di Michel Foucault
Nella pratica scientifica c'è un discorso di fondo che
dice: «non tutto è vero; ma in ogni punto e in ogni momento, c'è
una verità da dire e da vedere, una verità che forse sonnecchia
ma che aspetta solo il nostro sguardo per comparire, la nostra mano per essere
svelata; sta a noi trovare la buona prospettiva, l'angolo adatto, gli strumenti
che occorrono, poiché in ogni modo essa c'è ed è ovunque».
Ma noi troviamo profondamente ancorata nella nostra cultura anche quest'altra
idea, che la scienza e la filosofia rifiutano: che la verità, come il
lampo, non ci attende in qualunque posto si abbia la pazienza di spiarla e l'abilità
di sorprenderla; ma che essa ha dei momenti propizi, dei luoghi privilegiati,
non solo per uscire dall'ombra, ma addirittura per prodursi; se c'è una
geografia della verità, è quella delle sedi in cui essa si trova
(e non semplicemente dei luoghi in cui essa si situa perché sia meglio
osservata); la sua cronologia è quella delle congiunture che le permettono
di verificarsi come un avvenimento (e non quella dei momenti di cui si deve
approfittare per scorgerla, come tra due nuvole). Si potrebbe trovare nella
nostra storia una vera e propria «tecnologia» di questa verità:
localizzazione dei posti, calendario delle sue occasioni, conoscenza dei rituali
tra i quali essa si verifica. Esempio di questa geografia: Delfi, in cui la
verità parlava, il che stupiva i primi filosofi greci; i luoghi di ritiro
nell'antico monachesimo, il pulpito del predicatore o la cattedra del magistero,
l'assemblea dei fedeli. Esempio di questa cronologia: quella che troviamo molto
elaborata nella nozione medica di crisi e che è rimasta così importante
sino alla fine del diciottesimo secolo. La crisi, quale era concepita e messa
in opera, non è esattamente il momento in cui la natura profonda della
malattia risale alla superficie e si lascia vedere; è il momento in cui
il processo morboso, con la sua stessa energia, si svincola dai suoi ostacoli,
si libera da tutto ciò che poteva impedirgli di maturare e in qualche
modo si decide: si decide ad essere una cosa piuttosto che un'altra, decide
del proprio futuro (favorevole o sfavorevole). Movimento autonomo, in un certo
senso, ma al quale il medico può e deve partecipare: egli deve riunire
attorno a questa crisi tutte le congiunture che le sono favorevoli, quindi prepararla,
invocarla, suscitarla; ma deve anche coglierla come un'occasione, inserirvi
la sua azione terapeutica e ingaggiare con essa una lotta nel momento più
favorevole. La crisi può forse svolgersi senza il medico, ma se questi
vorrà intervenire dovrà farlo secondo una strategia che si adatti
ai tempi della crisi intesa come momento di verità, anche a rischio di
portare illecitamente questo momento ad una data che è favorevole a lui,
terapeuta.
Nel pensiero e nella pratica medica, la crisi era nel contempo momento fatale,
effetto di un rituale e occasione strategica. In tutt'altro ordine, anche la
prova giudiziaria era un modo per disporre il verificarsi della verità.
L'ordalia che sottoponeva l'accusato ad una prova o il duello che opponeva accusato
ad accusatore (o i loro rappresentanti) non erano un modo frusto e irrazionale
di «rivelare» la verità e di sapere ciò che era realmente
accaduto nell'affare in causa; era un modo per decidere da quale parte Dio ponesse
"attualmente" quel supplemento di fortuna o di forza che procurava
il successo ad uno dei due rivali: quel successo, se conquistato regolarmente,
avrebbe indicato a profitto di chi doveva avvenire la liquidazione del litigio.
E la posizione del giudice non era quella dell'inquisitore che cerca di scoprire
una verità nascosta e di restituirla esatta; il suo ruolo era invece
quello di organizzare il suo verificarsi, di autenticare le forme rituali nelle
quali essa era stata suscitata. La verità era l'effetto prodotto dalla
determinazione rituale del vincitore.
Possiamo quindi supporre nella nostra civiltà e lungo tutti i secoli
una vera tecnologia della verità che la prassi scientifica e il discorso
filosofico hanno a poco a poco squalificata, scoperta e scacciata. La verità
non è nell'ordine di ciò che è, ma di ciò che avviene:
avvenimento. Essa non viene costatata ma suscitata: produzione invece di rivelazione.
Essa non si dà mediante strumenti, la si produce attraverso rituali;
essa è attirata da certe astuzie, la si coglie a seconda delle occasioni:
strategia, non metodo. Da un tale avvenimento, così prodotto, all'individuo
che lo spiava e ne è colpito, il rapporto non è dall'oggetto al
soggetto di conoscenza, è un rapporto ambiguo, reversibile, bellicoso,
di padronanza, di dominio, di vittoria: un rapporto di potere.
Naturalmente questa tecnologia della verità-avvenimento-rituale-prova
sembra essere scomparsa da tempo. Ma essa è durata a lungo, essenza non
riducibile al pensiero scientifico. L'importanza dell'alchimia, la sua caparbietà
a non sparire malgrado tanti insuccessi e così infiniti tentativi, il
potere del fascino che essa ha esercitato sono dovuti forse a questo: essa ha
costituito una delle forme più elaborate di questo tipo di sapere; essa
non cercava tanto di conoscere la verità quanto di produrla secondo una
determinazione dei momenti favorevoli (da cui la sua parentela con l'astrologia),
seguendo delle prescrizioni, delle regole di comportamento e di esercizio (da
cui i suoi legami con la mistica) e proponendosi per fine una vittoria, una
padronanza, una sovranità su un segreto piuttosto che la scoperta di
un'incognita. Il sapere alchimistico è vuoto e vano nella misura in cui
lo si interroga in termini di verità rappresentata; esso è pieno
se lo si considera come un insieme di regole di strategia e di procedure, di
calcoli, di combinazioni che permettano di ottenere ritualmente la produzione
dell'avvenimento «verità».
Secondo questa prospettiva si potrebbe anche fare una storia della confessione,
nell'ordine della penitenza, della giustizia criminale e della psichiatria.
Un «buon senso» (che di fatto si basa su tutta una concezione della
verità come oggetto di conoscenza) reinterpreta e giustifica la ricerca
della confessione dicendo: se il soggetto stesso confessa il suo crimine, o
la sua colpa, o il suo folle proposito, questa è "la prova migliore,
il segno più certo". Ma storicamente, molto prima di essere considerata
una prova, la confessione era la produzione di una verità al termine
di una prova e secondo forme canoniche: confessione, rituale, supplizio, tortura.
In questa sorta di confessione, tale quale la si vede ricercata nelle pratiche
religiose, poi giudiziarie del Medioevo, il problema non era tanto che la confessione
fosse esatta e che venisse ad integrarsi come elemento supplementare alle altre
prove quanto che fosse fatta e che fosse secondo le regole. La sequenza interrogatorio-confessione
così importante nella pratica medico-giudiziaria moderna, oscilla infatti
tra un vecchio rituale della verità-prova in ordine all'avvenimento che
si verifica, e una epistemologia della verità - «constat»
in ordine all'accertamento dei segni e delle prove.
Il passaggio dalla verità - prova alla verità - «constat»
è forse uno dei processi più importanti nella storia della verità.
E la parola «passaggio» non è forse esatta. Poiché
non si tratta di due forme estranee l'una all'altra che si oppongano e di cui
una giunga ad avere la meglio sull'altra. La verità - «constat»
nella forma della conoscenza forse non è altro che un caso particolare
della verità-prova nella forma dell'avvenimento. Avvenimento che si verifica
come potenzialmente ripetibile, di diritto, all'infinito ovunque e sempre; rituale
di produzione che prende corpo in una strumentazione e in un metodo accessibili
a tutti e uniformemente efficaci; risultato che designa un oggetto permanente
di conoscenza e che qualifica un soggetto universale di conoscenza. Proprio
questa produzione singolare di verità a poco a poco ha ricoperto le altre
forme di produzione della verità o almeno ha fatto valere la sua norma
come universale. La storia di questa sovrapposizione sarebbe all'incirca la
storia stessa del sapere nella società occidentale dai tempi del Medioevo:
storia non della conoscenza ma del modo in cui la produzione della verità
ha preso forma e si è imposta la norma della conoscenza. Si possono forse
indicare tre punti di riferimento in questo processo. In primo luogo l'istituzione
e la generalizzazione della procedura d'indagine nella pratica politica e nella
pratica giudiziaria (civile o religiosa): procedura il cui risultato si determina
attraverso l'accordo di parecchi individui su di un fatto, un avvenimento, un
costume che possono, da quel momento, essere considerati come notori, cioè
che possono e debbono essere riconosciuti: fatti noti perché riconoscibili
da tutti. La forma giuridico-politica dell'indagine è correlativa allo
sviluppo dello stato e alla lenta apparizione, nel dodicesimo-tredicesimo secolo,
di un nuovo tipo di potere politico nell'elemento del feudalesimo.
La prova era un tipo di potere-sapere di carattere essenzialmente rituale; l'indagine
è un tipo di potere-sapere essenzialmente amministrativo. Proprio questo
modello, man mano che le strutture dello stato si sviluppavano, impose al sapere
la forma della conoscenza: un soggetto sovrano avente funzione di universalità
e un oggetto di conoscenza che deve essere riconoscibile da tutti in quanto
già esistente.
Il secondo grande momento si situerebbe all'epoca in cui questa procedura giuridico-politica
poté prendere corpo in una tecnologia che permetteva un'indagine di natura.
Una tecnologia fatta di strumenti non più destinati a reperire il luogo
della verità, ad affrettare e a far maturare il suo momento, ma a coglierla
in qualunque posto e in qualunque momento; strumenti atti a superare la distanza
o ad eliminare l'ostacolo che ci separa da una verità che ci attende
ovunque e da cui siamo stati attesi in ogni tempo. Questo grande capovolgimento
tecnologico data verosimilmente dall'epoca della navigazione, dei grandi viaggi,
di quella immensa «inquisizione» che non s'incentrava più
sugli uomini e sui loro beni ma sulla terra e sulle sue ricchezze; essa data
dalla conquista del mare più ancora che delle terre. Dalla nave, elemento
infinitamente mobile, il navigatore deve sapere in ogni punto e in ogni istante
dove egli si trovi; lo strumento deve essere tale che nessun istante sarà
privilegiato e che nessun luogo avrà preminenza su un altro.
Il viaggio ha introdotto l'universale nella tecnologia della verità;
le ha imposto la norma del «in qualunque momento» e «ovunque»
e conseguentemente la norma del «chiunque». La verità non
ha più bisogno di essere prodotta; dovrà lei presentarsi e ripresentarsi
ogni volta che la si cerchi.
Infine, terzo momento, negli ultimi anni del diciottesimo secolo, allorché
nell'elemento della verità accertata per mezzo di strumenti di tipo universale,
la chimica e l'elettricità permisero di produrre dei fenomeni. Questa
produzione di fenomeni nella sperimentazione è il più lontano
possibile dalla produzione di verità nella prova: poiché essi
sono ripetibili, possono e debbono essere constatati, controllati e misurati.
La sperimentazione non è altro che un'indagine condotta su fatti provocati
artificialmente; produrre fenomeni per mezzo di una attrezzatura di laboratorio
non significa suscitare ritualmente l'avvenimento della verità, è
solo un modo di accertare una verità attraverso una tecnica i cui dati
sono universali. Ormai la produzione di verità ha preso la forma della
produzione di fenomeni constatabili per ogni soggetto di conoscenza. Chiaramente,
questa grande trasformazione delle procedure del sapere accompagna i mutamenti
essenziali delle società occidentali; emergenza di un potere politico
che ha la forma dello Stato; estensione delle relazioni mercantili su scala
mondiale; messa in opera delle grandi tecniche di produzione. Ma è anche
chiaro che, in queste modificazioni del sapere, non si tratta di un soggetto
di conoscenza che venga intaccato dalle trasformazioni dell'infrastruttura ma
piuttosto di forme-di-potere-e-di-sapere, di potere-sapere che funzionano e
hanno effetto a livello di «infrastruttura» e dànno luogo
al rapporto di conoscenza (soggetto-oggetto) come norma del sapere. Ma come
norma di cui non bisogna dimenticare che è storicamente singolare.
In queste condizioni si può ben capire come essa non si
applichi senza difficoltà a tutto ciò che resiste (limiti o incertezze),
nel campo delle conoscenze, essa mette in causa la conoscenza, la forma della
conoscenza, la norma «soggetto-oggetto», essa interroga i rapporti
tra le strutture politico-economiche della nostra società e la conoscenza
(non nei suoi contenuti veri o falsi ma nelle sue funzioni di potere-sapere).
Di conseguenza crisi storico-politica.
Prendiamo per esempio la medicina, con lo spazio che le è proprio, cioè
l'ospedale. L'ospedale era rimasto fino a non molto tempo fa un luogo ambiguo:
di costatazione per una verità nascosta e di prova per una verità
da produrre. Strumento d'osservazione, l'ospedale doveva essere il luogo in
cui tutte le malattie potevano essere classificate le une rispetto alle altre,
confrontate, distinte, raggruppate in famiglie; ciascuna poteva essere osservata
nei suoi caratteri specifici, seguita nella sua evoluzione, individuata per
ciò che essa poteva avere di essenziale o di accidentale. L'ospedale:
orto botanico del Male, erbario vivente di malati. Vi si apriva uno spazio di
osservazione facile e limpido; la verità permanente delle malattie non
poteva più nascondervisi.
Ma per un altro verso si presumeva che l'ospedale esercitasse un'azione diretta
sulla malattia: non solo le permetteva di rivelare la propria verità
agli occhi del medico ma le permetteva anche di produrla.
Ospedale, luogo in cui si manifesta la vera malattia. Si supponeva infatti che
il malato lasciato allo stato libero - nel suo «ambiente», nella
sua famiglia, nella sua cerchia, con la sua dieta, le sue abitudini, i suoi
pregiudizi, le sue illusioni - non potesse essere affetto che da una malattia
complessa, confusa, aggrovigliata, una specie di malattia contro natura costituita
nello stesso tempo dalla mescolanza di parecchie malattie e dall'impedimento
per la vera malattia di manifestarsi nell'autenticità della sua natura.
Il compito dell'ospedale quindi, scartando tale vegetazione parassita e tali
forme aberranti, era non solo quello di lasciar vedere la malattia quale essa
è, ma di produrla infine nella sua verità fino a quel momento
impedita e ostacolata. La sua natura stessa, i suoi caratteri essenziali, il
suo sviluppo specifico, grazie all'effetto dell'ospedalizzazione, stavano finalmente
diventando realtà.
Si supponeva che l'ospedale del diciottesimo secolo creasse le condizioni necessarie
perché esplodesse la verità del male. Era quindi un luogo d'osservazione
e di dimostrazione ma anche di purificazione e di prova. Costituiva una sorta
di apparecchiatura complessa che doveva contemporaneamente far apparire e produrre
realmente la malattia; luogo botanico per la contemplazione della specie, luogo
anche alchimistico per l'elaborazione delle sostanze patologiche.
E' proprio questa doppia funzione che è stata assunta per molto tempo
dalle strutture ospedaliere instauratesi nel diciannovesimo secolo. E per tutto
un secolo (1760-1860) la pratica e la teoria dell'ospedalizzazione, e in senso
generale, il concetto di malattia sono stati dominati da questo equivoco: l'ospedale,
struttura di ricovero della malattia, deve essere un luogo di conoscenza o di
prova?
Di qui deriva tutta una serie di problemi che hanno pervaso la pratica e la
teoria mediche. Eccone alcuni:
1) La terapia consiste nel sopprimere il male, nel ridurlo all'inesistenza;
ma, affinché questa terapia sia razionale, perché essa possa fondarsi
sulla verità, non bisogna forse che essa permetta alla malattia di svilupparsi?
Quando bisogna intervenire e in che direzione? E quand'anche, è necessario
intervenire? Bisogna agire al fine di sviluppare la malattia o affinché
essa si arresti? Per attenuarla o per guidarla verso la sua conclusione?
2) Ci sono malattie e modificazioni di malattie. Malattie pure e impure, semplici
e complesse. Possiamo dire, alla fin fine, che esista una sola malattia di cui
tutte le altre siano forme più o meno lontanamente derivate, oppure dobbiamo
ammettere delle categorie irriducibili? (Discussione tra Broussais e i suoi
avversari a proposito della nozione di irritazione. Problema delle febbri essenziali).
3) Che cos'è una malattia normale? Che cos'è una malattia che
segue il suo decorso? Una malattia che porta alla morte o una malattia che guarisce
spontaneamente, una volta terminata la sua evoluzione? In questo senso s'interrogava
Bichat, sulla posizione della malattia tra la vita e la morte.
Sappiamo quale prodigiosa semplificazione la biologia pasteuriana abbia introdotto
in tutti questi problemi. Determinando l'agente del male e isolandolo come organismo
singolare, essa ha fatto sì che l'ospedale divenisse un luogo d'osservazione,
di diagnosi, d'individuazione clinica e sperimentale, ma anche d'intervento
immediato, di contrattacco sferrato alla invasione microbica.
In quanto alla funzione della prova, si capisce come essa possa sparire. Il
luogo in cui la malattia si manifesterà, sarà il laboratorio,
la provetta; ma a questo punto la malattia non si effettua più nel corso
di una crisi; se ne riduce il processo a un meccanismo che si ingrandisce, la
si riconduce a un fenomeno verificabile e controllabile. L'ambiente ospedaliero
non deve più essere il luogo favorevole ad un avvenimento decisivo; esso
permette semplicemente una riduzione, un transfert, un ingrossamento, una costatazione;
le prove si trasformano in prova all'interno della struttura tecnica del laboratorio
e nella rappresentazione del medico.
Se si volesse fare una «etno-epistemologia» del personaggio medico,
bisognerebbe dire che la rivoluzione di Pasteur l'ha privato del suo ruolo presumibilmente
millenario nella produzione rituale e nella prova della malattia. E la sparizione
di questo ruolo è probabilmente stata resa più drammatica per
il fatto che Pasteur non ha dimostrato semplicemente che il medico non doveva
essere il produttore della malattia «nella sua verità» ma
che, per ignoranza della verità stessa, egli ne era stato, migliaia di
volte, il propagatore e il riproduttore: il medico d'ospedale, andando di letto
in letto, era uno dei maggiori agenti del contagio. Pasteur aveva inferto ai
medici una formidabile ferita narcisistica che essi impiegarono molto a perdonargli:
quelle mani di medico che dovevano percorrere il corpo del malato, palparlo,
esaminarlo, quelle mani che dovevano scoprire la malattia, metterla a fuoco,
mostrarla, Pasteur le aveva designate come portatrici del male. Lo spazio ospedaliero
e il sapere del medico fino a quel momento avevano avuto il compito di produrre
la verità critica della malattia ed ecco che il corpo del medico, l'affollamento
dell'ospedale apparivano come gli artefici della realtà della malattia.
Rendendo asettico il medico e l'ospedale si è data loro una nuova innocenza
da cui hanno ricavato nuovi poteri e un nuovo statuto nella mente degli uomini.
Ma è un'altra storia.
Queste poche annotazioni possono aiutare a capire la posizione
del pazzo e dello psichiatra all'interno dello spazio manicomiale.
C'è verosimilmente una correlazione storica tra due fatti: prima del
diciottesimo secolo, la follia non era sistematicamente internata; in sostanza
era considerata come un aspetto dell'errore o dell'illusione. Ancora agli inizi
dell'età classica la follia era concepita come appartenente alle chimere
del mondo; poteva vivere in mezzo ad esse e non doveva esserne separata che
quando giungeva a forme estreme o pericolose. In queste condizioni si capisce
come il luogo privilegiato in cui la follia poteva o doveva scoppiare nel momento
della sua verità non potesse essere lo spazio artificiale dell'ospedale.
Il luogo terapeutico riconosciuto era in primo luogo la natura, poiché
essa costituiva la forma visibile della verità; essa aveva in sé
il potere di dissipare l'errore, di fare svanire le chimere. Le cure che i medici
ordinavano erano quindi il viaggio, il riposo, la passeggiata, il luogo appartato,
il distacco netto col mondo artificioso e vacuo della città. Esquirol
se ne rammenterà quando nel progettare un ospedale psichiatrico si raccomandava
perché ogni cortile si aprisse ampiamente sulla vista di un giardino.
L'altro luogo terapeutico utilizzato era il teatro, natura capovolta: si recitava
al malato la commedia della propria follia, la si portava sulle scene, le si
prestava un attimo di realtà fittizia, a forza di scenografie e travestimenti
la si presentava come vera ma in modo tale che l'errore, messo alle strette,
finisse per balzare agli occhi perfino di colui che ne era la vittima. Neppure
questa tecnica era del tutto scomparsa nel diciannovesimo secolo; Esquirol,
per esempio, raccomandava di inventare dei processi ai malinconici per stimolare
le loro energie e il gusto per la lotta.
La pratica dell'internamento agli inizi del diciannovesimo secolo coincide col
momento in cui la follia è recepita non tanto in rapporto all'errore
quanto in rapporto ad un comportamento regolare e normale; in cui essa appare
non più come mente sconvolta ma come turba nel modo di comportarsi, di
volere, di provare delle passioni, di prendere delle decisioni e di essere libero;
insomma quando essa si inscrive non più sull'asse verità-errore-coscienza,
ma sull'asse passione-volontà-libertà; momento di Hoffbauer e
di Esquirol. «Ci sono degli alienati il cui delirio è appena visibile;
non ce ne sono affatto in cui le passioni, gli affetti morali non siano disordinati,
pervertiti o annientati... La diminuzione del delirio è un segno certo
di guarigione solo allorché gli alienati ritornano ai loro primi affetti»
(Esquirol). Qual è infatti il processo della guarigione? Forse il movimento
per cui l'errore si dissipa e la verità spunta di nuovo? Nient'affatto;
ma piuttosto «il ritorno degli affetti morali nei loro giusti limiti,
il desiderio di rivedere i propri amici, i propri figli, le lacrime della sensibilità,
la necessità di aprire il proprio cuore, di ritrovarsi in mezzo alla
propria famiglia, di riprendere le proprie abitudini».
Quale potrà essere allora la funzione del manicomio in questo movimento
di ritorno dei comportamenti normali? Certamente, avrà innanzitutto il
ruolo che era proprio degli ospedali alla fine del diciottesimo secolo: permettere
di scoprire la verità della malattia mentale, allontanare tutto ciò
che nell'ambiente del malato può mascherarla, mescolarla, darle delle
forme aberranti, mantenerla anche e scovarla. Ma ancor prima di essere un luogo
di rivelazione della verità, l'ospedale di cui Esquirol ha offerto un
modello, è un luogo di scontro; la follia, volontà sconvolta,
passione pervertita, deve incontrarvi una volontà retta e delle passioni
ortodosse. Il loro affrontarsi, il loro urto inevitabile, e a dire il vero auspicabile,
produrranno due effetti; la volontà malata, che poteva benissimo restare
inafferrabile poiché non si esprimeva in alcun delirio, manifesterà
in piena luce il suo male attraverso la resistenza che opporrà alla ferma
volontà del medico; e d'altronde, la lotta che s'ingaggerà a partire
da quel momento, se ben condotta, dovrà portare alla vittoria della retta
volontà, alla sottomissione, alla rinuncia della volontà turbata.
Un processo quindi di opposizione, di lotta, di dominio. «Si deve applicare
un metodo perturbatore, spezzare lo spasmo con lo spasmo... Bisogna soggiogare
l'intero carattere di certi malati, vincere le loro pretese, domare il loro
trasporto, spezzare il loro orgoglio mentre si devono incitare, spronare gli
altri».
Così si pongono le premesse della stranissima funzione dell'ospedale
psichiatrico del diciannovesimo secolo; sede di diagnosi e di classificazione,
rettangolo botanico in cui le varie specie di malattie vengono suddivise in
piccoli appezzamenti la cui disposizione ricorda un vasto orto; ma anche spazio
recintato per uno scontro, luogo di tenzone, campo istituzionale in cui sono
in gioco vittoria e sottomissione. Il grande medico psichiatrico - si tratti
di Leuret, Charcot o Kraepelin - è colui che può dire la verità
della malattia in virtù del sapere che ha su di lei e nello stesso tempo
è colui che può realizzare la malattia nella sua verità
e sottometterla nella sua realtà in virtù del potere che la sua
volontà esercita sul malato stesso.
Tutte le tecniche o procedure messe in atto nei manicomi del diciannovesimo
secolo - l'isolamento, l'interrogatorio privato o pubblico, le cure-punizioni
come la doccia, le conversazioni morali (incoraggiamenti o rimostranze), la
disciplina rigorosa, il lavoro obbligatorio, le ricompense, i rapporti preferenziali
tra medico e certi suoi malati, le relazioni di vassallaggio, di possesso, di
dominio, di confidenza, talvolta di servilismo, tra il malato e il medico -,
tutto questo tendeva a fare del personaggio medico il «maestro della follia»:
colui che la fa apparire nella sua verità (quando si nasconde, quando
resta sepolta e silenziosa), colui che la domina, la calma e la riassorbe dopo
averla sapientemente scatenata. Diciamo dunque in modo schematico: nell'ospedale
pasteuriano, la funzione «produrre la verità» della malattia
non ha cessato di attenuarsi; il medico produttore di verità sparisce
in una struttura di conoscenza. Invece, nell'ospedale di Esquirol o di Charcot,
la funzione «produzione di verità» s'ipertrofizza, si esalta
attorno alla figura del medico. E tutto ciò in un gioco in cui è
in causa il prepotere del medico. Charcot, taumaturgo dell'isterismo è
indiscutibilmente il personaggio più altamente rappresentativo di questo
tipo di funzionamento.
Ora, questa esaltazione si verifica in un'epoca in cui il potere medico trova
le sue garanzie e le sue giustificazioni nei privilegi della conoscenza: il
medico è competente, il medico conosce le malattie e il malato, egli
detiene un sapere scientifico che è dello stesso tipo di quello del chimico
o del biologo: ecco ciò che attualmente lo determina ad intervenire e
a decidere. Il potere che l'ospedale dà allo psichiatra dovrà
trovare la sua giustificazione (e nello stesso tempo mascherarsi come prepotere
primordiale) producendo dei fenomeni integrabili alla scienza medica. Si capisce
perché la tecnica dell'ipnosi e della suggestione, il problema della
simulazione, la diagnosi differenziale tra malattia organica e malattia psicologica
siano stati per così lunghi anni (dal 1860 al 1890 almeno) al centro
della pratica e della teoria psichiatrica. Il punto di perfezione, troppa miracolosa
perfezione, è stato raggiunto quando le malate di Charcot si sono messe
a riprodurre, su richiesta del potere-sapere medico, una sintomatologia ricalcata
sull'epilessia, suscettibile cioè di essere interpretata, conosciuta
e riconosciuta in termini di malattia organica.
Episodio decisivo in cui si ridistribuiscono e vengono a sovrapporsi esattamente
le due funzioni dell'ospedale (prova e produzione della verità da un
lato- accertamento e conoscenza dei fenomeni dall'altro). Il potere del medico
gli permette ormai di produrre la realtà di una malattia mentale la cui
peculiarità è quella di riprodurre dei fenomeni interamente accessibili
alla conoscenza. L'isterica era la malata perfetta, poiché essa "offriva
materiale di conoscenza": essa stessa ritrascriveva gli effetti del potere
medico in forme che il medico poteva descrivere secondo un discorso scientificamente
accettabile. In quanto al rapporto di potere che rendeva possibile tutta questa
operazione, come avrebbe potuto essere scoperto nel suo ruolo determinante poiché
- somma virtù dell'isterismo, docilità impareggiabile, vera santità
epistemologica - le malate stesse se ne assumevano il compito e ne accettavano
la responsabilità: esso appariva nella sintomatologia, come suggestionabilità
malata. Tutto si spiegava ormai nella limpidità della conoscenza tra
il soggetto conoscente e l'oggetto conosciuto.
Ipotesi: la crisi fu aperta, e s'iniziò, appena abbozzata,
l'età dell'antipsichiatria allorché si ebbe il sospetto e ben
presto la certezza che Charcot produceva effettivamente la crisi isterica che
egli descriveva. Abbiamo allora pressapoco l'equivalente della scoperta fatta
da Pasteur secondo la quale il medico trasmetteva le malattie che era invece
tenuto a combattere.
In ogni caso mi sembra che tutte le grandi scosse che hanno fatto vacillare
la psichiatria dalla fine del diciannovesimo secolo, sostanzialmente abbiano
messo in discussione il potere del medico; il suo potere e l'effetto che produceva
sul malato, ancor più del suo sapere e della verità di ciò
che egli diceva della malattia. Per essere più precisi, da Bernheim a
Laing o a Basaglia, si è trattato soprattutto del modo in cui il potere
del medico era implicato nella verità di ciò che egli affermava
e inversamente del modo in cui quest'ultima poteva essere costruita e compromessa
dal suo potere. Cooper ha detto: «La violenza è l'essenza del nostro
problema»; e Basaglia: «La caratteristica di queste istituzioni
(scuola, fabbrica, ospedale) è una separazione netta tra coloro che detengono
il potere e coloro che non lo detengono affatto». Tutte le grandi riforme
non solo della prassi psichiatrica, ma del pensiero psichiatrico, si situano
in questo rapporto di potere; esse costituiscono altrettanti tentativi di spostarlo,
mascherarlo, eliminarlo, annullarlo. L'insieme della psichiatria moderna è,
tutto sommato, percorsa dall'antipsichiatria, se si intende con questo termine
tutto ciò che pone in discussione il ruolo dello psichiatra incaricato,
in altri tempi, di "produrre la verità della malattia" nello
spazio ospedaliero.
Si potrebbe quindi parlare degli antipsichiatri che hanno attraversato la storia
della psichiatria moderna. Ma è forse meglio distinguere con cura due
processi che sono perfettamente distinti dal punto di vista storico, epistemologico
e politico.
Prima di tutto c'è stato il movimento di depsichiatrizzazione. E' quello
che compare subito dopo Charcot. Si tratta allora non tanto di annullare il
potere del medico, quanto di spostarlo in nome di un sapere più esatto,
di dargli un altro punto di applicazione e delle nuove misure. Depsichiatrizzare
la medicina mentale per ristabilire nella sua giusta efficacia un potere medico
che l'imprudenza (o l'ignoranza) di Charcot aveva trascinato in una produzione
abusiva di malattie, quindi di finte malattie.
1) Una prima forma di depsichiatrizzazione incomincia con Babinski in cui essa
trova il proprio eroe critico. Piuttosto che cercare di produrre teatralmente
la verità della malattia, è meglio cercare di ridurla alla sua
stretta realtà che forse, spesso non è altro che l'attitudine
a lasciarsi teatralizzare: pitiatismo. Ormai, il rapporto di dominio del medico
sul malato, non solo non perderà nulla del suo rigore, ma il suo rigore
stesso condurrà alla "riduzione" della malattia al suo minimo
indispensabile: i segni necessari e sufficienti perché essa possa essere
diagnosticata come malattia mentale e le tecniche indispensabili perché
queste manifestazioni spariscano.
Si tratta in qualche modo di pasteurizzare l'ospedale psichiatrico, di ottenere
nel manicomio lo stesso effetto di semplificazione che Pasteur aveva imposto
agli ospedali: articolare direttamente l'una sull'altra la diagnosi e la terapia,
la conoscenza della natura della malattia e la soppressione delle sue manifestazioni.
Il momento della prova, quello in cui la malattia si manifesta nella sua verità
e giunge al suo compimento, quel momento non ha più da figurare nel processo
medico. L'ospedale può diventare un luogo silenzioso in cui la forma
del potere medico si mantiene in ciò che vi è di più rigoroso
senza però che debba incontrare od affrontare la follia stessa. Chiamiamo
questa forma «asettica» e «asintomatica» di depsichiatrizzazione
una psichiatria di produzione "zero". La psico-chirurgia e la psichiatria
farmacologica ne sono le due forme più considerevoli.
2) Altra forma di depsichiatrizzazione, esattamente inversa alla precedente.
Si tratta di rendere il più possibile intensa la manifestazione della
pazzia nella sua verità, ma facendo sì che i rapporti di potere
tra medico e malato siano esattamente investiti in questa produzione della pazzia,
che essi restino adeguati ad essa, che non si lascino superare da essa, e che
possano conservarne il controllo. La prima condizione necessaria perché
si conservi questo potere medico «depsichiatrizzato», è la
messa al bando di tutti gli effetti propri dello spazio manicomiale. Bisogna
innanzi tutto evitare l'insidia nella quale era caduta la taumaturgia di Charcot;
impedire che l'obbedienza ospedaliera si burli dell'autorità medica,
e che in questo luogo di complicità e di oscuri saperi collettivi, la
scienza sovrana del medico resti presa in ingranaggi che essa possa involontariamente
aver prodotto. Quindi regola del colloquio a due, regola della libera contrattazione
tra il malato e il medico; quindi regola della limitazione di tutti gli effetti
del rapporto a solo livello di discorso («non ti chiedo che una cosa,
cioè di dire, ma dire effettivamente ciò che ti passa per la testa»);
quindi regola della libertà discorsiva («non potrai più
vantarti di ingannare il tuo medico, poiché non risponderai più
a domande che ti vengono poste; dirai quello che ti viene in mente, non dovrai
neppure chiedermi che cosa ne penso, e se vuoi ingannarmi infrangendo questa
norma io non sarò ingannato realmente; tu stesso ti sarai messo in trappola,
poiché avrai turbato la produzione della verità e aumentato di
alcune sedute la cifra che mi devi»); dunque regola del divano che considera
reali solo gli effetti prodotti in quel luogo privilegiato e durante quell'ora
singolare in cui si esercita il potere del medico - potere unilaterale, privo
di rimando, in quanto agisce completamente nel silenzio e in modo invisibile.
La psicanalisi può essere storicamente interpretata come l'altra grande
forma di depsichiatrizzazione provocata dal traumatismo-Charcot: rifugio al
di fuori dello spazio manicomiale per cancellare gli effetti paradossali del
prepotere psichiatrico; ma ricostituzione del potere medico, produttore di verità,
in uno spazio approntato affinché questa produzione resti sempre adeguata
a questo potere. La nozione di transfert, come processo essenziale alla cura,
è un modo di pensare concettualmente questo adeguamento nella forma della
conoscenza; il versamento di una cifra di denaro, contropartita monetaria del
transfert, è un modo di garantirlo nella realtà: un modo di impedire
che la produzione della verità diventi un contropotere che insidia, annulla,
rovescia il potere del medico stesso.
A queste due grandi forme di depsichiatrizzazione, tutte e due conservatrici
del potere, l'una perché annulla la produzione della verità, l'altra
perché tenta di rendere adeguati sia la produzione della verità
che il potere medico, si oppone l'antipsichiatria. Piuttosto che di un rifugio
al di fuori dello spazio manicomiale, si tratta della sua distruzione sistematica
attraverso un lavoro interno; e si tratta di trasferire al malato stesso il
potere di produrre la sua follia e la verità della sua follia, piuttosto
che di cercare di ridurlo a zero. A partire da questo momento si può
capire, credo, ciò che è in gioco nell'antipsichiatria e che non
è affatto il valore di verità della psichiatria in termini di
conoscenza (di precisione diagnostica o di efficacia terapeutica).
Al centro dell'antipsichiatria, la lotta con, in e contro l'istituzione. Quando
all'inizio del diciannovesimo secolo si istituirono le grandi strutture manicomiali,
esse furono giustificate dalla meravigliosa armonia tra le esigenze dell'ordine
sociale - che chiedeva di essere protetto contro il disordine dei pazzi - e
le necessità terapeutiche, che richiedevano l'isolamento dei malati (1).
Cinque erano i motivi principali che Esquirol adduceva per giustificare l'isolamento
dei pazzi: 1) provvedere alla loro sicurezza personale e a quella delle loro
famiglie; 2) liberarli dalle influenze esterne; 3) vincere le loro resistenze
personali; 4) sottoporli di forza a un regime medico; 5) imporre loro nuove
abitudini intellettuali e morali. Come si vede è tutta una questione
di potere: dominare il potere del pazzo, neutralizzare i poteri esterni che
possono influenzarlo; stabilire su di lui un potere di terapia e di ammaestramento,
di «ortopedia».
Or dunque è proprio l'istituzione, in quanto luogo, forma di distribuzione
e meccanismo di questi rapporti di potere che l'antipsichiatria critica a fondo.
Con il pretesto di un internamento che permetta in un luogo asettico di constatare
ciò di cui si tratta e d'intervenire dove, quando e come occorre, essa
fa insorgere rapporti di dominio propri alla relazione istituzionale: «il
puro potere del medico - dice Basaglia constatando nel ventesimo secolo gli
effetti delle prescrizioni di Esquirol - aumenta tanto vertiginosamente quanto
diminuisce il potere del malato; questi, per il semplice fatto di essere internato,
diventa un cittadino senza diritti, alla mercé del medico e degli infermieri
che possono fare di lui quello che vogliono senza possibilità di appello».
Mi sembra che si potrebbero inquadrare gli aspetti diversi dell'antipsichiatria
a seconda della loro strategia nei confronti di questi giochi del potere istituzionale:
sfuggire loro sotto forma di un contratto duale e liberamente consentito da
ambedue le parti (Szasz); approntare un luogo privilegiato in cui esse devono
essere sospese o inseguite qualora vengano a ricostituirsi (Kingsley Hall);
individuarle ad una ad una e distruggerle progressivamente all'interno di un'istituzione
di tipo classico (Cooper al Reparto 21); riallacciarle alle altre relazioni
di potere che avevano contribuito all'esterno dell'ospedale a determinare la
segregazione di un individuo come malato mentale (Gorizia). In ogni modo le
relazioni di potere che utilizzavano tutti i rapporti all'interno del manicomio
e imponevano loro un sistema di costrizione valevole sia come regola di funzionamento
dell'istituzione che come principio d'intervento medico diventano esse stesse,
nell'antipsichiatria, l'oggetto primordiale di un intervento comune a tutti
coloro che hanno nell'ospedale il loro luogo di vita o di lavoro. Necessariamente
sono diventate bersaglio.
Le relazioni di potere costituivano l'«a priori» della pratica psichiatrica:
esse condizionavano il funzionamento dell'istituzione manicomiale, esse vi distribuivano
i rapporti tra gli individui, esse gestivano le forme dell'intervento medico.
Inversamente è proprio dell'antipsichiatria situarle al centro del campo
problematico e di interrogarle in modo primordiale.
Ora, ciò che era implicito, in primo luogo, in queste relazioni di potere,
era il diritto assoluto della non-pazzia sulla pazzia. Diritto esercitato nei
termini della competenza sull'ignoranza, del buon senso (di accesso alla realtà),
della normalità che s'impone sul disordine e la devianza. E' questo triplice
potere che faceva della follia un oggetto di conoscenza possibile per una scienza
medica, che la qualificava come malattia nel momento stesso in cui il «soggetto»
colpito da questa malattia si trovava squalificato come pazzo, vale a dire spogliato
di qualsiasi potere e sapere in quanto malato. «La tua sofferenza e la
tua singolarità, sappiamo di loro abbastanza cose (che tu neanche immagini)
per capire che si tratta di una malattia; ma questa malattia, la conosciamo
abbastanza per sapere che tu non puoi esercitare su di essa e nei suoi riguardi
alcun diritto. La tua pazzia, la nostra scienza ci permette di chiamarla malattia
e perciò, noi medici siamo qualificati per intervenire e diagnosticare
in te una pazzia che ti impedisce di essere un malato come gli altri: dunque
tu sarai un malato mentale». Questo gioco di un rapporto di potere che
dà origine ad una conoscenza sulla quale si basano di rimando, i diritti
di questo potere, caratterizza la psichiatria «classica». E' proprio
questo circolo chiuso che l'antipsichiatria si accinge a sciogliere: affidando
all'individuo il compito e il diritto di gestire la propria follia, fino in
fondo, in una esperienza alla quale possono contribuire anche gli altri, mai
però in nome di un potere conferito dalla loro ragione o dalla loro normalità;
separando i comportamenti, le sofferenze, i desideri dallo statuto medico che
era stato loro assegnato, affrancandoli da una diagnosi e da una sintomatologia
che non avevano semplicemente valore di classificazione, ma di decisione e di
decreto; invalidando infine la grande trascrizione della follia in malattia
mentale, intrapresa a partire dal diciassettesimo secolo e finita nel diciannovesimo.
La demedicalizzazione della pazzia è relativa a questo primordiale porre
in causa il potere nella pratica antipsichiatrica.
In ciò si misura l'opposizione di quest'ultima alla «depsichiatrizzazione»
che mi sembra caratterizzare sia la psicanalisi che la psico-farmacologia: ambedue
si avvalgono piuttosto di una surmedicalizzazione della follia. Ed ecco che
nasce il problema dell'eventuale affrancamento della follia in rapporto a quella
singolare forma di potere-sapere che è la conoscenza. E' possibile che
la produzione della verità della follia possa effettuarsi in forme che
non sono quelle del rapporto di conoscenza? Problema fittizio, si dirà,
problema che trova il suo motivo di esistere solo nell'utopia. In realtà
esso si pone concretamente tutti i giorni a proposito del ruolo del medico,
del soggetto statutario di conoscenza, nell'impresa di depsichiatrizzazione.
[Traduzione di Clara Tarroni].