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LA CONTRADDIZIONE PSICHIATRICA
di Robert Castel.


"La psichiatria è da considerarsi l'espressione di un sistema che ha finora creduto di negare ed annullare le proprie contraddizioni allontanandole da sé, rifiutandone la dialettica, nel tentativo di riconoscersi ideologicamente come una società senza contraddizioni. Se il malato è l'unica realtà cui ci si debba riferire, si devono affrontare le due facce di cui tale realtà è appunto costituita: quella del suo essere un malato, con una problematica psicopatologica (dialettica e non ideologica) e quella del suo essere un escluso, uno stigmatizzato sociale".
FRANCO BASAGLIA, "L'istituzione negata".

La psichiatria è la pratica di una contraddizione. Tanto per cominciare, diciamo, schematicamente, tra una finalità terapeutica proclamata altamente e certe funzioni politico-amministrative di controllo sociale. Ma non per questo la medicina mentale è necessariamente cosciente di tale contraddizione. Tutt'altro: lo psichiatra si ritiene quasi sempre uno specialista e colla sua competenza si sforza di trattare il più «scientificamente» possibile la malattia mentale. Tradizionalista, egli cerca il modello della sua pratica nella medicina classica. Progressista, egli inventa nuovi modi d'intervento più adeguati, più efficaci ed i più lontani possibile dallo schema medico tradizionale (oggi spetta soprattutto alla psicanalisi fornire tali risorse). Però in ambedue i casi l'operazione specifica della medicina mentale consiste nello "spostare" la difficoltà insita nella sua esistenza. Essa agisce "come se" qualche perfezionamento della scienza o qualche avveduta innovazione istituzionale potessero portare ad una soluzione del problema.
Quando due elementi antitetici coesistono in una data situazione ed il loro contrasto non può essere superato senza trasformare la situazione stessa, vi è contraddizione. Non sussistendo una possibilità di trasformazione, qual è il margine di manovra che resta ai soggetti inseriti nella contraddizione? Il più sovente, essi operano su uno dei termini della stessa, quello più accessibile, negando, sottovalutando o dando una soluzione verbale alla presenza del l'altro. Ciò non vuol dire che la loro opera sia irrisoria, inutile o intrinsecamente cattiva. Ma la loro pratica, per quanto rigorosa, resta parziale. Investendo un solo elemento della contraddizione, non la "risolve". In compenso, invalidando l'altro termine, la "ricopre" totalmente. In ciò consiste propriamente l'illusione dell'operatore, e così la sua pratica più concreta, più sobria, e, perché no, più onesta diventa mistificante: egli crede di aver serrato tutte le difficoltà del suo compito nella rete del dispositivo d'intervento che mette in opera. Ma proprio per questo fatto l'aporia che sottende la sua pratica si trova già "spostata" altrove.
Vorrei ora dimostrare che questa è la situazione generale della psichiatria. E cioè che non si tratta affatto di un'ideologia, poiché questo termine è pericoloso, ma di una "pratica di sostituzione", vale a dire, in una data misura, di una "copertura tecnica" ad un problema di potere che in primo luogo si pone altrove. Anzi: che questo slittamento di una contraddizione socio-politica in una soluzione tecnico-scientifica è il "problema fondamentale" connesso storicamente all'esistenza di una medicina mentale ed ancor oggi questa rinnova ogni giorno la sua operazione autocostitutiva. Quindi non farò altro che commentare la frase di Franco Basaglia citata in testa a questo discorso. Non ch'io pretenda in questo modo di formulare la teoria della sua pratica. Ma questa esigenza di tenere "insieme" e di lavorare "insieme" i due termini antagonisti della contraddizione mi sembra caratterizzi precisamente l'originalità della sua posizione in seno alle correnti psichiatriche (ed anche di quelle cosiddette antipsichiatriche) contemporanee. V'è forse qualcun altro che non ha operato questa scelta: far rientrare la «malattia mentale» in una dimensione medica o farla rientrare in una dimensione politica? Ma questa non-scelta (cioè la scelta fatta da Basaglia di non ridurre la contraddizione ad una alternativa semplice o ad un rovesciamento astratto della problematica psichiatrica tradizionale) rivela qual è la posta in gioco e la difficoltà di una psichiatria politica. Non si tratta di realizzare il progetto impossibile di politicizzare direttamente il rapporto psichiatrico. Si tratta piuttosto di adempiere ad un compito quotidiano: ritrovare nella pratica la dimensione politica della contraddizione "ricoperta" dalla psichiatria.

Questa contraddizione è quindi vecchia quanto la psichiatria stessa. La denominazione di «medicina speciale» con cui la disciplina nascente si è autoqualificata all'inizio dell'Ottocento ne è già un indizio. Essendo la prima specializzazione medica istituzionalizzata (a parte la chirurgia, per ragioni storiche particolarissime ed antichissime), la medicina mentale si rende conto subito di non essere una «specialità» fra tante altre, cioè non si accontenta di delimitare uno spazio nell'insieme omogeneo che costituirebbe «il patologico» (come fa la patologia del cuore, o dei polmoni eccetera, anche quella del cervello) (1).
Ecco ad esempio ciò che dice Esquirol, il più grande e uno dei primi «veri» psichiatri, nel senso che egli rappresenta la prima generazione di medici che si sia dedicata esclusivamente alla malattia mentale (Pinel era ancora un generico ante litteram il quale fu indotto progressivamente a lasciar sempre più posto agli «insensati» nella sua pratica): «Il problema dell'isolamento si ricollega agli interessi più cari dell'uomo considerato come malato, come membro della famiglia e della società. Qui risalta la gravità della malattia che espone chi ne è colpito ad essere privato degli oggetti, dei suoi più cari affetti, ad essere contrariato nei suoi desideri, nell'esercizio dei suoi diritti civili e della sua libertà. Qui si manifesta l'importanza della funzione del medico chiamato a giudicare se un individuo debba essere posto al di fuori del diritto comune» (2).
Non si potrebbe essere più chiari. Il linguaggio del secolo diciannovesimo conserva ancora l'eco delle lotte contro l'assolutismo regio. Quindi la contraddizione, ben più chiaramente che nella nostra epoca di confusionismo psicologico-psicanalitico, dà il senso della sua diretta istanza giuridico-politica: da un lato, esigenza della «sicurezza pubblica», dall'altro, «libertà delle persone». La metà delle ampie discussioni che hanno accompagnato in Francia la votazione della famosa legge del 1838, e la cui raccolta occupa due grossi e fitti volumi, verte esplicitamente su questa opposizione (3).
Ma ecco propriamente il punto cruciale. "Per il solo fatto ch'essa esiste, alla psichiatria viene attribuito il compito di risolvere la contraddizione ch'essa esprime". Il solo fatto di collocarla così, cioè nel quadro di una problematica "riducibile alla medicina", sposta infatti l'aporia, costituita dall'opposizione di due principi, nel campo di un problema che va a cercare una soluzione nell'ambito di una competenza specialistica.
Seguiamo ancora Esquirol. Per lui, come si è visto, la specificità della medicina mentale e la gravità dei problemi che essa solleva dipendono dal fatto che essa richiede "l'isolamento". Che cos'è l'isolamento? Ai suoi occhi è anzitutto una misura "terapeutica" basata sulla necessità "medica" di frenare la principale manifestazione della malattia mentale, il delirio: «L'isolamento degli alienati ("sequestro, confino") consiste nel sottrarre l'alienato a tutte le sue abitudini, allontanandolo dai luoghi dove abita, separandolo dalla famiglia, dagli amici, dai servitori; circondandolo di estranei; cambiando il suo tenore di vita. Scopo dell'isolamento è modificare la direzione viziosa dell'intelligenza e degli affetti degli alienati: è il mezzo più energico e di solito il più utile per combattere le malattie mentali» (4).
L'isolamento è quindi la misura più giustificata dal punto di vista medico, nel quadro di una rappresentazione della pazzia come malattia. E' imposto, secondo Esquirol, dalla serietà del disturbo, cioè dalla gravità del danno psichico.
Ma isolamento vuol dire anche "sequestro". Pure Esquirol lo sa, ed è tanto onesto da ricordarlo fra parentesi. Egli sa inoltre che, da parte di altre forze sociali agenti in questa prima metà del diciannovesimo secolo, un tale sequestro è richiesto insistentemente per altre ragioni che non quelle sanitarie. Nel 1818 egli conduce già un'inchiesta sulla situazione degli alienati. Agiva su richiesta del ministro degli interni, preoccupato per gli innumerevoli problemi di ordine amministrativo, giuridico e finanziario posti dagli «insensati» (5).
Col tempo, gli organi amministrativi diventano sempre più impazienti. Gli incaricati del mantenimento dell'ordine chiedono disposizioni efficaci per controllare quella decina di migliaia di individui per cui non è prevista alcuna istituzione specifica, che non hanno un preciso stato giuridico e per la cui sussistenza non si reperiscono i mezzi necessari. Il 29 giugno 1835 il ministro degli interni, facendosi anche portavoce delle preoccupazioni del suo collega alla giustizia, indirizza ai prefetti la seguente circolare: «La sicurezza pubblica si trova spesso compromessa dagli insensati a piede libero: omicidi, incendi sono da loro perpetrati. Il ministro della giustizia chiede il concorso dell'autorità amministrativa; è indispensabile che l'amministrazione si occupi seriamente dei mezzi per regolare questa importante branca del pubblico servizio» (6).
Anche da questa parte tutto è perfettamente chiaro. Le difficoltà sono un po' quelle che si presentano durante un'epidemia; esse vengono risolte colla misura amministrativa della "quarantena". Ma la quarantena presenta meno problemi, essendo eccezionale e limitata nel tempo, mentre l'alienazione mentale crea difficoltà quotidiane e permanenti. I suoi sintomi sono spesso incerti e le sue manifestazioni imprevedibili. In tal caso il sequestro rischia di sembrare "arbitrario". Già certi avvocati si agitano e parlano di violazione del diritto della persona. Nel corso della discussione del primo progetto di legge presentato nel 1837 dal ministro degli interni, un deputato agita lo spettro di «nuove bastiglie». In quell'epoca, questo linguaggio non lascia indifferenti neanche i sudditi moderati di una monarchia costituzionale.
Ma, quasi per un effetto provvidenziale, si sviluppa contemporaneamente una medicina mentale. Essa verrà ad occupare e coprire lo spazio di questo contrasto fra i responsabili della «sicurezza pubblica» e i difensori della «libertà della persona». Più precisamente, le due nozioni «scientifiche» che essa principalmente elabora in questo periodo getteranno un ponte fra le opposte istanze nascondendone l'incompatibilità (7). Da un lato, come si è visto, la nozione d'"isolamento", misura di segregazione giustificata dalla necessità, come dice Esquirol, per «dare una diversione al delirio». D'altro lato la nozione di «istituto speciale», che costituisce l'apporto principale di Pinel, ripreso ed approfondito da tutti i suoi seguaci. Pinel, per riorganizzare Bicêtre prima e poi la Salpêtrière su «base medica», ha proceduto ad una classificazione ordinata dei reclusi in funzione dei principali sintomi che essi manifestano. E così lo spazio dell'istituzione è stato strutturato secondo le categorie nosografiche. Pinel ha fatto di questa classificazione il criterio che distingue lo scopo curativo dall'intervento repressivo. Questa struttura medico-istituzionale è diventata per tutta la psichiatria nascente la base necessaria di ogni trattamento ragionato della pazzia.
Si ha quindi, molto schematicamente, da un lato l'esigenza amministrativo-poliziesca del "sequestro" e dall'altro le nozioni medico-umanistiche di "isolamento" e di "istituto speciale". L'"internamento" o "ricovero" («d'ufficio» o «volontario») è la felice sintesi di questi due orientamenti. Sequestro quindi (e nel caso di ricovero d'ufficio altrettanto obbligatorio quanto qualsiasi misura di polizia) ma in un «istituto speciale» che assicura «l'isolamento» necessario per «dare una diversione» al delirio e che sarà organizzato secondo le esigenze del «trattamento morale», cioè reso in tutto e per tutto conforme alla medicina secondo i criteri della scienza psichiatrica dell'epoca. Lo spazio di detenzione è il migliore ambiente terapeutico e, viceversa, l'asilo terapeutico è un luogo di detenzione efficace quanto la migliore prigione. Tutta la psichiatria francese vivrà per un secolo basandosi su questa nozione di ricovero o internamento elaborata nella legge del 1838 con straordinaria sottigliezza e minuziosità. Il potere-sapere medico si è perfettamente saldato con l'autorità repressiva, ma lo spettro dell'arbitrio è allontanato, essendo l'operazione coperta dalla razionalità della medicina. Gli «sventurati insensati» godono del miglior trattamento possibile sotto la garanzia dei migliori specialisti, la cui rispettabilità è irreprensibile; in pari tempo questi psichiatri s'impongono come gruppo sociale indispensabile. «Fortunata coincidenza - dice mirabilmente il relatore della legge del 1838 alla Camera dei Pari, il marchese de Barthélemy - che, applicando misure rigorose, concilia il vantaggio dei malati col bene comune» (8).
La "contraddizione" è diventata quindi un semplice (benché praticamente difficilissimo) "problema" da risolvere su di un piano tecnico-amministrativo. Certo con ciò non tutto è risolto. L'entusiasmo iniziale si affloscerà ben presto. Gli psichiatri incontreranno subito gravi ostacoli di ordine finanziario, amministrativo ed anche «scientifico», contro i quali lotteranno per qualche decennio, cercando di perfezionare il loro dispositivo, prima di cadere nel sonno dogmatico dell'organicismo e del silenzio asilare. Ma questo importa poco al nostro discorso. "Viva o dormiente la psichiatria si alimenta esclusivamente di questo spostamento della contraddizione". Essa si è imposta come una nuova specialità, ratificando l'impostazione grossolana dell'esigenza sociale dell'epoca, la segregazione di una categoria pericolosa e il suo imprigionamento in uno spazio chiuso.
La razionalizzazione terapeutica copre lo scandalo che una tale misura rappresenta, e la sua contraddizione con gli ideali conclamati di una società liberale. Sulla base di una simile accettazione "integrale" di un mandato sociale, la medicina mentale ha potuto in seguito mettere in opera tutte le sue risorse "specifiche", utilizzando quell'esile nucleo di scienza che poteva nascere da questa nuova pratica. Essa ha pure mobilitato quella buona volontà paternalistica cui si ispirava la maggior parte dei suoi primi rappresentanti, per dare alla vita asilare il suo primo stile, quel misto di autoritarismo e di umanesimo che è proprio dei professionisti dell'assistenza e del ricovero asilare. Essa così ha portato il suo contributo "specifico" alla problematica del controllo sociale, come si presentava in quell'epoca, permettendo che un dispositivo direttamente repressivo, logoro e superato, fosse sostituito con un nuovo dispositivo medico-amministrativo più complesso, più elastico, più adeguato alla situazione nuova. In particolare, mentre l'intervento direttamente repressivo si effettua sempre dopo un atto delittuoso, la medicina mentale permette un controllo preliminare, cioè una "prevenzione". Non abbiamo finito di fare i conti con questa nozione.

Parlare dello «psichiatra-poliziotto», prendendo l'espressione alla lettera, è una pura e semplice sciocchezza. Se polizia e medicina si occupassero della stessa cosa, perché esisterebbe una polizia "e" una medicina? La polizia (fra gli altri suoi compiti) ha pure talvolta da fare con la stessa contraddizione della psichiatria, quando si tratta di un malato mentale. Ma è sempre l'evenienza peggiore, poiché agisce in modo troppo rozzo. Storicamente, la medicina mentale si è conquistata il suo campo d'azione "contro" la repressione diretta del braccio secolare. Il manicomio si è costituito "contro" l'ospedale generale, la prigione, l'albergo dei poveri, contro l'imprigionamento indifferenziato di tutti coloro che impedivano di camminar diritto e di lavorare sodo, gente di cui la società liberale ai suoi esordi aveva bisogno di sbarazzarsi. Posso aggiungere che soltanto gli psichiatri ci hanno guadagnato il loro posto al sole. Per negare che la condizione di una parte di questi esclusi sia stata migliorata dalla nuova etichetta medica, bisogna non tener conto della situazione precedente.
Non si tratta di fare degli psichiatri i capri espiatori in una caricatura di analisi pseudopolitica. Mi interessa invece stabilire questo solo punto: quel progresso, quel piccolo margine di autonomia che la medicina mentale riesce a realizzare ed in cui si sviluppa tutta la sua storia, sono possibili perché fondati sull'accettazione "integrale" di quell'esigenza sociale primaria di segregazione e di imprigionamento. Così la psichiatria resta collegata alla problematica del controllo sociale. Può allentare questo legame, ma non può spezzarlo senza rimettere in questione il mandato sociale che l'ha formato.
E' già qualcosa se è riuscita ad allentare questo legame, anche se non l'ha spezzato. Qualche risultato si è ottenuto. Pretendere che il movimento di riforma succeduto da una trentina d'anni a questa parte alla lunga notte asilare non abbia avuto conseguenze generalmente positive sulla vita delle istituzioni, significa essere altrettanto ottusi come quando si parla pomposamente di «rivoluzione psichiatrica». Non è qui il centro di gravità della contraddizione psichiatrica. A tutt'oggi la contraddizione rimane presente integralmente anche se dissimulata sotto forme di razionalità più moderne. La medicina mentale continua a fare quello che ha sempre fatto, e molto difficilmente potrebbe fare qualcosa di diverso dal fine per cui è stata istituita: cioè far rientrare una contraddizione nell'ambito della medicina. Essa può dunque operare soltanto - bene o male, è un'altra faccenda - su uno dei termini di essa, facendo "come se" il disturbo psichico rientrasse totalmente nel campo di azione di un intervento specialistico.
Poiché - senza entrare in una discussione metafisica sulle «cause» della malattia mentale - si deve convenire che la definizione stessa di «malato mentale», la sua condizione ed il suo trattamento sociale dipendono da tutta una serie di determinazioni che non hanno alcun rapporto con la terapia. Certamente, per essere esatti, lo psichiatra non ignora queste dimensioni, in ogni caso non necessariamente (benché l'ignorarle lo faciliti alquanto nel suo lavoro). Può riservare loro un posto, ma "altrove", fuori dai confini della sua pratica, come qualcosa che la circoscriva dall'esterno. In quanto soggetto politico e sociale, può anzi ritenere che ciò che è più importante, più determinante, risieda in questo «altrove». Ma "professionalmente e praticamente" non può far altro che perfezionare ed allargare un dispositivo d'intervento che rimane medico-psicologico. In questo senso la medicina mentale può arrivare perfino a tener conto dei suoi fallimenti, o meglio dei suoi limiti; farà sempre l'autocritica per trovare un migliore assetto e procedere oltre.
Si potrebbe di fatto dimostrare che ogni critica interna della psichiatria è stata sempre una critica tecnico-scientifica di tutto o parte di quel dispositivo ch'essa ha messo in opera. In Francia ad esempio nel secolo diciannovesimo le prime contestazioni di carattere medico hanno soprattutto riguardato lacune della legislazione, ed ispirato almeno una decina di progetti di riforma della legge 1838, la quale d'altronde non ne è stata intaccata. Dal 1945 in poi, sono principalmente le strutture istituzionali dell'eredità asilare che vengono rimesse in discussione. Più di recente, certi specialisti della medicina mentale vorrebbero far credere che essi criticano le categorie stesse del pensiero psichiatrico. In Francia vi sono soprattutto due correnti moderne che avanzano questa pretesa. Da una parte la «psichiatria comunitaria» ritiene di dover spezzare lo schema medico per trattare direttamente nella società gli «insiemi sofferenti» (9). D'altra parte alcuni orientamenti psicanalitici - in particolare quello definito di «psicoterapia istituzionale» di ispirazione lacaniana (10) - pretendono di superare la tendenza «normalizzatrice» della psichiatria classica per lasciar affiorare il libero discorso dell'inconscio.
Non posso rifare la dimostrazione che ho svolto altrove per inserire tanto la «psichiatria comunitaria» quanto la «psicoterapia istituzionale» analitica nel continuum storico delle diverse tendenze della medicina mentale (11). A rischio di sembrare pretenzioso, dirò che la considero abbastanza convincente. Il fatto è che non è difficile da seguire, purché si parta dalla contraddizione di cui si tratta in questo discorso. Allora si può vedere come le scuole più moderne si appiglino a una delle sue facce per rinnovare i poteri dello schema medico fino a diluirlo nell'insieme sociale. Non volendo più essere speciale, la specialità psichiatrica diventa ancor più unilateralmente mentale. Sotto una determinologia sociopatologica o psicanalitica, non assistiamo ad altro che ad un "aggiornamento" delle modalità d'intervento medico-psicologico: rinnovamento nella forma ed estensione del contenuto. Viene perfezionata la padronanza tecnica sull'elemento psicologico della contraddizione. Ma è solo verbalmente che ad esempio la psicoterapia istituzionale pretende di dominarne anche l'altra faccia, tenendo conto, come dice J. Oury, dell'«architettonica dei rapporti di produzione» (e i rapporti di potere, è forse il carisma dello psicanalista che li invalida?). Nel migliore dei casi, non si è fatto altro che rinnovare l'operazione di Esquirol, spostando il dispositivo ed imponendogli un'organizzazione più elastica e più efficace. Nel peggiore dei casi, una struttura immutata è stata rivestita con una terminologia moderna e rivoluzionaria.
Esquirol è sempre in mezzo a noi. Più esattamente, ciò che egli rappresentava si è frantumato, perché la medicina mentale si è frantumata in diverse tendenze. I diversi frantumi del sistema sono oggi rappresentati in Francia da persone anch'esse diverse come Daumezon, Tosquelles, Bonnafé, Oury, Paumelle, Hochmann eccetera. Ciò non dovrebbe umiliare nessuno, poiché Esquirol era un grand'uomo. D'altronde questa frammentazione è forse provvisoria poiché può darsi che un giorno non lontano i frammenti si riuniscano. Forse allora faranno nascere una nuova figura del dispositivo della medicina mentale che sarà altrettanto lontana dagli attuali tentativi quanto lo era la sintesi asilare dalla soluzione precedente del «grande imprigionamento». Immaginare la fine della segregazione in spazi speciali, la capillarità di uno schema medico-psicologico capace di penetrare in tutti i pori del tessuto sociale probabilmente non è più un sogno. L'esperto competente a consigliare i coniugi, ad assistere socialmente, ad educare in maniera specializzata, a sostenere psicologicamente ha già incominciato a percorrere instancabilmente la città (12). Ma al modo come le cose procedono, tutto lascia prevedere che questa «rivoluzione» - anche sotto le vesti prestigiose della psicanalisi - non farà che estendere ancora una volta la portata dello schema medico-psicologico.
Con ciò non voglio insinuare che la medicina mentale sia il male assoluto, oppure che non vi sia «bisogno» di medici. Questo aiuto può essere necessario in ultima istanza. In altre parole, l'esistenza di una medicina mentale con tutti i suoi effetti di cui alcuni possono essere - entro certi limiti, in certi casi, per certe persone - positivi, è oggi come nel secolo diciannovesimo il "prodotto" di una situazione sociale generale. Un prodotto, cioè una "conseguenza" della contraddizione messa in luce, e più precisamente ancora la sua "presenza spostata", e non la sua "soluzione" globale. Tant'è vero che considerare la psichiatria il rimedio complessivo dei problemi riguardanti il malato mentale significa «trattare» unicamente una delle conseguenze della contraddizione, il suo riapparire in sintomatologia patologica sul piano della soggettività e dell'intersoggettività. Questo trattamento esclusivo di un solo aspetto della contraddizione la ripropone e la riproduce nella sua totalità mentre pretende di ridurla.
In questo preciso punto si scopre il nocciolo concreto della contraddizione psichiatrica. Da un lato, quali ne siano le «cause», la malattia mentale esiste socialmente quale privazione di valori e situazione di violenza subita. Essa costituisce il malato, con o senza virgolette, come un essere diminuito, parzialmente o totalmente escluso, quasi sempre trattato spietatamente, peggio della maggior parte degli altri esseri sociali. La malattia mentale è uno dei gironi dell'inferno sociale che fa entrare nel regno della sofferenza, della schiavitù e spesso della morte. D'altro lato «l'assistenza» psichiatrica, facendo entrare totalmente questa situazione nell'ambito della medicina, non pone veramente in discussione questa violenza né questa esclusione. Essa si accontenta di gestirle nelle forme più repressive. Tante volte oggi lo psichiatra non è più d'accordo soggettivamente con questo ruolo. Si sforza allora di manipolare la situazione, attenuando certi suoi effetti, spostandone altri ed anche sopprimendone qualcuno nel quadro del suo dispositivo d'intervento tecnico-scientifico. Ma abbiamo visto che egli resta vincolato al suo mandato sociale nella misura in cui è il delegato di un potere di cui in sostanza può solo spostare l'efficacia e modificare la forma di applicazione.
Certamente teorizzare è comodo. Solo la condanna morale-ideologica (che oggi vien detta politica) è ancora più semplice. Ma praticamente, come si può affrontare, nell'ambito di una attività professionale, una situazione che già in partenza nasconde un tranello di questo genere? In tal caso uscire dall'equivoco vuol dire riconoscere l'equivoco della situazione rifiutando di ridurla ideologicamente (corto circuito della politicizzazione astratta) o tecnicamente (vicolo cieco del perfezionismo medico). Una volta riconosciute le due componenti della contraddizione, bisogna operare praticamente su "ognuna di esse": «Affrontare le due facce che compongono la realtà del malato: il fatto di essere un malato con i suoi problemi psicopatologici, e quello di essere un escluso, uno stigmatizzato sociale».
Formula semplice in apparenza, ma solo in apparenza. Di fatto, essa esige una pratica difficile la cui paradossale coerenza ha dato Gorizia ed oggi Trieste, vale a dire due esperimenti reali che per la mia conoscenza rappresentano l'espressione concreta più lucida della contraddizione psichiatrica. D'altro canto, questa posizione sembra troppo complicata ai fautori di una medicina mentale modernista che scorgono una dialettica soltanto al livello dell'inconscio. Perciò nelle interpretazioni che sono state date, almeno in Francia, al lavoro della équipe di Gorizia, esso è stato spesso ridotto a quella unilateralità che nei fatti veniva confutata. Quindi non sarà forse inutile specificare meglio, situando questa posizione, da una parte nei riguardi dell'antipsichiatria anglosassone, dall'altra nei riguardi della «liberazione» psicanalitica.
L'antipsichiatria anglosassone ha affrontato simultaneamente il duplice postulato del pensiero psichiatrico: che il disturbo psichico debba essere trattato di preferenza per mezzo di una competenza specializzata; che il «malato mentale» debba essere posto in un rapporto di tutela nei confronti del potere psichiatrico (o psicanalitico). Ma questa sovversione, sotto molti aspetti feconda, della problematica classica, è anche la sua inversione. Schematicamente, questo rovesciamento può farsi in due direzioni, che d'altronde convergono. Talvolta gli antipsichiatri hanno affermato una eziologia direttamente sociale della malattia mentale, ribaltando le contraddizioni intrapsichiche sul piano delle contraddizioni extrapsichiche (tendenza che era piuttosto quella di D. Cooper, soprattutto agli inizi). Talaltra hanno spinto al limite l'inversione dei segni di valore associati alla pazzia e alla normalità, ed hanno fatto del malato mentale il cristo di una storia responsabile della sventura del pazzo e che deve riconoscere in lui la figura di una libertà ch'essa ha perduto (tendenza che sarebbe, con molta semplificazione, quella di R. Laing).
Ciò che rischia di essere in tal modo dimenticato - almeno a livello teorico, poiché nella pratica antipsichiatrica si osservano di fatto degli adattamenti che reintroducono quello che la teoria sembra escludere - è la "specificità" della situazione "sociale" che viene procurata al malato di mente. Anche se è il prodotto diretto di una disfunzione generica del sistema sociale (ipotesi molto dubbia), il malato è trattato "specialisticamente" (mal trattato), cosicché s'impongono di rimando dei comportamenti ugualmente "specifici" nei suoi confronti. In altre parole, per il fatto di trovarsi in una situazione sociale di inferiorità, la maggior parte dei malati vengono concretamente assunti in una relazione di "assistenza". Non si può negare in modo risolutivo questa situazione di dipendenza che costituisce la base obiettiva della loro definizione sociale e decide del loro «trattamento».
Una psichiatria cosciente delle proprie implicazioni politiche urta sempre contro questa situazione di dipendenza. Come tener conto di questa realtà senza oggettivare il malato nel suo «status» quando si continua nei tradizionali comportamenti dell'assistenza psichiatrica o caritatevole? In un certo senso, la psicanalisi si propone come una risposta a questa difficoltà. La psicanalisi - almeno in certe sue tendenze moderne, in Francia la corrente lacaniana, cioè proprio quella che è la più introdotta negli ospedali psichiatrici - si è sforzata di svincolarsi da ogni riferimento al modello dell'assistenza. Nelle sue forme estreme, questo atteggiamento ha ispirato dichiarazioni di principio poco consone ad una situazione ospedaliera: non guarire, non colmare le lacune, non eliminare l'angoscia, eccetera... Ciononostante, vi è nel «trattamento» analitico una volontà di ascoltare il discorso dell'altro, di «liberarlo», che sembra mettere in discussione il mandato sociale di gestione, di controllo e di normalizzazione affidato allo psichiatra tradizionale.
Ma a questo «ascolto» analitico, in quanto ritrova adattandole le convenzioni della relazione duale, si arriva mettendo fra parentesi o invalidando le dimensioni socio-politiche dello «status» del malato mentale. Quale peso ad esempio può avere un complesso di Edipo - ammettendo che il complesso di Edipo abbia un peso - in funzione della duplice oggettività della malattia: la situazione istituzionale attuale del malato schiacciato dalle strutture di custodia, la situazione di partenza di soggetti introdotti il più spesso nell'istituzione a seguito di un rifiuto sociale precedente, di deplorevoli condizioni materiali d'esistenza, della precarietà del posto di lavoro o della disoccupazione? L'ascolto analitico mette fra parentesi questa verità banale ed essenziale: "un soggetto che entra nell'ambito della psichiatria è quasi sempre uno stigmatizzato sociale il cui «status» attuale è quasi indipendente dall'eziologia specifica del disturbo psichico". Non che questa eziologia non esista, ma essa è interamente ricoperta dalla situazione che il malato subisce in quanto oggettivato da un rapporto di potere. Stando così i fatti, una cosa vuol dire essere, insieme agli psicanalisti, critici verso le posizioni pragmatiche di un riformismo psichiatrico che aspetti la salvezza da qualche miglioramento istituzionale. Ma tutt'altra cosa vuol dire essere completamente acritici verso ciò che, anche nello stesso atteggiamento psicanalitico, continua e perpetua un rapporto di sopraffazione senza affrontarlo come tale, accontentandosi di «interpretare» la maniera in cui è soggettivamente vissuto. Per uno stupefacente paradosso, la dottrina dell'inconscio diventa così il miglior agente dell'incoscienza del problema ch'essa sarebbe chiamata a risolvere.
E questa è la cosa più grave. Se la psicanalisi critica certe forme paternalistiche dell'"assistenza", essa non critica la forma sottile di "tutela" ch'essa esercita. Purtuttavia lo psicanalista rimane uno specialista competente il quale dispone ad un tempo del sapere e del potere. Egli continua così a «trattare» il malato secondo la tradizione medica della riduzione dei problemi alle loro dimensioni individuali (una volta soprattutto somatiche, oggi soprattutto psichiche). Egli inventa nuovi dispositivi istituzionali oppure riorganizza a questo scopo le vecchie strutture istituzionali. La psicanalisi rappresenta così la forma estrema, la più raffinata, delle procedure tecnico-scientifiche messe in opera dalla medicina mentale. L'unico problema non consiste nel trovare dei «luoghi di discorso» (anche se questo è meglio che niente). Si tratta soprattutto di sapere ciò che in quei luoghi si può dire ed ascoltare, qual è la pertinenza del codice di «ascolto» messo in opera in funzione della "totalità" della situazione reale. La stessa finezza dell'interpretazione analitica fa sì ch'essa funzioni come un setaccio che lascia sfuggire gli elementi determinanti della situazione. E allora questo ascolto non è solamente parziale; esso agisce pure da filtro, diventa l'operatore di una "ideologia di sostituzione" la quale "sposta" l'impatto del problema, secondo la migliore tradizione storica della medicina mentale.
Di conseguenza non si esce dalla contraddizione psichiatrica per mezzo della psicanalisi. E non se ne esce nemmeno in altre maniere. Ma si può affrontarla più lucidamente e più efficacemente riconoscendo nel mandato del medico - quali che siano le giustificazioni tecnico-teoriche di cui si ammanti - l'espressione di un "potere" sociale. Si rifletta ad esempio quante pratiche psichiatriche antiche e nuove abbiano avuto ed hanno ancora come scopo principale quello di impedire che il malato scateni una controviolenza di fronte alla violenza sociale che deve subire.
Soltanto lottando contro questa dimensione del suo ruolo lo psichiatra potrà finire di essere un delegato del potere. Certamente, si troveranno sempre dei teorici puri e duri, i quali diranno che anche procedendo così «egli rimane ancora psichiatra». Di fatto, non dimentica l'altra faccia della contraddizione. Egli non nega una condizione di dipendenza del malato, di cui altri gli hanno affidato la gestione, e non fa di costui il supporto del suo desiderio rivoluzionario. Ma egli combatte praticamente questo stato di dipendenza mettendo in discussione tutto ciò che in essa - e nel suo proprio ruolo - è il prodotto di quelle condizioni socio-politiche che col rapporto medico-malato hanno istituito una coppia che si sostiene mutuamente, questa simbiosi perversa della sopraffazione e della schiavitù che è una delle maniere con cui la violenza sociale si riproduce.
Sta accadendo qualcosa di molto importante e che coinvolge tutta la problematica della medicina mentale. Non se ne ha ancora una visione completa. Ma bisognerà bene che a lungo andare si capisca che 1'«ascolto» dell'altro, anche quando egli si trovi in condizioni psichicamente difficili, non può ridursi al paternalismo di un padrino, né alla sapiente oggettivazione, né all'attenzione prestata alla fantasmagoria dell'inconscio. Questi tre atteggiamenti non sono equivalenti, ma hanno questo in comune: promuovono l'"apoliticizzazione" di una situazione che è anzitutto definita politicamente. Le pratiche che ne conseguono controllano certi effetti di questa congiuntura, ma in pari tempo avallano i meccanismi di selezione e di segregazione che la strutturano. Rinnovano così la violenza sociale che il malato subisce. Come contropartita, una psichiatria politica - e con questo voglio intendere un settore della divisione del lavoro, cosciente del fatto che adempie un mandato sociale avente per scopo l'esclusione e la normalizzazione, e che rifiuta questo mandato - deve infrangere questo monopolio degli specialisti competenti, ripreso anche dalla psicanalisi.
Questa è per esempio la funzione affidata ai «volontari» come esistono a Trieste nelle «équipes» terapeutiche. Non sono una nuova categoria di tecnici, non rappresentano una nuova specializzazione in una divisione accademica del sapere. Presenti e disponibili nei servizi, senza essere tenuti ad interpretare da un punto di vista medico ciò che vi succede, funzionano come analizzatori socio-politici della situazione istituzionale. Una presenza non medica nei recinti destinati alla malattia catalizza tutto ciò che è «non medico» in questa «malattia». Essa incontra il «malato» diversamente che come controparte del sapere-potere medico. E Dio sa che egli è essenzialmente un'altra cosa, tanto nella sua situazione attuale quanto per i processi che l'hanno condotto lì.
Potrei moltiplicare gli esempi. Ma ho già detto che non avevo affatto l'intenzione di fare la teoria della pratica di Franco Basaglia. Volevo soltanto suggerire che in situazioni di lotta istituzionale come quelle di Gorizia e di Trieste, è nata un'altra modalità di ascolto. E non è soltanto il prodotto di una situazione congiunturale. Essa restituisce al malato oggettivato dalla medicina mentale classica o fantasmaticamente risoggettivato dalla psicanalisi la sua dimensione reale di soggetto sociale e politico. A partire da questo punto, nulla è facile, tutt'altro. In particolare la contraddizione della psichiatria è lungi dall'essere «risolta». Ma appare la possibilità di qualcosa di ben diverso dalla tradizione medico-psicologica nella quale il problema veniva eluso o spostato.

[Versione dal francese di E. Zenari].


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