COME STRUMENTO D'IDENTIFICAZIONE CON L'AGGRESSORE (1)
di Vladimir Dedijer.
Nell'estate del 1968, quando l'ondata «rivoluzionaria» del maggio
dello stesso anno aveva già raggiunto il suo apice, ebbi occasione di
sentire discussioni, spesso spontanee, che vertevano sui seguenti argomenti:
rapporto tra alienazione e manipolazione; chi sono gli intellettuali nella società
contemporanea; le università come strumenti di manipolazione e di cooptazione
dei giovani da parte della classe dominante, ed altri problemi che si ricollegavano
alle cause e agli effetti dei fatti del maggio 1968.
Il mio interesse personale a questi problemi si imperniava sulla storiografia
come strumento di identificazione con l'aggressore.
La maggior parte di queste discussioni furono iniziate da Jean-Paul Sartre,
durante le nostre riunioni nelle fasi finali del Tribunale Bertrand Russell
per l'Investigazione dei crimini di guerra americani nel Vietnam, e proseguirono
nel tempo che trascorremmo insieme a casa mia, a Stara Fuzina, sul lago Bohinj
in Jugoslavia, e, più tardi, a Venezia, Padova e Bologna.
Gli altri partecipanti erano studenti, e, occasionalmente, qualche professore,
la maggior parte dei quali aveva partecipato agli avvenimenti del maggio 1968
in diversi paesi europei. La figlia di Sartre, Arlette El-Kaim, era presente
a quasi tutte le discussioni, e più tardi fornì a Sartre e a me
la sua acuta valutazione degli argomenti discussi; essa riusciva ad afferrare
il pensiero dei giovani meglio di noi due.
A Bologna, verso la fine di luglio, Sartre propose di passare dalle discussioni
all'azione. Per intere settimane, il suo pensiero dominante fu quello di promuovere
un seminario internazionale, al quale avrebbero partecipato studenti di tutti
i paesi europei, per discutere il problema dell'università nelle società
contemporanee, e, in modo particolare, la sua tesi secondo la quale gli studenti
sono le vittime del tipo attuale di università.
Sia Arlette El-Kaim che io pensammo fosse una buona idea, e Sartre passò
un intero pomeriggio ad elaborare la piattaforma del futuro seminario. Alla
sera ce lo lesse, e ci chiese di fornire il nostro parere e di dire soprattutto
se ci sembrava che il programma includesse tutte le idee emerse durante le nostre
discussioni sull'argomento.
Il giorno dopo, credo fosse il 23 luglio (non ho con me i miei diari dal 1968),
Sartre si incontrò con parecchie centinaia di studenti italiani alla
facoltà di psicologia di Bologna, e discusse con loro la sua tesi sulla
base della piattaforma elaborata. Dopo la conferenza, la discussione continuò
al caffè Picnic, fuori Bologna, con la partecipazione di Franca e Franco
Basaglia, Gianfranco Minguzzi, Gianni Scalia, e due giovani studenti: Luca Fontana
e Giancarlo Stisi. Si passò dal piano politico e sociologico alla psicologia,
e in particolare al tema principale della manipolazione e all'identificazione
con l'aggressore da parte della vittima della manipolazione.
Nonostante avessi preparato un progetto organizzativo per la sua attuazione,
il simposio internazionale non si realizzò mai. Quando andai da Sartre
con il mio testo, egli disse:
«Non credi che noi, rappresentanti della vecchia generazione, stiamo cercando
di manipolare i giovani con questo progetto? Sono gli stessi studenti a dover
formulare ed esporre i loro problemi, trovare piattaforme adatte e i mezzi per
raggiungere la propria liberazione. Inoltre, il progetto mi sembra troppo accademico...»
Fui colpito da questa sua decisione, ma, più tardi arrivai a conclusioni
diverse, soprattutto sulle molte forme di manipolazione che sono lastricate
di buone intenzioni. Le parole di Sartre mi fecero ricordare l'atteggiamento
assunto dai primi ribelli della Bosnia, alla vigilia della prima guerra mondiale.
C'era, tra loro, un giovane studente erzegovino, Vladimir Gacinovic, che scrisse
nel 1914: «I nostri padri, i nostri tiranni, hanno costruito questo mondo
secondo i loro piani, ed ora vogliono obbligarci ad entrare nelle loro camicie
di forza». I giovani bosniaci erano ribelli, e la loro ribellione non
era diretta soltanto contro la dominazione straniera degli Asburgo, occupatori
della Bosnia e dell'Erzegovina. Odiavano anche i loro padri per il loro atteggiamento
conservatore; lottavano per la liberazione reale della donna, detestavano i
loro professori che insegnavano soltanto versi classici. Lottavano per la liberazione
dell'uomo da tutte le sue catene. Vladimir Gacinovic era legato da una stretta
amicizia al rivoluzionario sociale russo Natanson, e nel 1914 e nel 1915, a
Lev Trockij. E tuttavia, i giovani bosniaci criticavano la socialdemocrazia,
poche settimane prima dell'inizio della prima guerra mondiale, nella loro rivista
«Zvono» («La Campana»), per la mancanza di democrazia
interna, per l'onnipotenza dei suoi dirigenti, critica che fu portata avanti
più tardi da Rosa Luxemburg.
Collegando il rifiuto del progetto da parte di Sartre con i miei ricordi sui
giovani bosniaci e sul loro timore di essere manipolati, accettai le sue opinioni.
Decisi tuttavia di citare qui il testo completo della piattaforma di Sartre
per il seminario che non fu mai realizzato, perché vi si ritrovano le
idee iniziali del soggetto di questo saggio: la storiografia come strumento
di identificazione con l'aggressore.
Questo è il testo scritto da Sartre nel 1968:
«E' auspicabile al giorno d'oggi la convocazione di un incontro internazionale di studenti, insegnanti ed intellettuali. Sarebbe preferibile (salvo organizzare più avanti un confronto su scala più vasta), riunire a questo punto soltanto gli europei. I loro problemi infatti sono spesso molto simili il che faciliterà il confronto e la discussione. Bisognerà concentrarsi, in questa riunione, sui punti seguenti:
1. Qual è, oggi, la situazione materiale dello studente?
Per rispondere a questo interrogativo, dovremo fare un confronto
tra le università dei diversi paesi che partecipano alla riunione.
Numero totale di studenti in ogni paese. Tasso di crescita (confrontare con
i dati disponibili a partire dal 1945).
Percentuale di figli della borghesia, o di studenti provenienti dalle classi
borghesi. Percentuali di figli di operai e contadini.
Proporzione tra il numero totale di studenti in ogni paese e il numero totale
di posti disponibili per ogni specialità.
Proporzione tra il numero totale di studenti e le possibilità materiali
che offre l'università (alloggi, posti di lavoro biblioteche, città
universitarie, mense universitarie, numero medio di studenti per corso).
Atteggiamento del governo e delle persone investite di responsabilità
in materia (rettori, decani, eccetera.) di fronte ai problemi materiali che
verrebbero discussi:
Crediti destinati alle università
Lavori intrapresi per risistemare i locali eccetera.
Regole imposte nelle città universitarie
Problema della selezione
La politica universitaria, è o non è selettiva? Che mezzi si utilizzano
per effettuare la selezione?
Studia il governo i mezzi per aumentare il numero dei posti di lavoro disponibili
alla fine della carriera universitaria? Considera che sia un obbligo per lo
stato fornire lavori retribuiti a ogni studente che ha terminato il suo corso
di studio, e questo nel campo stesso della sua specializzazione?
La politica del governo e delle classi dirigenti, mira a raggiungere una sempre
maggiore integrazione degli studenti nella società? E, nelle democrazie
borghesi, significa questo che si fa dell'università uno strumento attraverso
il quale reclutare i quadri dirigenziali di cui hanno bisogno l'amministrazione
pubblica e le imprese private? Questa concezione non mira ad affidare sempre
più le università alle classi dirigenti, che tentano di imporre
i propri programmi in funzione di due obiettivi complementari, cioè,
produttività e profitto? Non è vero, in questo caso, che le classi
dirigenti fanno loro stesse una selezione e forniscono gli orientamenti voluti
tramite l'università?
Le università umanistiche, non tendono a trasformarsi in università
di specialisti?
L'umanesimo, quando continua, almeno in parte, ad essere lo scopo dell'insegnamento,
non prolunga l'esistenza dell'umanesimo borghese del diciannovesimo secolo,
ormai sorpassato?
L'insieme dei problemi che abbiamo ora enumerato, e soprattutto, il numero crescente
degli studenti, non è forse alla base della presa di coscienza da parte
degli studenti stessi un po' in tutta l'Europa? Non hanno forse scoperto in
questa occasione, la natura specifica del loro gruppo e delle loro necessità?
Quali riforme sono state previste dai governi nei paesi in cui si sono verificati
disordini nelle università? Qual è la direzione in cui queste
riforme sono state concepite? Come, in ogni caso, vanno valutate queste riforme?
2. Quali sono le rivendicazioni degli studenti?
Non sono dirette contemporaneamente contro il selezionismo e contro
l'alienazione dell'università - quindi la loro alienazione - a favore
del profitto e della produttività?
Portano necessariamente ad una messa in discussione radicale della nozione di
cultura e dell'università?
Se la cultura, non deve essere né selezionatrice, né sottomessa
agli interessi del capitale, non dobbiamo forse concepirla come cultura "per
tutti", e l'insegnamento non mira forse allo scopo di non preparare delle
élites, ma di rendere il sapere accessibile a tutti incondizionatamente?
Gli studenti si lamentano di ricevere una cultura erogata, inculcata come una
serie di ricette o di riflessi condizionati, che spesso non può insegnare
niente (umanesimo borghese) e che spesso fornisce soltanto le nozioni indispensabili
alla formazione dei quadri dirigenti. La presa di coscienza del gruppo studentesco
non risponde alla scoperta di essere vittime di un'alienazione specifica, di
essere presi come "oggetto" della cultura, in nome della preparazione
dei futuri quadri?
Quale relazione esiste secondo loro, tra questa alienazione e lo sfruttamento
della classe lavoratrice?
Questi figli di borghesi (e nella maggior parte delle società capitalistiche
lo sono) si considerano anche loro dei borghesi? Se no, perché? Come
si definisce il «gruppo studentesco»? A quale gruppo sociale si
ricollega?
Come vedono "la Cultura"?
Come vedono la trasformazione interna dell'università in funzione di
questo concetto di Cultura?
Come considerano il ruolo dell'università nella società?
3. Le trasformazioni che vogliono, sono compatibili con le strutture della società in cui vivono?
Ammettono, cioè, che la riforma sia
a) possibile
b) auspicabile
Il problema degli studenti, nonostante il suo carattere specifico, non costituisce
il segno di una crisi, forse più evidente nelle università che
altrove, prodotta dalle nuove contraddizioni provocate dall'odierna società
capitalistica, la cui soluzione può essere raggiunta soltanto attraverso
una trasformazione radicale di questa società?
In questa prospettiva, non è possibile dire che le rivendicazioni degli
studenti finiscono per portarsi sul piano politico?
Come è stata raggiunta (se lo è stata) la politicizzazione dei
movimenti studenteschi nei diversi paesi?
Possono sperare di riuscire a realizzare, da soli, quel rovesciamento sociale,
premessa necessaria alla soddisfazione delle loro rivendicazioni?
Se sì, come pensano di arrivarci?
Se no, a quale gruppo o a quale classe pensano di unirsi nella lotta?
Quali sono i loro rapporti (o quali vorrebbero che fossero) con i partiti e
le organizzazioni di massa?
Come viene impostata, da ogni movimento, la questione organizzativa? Esiste
un'organizzazione reale in qualche movimento? Qual è la loro struttura,
di che mezzi dispongono, a quale obiettivo mirano?
Quali sono i rapporti tra gli studenti e le classi lavoratrici, al di fuori
degli apparati?
Qual è il significato dell'antiautoritarismo che si manifesta in certi
movimenti?
E' concepibile che la cultura diventi ciò che gli studenti vogliono che
essa sia, senza arrivare ad un rovesciamento delle società per mezzo
di una rivoluzione? Di che rivoluzione si tratta?
Queste domande sono dirette agli studenti delle democrazie borghesi. E' compito
degli studenti e degli insegnanti delle democrazie popolari formulare ora le
proprie rivendicazioni. Va da sé che nel confronto verranno verificati
i punti comuni, anche se le situazioni di partenza sono diverse».
Per ritornare al mio paese, la Jugoslavia, nell'autunno 1968 dovetti
affrontare il problema della manipolazione non in forma astratta, ma nel contesto
concreto delle condizioni di vita quotidiana. Questo esempio concreto aveva
le sue radici nelle esperienze che avevo vissuto nel 1948. Negli anni del secondo
dopoguerra, subito dopo la sconfitta del fascismo, credevo ancora che le Nazioni
Unite potessero essere uno strumento valido per la costruzione di un mondo più
giusto basato sull'eguaglianza. Partecipai, come delegato del mio paese, ai
lavori del terzo comitato dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, al cui
ordine del giorno erano iscritti numerosi problemi riguardanti diversi aspetti
dei diritti dell'uomo; la libertà d'informazione, la Dichiarazione dei
diritti dell'uomo, la Convenzione sui diritti dell'uomo, i diritti delle donne,
eccetera. In quel comitato incontrai la signora Eleanor Roosevelt, che rappresentava
il suo paese. Ci incontravamo spesso quando le riunioni venivano aggiornate,
e discutevamo di molti argomenti, compresa la distruzione o manipolazione degli
eretici nel mondo.
La seguente citazione, tratta dal mio libro "The Battle Stalin Lost"
(La battaglia perduta di Stalin), riguarda il concetto di manipolazione secondo
Eleanor Roosevelt:
«A Parigi, durante l'Assemblea generale delle Nazioni Unite tenuta nel 1948, parlai con la signora Roosevelt dei vari modi in cui le diverse civiltà avevano distrutto gli eretici. Io sostenevo che i metodi di Stalin erano stati i peggiori, lei sorrise. 'Anche gli anglosassoni - disse - hanno una tecnica pericolosa che usano contro i non conformisti. Non li uccidono, ma fanno loro sentire il bacio della morte. Vengono soffocati dall'adulazione, e se non hanno un rigore morale sufficientemente forte o non hanno sufficiente fede nel loro non conformismo, si perdono nella lotta'» (2).
"The Battle Stalin Lost" fu scritto all'inizio del settembre
1968, quando, dopo l'invasione sovietica in Cecoslovacchia, c'era il pericolo
di un'invasione della Jugoslavia da parte delle truppe sovietiche. Il libro
fu scritto per i miei giovani amici sloveni che non sapevano molto del conflitto
tra Jugoslavia e Unione Sovietica nel periodo 1948-53. Alcuni di loro non erano
ancora nati, a quel tempo. Mentre il libro veniva pubblicato a puntate su «Delo»
(il giornale di Lubiana), mi avevano chiesto di spiegare il significato attribuito
dalla signora Roosevelt al bacio della morte: non si poteva applicarlo anche
al nostro paese? Quattro leaders del movimento studentesco sloveno erano stati
avvicinati dalle massime autorità politiche slovene. Erano stati loro
offerti seggi sicuri nel parlamento della Slovenia. Mi chiesero un consiglio,
a questo proposito: non era possibile che quest'offerta fosse un «bacio
della morte», un tentativo di integrarli nella struttura?
Risposi che non potevo consigliarli, ma quello che potevo fare era dar loro
la possibilità di studiare una serie di dati storici comparati riguardanti
la manipolazione nel corso della storia. Stavo preparando a quel tempo un corso
da tenere alla Brandeis University, sul tema "Eresia e dissenso nella storia",
e avevo già del materiale pronto che pubblicai nella rivista studentesca
di filosofia, letteratura, e sociologia «Problemi» (maggio 1969).
1.
L'incorporazione concettuale che George Lukács fa della
totalità della metodologia della storia, porta lo storico a basarsi,
nelle spiegazioni storiche, sulla preponderanza delle motivazioni economiche,
senza trascurare per questo alcuni fenomeni che rientrano, secondo la divisione
classica, nella sfera dell'"Uberbau", ivi compresa la psicologia sociale
nel senso più lato, come ad esempio la manipolazione esercitata dalle
classi dirigenti su quelle oppresse, su certi gruppi sociali (giovani, donne),
su gruppi etnici eccetera.
Nel corso delle mie conversazioni con Franca e Franco Basaglia, durante il 1973,
mi chiesero se potevo, in quanto storico, descrivere il fenomeno di identificazione
con l'aggressore, in particolare in rapporto al problema dell'alienazione e
della manipolazione.
Sulla base delle ricerche che avevo compiuto in questo campo, e che coprono
il periodo che va dall'inizio dell'espansione delle potenze europee verso altri
continenti fino ai giorni nostri, era dell'imperialismo moderno, suggerii alcune
ipotesi, cui vorrei qui accennare a grandi linee. Sono certo che ulteriori ricerche
nella pratica potranno confermare o confutare la mia tesi.
Nel periodo storico preso in esame l'alienazione ha raggiunto una nuova dimensione.
L'oggettivazione del lavoro ha portato alla perdita dell'oggetto del lavoro
e ci ha legato ad esso. L'interesse materiale ha preso il sopravvento sull'interesse
umano; l'abitudine a possedere gli oggetti e a consumarli ha portato ad un progressivo
svuotamento della vita. La manipolazione può essere considerata soltanto
un segmento dell'intero processo di alienazione. Il fenomeno dell'alienazione
ebbe inizio contemporaneamente alla prima divisione del lavoro: poteva essere
spontanea o cosciente, mentre la manipolazione è di solito stimolata
volontariamente. La manipolazione consiste nella gestione di esseri umani da
parte delle classi dominanti contro i loro stessi interessi fondamentali. La
manipolazione è un lavaggio del cervello in grande scala, che si verifica
in primo luogo appropriandosi dei desideri dell'individuo, per trasformarli,
manipolandoli, in qualcosa di completamente diverso da ciò che era stato
promesso all'inizio. In questo senso, la manipolazione è una tecnica,
una «ideologia come espressione della falsa coscienza dell'essere sociale».
Suo scopo è nascondere gli obiettivi reali propri di una struttura sociale
e statale, e permettere alle strutture dominanti di conservare il loro potere
sulle masse soggiogate. La manipolazione serve dunque come strumento per raggiungere
lo stadio finale che noi chiamiamo identificazione con l'aggressore.
L'identificazione con l'aggressore è, quindi, il processo che porta alla
distruzione del carattere stesso dell'essere umano. L'uomo nasce libero e viene
subito messo in catene dai proprietari dei mezzi di produzione nel senso più
ampio della parola. La classe dominante mira a stabilire la struttura del carattere
e il modo di vita di tutta la società. Il primo adattamento dell'uomo
nell'infanzia ai diversi valori preesistenti e alle strutture sociali, è
la prima forma di identificazione con l'aggressore. Le regole prestabilite giocano
sulla paura, sulla mancanza di nozioni, e sul senso di colpa dell'individuo;
spesso egli si fa docile, accetta le opinioni dominanti come fossero proprie
e difende «la legge e l'ordine» anche senza che i difensori della
società usino la forza o lo opprimano apertamente.
2.
Nell'era della storia moderna, in cui si assiste ad un inasprimento
dell'aggressione contro individui e gruppi, possiamo osservare tre reazioni
tipiche da parte degli aggrediti:
a) I meccanismi di difesa delle vittime dell'aggressione si spezzano e la manipolazione
ha pieno successo: i padroni dei mezzi di produzione riescono a sfumare le contraddizioni
sociali reali, e nascondono dietro l'ideologia (come falsa coscienza) la vera
natura delle contraddizioni stesse, creando, a beneficio della vittima, l'illusione
della totalità, durata, stabilità ed eccellenza dell'ordinamento
sociale esistente. Scopo finale cui tendono questi sforzi è la piena
identificazione con l'aggressore, al quale le vittime si sottomettono attivamente.
In questo caso vediamo il circolo completo della manipolazione: le vittime stesse
si costruiscono un'ideologia per giustificare la loro resa e il loro conformismo,
il che porta spesso ad un'autocensura.
L'obiettivo in questo caso può essere raggiunto attraverso la forza,
la manipolazione con la minaccia della forza, o con questi metodi combinati.
b) Gli oggetti di manipolazione possono assumere come meccanismo di difesa,
un tipo di compromesso, una falsa ritrattazione e un'apparente accettazione
della manipolazione, rimanendo interiormente quello che erano.
Lo studioso jugoslavo di geografia umana Jovan Cvijic denominò questo
fenomeno "mimetismo sociale". Nella mia "Storia della Jugoslavia
I", sottolineai il fatto che il movimento jugoslavo di resistenza nella
seconda guerra mondiale fu, nel suo genere, uno dei maggiori in Europa.
Tuttavia la Jugoslavia aveva nello stesso tempo un grande numero di Quislings.
Cercai di trovare una spiegazione a questo fatto storico nella psicologia sociale
della popolazione jugoslava:
«La rivoluzione jugoslava tra il 1941 e il 1945 non cominciò
dal nulla. Dal momento che la stragrande maggioranza della popolazione era composta
da contadini, esistevano elementi nelle loro tradizioni ereditarie filosofiche
ed emotive, che emergevano dalla nazione stessa, attraverso il suo tradizionale
antiimperialismo, in un'area di grande importanza strategica. Nel 1941, la fiducia
sempre esistita nella possibilità di resistere al più forte dei
nemici, era più viva che mai tra le masse contadine, e strettamente allacciata
a questa fiducia esisteva la profonda convinzione di essere su un piano d'uguaglianza
con le nazioni.
D'altra parte, nel 1941 anche gli aspetti negativi di questa mentalità
nazionale avevano il loro ruolo. Attraverso secoli di lotta, sempre contro nemici
più forti, nelle città dove l'autorità degli occupanti
era pesante, o fra la popolazione contadina che abitava lungo le principali
arterie di comunicazione, il fattore del mimetismo sociale era sempre presente,
come Jovan Cvijic fa giustamente osservare nella sua opera principale "The
Balkan Peninsula" (La penisola balcanica). Per salvare la vita, non solo
individui isolati, ma interi gruppi erano disposti ad arrivare a un compromesso
con l'aggressore, assumendone usi, modo di vestire, lingua e persino religione.
Questi elementi della psicologia sociale delle masse erano evidenti anche nel
1941. Uniti alle principali ragioni cui abbiamo prima accennato, come la difesa
degli interessi di classe, essi portarono ad una situazione nella quale la Jugoslavia
si trovò ad avere più traditori di qualsiasi altro paese europeo
nel periodo 1941-45».
La storia fornisce numerosi esempi di mimetismo sociale tra i
gruppi oppressi. Vorrei citarne alcuni della Spagna medievale. La sua conquista
del nuovo mondo fu accompagnata da un inasprimento dell'intolleranza sia all'interno
che all'esterno del paese. Con la stessa penna usata per firmare la Capitolazione
di Granada il 2 gennaio 1492, che segnò la fine della dominazione araba
in Spagna, Ferdinando ed Isabella firmarono l'editto d'espulsione degli ebrei
dalla Spagna il 30 marzo 1492, concedendo loro cinque mesi di tempo per scegliere
tra battesimo ed esilio. I mori subirono ben presto una sorte analoga: dovettero
scegliere tra la fede cristiana o l'espulsione dalla Spagna.
Lo storico americano William Prescott, nel suo ormai classico "History
of the Reign of Ferdinand and Isabella the Catholic" (1846) (Storia del
regno di Ferdinando e di Isabella la Cattolica), descrive i meccanismi di difesa
adottati dai due gruppi oppressi, i mori e gli ebrei.
Dopo essere state segregate «in speciali quartieri chiamati "Juderias"
e "Morerias", e obbligate quando uscivano dai loro ghetti, a portare
abiti o un contrassegno che le distinguesse dagli altri, dai cristiani»,
le due minoranze furono sottoposte a pressioni maggiori e ad atti di pura e
semplice violenza. «Il fanatismo cristiano portò ad un massacro
generale degli ebrei in tutte le grandi città della Spagna, che, a sua
volta, causò tra i sopravvissuti una corsa in massa alle conversioni».
William Prescott osserva sia casi di resa totale che casi di mimetismo sociale:
«Un'altra barriera era costituita dall'inquietudine religiosa, che, eliminata in teoria dalla conversione e dal battesimo, esisteva tuttavia in una forma ancor più insidiosa. La conversione forzata è raramente sincera, e anche se alcuni dei convertiti erano più feroci di Erode nell'intensità dell'odio e nelle denunce alla religione abiurata, la maggioranza si accontentò di professare nominalmente e tiepidamente la religione cattolica. Le abitudini e gli usi non sono facilmente sradicabili, e i "conversos", anche se presenziavano alla Messa e agli altri servizi religiosi, spesso osservavano privatamente il Sabbath ebraico, e praticavano riti e cerimonie dei loro antenati».
Tuttavia la furia dell'Inquisizione spagnola si rivoltò
contro questi convertiti, i «nuovi cristiani», e molti di loro finirono
al rogo.
Prescott osservò lo stesso meccanismo di difesa anche tra i mori. Se
pur la Capitolazione di Granada dava agli abitanti della città il diritto
a conservare la proprietà delle loro moschee, e a esercitare liberamente
la loro religione, si eresse subito una croce sull'Alahambra, e, pochi anni
dopo, sotto la guida dell'arcivescovo di Toledo Ximenes ebbe inizio l'applicazione
di severi provvedimenti contro i mori. L'arcivescovo «ordinò di
bruciare i libri arabi, che furono ammucchiati in una delle piazze principali
della città». Ci furono altre e più gravi misure di repressione,
e «la maggior parte dei mori cercarono la pace abbracciando il cristianesimo»:
circa 50 mila.
Queste furono le prime azioni barbariche dell'espansionismo europeo. Con il
progresso tecnologico e l'approfondirsi delle contraddizioni, la barbarie aumentò,
fino ai giorni nostri, raggiungendo proporzioni molto più vaste.
c) Spesso, il lavaggio del cervello ed altri analoghi meccanismi repressivi
psicologici non funzionarono nel modo previsto dai dominatori e le minacce di
azioni di forza, così come l'applicazione di questa forza fisica o psichica,
non riuscirono a convertire la vittima e a farle accettare il punto di vista
desiderato.
Questo fenomeno di resistenza si può osservare in tutto il corso della
storia della lotta all'imperialismo in ogni sua forma.
Ad esempio, Prescott riferisce che 50 mila ebrei della Spagna decisero a favore
del battesimo, ma un numero molto maggiore, (secondo alcuni 160 mila, secondo
altri 800 mila) scelse l'esilio.
La resistenza dei mori fu ancora più forte. A Granada, le violente misure
applicate dall'arcivescovo Ximenes furono seguite nel 1499 dalla rivolta dell'Alabaycin,
il quartiere abitato esclusivamente dai mori. Un'aperta ribellione esplose anche
nelle campagne di Alpuxarras nel 1500-1502. Di fronte al dilemma, conversione
o esilio, i mori, specie nelle campagne, lottarono fino al 1570: migliaia furono
deportati in Africa e si rifiutarono di sottomettersi agli oppressori.
Tutte le teorie riguardanti l'uomo, in particolare quelle che
si imparano dai documenti e dai libri, devono essere dimostrate dai fatti della
vita. Alla vigilia della seconda guerra mondiale, arrivai alla conclusione che
l'unica possibilità per un individuo, per una classe o un gruppo etnico,
culturale o di altro genere, è comprendere le contraddizioni essenziali
della società nella quale ci si trova a vivere e prendere decisioni responsabili
in vista dell'azione da intraprendere.
Tuttavia è molto difficile essere nel contempo scrittore e protagonista
del dramma, come scrisse Marx tanto tempo fa. Ero pienamente cosciente di questo
dilemma quando, nella "Storia di Jugoslavia I" descrissi le mie esperienze.
Disponendo successivamente di tutti i documenti reperibili, sapevo bene che
era impossibile studiare le motivazioni che possono spingere un uomo, senza
inserirle nel contesto sociale. Il caso della Jugoslavia illustra chiaramente
la possibilità di resistere alla più brutale oppressione imperialistica
con tutte le forze manipolatrici che la accompagnano:
«Quello che nel 1941 fece la rivoluzione jugoslava, una
delle rivoluzioni più democratiche che si siano verificate in Europa
nel ventesimo secolo, fu riflettere il desiderio, chiaramente espresso, di uguaglianza
tra nazioni, generazioni e sessi.
L'iniziativa autonoma delle masse si evidenziò in tutta la nazione tra
i diversi popoli jugoslavi. Per la prima volta nella storia del loro paese,
i partigiani macedoni usarono la loro madrelingua e diffusero libri in lingua
macedone. Per la prima volta nella sua storia, il popolo sloveno ebbe un suo
esercito che faceva parte dell'Armata nazionale di liberazione jugoslava. Questo
fattore ebbe un'importanza ed un peso eccezionali nella mobilitazione delle
masse, in particolare per quanto riguarda le masse contadine.
Nella storia dei paesi jugoslavi, i giovani avevano spesso avuto una parte attiva
(la Gioventù Unita nella seconda metà del diciannovesimo secolo,
i Giovani Bosniaci all'inizio del ventesimo), e questo fatto si ripeté
anche all'inizio del sollevamento del 1941. Non c'è dubbio che l'organizzazione
dei giovani comunisti, la Lega comunista giovanile, ebbe il ruolo più
importante, ma le sue operazioni non avrebbero potuto avere tanto successo se
la gioventù non fosse stata pervasa da un desiderio spontaneo di scacciare
gli invasori e anche di formare una nuova società nella quale i giovani
avrebbero avuto una parte decisiva.
Il crollo dello stato nel 1941, la graduale trasformazione dei gruppi politici
borghesi in colonne d'appoggio per le autorità degli occupanti, e la
degenerazione del loro comportamento verso una sempre crescente passività,
fece capire ai giovani che la vecchia generazione non era in grado di guidare
la società per farle assumere una forma migliore. Il sentimento anticapitalistico
si sviluppò non soltanto in seno alla gioventù urbana, operaia
e studentesca, ma anche tra gli abitanti dei villaggi. Durante la guerra, si
capì che la struttura patriarcale della famiglia contadina tendeva a
disintegrarsi, in particolare, per quanto riguardava il potere assoluto del
padre sui figli. I giovani cominciarono a sentirsi più liberi: si unirono
ai partigiani, spesso convinsero sorelle, madri, ed altri membri della famiglia
a seguirli. Fra gli internati dei campi di concentramento tedeschi c'erano migliaia
di famiglie contadine.
Nelle unità partigiane, i giovani contadini entrarono in contatto con
membri della Lega comunista jugoslava, che aveva una nuova etica e nuove ideologie
politiche. In battaglia, nelle azioni delle loro unità e nel lavoro sul
campo, i giovani contadini elevarono il proprio livello culturale ed ideologico
con una rapidità senza precedenti.
La maggior parte dell'esercito partigiano era composta da giovani. Fino al 1943,
essi erano il 75 per cento del totale dei partigiani. Secondo i dati ufficiali,
più di 80 mila membri della L.C.J., giovani sotto i diciotto anni, morirono
in guerra. Delle 212 persone che furono proclamate eroi nazionali fino al 1951,
il 90 per cento aveva meno di 23 anni al momento della morte, e più della
metà, 109 su 212, erano studenti universitari o delle scuole superiori.
Solo dalla scuola superiore di Bijeljina (Bosnia) provenivano 300 studenti che
perirono sul campo di battaglia.
La natura egualitaria della rivoluzione è dimostrata anche dalla massiccia
partecipazione delle donne, che volevano lottare per conquistare la libertà.
In alcune unità partigiane, le donne costituivano fino al 15 per cento
delle forze di combattimento. Negli organismi di governo sul campo, esse avevano
diritto di votare e di essere elette. In alcune zone, nella Bosnia ad esempio,
la maggioranza dei membri dei comitati erano donne.
'Sono orgogliosa di aver seguito le orme degli uomini; la libertà sorgerà
dal mio sangue', gridò una contadina Svdja Krdzic, del villaggio di Andrijevica,
nel Montenegro, quando la portavano alla fucilazione per aver nascosto dei partigiani.
Queste parole non esprimono soltanto l'eroismo di fronte alla morte, ma anche
un atteggiamento sociale ed emotivo. Il grido della contadina del Montenegro,
soffocata per secoli nell'ambiente patriarcale e primitivo, rappresenta la quintessenza
di un'etica altruistica e insieme uno degli elementi fondamentali della sua
natura: il desiderio di uguaglianza.
Questa componente umana della rivoluzione si rifletté anche sul sentimento
nei confronti dell'internazionalismo. Quando Il'ja Eherenburg scrisse il suo
articolo "Uccidete gli invasori, uccidete i violatori, uccidete i tedeschi,
ma non perché sono tedeschi", i partigiani gridarono lo slogan 'Viva
Thaelman, Viva Stalin' nelle città liberate della Serbia. In Slavonia
si formò un campo per tedeschi chiamato Karl Liebknecht. I tedeschi catturati
durante la liberazione della Serbia occidentale non furono uccisi quando iniziò
la prima offensiva, ma rilasciati a Jablanica, vicino a Zlatibor.
Come in tutte le rivoluzioni, ad iniziare da quella inglese nel diciassettesimo
secolo, l'ascetismo rivoluzionario fece la sua comparsa in Jugoslavia nel 1941.
Come in tutte le rivoluzioni, comparve spontaneamente; le masse stavano distruggendo
il vecchio regime e volevano, insieme, vivere una vita assolutamente diversa
da quella delle decadenti classi dominanti. E il partito comunista sottolineò
che non potevano sussistere due sistemi di valori morali, che l'attività
politica dei membri del partito non poteva essere scissa dalla loro vita personale,
perché solo così sarebbe stato possibile conquistare la fiducia
delle masse. Atteggiamento umano e comportamento morale erano le componenti
dalle quali dipendeva la fiducia delle masse.
Nikola Vujovic, un contadino comunista della zona di Niksic, descrisse la responsabilità
dei comunisti con queste parole: 'Noi comunisti dobbiamo essere i primi a patire
la fame. I combattenti guardano noi, fanno come facciamo noi. Se siamo i primi
ad attaccare, dobbiamo essere i primi anche in questo'.
L'integrità dei rivoluzionari si rivelò in modo particolarmente
chiaro con un dato: dei 12 mila membri che il partito comunista aveva prima
della guerra, 9000 morirono nel conflitto, e il numero maggiore di morti si
ebbe nel 1941. Fu grazie a questa integrità che il partito comunista
riuscì a conquistare la fiducia del popolo. Con il loro comportamento
nel 1941 e dopo, i comunisti dimostrarono che la rivoluzione non mirava al raggiungimento
di fini personali, ma al bene comune.
Il numero delle vittime fra i dirigenti del partito comunista fu particolarmente
alto. Dieci su ventotto membri del comitato centrale del P.C.J. morirono in
guerra.
Le Istruzioni sui doveri del partigiano, emanate l'11 ottobre 1941 dal Gruppo
partigiano di Kordun e Banija, dicevano: 'I partigiani, i soldati del popolo,
non devono mentire, rubare o saccheggiare...' Altri distaccamenti avevano regole
simili. La loro applicazione veniva garantita in due modi: con l'esempio personale
dei leaders e con provvedimenti disciplinari.
Lo stato maggiore dei distaccamenti partigiani mangiava insieme alla truppa
nel 1941. Il primo presidente del Comitato principale per la liberazione nazionale
nella Serbia fu un contadino comunista, Dragojlo Dudic; prima di morire scrisse
nel suo diario: 'Cena al campo alla sera. Avevamo fatto da mangiare. Non posso
dire com'era perché non ne rimase per me. Nel nostro distaccamento, i
superiori sono gli ultimi quando si tratta di esercitare i propri diritti, ma
i primi nel dovere, cioè l'inverso di ciò che solitamente accade'.
Il sollevamento jugoslavo del 1941 non è solo una leggenda del coraggio
e della sopportazione di un popolo crocefisso sulla croce di una congiunzione
geopolitica, in cui tutti si trovarono uniti dalla necessità, combatterono
e sacrificarono la propria vita, situazione questa in ogni caso difficile. La
componente umana della rivoluzione ha un grande significato. Il suo successo
era possibile soltanto se si riusciva ad identificarsi con lo spirito nazionale,
espresso nella elementare iniziativa autonoma delle masse. La grandezza della
rivoluzione jugoslava sta nella sua democrazia mentre la grandezza dei comunisti,
i dirigenti rivoluzionari, era compresa solo se riuscivano ad afferrare l'idea
che questo spirito nazionale non doveva essere ostacolato, che l'iniziativa
autonoma rivoluzionaria non doveva essere ostacolata, che la guerra non poteva
essere più centralizzata di quanto consentissero le strutture morali
e spirituali esistenti.
Si pone ora il problema di scoprire le radici di questo desiderio di uguaglianza
sociale, comune alle masse nella rivoluzione jugoslava. Prima di tutto, si trattò
di un processo spontaneo, come in tutte le altre rivoluzioni sociali del diciannovesimo
e del ventesimo secolo. Nel suo "La guerra contadina in Germania",
Engels dimostra come le masse, al momento del rovesciamento di sistemi tirannici
ed oppressivi, creano spontaneamente i criteri etici della loro rivoluzione,
criteri che sono esattamente opposti a quelli del regime dominante.
Anche i principi dell'uguaglianza sociale possono essere indotti in modo soggettivo.
Per esempio, furono i vecchi comunisti ad introdurli nella rivoluzione jugoslava,
specialmente i vecchi ex detenuti delle prigioni di Mitrovica e Lepoglava, che,
durante i lunghi anni di reclusione, avevano messo in pratica i principi di
uguaglianza ereditati da altri movimenti progressisti».
3.
Per quanto riguarda la valutazione di Sartre circa il ruolo dell'università
come strumento di manipolazione, si può notare che gli storici, in quanto
membri delle università, sono vittime e insieme fautori della manipolazione.
Una questione importante da trattare è la seguente: come interpretano
gli storici i fenomeni dell'alienazione e della manipolazione. Altro problema,
collegato al primo, che si dovrebbe studiare, è quello della storiografia
come strumento di manipolazione degli esseri sociali.
Per illustrare questi punti, mi soffermerò sulle spiegazioni storiografiche
delle forze motrici dell'espansione europea, imperialismo e rivoluzione.
Il più delle volte la storiografia si presenta come giustificazione delle
classi dominanti e dello status quo ideologico. Qui si riscontra spesso l'applicazione
di ciò che si definisce teoria cospiratoria della storia. Tale teoria
postula in primo luogo cause immaginarie o secondarie degli avvenimenti storici.
Le contraddizioni sociali non vengono valutate secondo il loro significato evidente,
ma vengono spesso deliberatamente ignorate o distorte. Per esempio, questa tecnica
politica fu perfezionata da molti storici della rivoluzione francese. I sostenitori
di Luigi Sedicesimo cercarono di spiegare in questo modo le cause della rivoluzione:
i cittadini dell'amato monarca erano soddisfatti e la sommossa era stata provocata
da «agitatori esterni», in questo caso protestanti, ebrei e massoni.
Opinione che fu sostenuta nelle opere di autori come Joseph de Maistre, nel
1797. Ma il vero fondatore della teoria cospiratoria della storia fu, in epoca
moderna, Abbe Barruel, esplicito propagandista di questo modo di pensare.
Fra gli storici che difendono lo status quo si riscontrano due posizioni diverse
rispetto al problema della manipolazione: per la prima la manipolazione non
esiste, e per la seconda, anche se esiste, essa sostiene gli interessi «del
progresso e della civiltà», e pertanto è uno strumento necessario
al mantenimento dell'ordine sociale esistente. Molti di questi difendono lo
status quo, si considerano scrittori indipendenti e sono sinceramente convinti
di offrire una presentazione obiettiva del materiale da loro analizzato. Il
loro difetto principale è non afferrare le fondamentali contraddizioni
sociali e il grado di assimilazione alla struttura sociale della società
di cui sono membri e di se stessi in quanto individui.
D'altra parte, per essere sinceri, ci sono alcuni storici che vendono l'anima
all'ordine stabilito e lavorano la mano nella mano con gli organi di manipolazione,
siano essi stato, strutture del potere religioso, partiti politici, mezzi di
comunicazione di massa, eccetera.
Uno dei fattori che fanno degli storici strumenti di manipolazione è
che l'intero sistema educativo per gli storici stessi è compreso nelle
strutture dello stato di classe, ed è spesso da esso regolato. Ciò
porta a interpretazioni storiche che spiegano e insieme difendono la logica
del potere, piuttosto che a una ricerca indipendente tesa a scoprire possibili
vie d'uscita dall'alienazione e dalla sottomissione agli obiettivi delle classi
dominanti.
In tutti i paesi europei esistono scuole di storici che per decenni hanno costantemente
difesa l'aggressione perpetrata dai loro stati-nazioni o dalla loro razza; il
loro lavoro ha avuto l'effetto di avvelenare lentamente le masse della loro
società, instillando un falso patriottismo e l'odio verso i propri vicini
in nome delle ambizioni delle classi dominanti.
In Germania troviamo Heinrich von Treischke, Gustav Droysen con i suoi panegirici
del prussianesimo, Heinrich von Syebl, e altri. Anche grandi storici che hanno
validamente contribuito alla storiografia mondiale, come Leopold von Ranke,
subirono l'influenza di questa atmosfera di razzismo prussiano.
In Gran Bretagna si riscontra lo stesso fenomeno. T. B. Macaulay (anche se eccellente
stilista) rappresentava lo estremo chauvinismo inglese. Altri storici inglesi,
come John Michel Kemble e H. S. Chamberlain erano noti in Germania quali sostenitori
della superiorità anglosassone, e come tali accettati.
Negli Stati Uniti, William Burgess, Herbert B. Adams, George Bancroft e John
Fiske, all'inizio del secolo, sostenevano che i popoli teutonici, per la loro
razza, dovevano dominare il mondo.
In Francia Gobineau era il principale razzista europeo e Foustel de Coulanges
affermava che la Gallia aveva ragioni per rivendicare la supremazia mondiale.
Anche la Russia aveva la sua quota di chauvinisti nel mondo della storiografia,
compresi V. Klucevskij, S. Solovìev, e Tarle M. N. Pokrovskij nelle sue
opere storiche, scritte prima e dopo il 1917, criticava l'imperialismo russo,
la sottomissione dei popoli da parte della Russia zarista. Tuttavia, all'epoca
di Stalin, Pokrovskij fu denunciato e i suoi libri proibiti dallo stato sovietico;
ma insieme si assiste ad un rilancio del grande chauvinismo russo. Tarle rientrò
nelle grazie dello stato, e in un articolo sulla stampa sovietica accusò
Pokrovskij, dichiarandolo responsabile «del disarmo morale del popolo
russo».
4.
Nel 1970-71, mentre tenevo un corso sull'"Eresia e il dissenso"
in tre diverse università americane, ebbi occasione di osservare nella
pratica i metodi di co-opzione che vengono quotidianamente applicati in America.
In questo periodo, ebbi più volte scambi di opinioni con Noam Chomsky,
su problemi specifici circa l'alienazione e la manipolazione negli Stati Uniti.
Il 3 giugno 1973, quando ci riunimmo a Cambridge, nel Massachusetts, portai
la discussione sugli storici come strumenti di manipolazione della società.
Anche Chomsky stava studiando il problema, in relazione ai resoconti degli storici
sulla guerra nel Vietnam.
Presi degli appunti durante la nostra discussione, ma fummo d'accordo che, per
questo lavoro, sarebbe stato meglio citare le sue parole. Pertanto, mi autorizzò
a riportare un lungo brano del suo saggio "Savoir et idéologie.
Les historiens américains comme experts en legitimation". Si tratta
di un ottimo contributo all'applicazione della teoria cospiratoria della storia
agli avvenimenti contemporanei.
«Nel 1949, il presidente dell'Associazione degli storici
americani (American Historical Society), nel suo discorso di apertura all'inaugurazione,
esortò i suoi ascoltatori ad abbandonare il 'behaviourismo imparziale'
e l'atteggiamento 'liberale e neutrale' nelle loro ricerche e ad accettare la
loro 'responsabilità sociale' in quanto storici, responsabilità
di cui dava una descrizione generale, con le seguenti parole: 'La guerra totale,
calda o fredda, fa appello a tutti e richiede la partecipazione di tutti. Lo
storico non è meno obbligato del fisico'.
Sarebbe falso, e anche ingiusto, dire che gli storici americani hanno sentito
queste parole e si sono arruolati al servizio dello stato come loro propagandisti
e ideologi. In primo luogo, un gruppo ristretto ma importante ha distinto questo
principio fondamentale: che le regole di evidenza e di valutazione applicate
allo studio del comportamento in campo internazionale delle altre potenze, siano
applicate in maniera analoga anche agli Usa. I contributi degli studiosi della
politica e degli esperti in fatti d'attualità sono d'altra parte tanto
diversi nella qualità e nell'intenzione che li ispira, da rendere impossibile
un giudizio semplice e globale.
Mi sembra tuttavia che sia possibile isolare, ai fini di questa analisi, alcune
tendenze dominanti. E credo che questa analisi metterà in evidenza come
il 'behaviourismo imparziale' sia stato trasformato (in senso negativo) in strumento
ideologico, di costrizione e di controllo; 'l'atteggiamento neutrale e libero'
nasconde in realtà, molto spesso, un servizio reso al potere in una forma
più sottile e indiretta. Questo fenomeno assume un'importanza particolare
dal momento che l'intellettuale americano è tanto poco soggetto a controlli
diretti quanto l'intellettuale di qualsiasi altro paese del mondo, e che il
campo disponibile per la ricerca e la libera espressione è ineguagliabile.
Anche gli elementi strettamente dogmatici che si possono a mio parere rilevare,
sono di grande interesse, in quanto esempi del modo in cui gli intellettuali
possono arrivare ad essere, come disse Gramsci, 'esperti in legittimazione'.
Per dimostrare quello che Hans Morgenthau chiama 'il nostro servilismo conformista
nei confronti di quelli che sono al potere', cominciamo ad esaminare questi
fatti:
1. Esiste un processo ininterrotto che concentra il potere decisionale, in materia
di affari esteri, nelle mani del potere esecutivo, e ciò con la partecipazione
e l'appoggio, in generale, dei due partiti.
2. Un simile processo concentra il potere decisionale in materia economica nelle
mani di un gruppo ristretto, nel quale si inframmischiano proprietari e managers
delle grandi società, gli imperi dell'alta finanza, degli investimenti,
e così via. Lo stesso accade nell'esecutivo statale, che dirige vaste
risorse di capitale e poderosi strumenti di gestione economica.
3. Il personale dell'esecutivo molto spesso proviene dall'élite delle
grandi società e loro associate, ed è sottoposto alla potente
influenza dei proprietari delle istituzioni fondamentali e delle grandi risorse
di capitale della società americana.
Ne consegue che i due processi di centralizzazione del potere sono strettamente
collegati. Affermare che sono una cosa sola risulterebbe appena appena esagerato.
Anche se sarebbe possibile elencare le sfumature, le particolarità di
ognuna, queste tre affermazioni sembrano incontestabili. Insieme, potrebbero
portare un ricercatore neutrale ed imparziale a sostenere l'ipotesi che gli
interessi delle grandi società influiscono sulla politica estera. Questa
poco sorprendente ipotesi diventa ancor più plausibile se si considerano
alcuni fatti supplementari. L'élite delle grandi società si occupa
di profitti e di crescita. Dalla seconda guerra mondiale, le imprese esterne
delle 'corporations' americane sono enormemente aumentate. Lo dimostrano alcune
cifre: l'ammontare degli investimenti americani nelle industrie all'estero era
di 3,8 miliardi di dollari nel 1950, 11,2 miliardi nel 1960, e di 32,2 miliardi
nel 1970. L'impulso maggiore si ebbe a causa della creazione del Mercato comune
europeo. Dopo la seconda guerra mondiale, il totale degli investimenti all'estero
è cresciuto da 10 miliardi di dollari a 86 miliardi (nel 1971). Gli investimenti
si concentrano soprattutto nelle grandi corporazioni. I profitti derivanti dagli
investimenti all'estero arrivano al 20-25 per cento degli utili dopo il pagamento
delle tasse. Alcune società, come ad esempio l'I.B.M., hanno già
superato il 50 per cento di utili, ed altre sperano di raggiungere presto questo
livello. Bisogna sottolineare non soltanto l'importanza della vasta portata
di queste imprese, ma anche l'elasticità che si assicurano di fronte
ad una recessione interna.
Inoltre, almeno dalla fine della seconda guerra mondiale, l'accesso alle materie
prime suscita un interesse crescente negli Stati Uniti; a titolo esplicativo,
citeremo come più richiesti, i metalli non ferrosi.
Anche questi fatti potrebbero far supporre, ad un ricercatore indipendente,
che gli interessi delle grandi società americane abbiano un certo peso
sulla politica estera, se non addirittura far sostenere che la politica estera
virtualmente costituisce un'espressione di questi interessi. Allora, come hanno
affrontato i ricercatori americani, questa idea più che plausibile?
In uno studio recente Dennis Ray, esperto in scienze politiche, fa osservare
che: 'L'influenza esercitata dalle corporations sul processo della politica
estera... resta misteriosa. Le mie ricerche nel campo degli studi rispettabili
sulle relazioni internazionali e sulla politica degli Stati Uniti testimoniano
il fatto che, su duecento libri, meno del 5 per cento fa menzione del ruolo
svolto dalle corporations americane nel campo della politica estera. Basandosi
su questi studi, si potrebbe credere che la politica estera americana sia costituita
in un vuoto sociale... Non esiste, per così dire, nelle opere classiche,
alcun riferimento all'esistenza o all'influenza delle grandi società
private nel campo delle relazioni internazionali e della politica estera'.
Tra gli studi 'rispettabili', Dennis Ray non annovera la letteratura 'patrocinante',
che comprende due categorie: le dichiarazioni degli amministratori delle società
e dei professori delle scuole di economia e commercio da una parte, e le analisi
'radicali e neomarxiste' dall'altra. I primi sostengono tendenzialmente che
le imprese commerciali americane 'reagiscono al potere dominatore e a volte
capriccioso del governo, che agisce nei limiti di uno stretto nazionalismo',
e i secondi interpretano 'le funzioni, le attività e l'influenza delle
grandi società nel campo della politica estera in termini che non sono
assolutamente pertinenti'.
Ray non è il primo 'uomo di scienza' a far notare, negli studi 'rispettabili',
questa curiosa omissione nell'analisi delle relazioni internazionali e della
politica estera degli Stati Uniti. David Horowitz, per esempio, esperto in politica
estera americana, e che, secondo Ray, si situa al di fuori del 'consenso rispettabile',
fece osservare qualche tempo fa che non era riuscito a scoprire uno studio,
a livello universitario indipendente, sugli effetti prodotti nella vita sociale,
economica e politica degli Stati Uniti dalla Standard Oil Company del New Jersey,
società che controlla l'economia di una mezza dozzina di paesi di importanza
strategica, possiede propri servizi di informazione, una propria rete paramilitare
e fornisce regolarmente dirigenti di livello superiore al governo degli Stati
Uniti.
Ritorniamo ora al nostro tema principale: 'il ruolo svolto dagli storici americani
ed altri intellettuali esperti in legittimazione'. Si pongono diversi interrogativi
che Ray non ha enunciato: Perché gli studiosi non hanno esaminato l'influenza
delle 'corporations' sulla politica estera? Com'è che meno del 5 per
cento dei lavori tratti da studi 'rispettabili' non fanno che vaghi riferimenti
al ruolo delle corporations nella politica estera degli Stati Uniti? Perché
gli studi 'rispettabili' evitano accuratamente di scendere nei particolari di
questa ipotesi evidente e chiara, riguardo alle decisioni di politica estera,
ipotesi che salta agli occhi al solo pensarci? Perché preferiscono occuparsi
degli effetti di terzo piano e delle perturbazioni minori, sorvolando il "tema
principale"?
Del resto, si consideri l'atteggiamento di Ray di fronte a coloro che si dedicano
allo studio dei temi principali e che forniscono le risposte che egli stesso
ripete. Non sono, dal suo punto di vista, 'uomini di scienza' rispettabili;
appartengono piuttosto al gruppo dei difensori. Al contrario, la grande corrente
universitaria, dal momento che evita accuratamente di trattare le influenze
principali sulla politica estera, non perde in modo alcuno la sua 'rispettabilità',
e non si considera assolutamente legata ai difensori.
Se un antropologo osservasse il fenomeno che ho appena esposto, non esiterebbe
a dire che si tratta di un tabù, di uno 'scansamento', profondamente
radicato e di natura superstiziosa, di una domanda terrificante: quella che
riguarda il funzionamento del potere economico nella società americana.
Nell'ambiente del clero secolare - intellettuali di professione e universitari
- non ci si arrischia a sollevare la questione, se non nel modo più discreto
possibile. Quelli che lo fanno non sono più 'rispettabili'. In una società
libera, chi profana i tabù culturali non viene imprigionato né
bruciato sul rogo. Ma bisogna identificarlo come un 'radicale' pericoloso, indegno
di entrare nel sacerdozio. Si tratta di una misura indispensabile, perché,
una volta sollevata la questione, la risposta arriverebbe fatalmente, e la percezione
dei fatti potrebbe minacciare l'ordine sociale, protetto da una rete accuratamente
intessuta di misticismo pluralista e di credenze superstiziose.
Si sa naturalmente che, in tutte le società l'ideologia dominante è
fatta per proteggere il privilegio, e che gli 'specialisti in legittimazione'
costruiscono una maschera per il privilegio stesso. Marx l'aveva detto, gl'intellettuali
sono 'i pensatori della classe [dirigente]', 'i suoi ideologi attivi e creatori
che si guadagnano il pane perfezionando l'illusione che questa classe ha di
sé' e che dànno alle idee della classe dirigente 'la forma di
un enunciato universale rappresentandole come le uniche razionali, e universalmente
valide'. Perché una struttura ideologica sia utile a una qualsiasi classe
dirigente, deve nascondere il fatto che quella classe esercita il potere: negando
i fatti, passandoli sotto silenzio, classificando gli interessi particolari
di quella classe come interessi universali, affinché sembri naturale
che i rappresentanti di quella classe determinino la politica della società
nell'interesse generale».
5.
Ritorniamo ora, dopo aver lasciato gli storici, al nostro tema
principale, l'identificazione con l'aggressore. Se avessi il tempo per farlo,
credo che uno dei casi più difficilmente comprensibili e più tragici
di manipolazione che vorrei studiare, è la manipolazione della classe
lavoratrice per farle appoggiare politiche completamente opposte ai suoi interessi
fondamentali. Un caso flagrante da studiare sarebbe la manipolazione dei lavoratori
ad opera della borghesia alla vigilia della prima guerra mondiale. I lavoratori,
attraverso le loro organizzazioni, politiche e non politiche, avevano fatto
notevoli progressi verso la propria liberazione dall'influenza della borghesia.
Tuttavia, la borghesia riuscì a spingere i lavoratori, specialmente in
paesi allora più avanzati in campo industriale come Germania, Gran Bretagna
e Francia, verso l'autodistruzione, verso una carneficina di dimensioni fino
ad allora mai riscontrate nella storia dell'umanità.
Per me, il 1914 è l'anno più tragico nella storia di questo tragico
secolo, e ne stiamo ancora subendo le conseguenze. La manipolazione della classe
lavoratrice continua da allora, senza interruzioni. Perché la classe
lavoratrice tedesca non oppose una resistenza maggiore alla macchina di guerra
nazista? Perché le classi lavoratrici dei paesi industrializzati non
hanno dato un maggiore appoggio ai popoli coloniali, per esempio nelle guerre
della borghesia francese in Indocina e in Algeria, o in quella degli imperialisti
americani nel Vietnam? Non c'è dubbio che il ruolo della manipolazione
in questi casi sia stato di capitale importanza.
E ciò che colpisce di più è la spaventosa cecità
della più numerosa classe lavoratrice del mondo, nel paese più
industrializzato del mondo - gli Stati Uniti - che elesse a maggioranza schiacciante
Richard Nixon, uomo legato a tutti i possibili ed immaginabili interessi economici.
L'avvertimento che Eleanor Roosevelt aveva espresso nel 1948 sul pericolo della
co-opzione attraverso il "bacio della morte" si è avverato
negli Stati Uniti: il bacio che convinse i lavoratori nel 1972, è sbocciato
in quest'anno del Watergate in niente di più di qualche frase vuota,
che, a questo punto, anche i loro dirigenti ammettono apertamente.
6.
Quali siano le contraddizioni fondamentali nel mondo contemporaneo
- sia in quello occidentale che in quello orientale - era il problema che Franco
e Franca Basaglia volevano discutere alla fine di questo articolo.
Ho pensato di usare qui il testo di un dibattito avuto, a questo proposito,
con Jean-Paul Sartre nel luglio del '69. Nell'aprile di quell'anno il regista
cinematografico jugoslavo Fadil Hadzic, della Jadran Film Company di Zagabria,
mi propose di fare assieme a lui un film, basato su alcuni miei scritti, il
cui titolo doveva essere "La terra dell'eresia". La sceneggiatura
che preparammo comprendeva la storia della Jugoslavia dagli eretici dualistici
medievali, i bogomili, ai giovani studenti di oggi. La sceneggiatura prevedeva
interviste con Jean-Paul Sartre, Rossana Rossanda, Leo Valiani, Ole Wivel e
altri.
Jean-Paul Sartre venne in Jugoslavia nel luglio '69. Fu allora filmato un dialogo
fra noi due presso il cimitero medievale di Radimlji in Erzegovina e a Stolac.
Nei trenta minuti di discussione si affrontò non soltanto il tema degli
eretici del periodo medievale (compreso il rapporto fra i bogomili e gli albigesi
francesi) e dei loro attacchi alle strutture di potere sociale ed economico
del loro tempo, ma anche quello delle contraddizioni delle società capitalistiche
e socialiste contemporanee. (Il film non è mai stato ultimato, nonostante
la volontà di tutti coloro che vi avevano partecipato e dello stesso
regista Hadzic).
Questo è il testo integrale della conversazione sulle contraddizioni
sociali:
DEDIJER Questo è il paese dell'eresia, non solo all'epoca
dei bogomili e dei catari, ma anche prima della guerra mondiale. Vedi, laggiù
c'è il paese di Solac, vi abitava un bosniaco di nome Mehued Mehued Bashic;
dall'altra parte, credo a 10-12 chilometri, si trova il villaggio di Prenj;
lì abitava Mustafa Golubic, un altro giovane bosniaco molto forte. Questa
generazione di giovani pensava necessaria una rivoluzione permanente, erano
contrari alla monarchia asburgica, ma, insieme, erano anche contro i genitori,
gli insegnanti. Volevano fare una rivoluzione completamente nuova, si opponevano
a tutte le strutture. Ricordi, l'anno scorso, dopo i fatti di maggio nel tuo
paese e i fatti di giugno nel mio, abbiamo passato qualche giorno a Bohinj,
e poi siamo andati a Bologna. Là abbiamo discusso dei problemi della
gioventù odierna e, soprattutto, del problema dell'università.
A quel tempo, dopo la riunione con i quattrocento studenti di Bologna, avevi
scritto un testo sulla tua tesi, che non è mai stato pubblicato. Per
me si tratta di un documento storico, e vorrei, Sartre, farti questa domanda:
puoi ripensare a quella tesi e dire se questa professione di fede persiste o
no, se è valida o no? Ti prego, guarda tu un po'... Ricordi le discussioni
che abbiamo sostenuto noi due, e soprattutto della critica all'impicciarsi degli
affari dei giovani, cosa molto pericolosa, perché ci si potrebbe accusare
di essere paternalisti io, con i miei 110 chili, o un «suiviste»
(3) come te...
SARTRE... io ne peso 58...
DEDIJER E per evitare questo pericolo, cosa pensi ora?
SARTRE La gioventù è sempre più «suiviste».
Trovo quei progetti anche un poco sorpassati. Ricordi, ci venne l'idea di riunire
a Bologna o altrove studenti di diverse nazioni, tutti contestatari, per cercare
di vedere se, essendo riuniti, si capivano, se avevano gli stessi motivi per
contestare. E oggi, io penso, dal momento che le idee si sono meglio chiarite,
così come i vecchi non devono mandare i giovani alla guerra, non devono
fare da mediatori tra i giovani. Penso che il nostro incontro fosse decisamente
troppo accademico. In realtà, i giovani devono unirsi, tutti i movimenti
studenteschi devono trovare un'unione, ma, a mio parere, l'unità sarà
raggiunta nell'azione, cioè, nella contestazione e nella ribellione,
non in una riunione tranquilla nella quale ognuno dice la sua opinione. La prova
di questo è data dal fatto che, in Francia, si raggiunse un accordo tra
moltissime tendenze diverse per agire in maggio, ma poi questi gruppi si sono
ritrovati su posizioni diverse, perché non si era più in azione.
Dunque, l'azione deve essere intrapresa a caldo. Ciò che io conserverei
sarebbe semplicemente l'idea che questi giovani sono ribelli, e che non lo sono
per una questione di umore o per capriccio, ma perché la situazione in
cui si trovano li mette in uno stato di rivoluzione permanente. Ciò che
mi pare essenziale, è che esiste una contraddizione nei nostri paesi
in questo periodo di capitalismo monopolistico, una contraddizione che fa sì
che le imprese capitalistiche provochino certamente e in parte, una relativa
elevazione del livello di vita in alcuni luoghi e una maggior quantità
di studenti. Ciò vuol dire che molta gente viene messa in condizioni,
dopo la maturità, di seguire studi superiori, come se dovesse trovare
un proprio posto pronto nella società; ma, nel contempo, le imprese capitalistiche
non riescono a fornire lavoro a tutti gli studenti che creano, di modo che l'università
attualmente, per questa contraddizione, è più selezionatrice che
mai. In altre parole, da noi, il 75 per cento degli studenti che vengono creati
dalla società, si ritrovano ancora una volta a terra, ritornano alla
piccola borghesia povera, o talvolta alla classe operaia, mentre, contemporaneamente,
si crea un numero sempre maggiore di postulanti. Ciò crea una specie
di sottoproletariato formato da individui che hanno completato gli studi, che
hanno imparato che la cultura può essere accessibile a tutti, perché
tutti vi sono attratti e oggi la cultura funziona in quanto istituzione (parlo
della Francia, in quanto istituzione francese), come un monopolio. Perché
esiste un monopolio del sapere, che è dato agli insegnanti, monopolio
che implica un potere legato al potere della società. Il potere di dire:
Tu finirai gli studi; per te invece è finita, ritorni fra quelli che
non hanno studiato mai. Gli studenti non partecipano affatto a questo potere:
sono semplicemente oggetti, reclutati come si vuole, selezionati come si vuole,
ricevono un'istruzione che è quella che si vuole loro impartire. Talvolta
si tratta del vecchio umanesimo ormai costituito, il vecchio umanismo borghese
del diciannovesimo secolo; talaltra, se si vuole, come vogliono Faure e altri,
adattare, si tratterà di un tipo di insegnamento tecnico che metterà
gli studenti in condizioni di ottenere posti nelle imprese, posti a livello
dirigenziale, cioè per la maggior parte ruoli di per sé selezionisti,
con la funzione di tutelare le imprese dalla ciurma che non vogliono nelle loro
file. Gli studenti si trovano dunque, tra queste due idee: prima essi sono l'oggetto
della cultura che viene loro insegnata, e ciò per meglio selezionarli;
secondo: la cultura deve essere cultura di massa o non esistere. Pertanto sono
trasportati da una parte dalla loro stessa situazione e, dall'altra, da una
situazione materiale derivata da questo complesso di fatti assolutamente negativo,
a contestare globalmente la cultura che viene loro fornita.
DEDIJER Nella nostra tesi, abbiamo sostenuto che nelle condizioni sociali ed
economiche della società che si autodefinisce «welfare state»
- scusa il mio linguaggio incomprensibile...
SARTRE ... la società del benessere...
DEDIJER ... c'è una tesi sociale democratica, ma non soltanto socialdemocratica.
Ci sono anche da noi persone che pensano che in queste società tutti
i conflitti, tutte le contraddizioni sono di natura non antagonistica e che
si possono risolvere attraverso un processo evolutivo. Ma ciò che abbiamo
visto, non solo in Francia ma anche in numerosi altri paesi in cui impera la
società del benessere, è che esistono conflitti ed antagonismi
che una semplice evoluzione non può risolvere, ma che richiedono invece
atti e conflitti rivoluzionari. Che ne pensi di questa tesi che hai già
enunciata?
SARTRE E' quello che dicevo prima. Questo è uno dei casi in cui la contraddizione
è veramente antagonistica: cioè è il fatto stesso che questa
società che chiamiamo società del benessere, crei un numero altissimo
di studenti e nel contempo chiuda loro le porte, che rende non riformabile la
situazione. La soluzione può consistere soltanto nella contestazione
globale di una società borghese che produce questo tipo di contraddizioni.
DEDIJER Ho fatto questa domanda perché ad esempio in Francia, in questo
momento, nel movimento studentesco esiste una facilitazione temporanea ma, se
questa tesi è vera e le condizioni economiche e sociali non sono ancora
risolte, ciò significa che esiste la possibilità che la situazione
si ricrei, come è venuta a crearsi in maggio, perché le condizioni
che hanno provocato la rivolta spontanea...
SARTRE... sussistono esattamente...
DEDIJER... perché io penso, noi faremo questa riunione e altre cose,
ma il fatto stesso che le condizioni sociali non sono mutate, ci consente di
presumere che scoppi un'altra volta la rivolta, in altre situazioni.
SARTRE Se non sarà in Francia sarà altrove, ma la situazione è
la stessa.
DEDIJER Sei d'accordo?
SARTRE Perfettamente, tanto più che hai fatto notare come il debole tentativo
di riforma di Edgar Faure, da noi sia stato completamente falciato. Faure è
stato rinviato, e tutti gli sforzi che ha fatto per tentare, attraverso la riforma,
di andare nella direzione da te indicata, cioè senza contraddizioni antagonistiche
eccetera... tutti questi sforzi saranno accuratamente cancellati. Già
si ritorna sul problema del latino; è probabile che l'anno prossimo si
sopprima Vincennes, o, in ogni caso, si elimineranno gli studenti più
rivoluzionari, e ci ritroveremo, in fondo, in una situazione simile a quella
precedente. In altre parole, le riforme sono impossibili perché non rappresentano
nel modo più assoluto ciò che corrisponde alle esigenze degli
studenti; ma al tempo stesso sono già troppo perché possano essere
accettate da una società reazionaria. Sono d'accordo con te. Penso che
le contraddizioni socio-economiche non sono risolte, né saranno risolte
da una riforma, e, pertanto, si sfocia in una prospettiva rivoluzionaria. Ciò
vuol dire che l'istituzione culturale, così come esiste in tanti paesi
(penso alla Francia ad esempio) deve essere spezzata, è necessario rompere
le strutture che ne derivano. La prova ne è, ad esempio, l'esperimento
di Edgar Faure, che ha tentato la via della riforma... Ebbene, oggi, gli sforzi
che egli fece, che erano del resto ben pochi, sono stati completamente spazzati
e cancellati. E' stato allontanato dal ministero, il suo posto è stato
preso da un conservatore. Ritroveremo l'università, tra sei mesi, tra
un anno, e sarà ancora la vecchia università, restaurata. Ciò
prova una cosa, e cioè che il riformismo di Faure non ha potuto soddisfare
gli studenti: i veri problemi che erano problemi di fondo perché si trattava
ad esempio di decidere il bilancio preventivo da assegnare all'università,
affinché tutti potessero beneficiare dell'insegnamento di livello superiore,
non sono stati risolti. Gli studenti si ritrovano esattamente nella situazione
precedente, ma insieme, questo debole riformismo è stato già troppo
per quello che potevano sopportare i reazionari attualmente al potere. Pertanto,
dalle due parti, il riformismo si è incagliato, ed è per questo
motivo che ci ritroviamo nella stessa situazione. Se gli studenti, non soltanto
in Francia, ma ovunque sono dei rivoluzionari, se sono sul piano della rivoluzione
permanente, cioè della contestazione della cultura e dell'insegnamento
e di tutte le istituzioni che vengono loro offerte, non è a causa di
una fantasia: non è perché da un momento all'altro si sono messi
in testa un'idea piuttosto che un'altra, così all'improvviso, ma è
perché si trovano veramente in una situazione di contestazione, perché
sono loro stessi, in quanto studenti, in quanto giovani, in quanto uomini del
futuro, completamente contestati dalle istituzioni che affermano invece di essere
fatte per loro. Conseguentemente, l'unica soluzione per loro è la rivoluzione,
evidentemente, e l'unico problema è con chi farla. Perché sono
troppo deboli per farla da soli; e questo pone un problema che non ci riguarda
in questa discussione, e cioè il rapporto tra gli studenti e la classe
operaia.
- Discussione a Stolac.
SARTRE Allora, mio caro Dedijer, abbiamo parlato delle contraddizioni
del capitalismo, e tu sai che Marx, molto prima di me e meglio, ha detto che
la contraddizione è il motore della storia. Non ci sono forse anche delle
contraddizioni del socialismo, dal momento che, alla fine, anche il socialismo
costituisce un'evoluzione? Ma, secondo te, cos'è il socialismo?
DEDIJER Non è soltanto lo sviluppo delle forze produttrici e l'eliminazione
dello sfruttamento, ma anche il fatto di portare simultaneamente tutte le relazioni
tra gli uomini ad un livello più elevato e più umano. E' anche
la ragione per cui l'uomo ha iniziato la sua lotta rivoluzionaria contro il
capitalismo e i suoi mali...
SARTRE Questo concetto di socialismo, viene di fatto applicato in tutti i paesi
socialisti?
DEDIJER Il fatto storico è che l'idea del socialismo umanitario è
contenuta in tutte le costituzioni dei paesi socialisti. Resta da stabilire
la differenza che passa tra le parole e i fatti, tra il principio e la pratica...
Siamo testimoni di un fenomeno come il genocidio (la questione dei tartari nell'Urss,
ad esempio), delle rivolte nei paesi dell'Europa orientale nel 1953, 1954, 1956,
le rivendicazioni operaie per esempio in Jugoslavia, la rivolta studentesca
in quasi tutti i paesi socialisti. E, nel campo delle relazioni tra paesi socialisti,
la prassi della diplomazia segreta, del blocco economico - come quello che l'Urss
impose alla Cina - delle minacce d'aggressione e addirittura di azioni aggressive
evidenti, come l'invasione della Cecoslovacchia da parte dei cinque paesi del
Patto di Varsavia. La contraddizione più dolorosa è quella della
guerra, o della possibilità di una guerra tra paesi socialisti. Il marxismo
ci aveva insegnato che la guerra moderna e l'esercito sono un fenomeno storico,
e non il risultato del carattere non modificabile della natura umana. Più
precisamente, che la guerra e gli eserciti si costituiscono nel momento in cui
una società si divide in classi e lo sfruttamento fa la sua comparsa.
Il marxismo considerava la guerra come il più atroce fenomeno sociale
provocato dall'imperialismo e dal capitalismo, e ci aveva fatto credere che
con l'eliminazione delle classi anche le guerre sarebbero scomparse. Ora ci
troviamo di fronte ad un sistema socialista nel quale la guerra si presenta
nuovamente come possibilità: l'intervento armato in Cecoslovacchia e
le frizioni tra Urss e Cina hanno vibrato un colpo terribile all'idea stessa
del socialismo, specialmente tra le generazioni più giovani, che hanno
preso a modello il socialismo, negli ultimi anni, per cambiare il vecchio mondo
con le sue violenze.
E' per questo che una ricerca e l'apertura di una discussione sull'origine delle
contraddizioni nelle società socialiste si pone ora come urgente, e costituisce
non solo una analisi astratta, ma la condizione per un rilancio rivoluzionario,
per il futuro stesso del socialismo. Dissimulare questi problemi non porta alcun
frutto, anzi, li aggrava. Abbiamo potuto rendercene conto nel corso dell'ultima
conferenza di alcuni partiti comunisti tenutasi a Mosca: certe decisioni adottate
e il modo in cui si è svolta la discussione rivelano che la concezione
staliniana sopravvive ancora, la concezione secondo la quale non esisterebbero,
nello sviluppo del socialismo, contrasti profondi. Nelle opere pubblicate verso
la fine della sua vita, nel 1950 e nel 1952, Stalin sosteneva la tesi secondo
la quale tutti i problemi delle società socialiste potevano essere risolti
con il «gradualismo» e «l'evoluzione», e che la transizione
dalla «quantità» alla «qualità» sarebbe
stata brusca solo nei paesi non socialisti. Ma il corpo di Stalin era da poco
sceso nella tomba quando nel mondo socialista scoppiarono rivolte di massa.
Nell'Unione Sovietica si è cercato di spiegare queste rivolte con la
teoria del «culto della personalità»; una specie di soggettivismo,
o di neo-pragmatismo... quello che Plechanov chiamava già «idealismo
soggettivo». Infatti, secondo questa concezione, si nega che alla base
delle contraddizioni del socialismo ci siano ancora problemi economici e sociali.
Orbene, a mio parere, bisogna partire dall'estremo opposto. Se la base materiale
dell'Unione Sovietica e del mondo socialista fosse tanto progressista, non si
produrrebbero, nella sovrastruttura, fenomeni tanto spaventosi. E' necessario
rifare un esame approfondito del problema del rapporto tra l'essere sociale
e la coscienza sociale nell'Unione Sovietica e negli altri paesi socialisti,
e approfondire tutte le relazioni materiali e i rapporti di produzione. E' necessario
ritornare al problema di fondo, cioè la formazione e la distribuzione
del plusvalore nell'Unione Sovietica e nel mondo socialista, e il sistema economico
e sociale che ne consegue. E' solo partendo da questi dati che è possibile
esaminare il sistema sovietico sotto Stalin, anche se risulta evidentemente
necessario prendere in considerazione non solo il fattore economico ma anche
la psicologia sociale, il problema della cultura e dei valori, i dati di partenza
di una ricerca sociologica, psicologica, e anche psicanalitica, per non cadere
in una visione meccanica delle relazioni tra struttura e sovrastruttura.
In quanto storico, io studio gli aspetti concreti delle contraddizioni sociali
negli stati socialisti, ed è così che sono arrivato a mettere
insieme questo quadro globale:
A) "Introduzione": Il problema teorico delle contraddizioni come è stato impostato dalle diverse correnti marxiste o comuniste; la questione teorica della legge del valore.
B) "Descrizione del processo materiale": Come si presenta la distribuzione del plusvalore?
1. Meccanismo della ripartizione, tra lo stato e le altre strutture
da una parte, e i produttori dall'altra; grado di partecipazione dei produttori
alle decisioni in materia di distribuzione del plusvalore e al controllo dell'applicazione
delle decisioni prese; ventaglio dei salari.
2. Meccanismi decisionali riguardanti la ripartizione nelle diverse strutture
del potere (stato, partito, esercito, polizia, sindacato, categoria tecnocratica,
eccetera).
3. Struttura produttiva e distribuzione (centralizzazione/mercato).
4. Distribuzione del plusvalore tra le zone sviluppate e le zone sottosviluppate
in uno stato socialista e tra le diverse nazionalità all'interno di ogni
stato socialista.
5. Distribuzione del plusvalore tra i produttori, secondo la divisione del lavoro
e gli interessi specifici dei diversi gruppi di lavoratori: a) lavoro manuale
ed intellettuale; b) lavoro specializzato e non specializzato; c) lavoratori
nei centri urbani e nelle campagne; d) eccetera.
6. Distribuzione del plusvalore tra lavoro maschile e femminile.
7. Idem fra gruppi di età (modelli tecnocratici e ruolo assegnato ai
giovani).
C) "Divisione del lavoro e ripartizione del plusvalore tra gli stati socialisti":
1. Principi teorici delle relazioni economiche tra gli stati socialisti.
2. Studio comparativo del livello di sviluppo di ogni stato socialista, per
verificare se il divario tra i paesi socialisti economicamente sviluppati e
quelli sottosviluppati aumenta o si restringe.
3. L'Urss e l'Europa dell'Est, durante la fase staliniana e dopo (metodi e principi
che governano il commercio con l'estero, forme dirette di sfruttamento, «società
miste», «aiuti», eccetera).
4. L'Urss e la Cina.
5. Stati socialisti europei ed extraeuropei (Cuba, Vietnam, Corea del Nord).
D) "Rapporti tra gli stati socialisti e il sottosviluppo": aiuti, commercio con i paesi terzi e il «socialismo terzomondista».
E) Relazioni tra i paesi socialisti e il mercato capitalista
mondiale:
1. Influenza sulle strutture produttive.
2. Caratteristiche delle imprese miste con capitale dei paesi capitalisti.
3. Influenza dei prestiti capitalisti ai paesi socialisti.
Per me, come marxista, le contraddizioni tra le forze di produzione
e i rapporti di produzione è la contraddizione fondamentale che condiziona
lo sviluppo della società nei paesi socialisti. Sono assolutamente sicuro
che il socialismo, come sistema mondiale, ha già trionfato sul capitalismo
e se risolveremo le contraddizioni nei paesi socialisti noi avremo fatto una
rivolta permanente, che non potrà essere soffocata da nessuna violenza.
E' la condizione essenziale del progresso... Questa è la mia opinione,
non so se tu la condivida. Tu sei un marxista più profondo di me...
SARTRE Penso che hai pienamente ragione, che se il socialismo non è rivoluzione
permanente, se non è cioè una contestazione perpetua delle istituzioni
che crea, per creare istituzioni migliori, scivolerà e diventerà
capitalismo di stato. Il vero problema, in effetti, è sempre quello della
contestazione, da parte delle masse, delle istituzioni che, in generale, si
continuano a creare, anche se attraverso la riduzione di un numero maggiore
di precedenti istituzioni che vengono eliminate. Forse è questo, in realtà,
il vero problema.
DEDIJER E' la base dell'eresia che esiste oggi nei paesi socialisti. Sei d'accordo?
SARTRE Perfettamente.
DEDIJER Grazie.
[Traduzione di Giovanna Weber Sommermann].