sono controllate
su basi politiche. In altre parole, tutto è controllato da forze che
non hanno niente a che fare con la medicina. Lo stesso controllo dei medici,
che pure sono una corporazione reazionaria, sarebbe meglio di questo controllo
non-medico.
I limiti si scoprono nel momento in cui qualunque azione radicale viene bloccata,
perché non esiste un minimo margine di controllo sull'apparato burocratico
eccetto quello effettuato dai burocrati. Anche se si possono fare delle ricerche
sul sistema, oltre un certo limite la ricerca si svuota. Non so in Italia in
che misura si verifichi questo, ma penso che ognuno deve capire e conoscere
cos'è il sistema, e poi decidere se passare il resto della vita dentro
o no. Se Franco pensa di poter mutare in modo significativo le cose, nella direzione
da lui voluta, restando all'interno delle istituzioni e pensa sia possibile
farlo, io rispetto questa sua opinione e mi auguro riesca in quello che si prefigge.
Io ho fatto enormi sforzi per tentare di fare quello che mi prefiggevo all'interno
del sistema, dieci anni fa circa, ma non c'era spazio per farlo. Così,
potevo o restare nel sistema tentando di fare quello che volevo fare senza farlo,
oppure uscirne. Ne sono uscito. Naturalmente non ne sono uscito del tutto, perché
volevo influenzare il sistema dall'esterno e penso di aver inciso più
dalla posizione in cui mi sono messo, di quanto avrei potuto fare se fossi stato
consulente in qualche ospedale psichiatrico a Inverness o nel consiglio di amministrazione
dell'ospedale regionale del North-West.
BASAGLIA In realtà non esiste un "fuori del sistema", quindi
i legami fra dentro e fuori sono continui. Si tratta di un'angolatura o di una
prospettiva diversa.
LAING Siamo giunti ora a una specie di negoziato con la gente «nel sistema».
La nostra azione non è stata spazzata via come qualcosa che si può
ignorare, perché abbiamo tenuto aperti i canali di contatto. Il sistema,
in qualche modo, è stato intaccato dalla nostra azione. Esiste un'alternativa
reale, in atto, che non è stata distrutta o dispersa e non lo sarà
in futuro, perché ormai andrà avanti. Superata la fase iniziale,
quando poteva essere ancora facilmente schiacciata dalla mano pesante dell'establishment,
ora non può più essere distrutta. Per quanto riguarda l'establishment,
niente ha tanto successo quanto il successo, come diceva sempre Jack Sutherland
(direttore della Tavistock Clinic). E la nostra azione ha avuto successo in
questi termini, i soli termini che questa gente riconosce: esiste cioè
come fatto sociale.
Nell'ospedale psichiatrico si può procedere all'infinito senza cambiare
niente, perché l'apparato burocratico ha risorse infinite: può
semplicemente sospendere uno da una carica, spostare una persona o un'altra,
creare uno scandalo, sovvenzionare un settore di lavoro piuttosto che un altro,
bloccare una ricerca o farla morire per mancanza di fondi. Ogni volta che si
verifica qualcosa di reale e di diverso, che dà fastidio, può
essere bloccato.
Ma anche restando mezzo dentro e mezzo fuori si può fare qualcosa. Non
ci sono leggi contro il fatto di vivere in una casa con dei malati. Perché
non farlo?
BASAGLIA Non ci sono leggi per quanto riguarda le responsabilità nei
confronti dei pazienti? Di chi è la responsabilità in questo caso?
LAING Certo, ci sono leggi molto severe anche qui. Solo che non esistono leggi
contro il fatto che un medico viva con un non medico, che sia paziente di un
altro medico. C'è molta gente sposata con schizofrenici. Non ci sono
leggi a questo proposito. Né ci sono leggi contro il fatto che qualcuno
diagnosticato schizofrenico viva da qualche parte, né c'è una
legge contro il fatto che un medico viva con lui o con lei. Basta che nessuno
di coloro che abitano in un edificio, sia paziente di qualcuno che abita nello
stesso edificio. Non occorre neppure che siano medici; possono essere studenti
di medicina o chiunque altro. Non c'è niente da ridire su questo, se
si dichiara che non si fa alcun trattamento medico. Se poi la cosa fosse portata
all'estremo, ne uscirebbe un caso giudiziario straordinario, che potrebbe sollevare
molte questioni interessanti.
Noi abbiamo dovuto prendere contatti con le amministrazioni cittadine, parlare
con la polizia, gestire eventuali interpellanze in parlamento, o con il ministero
della sanità. Nessuna azione legale è stata intrapresa contro
di noi. Nessun membro di queste comunità è mio paziente. Quando
uno dei medici americani, venuto a lavorare con noi a Londra, ha chiesto l'autorizzazione
al General Medical Council, ha dovuto spiegare che cosa avrebbe fatto. Così
ha spiegato quello che stavamo facendo: niente medicine, niente ricette, nessuna
forma di trattamento. Noi non diamo trattamenti medici. La cosa fu spiegata
al G.M.C. e risposero che, per quello che si faceva, non occorrevano autorizzazioni.
Si può lavorare con la Philadelphia Association a Londra e non essere
laureati in medicina, perché non si fa un lavoro di tipo medico. Degli
studenti di Bristol ne hanno avuto abbastanza della psichiatria, così
come la vedevano praticare, hanno comperato una casa e sono andati ad abitare
con dei pazienti, come in una comune. Anche in America ci sono comunità
il cui staff è costituito da studenti di scienze sociali, antropologi,
sociologi, psicologi, molti, ma non esclusivamente, sono studenti di medicina
e fanno andare avanti tutto loro. Non è la cosa più facile del
mondo vivere con persone estremamente disturbate, che soffrono molto. E' per
questo che è difficile, perché riuscire a sopportare quest'agonia
non è semplice. Io non sono pronto per una cosa del genere in questo
momento, ma c'è gente che è disposta a farlo. Avrei potuto farlo
dieci o venti anni fa.
BASAGLIA E' del resto l'agonia che si affronta ogni giorno nelle istituzioni
e forse è anche per questo che è difficile lavorare «dentro».
Questa è anche la difficoltà contro cui ci scontriamo: perché
tollerare quest'agonia diventa sempre più pesante.
LAING Penso che quando si invecchia e si è fatto questo lavoro per un
certo numero di anni, si diventa come dei vecchi boxeurs. Dopo un certo periodo
bisognerebbe ritirarsi e dedicarsi all'addestramento. Le persone più
adatte per questo tipo di lavoro, ora, possono già essere troppo vecchie
fra qualche anno. E' come per gli atleti: gli anni migliori sono quelli della
giovinezza, quando si è in grado di far fronte agli sforzi. Quando si
invecchia, ne hai abbastanza, così i più vecchi possono preparare
i più giovani. I giovani possono fare questo lavoro: quando hai vitalità
e resistenza, quando puoi far fronte al fatto di non dormire per notti di seguito
e essere completamente esaurito e poi ci dormi sopra. E' un lavoro molto impegnativo
e molto faticoso sia fisicamente che emotivamente. Può andar bene per
uno studente o per una persona fra i venti e i trent'anni, prima di avere una
propria famiglia o "dopo" che la famiglia è cresciuta; non
quando si hanno dei figli piccoli.
BASAGLIA Il problema dell'addestramento dei giovani è il punto centrale
anche del lavoro nelle istituzioni. Ma il panorama italiano in questo settore
è ancora molto confuso.
Nel campo della psichiatria, da un lato la preparazione universitaria continua
a mantenersi completamente fuori di ogni contraddizione reale: il malato curato
nelle cliniche universitarie è un malato particolare che deve presentare
un particolare interesse didattico e scientifico, secondo l'interpretazione
di ciò che è la didattica e la scienza del docente. Si tratta
quindi di una realtà in un certo modo artificiosa. La realtà dei
malati nei manicomi, dove si pratica la «vera psichiatria», è
completamente sconosciuta ai giovani che hanno bisogno invece di una preparazione
pratica che li metta direttamente in contatto con il terreno su cui dovranno
agire. Ma le scuole di specializzazione esigono la frequenza degli specializzandi,
e il potere universitario riesce ancora a stroncare e a distruggere molte potenzialità.
D'altro lato c'è stata un'azione pratica (mi riferisco a quanto è
successo a Gorizia) che ha tentato di rendere esplicita, da un lato la funzione
dell'ideologia psichiatrica come copertura di contraddizioni sociali; dall'altro,
la natura politica della definizione dei limiti di norma che vengono via via
stabiliti fuori dai confini della psichiatria e che la psichiatria si limita
a confermare.
Il problema che si presenta ora è che molti giovani che provengono dai
movimenti studenteschi, spesso cadono in un equivoco, presente in molti altri
settori della vita sociale: privilegiando l'aspetto «politico» del
loro intervento tecnico, tendono a non ritenere come fondamentale quello che
resta sempre il problema centrale dell'ospedale psichiatrico, l'internato; e
tendono a orientare il loro interesse, appunto politico, verso «l'infermiere»,
ritenendo questa, una scelta «politicamente più corretta».
Praticamente, vivono come ideologico-umanitario il rapporto con il malato, rifiutando
di limitare il loro intervento alla sua riabilitazione e cura; e come «politico»
il rapporto con l'infermiere (risalendo alla sua appartenenza alla classe operaia),
come se si trattasse di un passo oltre nella lotta alla logica istituzionale.
In un certo senso quello che era stato un movimento teso alla comprensione dei
modi di sviluppo e di mantenimento di un'ideologia su un terreno pratico specifico,
da cui allargare la comprensione pratica della funzione delle ideologie nel
nostro sistema sociale, rischia di rientrare nel campo dell'ideologia politica
generale, perdendo ogni possibilità di presa sulla pratica specifica
istituzionale. Si tratterebbe cioè del ritorno dallo specifico al generale,
come regressione allo stadio del «politico istituzionale», che precedeva
l'appropriazione del significato politico, implicito in ogni intervento tecnico
specifico.
Questa è la situazione da cui si parte per l'addestramento in Italia
e credo non solo in Italia. Del resto si tratta di un fenomeno evidente in tutti
i settori, non solo nelle istituzioni psichiatriche: lo scontro dei giovani
con la realtà del loro ruolo professionale. Per questo vale la pena di
tentare di capire cosa sta accadendo, per non rischiare di continuare a capovolgere
le situazioni, senza mai muoversi dal punto da cui si è partiti.
LAING E cosa fanno Franco e il suo gruppo? Cosa dicono alle persone che vengono
da loro? Dànno un'interpretazione politica della situazione italiana
che si può leggere anche altrove? Se si vuole fare qualcosa con gli infermieri,
i giovani devono occuparsi, con gli infermieri, dei pazienti e avere meno paura
di quanta ne abbiano gli infermieri. Altrimenti sono scuse per non affrontare
i pazienti. Il loro compito è dare l'esempio agli infermieri attraverso
il loro modo di «affrontare» i pazienti.
BASAGLIA E' quello che succedeva a Gorizia, ma nei giovani politicizzati c'è
ora la paura di cadere nella trappola dell'ideologia di ciò che Gorizia
ha rappresentato.
LAING Ci deve essere qualcuno che riesca a superare questo panico, questa fuga
dal dolore degli altri che ci ricorda la nostra infelicità, la nostra
incapacità o la nostra disperazione; qualcuno che riesca a stare con
una persona che si accorge di non poter assolutamente aiutare, senza avvertire
un senso di fallimento nel non riuscire a farlo. Questa "capacità
negativa" è molto importante ed è fondamentale per l'analisi.
Affrontare l'incertezza e il dubbio se si stia arrivando da qualche parte o
dove si stia arrivando e avvertire un disorientamento completo di fronte a questo
genere di cose: questa è una posizione ideologica falsamente positiva,
che è fuga difensiva dall'esercizio della capacità negativa di
cui parlavo prima, ed è una posizione completamente adialettica. Il giovane
psichiatra che si sia impadronito di un nuovo linguaggio, incorporato come ideologia,
sviluppa una sorte di sindrome di agitazione: ha il senso di colpa, ha le sue
paure personali e può non essere onesto con se stesso, arrivando - molto
spesso - ad assumere un'aria di purezza e di superiorità perché
lui appartiene alla New Left o Post New Left e non è fascista; mentre,
in pratica, può non essere meglio o può essere anche peggio di
qualche psicoterapeuta idealista borghese che fa pagare la visita ai suoi pazienti,
ma che magari fa un lavoro serio.
Penso che la migliore soluzione sia che gli psichiatri che hanno fatto esperienza
negli anni e che non hanno adottato una di queste false soluzioni, insegnino
ai giovani con l'esempio e non con le parole o con seminari...
BASAGLIA E' quello che si tenta di fare e se ci si riesce l'istituzione dovrebbe
risultare terapeutica a tutti i livelli, anche per i terapisti. In ciò
consiste anche l'addestramento. Ma occorre arrivare a comprendere praticamente
i limiti reali in cui ci si muove.
In Inghilterra c'è, nel rapporto con i giovani in addestramento, un problema
analogo, dato che in molti altri paesi europei si assiste allo stesso fenomeno?
LAING Non è un problema per noi, perché chi viene a fare il training
con noi, vive "con" i malati. Non è che passi parte del tempo
con loro, vivono tutti assieme.
BASAGLIA Ma in un'istituzione psichiatrica ci sono, ad esempio, mille degenti
e settecento infermieri, per cui l'azione si complica anche per il terreno stesso
in cui si opera e per l'insieme di regole cui è soggetta l'organizzazione
ospedaliera.
LAING Appunto. Ma cosa vi impedisce di disporre di una casa dove possano vivere
dieci o quindici persone, per metà studenti di medicina e per l'altra
metà «schizofrenici»? Questa «casa» potrebbe
far parte dell'addestramento di tutti, per un certo periodo, e potrebbe essere
aggiunta a ogni ospedale psichiatrico. E' una cosa semplice da fare. Qui non
occorrono infermieri; ognuno corre i suoi rischi, senza bisogno di regole: tutti
fanno quello che possono per riuscire a vivere insieme. Se volete lasciar stare
la questione istituzionale, fatelo.
BASAGLIA Continuare ad agire nelle istituzioni può anche avere un valore
reale-simbolico per dimostrare come si possa, nonostante tutto, resistere ad
esse, e questo agli occhi della maggioranza delle persone che vive al loro interno,
in tutti i ruoli che le istituzioni comprendono. Agire all'esterno potrebbe
allora diventare la proposta di un'alternativa di cui non tutti possono usufruire
e il suo valore esemplare verrebbe ridotto nel momento in cui si tratta di una
situazione privilegiata rispetto a quelle istituzionali. Inoltre resterebbe
sempre aperto il problema che tutto diventa «istituzione» e che,
a un certo punto - come tu stesso dici - non si può andar «fuori»
più di tanto.
Puoi comunque dire in che misura la tua azione ha inciso sul concetto e sulla
definizione di malattia mentale nel tuo paese?
LAING Se entri in una libreria, nella sezione dedicata alla psichiatria, e leggi
i testi principali che vengono pubblicati nel mondo, non ti accorgeresti né
che esisto io, né che esiste questo tipo di approccio alla malattia.
Poi se si apre una pagina del discorso inaugurale del Royal College of Psychiatrists
appena costituito, mentre all'inizio pare che questo modo diverso di avvicinare
la malattia non esista affatto, ci sono due paragrafi che difendono la posizione
del sistema, contro una posizione di cui il sistema finge di ignorare l'esistenza.
Oppure un professore di psichiatria si mette in contatto con me e mi dice un
po' ironicamente che i suoi attacchi nei miei confronti sembrano provocare sui
suoi studenti l'effetto opposto e cioè che gli studenti e il suo staff
domandano che io vada a parlare con loro. Benché non voglia che io incontri
i suoi studenti, sarebbe tuttavia contento se incontrassi i membri più
vecchi del suo staff, dietro le quinte, come per aprire dei negoziati.
C'è una specie di brontolio, soprattutto fra gli psichiatri più
anziani che si sentono togliere la terra sotto i piedi da un mutamento della
coscienza degli psichiatri più giovani. Non so dire la portata di questa
cosa. Ho l'impressione che anche in America succeda lo stesso. Non penso che
molti giovani credano ai testi di psichiatria nel modo in cui molti di noi credevamo
venticinque anni fa: devono ancora fare esami, devono ancora appropriarsi del
linguaggio, ma molti sono profondamente insoddisfatti. Molti si rendono conto
che tutto è pesantemente istituzionalizzato, sanno da dove vengono i
soldi, come sono controllati i posti di lavoro, come sono controllate le carriere,
il che offre loro prospettive molto limitate. E' un genuino cambiamento delle
coscienze che si sta verificando in tutto il mondo e sta succedendo qualcosa
anche nella professione psichiatrica. Si tratta di qualcosa di molto sottile,
in certi settori è più forte che in altri, ma anche quando è
debole esiste lo stesso.
BASAGLIA Quali sono i progetti pratici attuali?
LAING Sto cercando di trovare denaro per la Philadelphia Association. I valori
dei beni immobili a Londra crescono molto rapidamente, per cui ci sembra un
buon momento per comprare una casa e avere un posto stabile, senza avere più
l'angoscia di non essere in grado di pagare l'affitto o di doversi spostare
da una casa all'altra. Abbiamo già una segreteria, una biblioteca e un
luogo dove tenere dei seminari. Vogliamo avere un posto per tutto, poter disporre
di fondi per borse di studio. Insomma tutto quello che si può avere con
il denaro ci serve ed è bene avere i soldi per comprarlo. Ci occorrerebbe
un posto in campagna che dovrebbe, naturalmente, funzionare in stretto rapporto
con la città. Non occorre parlare dei vantaggi specifici della campagna.
Spero si apra presto un luogo analogo a New York, che sarà strettamente
legato a noi e spero riusciremo a trovare presto - e non occorre sia in campagna
- una specie di quartiere generale centrale per l'addestramento dei terapisti.
Come tentavo di dire l'altra sera, vorremmo collegare i fattori fisici, emozionali,
psichici e sociali alle scienze mentali. In altre parole, un tipo di addestramento
che non divida questi fenomeni, così come tuttora si fa, o che non si
limiti a riempire di parole il vuoto di pratica. Non so di nessun centro di
addestramento per terapisti che prepari in questo lavoro sul proprio corpo,
sulle sensazioni ed emozioni, insieme alla cosiddetta psicoterapia, lavorando
con diadi, triadi, sistemi familiari, network, eccetera. Noi vogliamo, combinando
insieme pratica e teoria, una terapia che comprenda tutti i campi, senza escluderne
alcuni o senza dedicarci allo studio esclusivo di altri. Lo si potrà
fare, oltre ai seminari teorici, ai gruppi di studio e all'analisi implicita
nel nostro mandato, lavorando con le famiglie e vivendo nella comunità.
Spero che riusciremo a fare questo centro. Si tratterebbe di un centro di addestramento
dove potrebbe venire gente di tutto il mondo, per questo non occorre sia in
Inghilterra piuttosto che negli Stati Uniti. Qualunque posto va bene.
*
Laing, confuso non sempre a ragione con l'antipsichiatria di David
Cooper, ripropone ora, come si vedrà più oltre, la costituzione
di un «asilo», che risponda - fuori da ogni burocrazia organizzativa
e istituzionale - al bisogno di riparo, di protezione, di tutela di chi vive
un'esperienza «diversa». Un luogo dove il diverso possa esprimersi
senza limitazioni, e dove si impari a convivere con esso. Ma così come
Laing augura a noi di resistere a lottare nelle istituzioni, noi auguriamo a
lui che il suo «asilo» riesca a non diventare un'istituzione, restando
- come resterà inevitabilmente - inserito nella logica sociale ed economica
dell'area in cui sorgerà, anche se non ne sarà burocraticamente
condizionato e determinato. Resteranno comunque i limiti di un'azione che, per
essere più approfondita sul piano del «soggetto», finisce
per non avere la stessa approfondita incisività sul piano politico-sociale
in cui il soggetto è oggettivato.
Ma ciò che dobbiamo anche imparare - e questa raccolta di resoconti teorico-pratici
di esperienze diverse ne testimonia un tentativo - è vivere in modo complementare
e non antagonistico l'azione dell'altro, per uscire, anche su questo piano,
dalla logica della divisione e non trovarci, ciascuno isolato nel proprio piccolo
campo d'azione, a riproporre il gioco dell'intellettuale classico, geloso delle
sue idee e delle sue piccole invenzioni.
2.
La scienza e la criminalizzazione del bisogno.
In questi ultimi anni va delineandosi sempre più chiara
la compresenza di due tipi di guerra: la guerra imperialista e i movimenti antiimperialisti
presenti un po' ovunque nel mondo; e la guerra quotidiana, perpetua, per la
quale non sono previsti armistizi: la guerra di pace, con i suoi strumenti di
tortura e i suoi crimini, che ci va abituando ad accettare il disordine, la
violenza, la crudeltà della guerra come norma della vita di pace.
Ospedali, carceri, manicomi, fabbriche, scuole sono i luoghi in cui si attuano
e si perpetuano questi crimini in nome dell'ordine e della difesa dell'uomo.
Ma l'uomo che si vuole difendere non è l'uomo reale: è ciò
che l'uomo deve essere dopo la cura, l'indottrinamento, la distruzione, l'appiattimento
delle sue potenzialità, il recupero. E' l'uomo scisso, separato, diviso,
su cui ha buon gioco questo tipo di manipolazione per il suo totale adattamento
a questo ordine sociale che vive sulla criminalizzazione e sul crimine.
Ospedali e farmaci uccidono più di quanto non riescano a curare (una
statistica americana ha riconosciuto che l'80 per cento della medicina serve
a curare malattie generate dalla medicina stessa). Le carceri producono più
delinquenti di quanti ne entrino. I manicomi fabbricano i malati su misura:
cioè costruendo passività, apatia e annientamento personale necessari
al controllo e alla conduzione dell'organizzazione ospedaliera. Nelle fabbriche
si sfruttano gli operai, costringendoli a condizioni di lavoro nocive e distruttrici,
dove le «morti bianche» sono preventivate come un male necessario
al progresso dell'uomo. Le scuole continuano a non insegnare e a non svolgere
il loro ruolo educativo, eliminando chi non ha «imparato» e non
è stato «educato». Gli studenti che esigono una ristrutturazione
dell'insegnamento e una garanzia per il loro futuro, sono accusati di sovvertire
l'ordine pubblico; mentre gli studi universitari sono sempre più scadenti
e squalificati, sì che ci saranno, da un lato, posti di lavoro per chi
si è preparato all'estero o presso le scuole di specializzazione delle
industrie, e dall'altro una nuova ondata di laureati disoccupati o sottoccupati.
Mari e fiumi sono inquinati e inaccessibili, perché portano nelle loro
acque la morte chimica che le industrie producono, e solo davanti a questa morte
generale si progettano spese di miliardi per depuratori e impianti di filtraggio
che potevano essere costruiti per prevenirla e non correre ai ripari dopo i
funerali.
Tutto questo in nome del bene della comunità, in nome del progresso che
darà all'uomo il benessere e la felicità. Ma quale uomo?
In ogni momento di crisi riaffiorano i concetti astratti di «uomo»
e di «umano». E' in nome di quest'uomo astratto che esiste il progresso
delle scienze, il progresso della civiltà. E' in risposta ai bisogni
di un uomo che non esiste, che questo progresso può continuare a svilupparsi
come progresso della tecnologia, dell'industria, del grande capitale che dell'uomo
e della sua vita non sa che farsene, se non sfruttarlo e ridurlo alla sua logica
il meno scopertamente possibile. E allora è umano il progresso, se l'industria
e il capitale sono in fase di espansione; così come sono umani il regresso,
l'austerità, il regime di economia che riportano l'uomo a vecchi valori
perduti (come nel caso della recente falsa crisi energetica), nei momenti di
crisi dell'industria e del capitale. Secondo le circostanze favorevoli o sfavorevoli,
è la logica economica a stabilire ciò che è umano e ciò
che non lo è, ciò che è sano e ciò che è
malato, ciò che è bello e ciò che è brutto, ciò
che è corretto e ciò che è riprovevole.
Sono discorsi di un'ovvietà tale che ci si vergogna a farli. E' ancora
e sempre la storia ormai banale del bambino che vede il re nudo, in mezzo a
una folla impaurita e vigliacca, resa impaurita e vigliacca dalla manipolazione
di cui è oggetto. Ma i re sono sempre nudi e siamo noi che li vestiamo
accettando e subendo la manipolazione, senza rifiutare il loro gioco da funamboli
dove si cambiano continuamente le carte in tavola e si stabiliscono, di volta
in volta, nuove regole per la nostra vita. Ideologie scientifiche e istituzioni
hanno il compito di garantire questa manipolazione, unendo nello stesso gioco
(se pure, ovviamente, a gradi diversi di possibilità e di alternative)
manipolatori e manipolati, controllori e controllati, gli uni attraverso l'identificazione
nei loro ruoli apparentemente attivi e autonomi, gli altri nel subire ciò
che non sono in grado di rifiutare.
Pure si continua a sostenere che - nell'ultimo secolo - sono stati fatti passi
giganteschi verso la conquista da parte dell'uomo della propria libertà
e del proprio destino. La scienza, in ogni campo, dichiara di essere alla ricerca
di strumenti sempre nuovi, per la liberazione dell'uomo dalle proprie contraddizioni
e dalle contraddizioni della natura. Ma se si analizzano e soprattutto si agisce
all'interno delle istituzioni create dalla nostra «scienza» e dalla
nostra «civiltà», ci si rende conto di come ogni strumento
tecnicamente innovatore non sia in realtà servito che a dare un nuovo
aspetto formale a condizioni di cui restavano immutati natura e significato.
Nel campo specifico della reclusione - e in questo termine vogliamo ora comprendere
sia quella manicomiale che quella carceraria, i due poli principali su cui si
incentrano gli interventi di questa raccolta - dal tempo della nave dei folli,
che, secondo la leggenda medievale, vagava per i mari e i fiumi con il suo carico
abnorme e indesiderato, la scienza e la civiltà non pare siano riuscite
ad offrire che un ancoraggio più pesante a queste isole di esclusione,
dove devianza malata e devianza sana («colpevole» e «responsabile»,
quindi «delinquenza») trovano la loro collocazione. Per l'uomo moralmente
traviato il carcere, per l'uomo malato nello «spirito» il manicomio:
questa la grande conquista della scienza.
Per secoli matti, delinquenti, prostitute, omosessuali, alcolizzati, ladri e
bizzarri avevano diviso lo stesso luogo dove la diversità della natura
della loro «abnormità» veniva appiattita e livellata da un
elemento comune a tutti: la deviazione dalla «norma» e dalle sue
regole, unita alla necessità di isolare l'abnorme dal commercio sociale.
Le mura dell'asilo circoscrivevano, contenevano e nascondevano l'indemoniato,
il pazzo (espressione del male dello spirito involontario e irresponsabile),
insieme al delinquente (espressione del male intenzionale, responsabile). Pazzia
e delinquenza rappresentavano, insieme, la parte dell'uomo che doveva essere
eliminata, circoscritta e nascosta, finché la scienza non ne sancì
la netta divisione attraverso l'individuazione dei diversi caratteri specifici.
Secondo il razionalismo illuminista, il carcere doveva essere l'istituzione
punitiva per chi trasgrediva la norma, incarnata nella legge (la legge che tutela
la proprietà, che definisce i comportamenti pubblici corretti, le gerarchie
dell'autorità, la stratificazione del potere, l'ampiezza e la profondità
dello sfruttamento). Il pazzo, il malato dello «spirito», colui
che si appropriava di un bene comunemente attribuito alla ragione dominante
(il bizzarro che viveva secondo norme create dalla "sua" ragione o
dalla "sua" follia) cominciarono ad essere classificati come "malati"
per i quali occorreva un'istituzione che definisse chiaramente i limiti fra
ragione e follia, e dove poter relegare e rinchiudere con una nuova etichetta
chi contravveniva all'ordine pubblico su criteri di pericolosità malata
o di pubblico scandalo.
Carcere e manicomio - una volta separati - continuarono tuttavia a conservare
l'identica funzione di tutela e di difesa della «norma», dove l'abnorme
(malattia o delinquenza) diventava norma nel momento in cui era circoscritto
e definito dalle mura che ne stabilivano la diversità e la distanza.
La scienza ha dunque separato la delinquenza dalla follia, riconoscendo a entrambe
una nuova dignità: alla follia quella di essere tradotta in una astrazione
- la sua definizione in termini di malattia; - e alla delinquenza quella di
diventare oggetto di ricerca da parte di criminologi e scienziati, che arrivarono
ad individuare generici fattori biologici come originari del comportamento abnorme,
fino alla scoperta del cromosoma "y" soprannumerario. Ma, nonostante
la separazione formale delle due entità astratte (delinquenza e malattia)
ciascuna con la propria istituzione specifica, "praticamente" resta
inalterata la stretta relazione dell'una e dell'altra con l'ordine pubblico:
il che mantiene inalterata la funzione di entrambe le istituzioni come tutela
e difesa di questo ordine. Inoltre, nonostante l'astratto riconoscimento di
questa nuova dignità, né il delinquente che deve espiare l'offesa
fatta alla società, né il pazzo che deve pagare per il suo comportamento
scorretto e inadeguato, sono stati mai considerati uomini, e le istituzioni
costruite per loro (per la loro "rieducazione" e "redenzione"
da un lato, e per la loro "cura" e "riabilitazione" dall'altro)
non hanno modificato né la funzione né la natura, continuando
a seguire, nella loro evoluzione separata, un binario parallelo. Riformatori
dei codici da un lato, frenologi e specialisti dall'altro, hanno di volta in
volta stabilito nuovi regolamenti, classificazioni, teorie, suddivisioni che
lasciavano ogni volta immutato il rapporto fra la società «civile»
e gli elementi che ne vengono esclusi. Ma, insieme, hanno anche lasciata immutata
la natura dell'esclusione fondata sulla violenza, la mortificazione, la totale
distruzione dell'uomo istituzionalizzato, dimostrando che la finalità
effettiva degli istituti di rieducazione e di cura resta sempre la soppressione
di chi dovrebbe essere rieducato e curato.
L'analisi della diversa organizzazione istituzionale della devianza, in rapporto
ai diversi gradi di sviluppo tecnologico industriale ed economico, ci può
chiarire l'immutabilità della funzione di questa organizzazione: il controllo
e l'eliminazione, attuati con strumenti più o meno espliciti, più
o meno sofisticati, dell'oggetto in essa contenuto.
Nei paesi dove la situazione economico-sociale, per il suo grado di sviluppo,
non esige - in nome del suo funzionamento - un tipo di sovrastruttura istituzionale
"divisa", la devianza occupa ancora per lo più lo stesso spazio:
l'internamento indifferenziato o la violenza esplicita, senza coperture. La
scienza non è ancora stata chiamata a fornire giustificazioni teoriche
a un tipo di discriminazione che non risulta ancora necessario. Cioè
non è ancora stata chiamata a portare la sua opera colonizzatrice nella
divisione dell'abnorme. Non si conosce l'utilità di questa divisione
che servirà a uno stadio di sviluppo successivo. La violenza, o la minaccia
di violenza, è ancora uno strumento sufficiente a garantire l'ordine
pubblico. Nel caso esista questa divisione fondata su principi scientifici,
essa risulta un tipo di organizzazione istituzionale, una sovrastruttura di
importazione - implicita nella logica imperialista - che non risponde minimamente
alla realtà locale. Che, per esempio, in una città come Rio de
Janeiro esista un tentativo di importazione dell'organizzazione istituzionale
della devianza di tipo yankee, significa che in una zona che tende a industrializzarsi,
occorre un tipo di controllo diverso. Ma la realtà generale del Brasile,
o quella del Nord-Est del Brasile, conserva nella violenza scoperta o nell'internamento
indifferenziato, l'unico strumento di controllo. Non è necessario mistificare,
attraverso un atteggiamento scientifico «diviso», le misure repressive
prese nei confronti dei comportamenti devianti. L'assurdità ad esempio
dell'esistenza dell'organizzazione psicoanalitica kleiniana a Porto Alegre,
ne è una chiara dimostrazione: essa serve solo agli psicoanalisti che
la gestiscono, mentre la sofferenza del popolo, i bisogni del popolo cui non
si risponde, vengono controllati altrove: da una violenza esplicita che non
ha bisogno di mascherarsi sotto coperture scientifiche sofisticate.
E' in questa ottica che l'orrore della tortura nei paesi sudamericani e non,
assume una forma organizzata, diventando "istituzione". Essa rappresenta
cioè la sovrastruttura, l'organizzazione istituzionale realmente rispondente
al livello strutturale di quei paesi. La "tortura come istituzione"
diventa l'unico strumento che i politici (cioè i militari) sanno usare
per il controllo di una situazione che non può che essere controllata
da uno stato continuo di "minaccia di violenza". Per un popolo che
non ha la speranza di mutare la sua condizione invivibile, o che non traduce
in una lotta concreta questa speranza, la minaccia dell'internamento in carcere
o in manicomio come sanzione per i comportamenti devianti, non ha presa, perché
per chi non mangia o non ha una casa dove dormire, l'internamento può
anche essere una soluzione alla sopravvivenza. La tortura è allora l'unico
mezzo di eliminazione, l'unica minaccia di distruzione reale, quindi il vero
controllo sociale rispondente a un livello di sviluppo ancora arcaico. Struttura
economica e organizzazione istituzionale coincidono sempre, a ogni livello di
sviluppo, e non è casuale che i manicomi vengano a strutturarsi in senso
tecnico-istituzionale con l'inizio della rivoluzione industriale; così
come tutte le forme di assistenza pubblica vengono a trovare la loro più
ampia configurazione istituzionalizzata, nel momento in cui si deve dividere
il produttivo dall'improduttivo. Con la nascita dell'era industriale il rapporto
non è più fra l'uomo e la società dell'uomo, ma fra uomo
e produzione, il che crea un nuovo uso discriminante di ogni elemento (abnormità,
malattia, devianza, eccetera) che possa essere d'intralcio al ritmo produttivo.
Al livello di sviluppo tecnologico dei paesi occidentali questa organizzazione
del controllo non è più esplicita. Essa è mascherata e
insieme legittimata dalle diverse ideologie scientifiche: per il manicomio dall'ideologia
medica che trova nella definizione dell'irrecuperabilità della malattia
la giustificazione alla natura violenta e segregante dell'istituzione; per il
carcere dall'ideologia della punizione. Il carcerato paga per la colpa commessa
ai danni della società; il malato paga per una colpa non commessa, e
il prezzo che paga è così sproporzionato alla «colpa»
da fargli vivere una doppia forma di alienazione, che gli proviene dalla totale
incomprensione e incomprensibilità della situazione che si trova costretto
a vivere. L'ideologia della punizione su cui si fonda il carcere e l'ideologia
medica, o meglio l'ideologia dell'irrecuperabilità della malattia, su
cui si fonda il manicomio, sono di fatto totalmente estranee al problema dell'uomo
delinquente o dell'uomo malato; cioè sono totalmente estranee al problema
della delinquenza come a quello della malattia. La loro funzione è quella
di un semplice contenimento delle devianze e quindi del loro controllo. L'ideologia
copre la repressione semplicemente giustificandola e legittimandola. Ma la violenza
legittimata resta violenza.
Se la finalità riabilitativa di entrambe le istituzioni fosse reale,
ci sarebbero detenuti ed internati riabilitati e reinseriti nel contesto sociale.
Il che accade molto raramente, poiché l'ingresso nell'una o nell'altra
di queste istituzioni segna, di regola, l'inizio di una carriera di cui si conoscono
gli sviluppi e le conseguenze. L'affinità formale fra queste istituzioni
sembra, dunque, realizzarsi, per entrambe, su un piano puramente negativo. Se
pure nuove interpretazioni tendono a giustificare o a spiegare in termini di
dinamica psico-sociale sia colpa che malattia, la realtà delle istituzioni
in cui esse sono relegate resta fondata sul concetto di colpa da espiare, da
pagare attraverso la punizione, anche nel caso della malattia.
I pazzi che Pinel aveva separato dai delinquenti in catene, sono tuttora realmente
e simbolicamente incatenati, gli uni e gli altri in istituzioni separate, ma
fondate sugli stessi principi distruttivi; definiti e rinchiusi negli stessi
giudizi di valore che ne stabiliscono comunque la natura "diversa".
I pazzi hanno ottenuto dal razionalismo illuminista la dignità di malati
e i delinquenti sono passati dall'ambito della colpa morale a quello di un'astratta
giustificazione endogena - recuperati nel campo dell'indagine positivista. Ma
per entrambi la realtà e la violenza restano le stesse. Che si usi e
si organizzi in modo sofisticato la tortura; che le catene siano reali come
nelle nostre istituzioni o che siano simboliche come nelle istituzioni dei paesi
tecnicamente più sviluppati, non fa differenza, se la finalità
è sempre la tutela del gruppo dominante, ottenuta attraverso la distruzione
degli elementi che intralciano l'ordine sociale. La logica della subordinazione
e della repressione resta la stessa se tende a creare persone totalmente sottomesse
acriticamente e totalmente identificate nelle leggi che hanno violato o che
possono violare.
Ma questa netta separazione e questo isolamento, in luoghi di segregazione,
di contraddizioni umane quali la delinquenza e la malattia, comportano contemporaneamente
la messa a fuoco di questi fenomeni come se coloro che ne risultano colpiti,
ne risultassero insieme definitivamente marchiati. L'effetto paradossale di
questo stigma è che proprio da coloro che hanno già dimostrato
la tendenza ad un comportamento anomalo si esige una vita esemplare e perfetta,
perché chi è stigmatizzato è riconoscibile, disuguale,
lo si individua subito, abitualmente è più debole, più
esposto, la sua situazione è precaria, non ha una forza economica, sociale
e culturale da opporre alla crociata crudele che esige solo da lui la perfezione
di condotta e di comportamento. Quella che incarna il detenuto o il malato,
è una contraddizione che non può essere mantenuta aperta perché,
a causa del suo diretto rapporto con l'ordine pubblico minacciato, essa deve
immediatamente essere definita e codificata per neutralizzarne uno dei significati:
la messa in discussione delle regole assolute che garantiscono questo ordine.
La delinquenza e la malattia sono contraddizioni dell'uomo. Possono "anche"
essere dati naturali, ma per lo più sono prodotti storico-sociali, e
tuttavia si continua a farne pagare le conseguenze - sotto coperture scientifiche
diverse - a chi ne è colpito, come se si trattasse sempre e solo di colpe
individuali, usate come occasione per distruggere chi, in qualche modo, è
fuori o intralcia il ciclo produttivo. Sono infatti sempre i marginali - chi
non ha potere culturale o economico da opporre, chi non ha un ruolo «positivo»
da giocare, chi non ha uno spazio privato dove vivere le proprie devianze, al
riparo - a cadere sotto le sanzioni più rigorose. Il gruppo dominante
salvaguarda l'ordine pubblico (il ritmo produttivo, l'efficienza della sua organizzazione,
l'andamento della vita innaturale che produce e impone) salvaguardando sé
e, insieme, chi lavora per lui, dalla minaccia potenziale rappresentata dai
marginali (coloro che non producono, coloro che volontariamente si escludono
o involontariamente sono esclusi dal commercio sociale), giocando, insieme,
sulla minaccia di una sua possibile emarginazione. Paradossalmente si ripropone,
in nome dello sfruttamento e dell'efficienza, la dialettica servo-signore, dove
il signore garantisce il servo dalla minaccia rappresentata da chi può
turbare l'ordine del suo lavoro, creando le istituzioni dove isolare e neutralizzare
questa minaccia. Ma l'esistenza di queste istituzioni agisce, insieme, come
minaccia per il servo che può cadere nelle sanzioni in esse implicite.
Questi organismi cosiddetti riabilitativi hanno dunque una duplice funzione:
la violenza come sistema concreto di eliminazione e di distruzione, e la violenza
come minaccia simbolica di questa eliminazione e distruzione.
Al nostro livello di sviluppo, ogni contraddizione deve essere isolata e trovare
lo spazio separato dove l'individuo paghi in proprio per la contraddizione che
rappresenta. Ciò che importa è individuare subito il "diverso"
e isolarlo per confermare che non siamo noi (i sani, i normali, i buoni cittadini),
non è la struttura della nostra organizzazione sociale a produrre contraddizioni.
E' sempre l'altro, lo straniero, l'estraneo, il corruttore, sono le «cattive
compagnie» che producono il contagio, contagio che deve essere prevenuto
e neutralizzato a tutela della acontraddittorietà della norma, cioè
dei parametri secondo cui viene definito l'ordine morale e pubblico. In questa
caccia all'individuazione precoce della diversità per confermarla come
disuguaglianza, si fonda il carattere preventivo delle ideologie, così
come nella conferma di questa disuguaglianza si fonda il carattere violento
delle istituzioni.
A questo punto ha buon gioco l'interdisciplinarietà, la complicità
della scienza con la legge, per cui si può, secondo i casi, definire
psicopatico, debole o pazzo morale il delinquente che non deve essere definitivamente
stigmatizzato come tale, nei casi in cui la stigmatizzazione di malato mentale
risulti meno lesiva di quella di delinquente. Le perizie psichiatriche non sono
che uno strumento che consente il passaggio da un terreno all'altro, attraverso
una misurazione quantitativa (sul cui carattere soggettivo è inutile
soffermarsi) degli elementi abnormi presenti nel soggetto esaminato.
Ma chi varca la porta del carcere, del penitenziario, del manicomio o del manicomio
criminale, entra in un mondo dove tutto "agisce praticamente" per
distruggerlo, anche se è formalmente progettato per salvarlo. E tuttavia
i criminologi continuano a riconoscere la realtà carceraria come l'espressione
più diretta ed evidente della delinquenza naturale del detenuto; così
come gli psichiatri continuano a riconoscere la realtà manicomiale come
segno del deterioramento psichico e morale prodotto dalla malattia.
E' su questa logica distruttiva che si mantiene l'efficienza dell'organizzazione
istituzionale, perché è l'istituzione in quanto organizzazione
che non può permettersi rischi. Ma i rischi che non si permette l'istituzione,
si traducono in realtà pratiche negative per gli uomini che essa contiene,
per i quali non esistono necessità, esigenze, bisogni cui si debba rispondere,
perché l'essere definiti malati di mente, o delinquenti, li priva di
ogni più elementare diritto, anche se le istituzioni continuano a definirsi
riabilitative e terapeutiche. Questo non può però non significare
anche che le cosiddette istituzioni riabilitative hanno, in realtà, una
funzione esplicita: quella di dare un ruolo istituzionale controllabile, a chi
non è controllabile attraverso la sua partecipazione al ciclo produttivo
(e questo comprende ovviamente tutti gli istituti cosiddetti positivi: scuola,
famiglia, fabbrica, università, luogo di lavoro). Chi è fuori
da questo cerchio e non accetta le regole del gioco, deve trovare un luogo in
cui assumere un ruolo specifico sul quale l'istituzione deputata giocherà
poi nel graduale processo distruttivo che le compete.
L'interscambiabilità delle istituzioni e delle caratteristiche di ciò
che contengono ne è una dimostrazione. Si tratta di vasi comunicanti
il cui accesso è reso possibile da un cambio di definizione o di etichetta
del contenuto. Un ragazzo internato in un istituto di rieducazione, passerà
al carcere o al manicomio a seconda dell'accento che si vorrà porre sulla
sua devianza sana o malata. Più difficile sarà per lui riuscire
a evitare l'uno o l'altro, una volta marchiato dalla sua appartenenza all'istituto
di rieducazione.
Questo il tipo di organizzazione istituzionale corrispondente al livello di
sviluppo più o meno generalizzato dei paesi europei.
Ad un livello tecnologico-industriale più avanzato, quale ad esempio
quello degli Stati Uniti, il controllo classico della devianza attraverso le
istituzioni segreganti, non basta più. Il sistema capitalistico, oltre
a produrre un aumento dei beni di consumo che vengono imposti come segno del
grado di benessere raggiunto dalla popolazione, produce contemporaneamente un
aumento di contraddizioni, cioè un aumento di deviazioni dalla regola.
Il controllo di queste deviazioni non passa più unicamente attraverso
le istituzioni segreganti e violente (che tuttavia continuano a esistere). Ci
si può anche permettere di progettare la ristrutturazione formale di
queste istituzioni che possono essere ammodernate, rese meno esplicitamente
repressive, più tolleranti, perché il controllo avviene essenzialmente
altrove - attraverso la dilatazione nel "territorio" e attraverso
un nuovo tipo di individuazione del "diverso", più capillare
e più sottile: l'individuazione precoce, la prevenzione, i servizi assistenziali,
il welfare state, la traduzione in conflitti psicologici da curare, di comportamenti
che con la psicologia hanno poco a che fare.
Questo tipo di controllo della devianza che recupera la maggior parte dei conflitti
sociali nel terreno della psicologia, della medicina e dell'assistenza è
un nuovo modello pronto per l'esportazione (in parte già in atto) nei
paesi a un livello di sviluppo più arretrato. La sua applicazione pratica,
in zone in cui questo tipo di controllo non è ancora necessario alla
tutela dell'ordine pubblico e dello sviluppo industriale, comporta il nascere
di problemi e di necessità artificiali, cui il nuovo modello istituzionale
è preparato a rispondere. Ma è preparato a rispondervi in quanto
problemi e bisogni artificiali da esso stesso prodotti che, per il loro essere
estranei alla realtà concreta in cui cominciano a manifestarsi, risultano
essi stessi occasione di dominio. E' la distanza tra bisogno reale e bisogno
artificiale che serve in questo senso, perché l'imposizione di una cultura
estranea è una delle forme classiche di dominio e di colonizzazione,
ben collaudata dai missionari portatori della loro fede e dei loro valori morali,
la cui azione precedeva l'arrivo degli eserciti conquistatori. La dominazione
passa sempre attraverso la distruzione, l'annientamento della cultura «indigena».
Soltanto nel momento in cui viene privato, oltre che della propria economia,
dei propri valori, il dominato è pronto a subire quelli del conquistatore
che, quanto più sono lontani dalla sua cultura, tanto più lo pongono
spontaneamente nella posizione succube e subordinata del «conquistato».
Del resto, la difficoltà ad accedere alla cultura borghese da parte del
proletariato, è uno degli aspetti di questo meccanismo, dato che essa
serve a confermare anche agli occhi della stessa classe proletaria, la propria
inferiorità di fronte a una cultura lontana e incomprensibile.
L'oppressione si muove sempre a due livelli: o l'uccisione e il massacro, o
l'imposizione di nuovi valori e ideologie che servono come strumenti di manipolazione
per mascherare la violenza dell'uccisione e del massacro.
L'esportazione di ideologie e di organismi di controllo come ad esempio la comunità
terapeutica o i Community Mental Health Centers in paesi sottosviluppati, non
ha che questo significato: la loro esistenza e il loro nascere è un alibi
alla perpetuazione della violenza scoperta che continua ad attuarsi come risposta
concreta, rispondente al livello di sviluppo dei paesi in cui le nuove ideologie
tecnico-scientifiche vengono esportate.
Dove esiste una presa di coscienza da parte di un popolo, della necessità
di trovare da sé le risposte ai propri bisogni, la strategia del dominio
si riscopre per quello che è: ritorna alla violenza esplicita, all'uccisione,
al massacro come sistema arcaico di colonizzazione. La distruzione del movimento
di Unità Popolare in Cile, ne è un chiaro esempio. Davanti all'appropriarsi
da parte del popolo dei propri bisogni e degli strumenti per rispondervi direttamente,
il sistema imperialista salta e ovviamente non è disposto a correre rischi.
In questo caso la violenza legalizzata, rappresentata dalle istituzioni, non
serve più: si ritorna alla "violenza come istituzione", senza
bisogno di coperture o di mistificazioni scientifiche o non. Si uccide, si tortura
e si elimina chi ha scoperto il gioco e cerca gli strumenti adeguati per uscirne.
Questi tipi diversi di violenza (esplicita, legittimata dalle ideologie scientifiche,
diluita e mascherata sotto la copertura dell'organizzazione assistenziale) sono
le diverse modalità di controllo in rapporto ai diversi gradi di sviluppo
di un paese. Ma sono, insieme, anche compresenti e contemporanei, nel senso
che, nei momenti di crisi, viene scelta la modalità di intervento e di
repressione più adatta a garantire il controllo, e non importa più
se si passa esplicitamente da un controllo fondato sull'analisi psicologica
dei conflitti, alle uccisioni in massa. Chi ha il potere trova sempre il modo
di legittimare la violenza, semplicemente imponendola e magari fondendo insieme
i diversi strumenti di cui dispone, fino ad arrivare a "umanizzare la tortura",
garantendo al torturato l'assistenza dello psicologo o dell'assistente sociale.
Il livello socio-economico dei paesi europei è comunque tuttora legato
- se pure a gradi diversi - al controllo istituzionale come forma di repressione.
Si stanno solo ora progettando riforme - in alcuni paesi già in atto
- per le nuove istituzioni tolleranti, dove malattia, devianza, delinquenza
possono essere controllate senza dover ricorrere a una violenza troppo esplicita.
Ma nella logica del capitale costruire nuove carceri significa costruire nuovi
carcerati; così come costruire nuovi ospedali significa fabbricare nuovi
malati, se la finalità resta l'organizzazione dei bisogni e non la risposta
a questi bisogni. L'organizzazione dei bisogni comporta soltanto la creazione
di nuovi organismi che vengono automaticamente inseriti nel ciclo produttivo,
offrendo nuovi ruoli, nuovi posti di lavoro, nuovi servizi che mettono in moto
il medesimo circuito produttivo, tipico di qualunque altra organizzazione la
cui giustificazione alla propria esistenza è la sua stessa sopravvivenza
e il mantenimento o l'aumento degli oggetti che contiene.
Da noi nessuno oggi osa più sostenere, a parole, che le istituzioni chiuse
e violente non siano indegne di un paese «civile». Nessuno ignora
le condizioni disumane in cui vivono gli internati. Ma la trasformazione delle
istituzioni porta soltanto a un apparente mutamento formale che, se anche offrirà,
per quanto riguarda la vita quotidiana degli internati, parziali benefici di
cui non si devono sottovalutare necessità e positività, si limiterà
ad essere una nuova razionalizzazione tecnico-organizzativa, usata come nuovo
sistema di controllo degli stessi oggetti. All'interno della medesima logica,
"trasformazione", "razionalizzazione" e "controllo"
sono tappe di un processo che si perpetua attraverso il continuo mutamento formale
delle cose, senza che ne venga mai intaccata la struttura: la trasformazione
avviene sempre come risposta tecnica ad una domanda economica - ad ogni livello
di sviluppo occorre una diversa forma di controllo - ed è la legge economica
a richiedere la nuova razionalizzazione tecnica che funga da controllo alla
situazione trasformata.
L'indignazione emotiva contro la violenza delle nostre istituzioni repressive
dovrebbe portare all'esigenza di una loro trasformazione che risulti adeguata
ai bisogni che malattia e devianza esprimono. Ma finché il nostro sistema
economico non troverà funzionale al suo progressivo sviluppo un tipo
di controllo istituzionale diverso da quello violento e segregante ancora in
vigore, carcere, manicomi e tortura resteranno quello che sono. Stan Cohen sostiene,
giustamente, che da quando esiste il carcere si parla di riforma carceraria.
Carcere, manicomio, tortura possono cambiare solo se si modifica la struttura
di base di cui queste istituzioni sono i pilastri. Ne è una conferma
il fatto che se, a livello teorico, si parla sempre della necessità della
loro trasformazione, sul piano pratico ogni tentativo di trasformazione è
ostacolato e violentemente represso. Ma la risposta repressiva a ogni tentativo
di trasformazione pratica di ciò che garantisce il mantenimento dello
status quo, qualifica la trasformazione stessa, dimostrando come essa - nel
caso in cui si attui - non si limiti ad essere una semplice risposta tecnica
a un problema specialistico.
Agire in queste istituzioni della violenza, rifiutando la delega di semplici
funzionari dell'ordine pubblico, implicita nel nostro ruolo di tecnici, significa
svelarne praticamente la logica, dando - a chi vive al loro interno come oggetti
contenuti o soggetti contenenti - la possibilità di una presa di coscienza
pratica del meccanismo su cui si fondano. All'analisi teorica e apparentemente
asettica del campo sfuggono il fondamento dell'esistenza di queste istituzioni,
le finalità e il modo in cui esse funzionano nel contesto sociale di
cui rappresentano uno dei punti strategici per il mantenimento dell'ordine costituito.
E' in questo senso e partendo da questa ottica che il lavoro del tecnico in
queste istituzioni della violenza, si attua e si rivela come lavoro politico,
agganciando la specificità particolare in cui è isolata la sua
azione, alla struttura sociale di cui l'istituzione fa parte, e svelandone praticamente
i nessi e le implicazioni.
Ciò significa che l'azione in queste istituzioni e l'analisi della violenza
che vi si esplica, non si limitano alla demistificazione della contraddizione
fra custodia e cura, fra custodia e riabilitazione su cui si fondano manicomi
e carceri; ma tendono soprattutto a chiarire praticamente le finalità
perseguite e le modalità scelte per questa violenza "in rapporto
alla struttura sociale in cui essa si attua". Occorre dunque collegarsi
ad una analisi della struttura sociale, uscendo dalla separazione specialistica
di cui ogni istituzione e ogni tecnico che vi lavora sono prigionieri, pur conservando
l'angolatura e il terreno specifici di questa lotta.
Lo stato borghese si fonda su una divisione artificiale (prodotta,
storicamente determinata) che viene imposta e assunta come "divisione naturale":
la divisione in classi. L'accettazione di questa divisione come fenomeno naturale
comporta una serie di regolamenti e di istituzioni che, apparentemente finalizzati
a risolvere le contraddizioni naturali, servono di fatto a mantenere l'originaria
divisione su cui si regge la struttura economico-sociale. Tanto più è
innaturale il regolamento (e la struttura di cui è garante) tanto più
esso è violento e repressivo, perché non risponde al bisogno (cioè
alla contraddizione naturale) per cui è apparentemente istituito, ma
al mantenimento dell'artificio che il regolamento tende a coprire.
Il processo non è tuttavia né così semplice, né
così esplicito. Le articolazioni attraverso cui il nostro sistema sociale
- a livello di sviluppo della media dei paesi europei - riesce a mantenere la
divisione in classi necessaria alla sua sopravvivenza, sono diverse anche se
presentano tutte un denominatore comune: la tendenza a isolare i fenomeni, come
se non nascessero e non si presentassero in una rete di relazioni e di rapporti
reciproci, per affrontarli divisi, separati dal tessuto di cui sono uno degli
elementi, e poter far loro assumere un carattere assoluto, naturale. Teorie
scientifiche e istituzioni sembrano esplicitamente finalizzate, le une a individuare
e isolare questi fenomeni sotto la mistificazione della risposta specialistica;
le altre a confermarne, attraverso una pratica distruttiva, il carattere definitivo
e irriducibile. Di fatto, entrambe sono finalizzate a individuare e a confermare
la "diversità naturale" dei fenomeni, attraverso lo stesso
processo attuato - a priori - nella divisione in classi, matrice per ogni altra
successiva divisione.
Limitando l'analisi al solo campo delle ideologie e delle istituzioni destinate
al controllo della devianza - carceri e manicomi - (ma il processo è
ovviamente analogo per ogni altro istituto del nostro sistema sociale), il fenomeno
negativo, cioè il comportamento anomalo in termini di asocialità
responsabile o malata, viene isolato in modo che l'individuo che lo esprime
"diventi" solo quel fenomeno, come non si trattasse di un momento
di un processo in cui sono implicati storia, ambiente, valori, rapporti e processi
sociali in cui ogni vita individuale è sempre coinvolta. Il fenomeno
negativo è un momento relativo ad un complesso di fattori biologici,
psicologici e sociali, ma viene isolato e reso assoluto e naturale per giustificarne
il carattere immodificabile. Il delinquente è solo e irriducibilmente
delinquente, e il carcere è il luogo che serve al contenimento della
delinquenza. Il matto è solo e irriducibilmente matto, e il manicomio
è il luogo che serve al contenimento della pazzia. Ma delinquenza e pazzia
sono avvenimenti che fanno parte della vita dell'uomo, nel senso che sono espressione
di ciò che l'uomo è o può essere e, insieme, di ciò
che può diventare attraverso il mondo di relazioni e di rapporti. Il
delinquente e il pazzo (e qui non entriamo nel merito dei parametri in base
ai quali essi sono definiti, il che significherebbe aprire tutta un'altra serie
di discorsi) conservano anche nella delinquenza e nella pazzia le altre facce
del loro essere uomini: sofferenza, impotenza, oppressione, vitalità,
bisogno di un'esistenza che non sia malata né delinquente.
Ma il delinquente diventa automaticamente di pertinenza della criminologia,
scienza che suole avere come oggetto di ricerca la criminalità e non
l'uomo nella sua totalità; così come il pazzo, o il deviante malato,
diventa automaticamente di pertinenza della psichiatria, scienza che suole avere
come oggetto della ricerca le devianze psichiche e non l'uomo nella sua totalità.
Le ideologie scientifiche servono dunque a fissare in termini assoluti gli elementi
di loro competenza, facendoli diventare accidenti naturali contro cui l'uomo
può quel poco che può la scienza. Così come le istituzioni
hanno il compito di confermare concretamente l'irreversibilità di questi
fenomeni naturali. Se malattia e delinquenza sono "solo" fenomeni
naturali (delinquente si nasce, la pazzia è il prodotto di una alterazione
biologica) e non "anche" prodotti storico-sociali, il contenimento,
l'internamento sono l'unica risposta possibile; l'istituzione repressiva, la
segregazione, l'unica alternativa di fronte a un fenomeno da cui la società
deve solo garantirsi e tutelarsi. Nessuno è responsabile, nessuno è
coinvolto, così come davanti alla violenza di certi fenomeni naturali.
L'individuo diventa "tutto malato" o "tutto delinquente"
e se anche questa totalità negativa è costruita artificialmente
dall'assolutizzazione dell'uno o dell'altro degli elementi in cui l'uomo è
stato artificialmente scomposto, sarà poi su questa totalità negativa
che si attua e si conferma l'esclusione sociale.
Ci si trova di fronte ad una parcellizzazione dell'uomo in cui vengono isolate
le diversità, esasperate e confermate le differenze. Ma in nome di cosa?
Dai risultati non si può certo dire che tale processo serva alla riabilitazione,
al recupero del deviante e al ristabilimento della salute del malato. Se così
fosse, la maggioranza degli internati, sia delle nostre carceri che dei nostri
manicomi, dovrebbe risultare riabilitata e guarita, e non è sufficiente
riconoscere o ammettere il limite della scienza in questi settori per spiegare
il fallimento generale degli istituti destinati alla riabilitazione e alla cura.
Ciò che è determinante in questo processo è un elemento,
per molti anche troppo ovvio, di cui tuttavia gli scienziati della psichiatria
e della criminologia non sembrano avere mai tenuto conto. Si tratta della classe
di appartenenza degli utenti di queste istituzioni, e non può certo essere
casuale che, per la quasi totalità, siano proletari o sottoproletari,
così come appartengono alla stessa classe tutti gli utenti di altri istituti
rieducativi e assistenziali come brefotrofi, case di correzione e rieducazione,
case di pena, nonché gli assistiti del Welfare nei paesi a maggiore sviluppo
industriale. Salvo rari casi di borghesi danarosi delinquenti (che comunque
riescono sempre a trovare il modo e gli strumenti per evitare o ridurre la pena
loro inflitta) sembrerebbe che le forme di delinquenza e di pazzia irrecuperabili,
fossero appannaggio di una sola classe.
E pur tuttavia, anche se nuove teorie tendono a dare nuove interpretazioni di
tipo sociologico a questi fenomeni, la scienza continua a confermarci "nella
pratica" che pazzia e delinquenza sono avvenimenti naturali. Ma questi
avvenimenti fanno parte solo della "natura" del proletariato e del
sottoproletariato, o non è piuttosto che pazzia e delinquenza degli appartenenti
a questa classe sono rese "naturali" e "irriducibili" attraverso
il processo di assolutizzazione del diverso?
Se malattia e delinquenza sono avvenimenti, contraddizioni naturali, la quasi
totale assenza nelle istituzioni della malattia (mentale) e della delinquenza
degli appartenenti alla classe dominante, testimonia che altrove - fuori di
queste istituzioni - esiste un concetto di recuperabilità diverso e,
ovviamente, un diverso concetto di irrecuperabilità, per cui malattia
e delinquenza perdono il carattere naturale e irriducibile che presentano nelle
carceri e nei manicomi. La recuperabilità è subordinata agli strumenti
di cui si dispone e alla volontà di recuperare. La borghesia dispone
per sé di questi strumenti e di questa volontà.
Per quanto riguarda la malattia, psicoterapia e psicoanalisi sono le branche
della scienza che si mettono a disposizione del malato che vi può accedere,
alla ricerca delle motivazioni inconsce del suo comportamento anomalo. Non lo
si accetta come naturale e irriducibile. In alcuni casi può anche rivelarsi
tale, ma se ne indaga la storia, l'evoluzione, si approfondiscono i momenti
del processo: si tenta quanto è possibile. Ma l'analisi dell'inconscio
e le elaborazioni che ne conseguono sui complessi e sui conflitti, si muovono
all'interno di una cultura e di un insieme di valori da cui proletariato e sottoproletariato
non sono neppure sfiorati. Inoltre occorre la padronanza di un linguaggio cifrato
a questi sconosciuto. Da noi, la piccola borghesia e il proletariato piccolo-borghese
che tendono ai valori della borghesia, cominciano appena ad esserne intaccati,
ma la stessa imposizione o incorporazione di questa cultura, estranea alla loro
e estranea ai loro bisogni, non può che agire come ulteriore elemento
di dominio, non certo come strumento di liberazione. Il fatto che un sottoproletario,
ricoverato in manicomio, possa o meno presentare un complesso di Edipo irrisolto
suona ridicolo anche ad un profano. Ma quali altre ricerche sulle motivazioni
del comportamento anomalo vengono effettuate sui malati che popolano i nostri
manicomi? Perché i sintomi devianti dei borghesi dovrebbero avere giustificazioni
e spiegazioni? Perché se ne indagano e chiariscono al paziente le motivazioni
inconsce, mentre per gli internati dei manicomi - proletari e sottoproletari
- la malattia continua ad essere un fenomeno naturale ed irriducibile e il malato
viene automaticamente identificato nel suo sintomo? Come possiamo conoscerne
le motivazioni profonde, se tutta la psichiatria manicomiale si fonda sulla
destorificazione dell'individuo?
Per quanto riguarda la delinquenza vale lo stesso discorso. Un delinquente borghese
danaroso non ha problemi di reinserimento e di recupero. Il crimine commesso
è accettato come un prodotto storico-sociale e non come un dato naturale:
c'è una giustificazione alla sua azione criminosa. Si tratta di un avvenimento
che non è in grado di determinare l'evoluzione della storia futura di
chi delinque; né la storia precedente è letta "tutta"
alla luce del delitto che, a un momento dato, egli ha commesso. Nella vita,
nell'ambiente di queste persone c'è spazio per il recupero ed è
lo spazio che la classe di appartenenza riconosce e conserva per loro. Il problema
del recupero non esiste perché, in questo caso, il delinquente ha una
storia che chiarisce agli occhi dei suoi pari il suo delitto, e dispone di strumenti
economici e culturali per non aver bisogno di delinquere più. Per non
parlare poi dei delitti su vasta scala, delle corruzioni, dei reati commessi
dalle classi politiche al potere, per le quali non esistono che condanne marginali,
condoni, immunità, che lasciano intatta l'onorabilità degli autori.
In questo caso riaffiora il concetto della "naturalità della corruzione",
ma si tratta di una naturalità implicita nel gioco politico (la politica
è sempre una faccenda «sporca» ed è difficile restare
con le mani pulite quando si è inseriti nel gioco), ed è così
connaturata in questo gioco astratto, da lasciare immuni coloro che attuano
concretamente il crimine traendone dei benefici. La corruzione e il delitto
individuali, in questo caso, si ripropongono come fatto storico-sociale, giustificato
dal numero di contingenze sociali da cui l'individuo è condizionato ed
a cui non può sottrarsi.
Esattamente quello che non succede mai per la classe oppressa che delinque.
Questo tipo di delinquente non ha storia, o meglio la sua storia è solo
la storia dei suoi reati: i precedenti penali. E' delinquente per natura, così
come il disoccupato è pigro e fannullone per natura. Non ci sono cause,
motivazioni psicologiche, sociali, economiche che giustificano o spiegano il
suo gesto, se non appunto la delinquenza stessa che diventa allora biologica,
connaturata nell'indole, nella razza, nel carattere somatico. Ogni tentativo
di storificare il delinquente proletario o sottoproletario fallisce, perché
la sua sarebbe una storia di violenze, di privazioni, di soprusi di cui non
deve esistere traccia. Se lo stesso Lombroso, cui tuttora si rifà il
senso comune scientifico, ha avuto il merito di storicizzare il delinquente,
riconoscendo le implicazioni sociali presenti nel suo comportamento anomalo,
le conclusioni pratiche sono state la sua totale destorificazione nel momento
in cui egli ne ha sancito, in altro modo, la diversità originaria naturale
e quindi la conseguente necessità di emarginarlo.
Chi indaga sul perché si delinque? La vedova di un bracciante, ucciso
dalla polizia vent'anni fa durante l'occupazione di un latifondo incolto, in
Puglia, ha fatto in una nostra recente trasmissione televisiva questa dichiarazione:
«Se la gente avesse lavoro, non avrebbe bisogno di occupare le terre per
vivere». E' elementare. Eppure si punisce o si uccide chi occupa terre
che nessuno coltiva, senza preoccuparsi del fatto che non è per capriccio
o per delinquenza innata che braccianti senza lavoro decidono di occupare terre
incolte. Ma l'ovvia conseguenza è che il bracciante è punito perché
delinquente e le terre restano incolte se il padrone le lascia incolte.
Per "questi delinquenti" e per "questi pazzi" il nostro
sistema sociale non può organizzare il recupero, altrimenti sarebbe un
altro sistema sociale, non fondato sulla divisione innaturale. Quando si progettano
trasformazioni e riforme all'interno della medesima logica, il risultato è
identico. Si parla del nascere di una nuova criminalità di cui non si
indagano cause ed implicazioni sociali nella caduta di valori, nelle attese
sempre frustrate, nelle promesse mai mantenute, nello scontento per una vita
che si fa sempre più critica, impossibile, sempre più priva di
significato, sempre più violenta e repressiva, dove la lotta per la sopravvivenza
si fa sempre più difficile. Se non si tiene conto di questa premessa
fondamentale, ogni volta ci si limita a formulare nuove catalogazioni, nuove
divisioni tra criminalità più o meno grave, arrivando a creare
nuovi regolamenti e nuove istituzioni identici ai precedenti. Così come,
davanti all'insorgere di nuove forme di devianze e di comportamenti anomali,
che possono essere il sintomo del rifiuto di una vita invivibile, si trovano
nuove codificazioni nosografiche, nuovi termini tecnici secondo cui catalogarle,
aggiornati magari da qualche vago riferimento ad un ipotetico «sociale»
che garantisca di affrontare le problematiche in termini attuali, moderni. Tanto,
carcere e manicomio continuano a conservare la loro natura emarginante, di classe.
In questo contesto sociale, il problema della criminalità o della malattia
non può essere neppure sfiorato. Non si sa cosa sia o meglio si sa che
cos'è a priori, e si applica la definizione più adatta a richiedere
l'intervento repressivo per fenomeni di cui viene colto e messo a fuoco un solo
aspetto: quello di comportare un disturbo sociale. Ma malattia e devianza esistono,
non solo per la società che se ne difende, ma anche per i soggetti che
le vivono e vogliono difendersene, o che le vivono come espressione del rifiuto
di un'esistenza invivibile. Che cosa sappiamo di questi uomini, che cosa sappiamo
della loro sofferenza se i parametri di conoscenza, cura, riabilitazione sono
quelli che abbiamo inventato noi, tecnici borghesi, in risposta ai nostri bisogni
e per tutelare la nostra sopravvivenza? Le nostre risposte tecniche sono sempre
risposte ai bisogni della nostra classe, per questo si traducono nell'emarginazione
dell'altra. Le istituzioni della violenza non sono che una delle nostre risposte,
nate in nome della nostra tutela. Malattia e devianza non sono allora che occasioni
per mettere in atto questa emarginazione con il nostro imprimatur, con l'imprimatur
della scienza che le rende fenomeni naturali, offrendo la giustificazione tecnica
a un atto di esclusione sociale.
Se si vuole affrontare il problema della marginalità e della devianza
dobbiamo affrontarlo in rapporto alla struttura sociale, alla divisione innaturale
sulla quale tale struttura si fonda e non come fenomeni isolati che si pretende
di far passare quali semplici anomalie individuali, cui una certa percentuale
della popolazione ha la sfortuna di essere soggetta.
Rianalizziamo dunque che cosa sono le istituzioni che dovrebbero rispondere
a questi problemi. Si tratta di istituzioni che partono da una presunzione formale
espressamente programmata: la cura, la rieducazione e la riabilitazione in vista
del recupero dell'internato.
Tuttavia, se la finalità terapeutica e riabilitativa di questi istituti
non fosse solo formale ma praticamente realizzata, il problema sarebbe già
di per sé risolto. Ma una cosa è la funzione formale ed altra
cosa è la sua pratica reale. E la verità sta nella pratica, che
ci dimostra come gli internati dei nostri manicomi e delle nostre carceri escano
raramente riabilitati: perché la finalità effettiva di queste
istituzioni continua ad essere la distruzione e l'eliminazione di ciò
che contengono. In effetti, paesi con un'enorme percentuale di disoccupati e
di sottoccupati, che interesse possono avere al recupero e alla riabilitazione
degli scarti umani? E' in questa ottica che l'intervento del tecnico può
essere determinante nel chiarire la contraddizione tra pratica e ideologia,
nonché la finalità, nel contesto sociale, di questa pratica-ideologia.
Per i tecnici della cura e della riabilitazione, lavorare in queste istituzioni
significa rendere esplicita la reale utilizzazione pratica dell'intervento specialistico;
quali ne siano i limiti e di che natura siano questi limiti, quali siano i processi,
sempre nuovi sempre diversi e sempre identici, che servono a questa utilizzazione.
Se si parla di riabilitazione e di recupero il discorso non può essere
né tecnico né organizzativo: è un problema politico che
si riallaccia alla premessa relativa alla prima divisione innaturale, su cui
si fonda il nostro sistema sociale.
Che cosa si vuol fare degli uomini - e non dimentichiamo che si tratta sempre
di proletari e sottoproletari - riabilitati? C'è posto per loro nella
nostra società? Cioè, una volta riabilitati, troveranno un lavoro
con cui soddisfare i propri bisogni e i bisogni delle loro famiglie? O non piuttosto
i regolamenti su cui si fondano gli istituti dell'emarginazione sono strutturati
in modo che la riabilitazione non sia possibile perché, comunque, questi
individui - una volta riabilitati - resterebbero ai margini, esposti continuamente
al pericolo di cadere in nuove infrazioni di una norma che per loro non ha mai
avuto una funzione protettiva ma solo repressiva? La possibilità di una
loro riabilitazione è strettamente proporzionale alla disponibilità
o meno di manodopera, al lavoro che trovano fuori, nella comunità cosiddetta
libera, a seconda delle fasi di concentrazione o di diffusione economica. Le
oscillazioni del numero di ricoveri e di dimissioni nei nostri manicomi, sono
direttamente legate alle fasi alterne dell'andamento economico generale, nel
senso che a seconda dei diversi momenti di sviluppo o di recessione e di crisi,
si assiste al contemporaneo allargamento o restringimento dei limiti di norma
e, quindi, al dilatarsi o al restringersi della tolleranza nei confronti dei
comportamenti anomali. Andamento che sarà presumibilmente analogo anche
per quanto riguarda le incarcerazioni, dato che si tratta dell'uso dello stesso
processo di emarginazione e di controllo in una specificità diversa.
Oltre a questo fatto determinante e ad esso strettamente connesso, esiste un
altro fenomeno di cui non si tiene mai conto. Si tratta del senso di appartenenza
alla società, che si rivela totalmente assente sia negli internati dei
manicomi che delle carceri. Ed è ovvio. Se manicomi e carceri sono organismi
istituiti per rispondere ai bisogni della società «libera»,
gli internati non possono riconoscersi in questa società che li punisce,
li segrega, li distrugge senza offrir loro un'alternativa possibile. Né
possono accettare di identificarsi in regole che non rispondono ai loro bisogni.
Non possono vivere l'internamento come esperienza che li aiuti nel loro processo
di riabilitazione: la riabilitazione esige anche un elemento soggettivo e la
partecipazione di colui che deve essere riabilitato. Ma per partecipare a questo
processo, bisogna che i riabilitandi riconoscano le istituzioni che li segregano
come terapeutiche e riabilitative. L'emenda stessa ha senso solo se il deviante
si riconosce tale nei confronti di una società di cui si sente membro
partecipe e alle cui leggi crede in quanto ha contribuito a istituirle, anche
se, di fatto, ne devia.
Ma questi uomini - che hanno alle spalle la storia di un'emarginazione che si
perpetua in ogni momento come emarginazione di classe - non possono sentirsi
membri partecipi di questa società, né delle leggi e delle norme
che essa stabilisce, perché nessuna legge del nostro sistema sociale
- che pure si dichiara uguale per tutti - risponde "praticamente"
ai loro bisogni e ai loro diritti. E' solo attraverso la "lotta" che
questa classe riesce a imporre i propri diritti, ma non tutti riescono a incanalare
la lotta in senso positivo, organizzato. E allora si reagisce con atti sporadici,
isolati, delinquenziali; o con comportamenti anomali che automaticamente vengono
puniti.
Non è privo di significato il fatto che nei paesi dove si lotta per la
trasformazione dell'assetto sociale e dove tutti si sentono i soggetti di questa
trasformazione, delinquenza e certe forme di comportamento deviante subiscono
un regresso impressionante. Nei pochi anni del regime di Allende, il fenomeno
dell'alcolismo, che in Cile toccava i livelli più alti del Sudamerica,
è stato ridotto del 50 per cento, e così pure il fenomeno della
droga. Perché c'era un progetto che unificava la classe oppressa, coinvolta
nella ricerca di un'organizzazione sociale che rispondesse finalmente ai propri
bisogni. Mentre si sa quale sia stata la posizione dei medici (per non parlare
degli avvocati e del la magistratura, responsabili, come braccio secolare, della
caduta del governo di Unità Popolare) nei confronti di questa lotta,
dalla cui vittoria avrebbero perso ogni privilegio e ogni potere di discriminazione
e di dominio.
Questo non significa - e lo ripetiamo - che non esiste la malattia mentale e
non esiste la devianza: cioè che non esiste il "diverso" come
fenomeno umano e che la trasformazione dell'assetto sociale sia sufficiente
a cancellarlo. Il problema sta proprio nell'incorporazione di questo concetto:
la necessità di cancellare il "diverso" come se la vita non
lo contenesse e quindi la necessità di eliminare tutto ciò che
può incrinare la falsa acontraddittorietà di questa facciata tersa
e pulita, dove tutto andrebbe bene se non ci fossero le pecore nere.
Ma mentre il "diverso" della classe dominante è accettato e
vissuto come tale, cioè come un fenomeno umano che ha bisogno di risposte
particolari, appunto «diverse», il "diverso" della classe
oppressa non è mai accettato come tale e le risposte che si forniscono
servono solo a cancellarlo e a eliminarlo, confermandolo come «disuguale».
In una società divisa in classi, malattia e delinquenza della classe
subalterna (quelle che incontriamo e conosciamo nelle istituzioni della violenza)
diventano altra cosa da ciò che sono e l'unica risposta non può
che essere la repressione, sotto mistificazioni più o meno mascherate,
perché ciò che determina la natura della risposta non è
la natura del bisogno, ma la classe di appartenenza di chi lo esprime. Se un
sistema sociale è fondato sul mantenimento di una logica economica che
non soddisfa i bisogni di tutti; se l'uomo astratto in nome del quale si invocano
e si reclamano le trasformazioni e le riforme non corrisponde a "tutti
gli uomini", l'inefficiente, l'handicappato, il fragile e anche il fragile
morale, cioè il "diverso" (è inutile ripetere che si
tratta sempre del diverso appartenente alla classe subalterna) vengono eliminati,
cancellati, perché per loro sono impossibili recupero e riabilitazione.
Le risposte a questi problemi non possono dunque essere che repressive, a una
sola direzione, mai dialettica. L'aumento del personale addetto alla repressione
e al controllo, la preparazione più specializzata dei tecnici della repressione,
l'incrudimento dell'organizzazione poliziesca sono le uniche misure preventive
che un sistema sociale come il nostro può progettare. All'aumento della
criminalità e della devianza non si può che rispondere con l'aumento
dei poliziotti e degli psichiatri, perché queste sono le uniche misure
che consentono di non mettere in discussione le proprie istituzioni e i propri
valori, come risposta alla messa in discussione implicita (anche se più
o meno consapevole) in ogni comportamento deviante.
Si potrà obiettare che in questa analisi è stata
presa in esame solo la violenza che la classe dominante perpetua da sempre e
con strumenti sempre nuovi ai danni della classe dominata; mentre non è
stata analizzata la natura della violenza implicita nella devianza, se non riconoscendola
come la violenza del dominato. Ma non si intende qui capovolgere adialetticamente
la situazione, proponendo malattia e devianza come unica risposta sana a un
mondo malato; cioè proponendo devianza e comportamenti anomali come valori
positivi, contrapposti ai valori negativi rappresentati e perseguiti dal nostro
sistema sociale.
Si sono voluti mettere a fuoco soltanto i processi attraverso i quali viene
attuata scientificamente la "criminalizzazione della malattia e della devianza":
i processi attraverso i quali il bisogno da queste espresso si traduce in crimine
da punire, per giustificare la criminalità della punizione. Lo stesso
dissenso politico tende, ovunque, a subire questo processo di criminalizzazione,
e qui il gioco è ancora più esplicito, perché la scienza
non ha ancora trovato una patologia adatta secondo cui codificare questi comportamenti.
La risposta, in questo caso, è più diretta e non ha bisogno di
mediazioni: può essere l'uccisione e la tortura.
Questa analisi ci consente di capire come tutte le istituzioni del nostro sistema
sociale abbiano la funzione di rispondere al bisogno una volta che esso sia
stato "criminalizzato", ridotto ciò che non è o ciò
di cui non è sintomo o espressione. "La criminalizzazione del bisogno"
ne è in realtà la natura artificiosamente costruita, così
che si trovano a fronteggiarsi due forme di violenza e di criminalità,
l'una in risposta all'altra, senza che si sappia più riconoscere cosa
sia il bisogno reale. La devianza, il comportamento anomalo sono crimini perché
"potrebbero" essere pericolosi; l'istituzione delegata alla cura e
alla riabilitazione della devianza e del comportamento anomalo è crimine,
in nome della prevenzione di questa pericolosità. Non esistono bisogni
né risposte ai bisogni.
In questa situazione è difficile o addirittura impossibile riconoscere
cosa sono fenomeni umani come malattia e devianza. Ed è anche difficile
riuscire a dare un'interpretazione reale dei fenomeni sociali.
In Italia, ad esempio, si vive da anni in un clima di "minaccia" di
violenza. Nel momento in cui scriviamo non si sa più, o non si sa ancora
se il clima paranoide in cui viviamo sia reale o creato artificialmente come
un nuovo sistema di controllo in cui ogni cittadino diffida dell'altro, e quindi
siamo noi stessi i soggetti e gli oggetti del controllo che le istituzioni violente
non riescono più a gestire.
Gli squilibri e le contraddizioni sociali sono, in Italia, più forti
che in altri paesi europei retti a democrazia borghese (esclusi ovviamente i
paesi dichiaratamente fascisti), così come è più forte
l'opposizione. In Italia - a causa della profondità degli squilibri e,
insieme, della coscienza di questi squilibri - la tendenza alla costituzione
di una classe media unica, identificata nei valori proposti da un centro ridottissimo
di potere che la controlla, trova difficoltà e resistenze, anche se l'allargarsi
dell'area dei ceti medi su cui ha buon gioco questo processo di identificazione
nei valori dominanti, ne è un preannuncio. Esiste una classe operaia
ancora numericamente forte per garantire il controllo di manovre di tipo golpista.
Ma l'atmosfera paranoide (reale o artificiosamente creata) tende comunque a
indebolire le forze di opposizione che vivono in uno stato continuo di minaccia
di violenza. I processi attraverso cui si attua questo indebolimento passano
anche attraverso le articolazioni che si sono qui esaminate: cioè le
istituzioni e le ideologie sulla cui effettiva funzione e sul cui significato
non c'è una presa di coscienza chiara.
L'incorporazione delle ideologie e dei valori che il nostro sistema sociale
continua a creare come false risposte ai bisogni, non è sempre riconosciuta
come momento di accettazione passiva del dominio. Se la classe oppressa non
prende coscienza di tutti i processi attraverso cui si attua il dominio (dominio
che va oltre lo sfruttamento, la nocività del luogo di lavoro e i temi
rivendicativi di tipo salariale) ci si potrebbe trovare facilmente in un manicomio
universale, in cui tutti ci troveremmo identificati nel sintomo con il quale
saremmo definiti, e che riconosceremmo come reale.
Siamo a un bivio molto pericoloso. La minaccia di violenza come forma di controllo,
può tradursi facilmente - anche in Italia - in una violenza esplicita
se la classe dirigente e le potenze che stanno alle sue spalle si renderanno
conto che le istituzioni tradizionali non bastano più e che le nuove
ideologie di controllo che cominciano già ad essere importate dai paesi
a sviluppo industriale più avanzato, richiedono tempo per essere applicate,
attecchire e acquisire la credibilità scientifica necessaria al rafforzamento
del dominio. E' in questo momento che la vigilanza e la forza della classe che
si oppone a questo gioco, può essere determinante nel prevenirlo e smascherarlo.
Perché l'alternativa fra la minaccia di violenza in cui si vive e la
violenza senza maschere e coperture, è il massacro, la tortura, dove
le ideologie scientifiche possono servire solo a garantire l'assistenza al torturato.
Ci sono già, nel mondo, i sentori del nascere di questa nuova utilizzazione
della scienza e della tecnica.
Il generale Massu, nel suo libro "La vraie bataille d'Alger", fa capire
che, se le circostanze lo esigono, si può esercitare una tortura «sana»,
affidando questo compito a personale qualificato e espressamente preparato nelle
tecniche necessarie alla buona riuscita degli interrogatori. Da un giornale
clandestino brasiliano, si sa che uno psicoanalista - in attesa di essere riconosciuto
membro della società di psicoanalisi - è addetto all'assistenza
psicologica del torturato. In Uruguai i terapisti di pazienti che risultano
sospetti, sono prosciolti dal segreto professionale e si impone loro di dire
ciò che sanno sul paziente, pena la tortura. Se la scienza e le sue istituzioni
non bastano a rispondere o a controllare i bisogni, è la tortura a proporsi
dunque come un'istituzione, con i suoi professionisti, le sue regole, il suo
codice e la sua morale, aprendo nuovi terreni d'azione per i tecnici delle scienze
umane.
Davanti a questa realtà, si può ancora presumere
che accettare la delega implicita nel nostro ruolo non significhi prestare un'assistenza
tecnica a delle uccisioni di massa? Ciò che si può tentare di
fare è, dunque, riuscire a tradurre la nostra azione nella prestazione
di un servizio che serva - proprio in quanto tale - all'utente e, insieme, alla
sua presa di coscienza dell'utilizzazione, ai suoi danni, che viene abitualmente
attuata di questo servizio. Il che significa rifiutare la delega di «funzionario
del consenso», per trasformarsi in tecnici del sapere pratico che, al
di là dei privilegi di cui inevitabilmente godiamo in quanto borghesi
e soggetti del dominio implicito nel nostro ruolo di potere, tentino di individuare
nella pratica reale i bisogni della classe oppressa smascherando praticamente
i processi che li fanno diventare - anche agli occhi di chi li esprime - altro
da ciò che sono.