di René Lourau.
Un giorno, nel «Giornale dei degenti» dell'ospedale psichiatrico
di Saint-Alban (Lozère, Francia), ho letto questa frase: «l'ospedale
è un piccolo stato socialista in mezzo allo stato francese». Poi,
qualche pagina più avanti, forse dello stesso autore, ho letto un altro
passo nel quale si classificavano i malati come proletari, gli infermieri come
borghesi, ed i medici come capitalisti.
Questa contraddizione corrisponde in pieno all'impressione che io, osservatore
«normale», ho ricevuto dopo alcuni giorni trascorsi in quella che
allora era la Mecca della psicoterapia istituzionale, poco tempo dopo la partenza
del dottor Tosquelles, il quale si era stabilito poco lontano, a Marvejols,
in mezzo ai mongoloidi. Fra la tentazione microsocialista e la riproduzione
inconscia del modello istituzionale imperante, il conflitto è ora così
ben conosciuto, confermato, analizzato, da sembrare un ovvio problema scolastico.
Problema che d'altronde supera i confini della psichiatria: quante volte non
è stato posto a proposito delle esperienze pedagogiche, che nello stesso
periodo (1964) ed anche oggi tentano di arrivare ad un superamento di cui né
Hegel, né Marx, né Lenin, né Mao, né il movimento
rivoluzionario moderno possiedono la chiave. Quante volte tale problema non
è stato ugualmente posto a proposito di tutte le esperienze qualificate
«utopiche» o «microsocialiste», nel campo della produzione
come in quello dell'educazione, della sanità, del tempo libero, senza
contare le esperienze totali delle comunità di base che cercano di cambiare
la vita?
L'altro grande problema, diventato il tema favorito delle conversazioni fra
studenti nei corridoi di Lovanio o di Nanterre, consiste nel chiedersi come
si può giungere a cambiare qualche cosa nelle istituzioni restando all'interno
delle stesse. Di recente, durante un convegno sull'analisi istituzionale tenuto
a Parigi, qualcuno mi ha chiesto a bruciapelo (e la mia pelle sa ancora di bruciato!):
come conciliare la pratica dell'analisi istituzionale con lo «status»
di professore nell'università? Dopo un po', un altro mi ha chiesto (ma
non era lo stesso di prima, oppure, come nel "Diario di un pazzo"
di Gogol', non era forse il re di Spagna, che ce l'aveva con me?) come potevo
io pretendere di analizzare le istituzioni se ero sposato... Definito in termini
di implicazione, con le sue specificazioni psicoanalitiche del tipo «transfert»
e «contro-transfert», il problema si offre a tutti i ricercatori
ed esperti di scienze sociali.
Si vede subito che questi due grandi problemi sfociano ambedue in un'aporia:
impossibile, da una parte, articolare teoricamente il momento dell'azione microsociale
ed il momento del cambiamento macrosociale; impossibile, d'altra parte, rovesciare
la struttura di un'istituzione che vi dà lavoro e vi paga.
Sembra che, finora, i tentativi di sovvertimento, o piuttosto di rovesciamento
(per riprendere il concetto situazionista) delle istituzioni, ed in particolare
delle istituzioni sanitarie, abbiano portato in primo piano il secondo termine
dell'aporia, non senza lasciare un posto più o meno grande, ma sempre
subordinato, al primo. Quando giorno per giorno si fa in modo di modificare
i rapporti sociali nel campo d'intervento offerto dalla pratica sociale e professionale,
lasciando ai pensatori planetari la cura e l'illusione di «far qualcosa»
a livello del cosmo, o anche di uno stato, futuro; quando si fa ciò senza
la minima pretesa di cambiare il cosmo e nemmeno lo stato (in quanto totalità
che supera e minimizza tanti progetti velleitari d'azione globale), l'oggetto
stesso dell'analisi che accompagna l'azione non è «micro»
piuttosto che «macro»-sociale: è tutt'altra cosa. Questo
oggetto è il rapporto d'implicazione che collega l'agente al suo "campo
d'intervento" e, attraverso questo campo, all'insieme del campo sociale
che, in ogni caso, costituisce il suo "campo d'analisi".
Campo d'intervento, campo d'analisi: queste due nozioni, finora poco usate dall'analisi
istituzionale, meritano che si presti loro un po' d'attenzione. La mia attenzione
personale, in questo momento, è sollecitata da tutt'altra cosa. In casa
mia ci sono dei lavori, e gli idraulici fanno un gran baccano coi tubi. Solo
un quarto d'ora fa erano venuti altri operai per installare il telefono: per
me, che non ho mai avuto il telefono, è una gran giornata, a tal punto
che, mentre gli operai inserivano l'apparecchio e procedevano alle prove con
la perforatrice elicoidale-integrata-da-menopausa, ho avuto, come dicono gli
psicologi, una visione fantasmatica, ho immaginato, per lo spazio di un secondo,
che d'ora in poi potrò fare all'amore quando vorrò. E poi c'è
la storia del muratore monco che ha pure la sua parte nella mia giornata. All'uscita
della scuola materna, mentre aspetto mio figlio, vedo nel cantiere di costruzione
proprio di fronte alla scuola alcuni muratori che lavorano ad una costruzione
di tipo rustico; uno di essi, anziano, è monco del braccio destro. A
che lavoro può servire? E' affaccendato, misura coll'occhio le pietre
che si ammucchiano, rimescola la malta colla cazzuola. Forse percepisce un mezzo
salario, forse lavora a mezzo tempo, come mia moglie? E' proprio dell'azione
detta microsociale l'essere meno immaginaria dell'azione «politica»,
macrosociale, poiché essa si esplica "nei luoghi" della pratica
sociale, e "nel momento" di questa pratica. Voi potete sempre assistere
alle vostre riunioni di cellula, di comitati, esaminare aggrottando le ciglia
la situazione nel Vietnam o nel campo mondiale della lotta di classe. L'una
cosa non impedisce l'altra, in teoria. L'azione microsociale si fonda su di
una ostilità non dissimulata alla delega del potere e in generale a tutte
le manifestazioni dell'universale astratto. Il suo universale concreto non si
trova del resto soltanto nei luoghi della pratica quotidiana, si trova anche
nella strada, quando questa diventa "agorà", si trova anche
in altri luoghi quando questi luoghi vengono presi in carico e controllati da
coloro che vi lavorano o vi risiedono. Nell'azione microsociale, sarebbe falso
se si credesse che non si può vedere più in là del campanile
o della punta del naso: il campo di analisi, lo strumento per decifrare tutto
ciò che succede "hic et nunc" è l'insieme delle determinazioni
globali che agiscono sui luoghi. "Il campo d'intervento non dev'essere
dunque in nessun caso confuso col campo d'analisi". Infine - per completare
questo primo giro d'orizzonte - diciamo che il problema primordiale dell'"implicazione",
dei rapporti consci ed inconsci che manteniamo col sistema istituzionale (e
non soltanto con «l'istituzione» che costituisce il luogo della
nostra pratica), se viene posto, può essere posto soltanto nell'azione
microsociale, nel campo reale delle forze che ci sollecitano e sulle quali noi
possiamo sperare di influire.
Per il momento, la tattica d'azione microsociale ("localista", per
riprendere un termine peggiorativo, ed anche "puntuale", per usare
un altro termine spregiativo) appare nel mio esposto come più «realistica».
Ma questa è un'argomentazione provvisoria, per sgomberare il terreno.
L'essenziale è altrove. (Mia moglie è rincasata: si serve del
telefono, e la sua prima telefonata è... un reclamo! Ecco quello che
succede quando si è nati con due mesi di anticipo... E certamente la
sua prima telefonata è per sua madre, sperduta sulle Alpi). L'essenziale
consiste nell'intento "simbolico" di ogni azione sui luoghi (toh,
la problematica lacaniana [?] del reale, dell'immaginario e del simbolico, maltrattata
ancora una volta da un povero sociologo che non è stato neanche psicanalizzato!)
Un sequestro di persona in una piccola fabbrica di provincia significa qualcosa
per il settore industriale nel suo insieme, in un'epoca di disoccupazione e
di insicurezza. Il rifiuto di obbedienza di un discolo o di un mascalzoncello
in fondo a una classe liceale significa qualcosa per l'insieme della classe,
anzi del liceo, anzi della città dove si trova il liceo. Il rifiuto di
rispondere al sociologo che conduce un'inchiesta nell'ospedale psichiatrico
non costituisce un caso «fuori serie» significativo soltanto nei
confronti dei malati e dei curanti che accettano di rispondere, ma anche nei
confronti della tecnica delle inchieste e della ricerca nel campo delle scienze
sociali in generale (1).
Azione simbolica: azione significativa "anche" per altri luoghi ed
altri momenti. Dire «anche» significa supporre che la virtù
di questo tipo d'azione agisca "dapprima" sul suo proprio terreno.
Un'azione simbolica che voglia essere simbolica per l'insieme di un sistema
e che non si preoccupi di come ricade sul suo proprio luogo non è più
simbolica: è immaginaria, il che d'altronde non la squalifica irrimediabilmente,
poiché dopotutto gli uomini hanno una capacità immaginativa, e
la lettura dei fatti di cronaca è altrettanto traumatizzante quanto la
lettura di opere storiche o sociologiche. Quello che voglio qui precisare è
il carattere spesso involontario, inconscio delle azioni simboliche: «voler
essere» simbolico, o politico, o caritatevole, o machiavellico eccetera,
è un atteggiamento soggettivo che raggiunge o non raggiunge il suo intento.
Mentre invece gli effetti simbolici di un'azione apparentemente non pensata,
talvolta non voluta, si manifestano in modo clamoroso. Il paradosso dell'analista
delle istituzioni, di colui che cerca di dare un nuovo indirizzo alla sua istituzione,
consiste nel correre perpetuamente dietro al suo modello inconscio e non meditato:
il pazzo, il bambino, il delinquente, il ribelle, il lavoratore in lotta; questo
modello produce con la sua azione un effetto di scoperta, di conoscenza che
lascia allibito il rivoluzionario patentato. A differenza del lavoratore (cosciente)
del negativo, il quale misura in anticipo la portata del suo agire, il lavoratore
(inconscio) del negativo ha di mira dapprima ed unicamente il qui e l'ora, chi
lo circonda, chi lo domina, le strutture in cui è inserito, le idee che
lo schiacciano. Ed è perché lo psichiatra non è pazzo,
perché l'educatore non è bambino, perché l'intellettuale
rivoluzionario non è operaio (anche se decide di lavorare in officina),
che la teoria delle scienze sociali adotta il concetto di «analizzatore»
come di eterno nemico ed eterno «duplicato» del ricercatore pratico.
Cerchiamo di mettere un po' d'ordine in questa esposizione alquanto «libera»
(mentre io batto a macchina, gli idraulici lavorano; nella strada corrono le
auto; il topolino bianco dorme, credo, nella sua cassetta; mia moglie è
in faccende nella stanza accanto; il mio bambino è alla scuola materna
- gli ho promesso che sarei andato a prenderlo alle cinque meno un quarto, e
quindi non ho tanta voglia di scrivere nel quarto d'ora che mi resta. Ma siccome
non potrò più scrivere una volta che sarà rientrato...)
Finora, ecco, mi sembra, come ho impostato il problema dell'intervento nelle
istituzioni (poiché è proprio questo il problema? Beh, lo riprenderò
più tardi, forse domani mattina).
Prima constatazione: l'azione microsociale è limitata dalla pressione
dell'insieme del sistema, ed i suoi risultati sono sempre scarsi, anzi ambigui,
poiché il sistema globale, finché non viene rovesciato, continua
ad agire e a riprodursi. In termini marxisti: è un'illusione credere
che si possa cambiare qualcosa finché non sono stati cambiati i rapporti
di produzione, la struttura di classe della società globale. Illusione
pericolosa, poiché, credendo di innovare, di migliorare o addirittura
di rivoluzionare, si contribuisce al mantenimento del sistema esistente, si
tappano i buchi delle contraddizioni invece di combatterle.
Seconda constatazione: l'intento rivoluzionario microsociale, l'intento di cambiare
e perfino la crisi nei luoghi della pratica sono limitati dalle nostre implicazioni
istituzionali non solo nei luoghi ma anche nell'insieme del sistema. E' vero
che si può dire altrettanto di ogni azione politica, e che le contraddizioni
non risparmiano i rivoluzionari di professione la cui prospettiva è molto
più larga e a più lunga scadenza che quella del lavoratore del
negativo. Ma di ciò il rivoluzionario di professione non si cura in generale
(niente sentimentalismi!) E' proprio dell'azione sui luoghi imporre il problema
dell'implicazione, lo si voglia o no. E' per mezzo di questo problema, in fin
dei conti, che il lavoratore del negativo affronta la prima aporia, poiché
la sua implicazione si trova, una volta di più, in rapporto coll'insieme
del sistema, e l'insieme del sistema costituisce il suo campo di analisi (e
non il suo campo d'intervento).
Terza constatazione: l'azione localo-puntuale (o puntuo-localista, a scelta)
possiede un carattere di realtà che smentisce le accuse di «illusione»
mosse da ogni parte, tanto dai rivoluzionari che possiedono la «vera teoria»
quanto dai conservatori e dagli scettici per i quali nulla è nuovo né
può cambiare sotto il sole. E in pari tempo questa azione ha una portata
simbolica: rivela le contraddizioni del sistema, senza aver la pretesa di combattere
direttamente l'insieme del sistema. Anche quand'essa non viene ben analizzata
(talvolta pure dai suoi stessi agenti) essa parla all'immaginario sociale, essa
ha almeno un impatto ideologico. Essa è ad un tempo esperienza e messaggio
sui limiti o l'impossibilità di esperimentare nelle condizioni attuali.
Essa è la negatività rimossa, che diventa cosciente in quanto
rimossa. Quindi essa tiene aperto il campo del possibile, che le promesse della
grande sera abbandonano spesso alla sterilità. Poiché non modifica
il famoso «rapporto di forze» al livello della società globale,
essa tuttavia agisce su questo rapporto di forze alterando le regole del gioco
fra forze politiche tradizionali.
Quarta constatazione: più che nei tentativi coscienti e meditati d'azione
simbolica, l'intento di messa a nudo, di messa in luce delle contraddizioni
si attua nell'operazione spesso occulta e inconscia delle forze represse. Gli
analizzatori appaiono allora come gli elementi della struttura sociale il cui
effetto è di produrre una conoscenza sociale di queste strutture, conoscenza
generalmente disprezzata dalla scienza ufficiale come pure dalla dottrina dei
politici. Il rango del «social scientist», del ricercatore pratico
esperto di scienze sociali viene allora spostato: dalla sua posizione di analista
della società, con le sue implicazioni ed i suoi obiettivi razionali,
esso tende, silenziosamente o non, le braccia verso quegli elementi devianti,
verso quelle anomalie, quei traviamenti, quelle negazioni dell'ordine esistente.
Quelli sono lavoratori del negativo nel pieno senso della parola; lui non è
altro che un lavoratore del negativo a mezzo tempo (come il muratore monco,
come mia moglie). Tutta la teoria della ricerca sociale è da rivedere
partendo da questa ipotesi, se questa ipotesi ha qualche valore, non foss'altro
che segretamente, per la maggior parte dei ricercatori.
Vivere questo nuovo «status» non è comodo: nel 1968 quanti
sociologhi, psicosociologhi, psicanalisti che lavoravano all'interno delle istituzioni
non hanno sentito senza rabbrividire che nelle strade invase dalla folla, sulle
barricate illuminate, nelle assemblee permanenti, ogni teoria veniva rimessa
in causa. Nelle epoche precedenti, le scienze sociali avevano la scusante di
essere state appena costituite: avrebbero potuto tuttavia sentire il rumore
metodologico che usciva dalle autogestioni agricole di Catalogna e d'Aragona,
dai soviet russi, tedeschi e ungheresi, dalle esperienze cinesi... Proponendo
da lungo tempo le figure del fanciullo, del pazzo, del ribelle, eccetera, la
letteratura e l'arte hanno indicato il cammino. Ma non si tratta più
di descrivere e di interpretare le trasgressioni, i barbarismi e i solecismi
del codice sociale. Si tratta di lavorare con quelle figure, nel loro stesso
senso. Al concetto di azione sociale guidata dalla scienza e/o dalla teoria
politica, bisogna sostituire il concetto di un'azione guidata dagli "out-sider",
dagli "out-law" e dai "drop-out" della società. Non
andremo più a cercare la teoria del nostro oggetto di conoscenza in Durkheim,
Max Weber, Parsons, Pareto, ma fra le masse o le minoranze che hanno la pratica
(ed eventualmente la teoria) del cambiamento, nel 1793, nel 1848, nel 1871,
nel 1905, nel 1917-21, nel 1929-49, e '49-'72, nel 1936-39, eccetera eccetera.,
per non citare che i grandi travagli pratici del movimento rivoluzionario francese,
russo, tedesco, europeo, cinese, spagnolo.
L'analizzatore, contrariamente a quanto potrebbe far credere l'enumerazione
precedente, non fa parte del passato. Se è antico, si riattiva per tutto
il corso della storia di un popolo o d'un continente - anzi del mondo intero.
E non è nemmeno nell'avvenire utopico. Egli è presente, sempre
presente, anche quando stabilità e normalità sembrano durare da
sempre e non aver fine. Ascoltate questa magnifica apostrofe di un oppositore
di Napoleone. Essa parla dello storico, ma si può facilmente capire che
nello storico l'autore intende ogni uomo o gruppo o categoria sociale che un
giorno si erge e parla, rivoltando come un guanto la logica imperante: «Quando,
nel silenzio dell'abiezione, non si sente altro che la catena dello schiavo
e la voce del delatore; quando tutto trema davanti al tiranno ed è altrettanto
pericoloso godere i suoi favori quanto attirarsi la sua disgrazia, APPARE LO
STORICO, incaricato di vendicare i popoli. Nerone prospera invano, Tacito E'
GIA' NATO nell'impero. Egli cresce, IGNOTO, all'ombra di Germanico. E GIA' l'integra
Provvidenza ha affidato ad un FANCIULLO OSCURO la gloria del padrone del mondo»
(sono io che sottolineo e non Chateaubriand che scriveva queste righe nel 1807).
Il problema di sapere se l'azione degli analizzatori si articoli
e, in caso affermativo, come si articoli con la lotta delle classi, può
far annoiare chiunque possieda qualche nozione o, piuttosto, qualche esperienza
del movimento rivoluzionario. Le continue lezioni che i nuovi cani da guardia
della «Scienza» rivoluzionaria dànno ai modesti lavoratori
del negativo possono essere accostate a quelle che professava Marx dall'alto
del Consiglio generale dell'Internazionale alla vigilia della Comune di Parigi,
ed a quelle che Lenin dava all'ultrasinistra nel momento in cui (1920) lo stalinismo
senza Stalin si sviluppava già armoniosamente in Russia. Le discussioni
medievali sul sesso degli angeli avevano, sulla problematica che qui si tratta,
il vantaggio di presentare un carattere un po' più erotico. Nella pratica,
ivi compresa la Russia del 1917, la Cina del 1949, Cuba del 1958, per non parlare
della Spagna del 1936 o dell'Algeria del 1962, questa famosa «articolazione»
capace di provocare nei teorici dei reumatismi epistemologici non è stata
mai un problema "finché il processo rivoluzionario era in fase ascendente".
Il problema, "se tale problema esiste", si pone soltanto quando la
rivoluzione incomincia a negare se stessa, e, naturalmente, quando essa si fa
aspettare. Che cos'è che definisce il movimento rivoluzionario? L'essere
un movimento che tende a e provoca effettivamente la distruzione e l'analisi
radicale dell'ordine esistente. Se si aggiunge «rivoluzionario»
a «movimento», ciò è dovuto probabilmente a due ragioni:
l'una, per distinguerlo dai movimenti sociali che non hanno coscienza di essere
rivoluzionari; l'altra, per distinguerlo dai movimenti che, pur volendo essere
rivoluzionari, non ci riescono, falliscono prima di riuscirci. (Conoscete la
storia della moglie dell'idraulico? Ieri, nel pomeriggio inoltrato, ha suonato
alla nostra porta, è andata a trovare il marito, dai capelli rossi e
taciturno, il quale non ha alzato gli occhi dalla caldaia che stava montando
o smontando, e alla fine la donna è partita dicendo: «Sei cattivo!
Credevo che tu fossi solo. Sei cattivo!»)
Il criterio di distinzione dei movimenti può essere, del resto, quello
della «coscienza» o della «non coscienza» rivoluzionaria?
La teoria degli analizzatori, si è visto, propende per la negativa. L'idea
che l'azione, la pratica, deve essere guidata dalla coscienza, finisce quasi
sempre per confondersi con l'idea che la «coscienza guida» è
di fatto la teoria. Ora, siccome la maggior parte di coloro che vogliono essere
rivoluzionari (salvo gli studenti e gli intellettuali) non hanno il tempo ed
i mezzi per imparare la teoria, ciò equivale praticamente a sostenere
la tesi reazionaria di Kautski e di Lenin, cioè che la «coscienza»
deve essere data al proletariato dall'esterno, per opera dei professionisti
della teoria. Si vede a qual punto il concetto di analizzatore sfugge alla specializzazione
delle scienze sociali, per diventare direttamente politico. Lo stesso vale per
gli altri concetti dell'analisi istituzionale, che vengono esplicitamente o
implicitamente adoperati in occasione delle esperienze di negazione (o rovesciamento)
delle istituzioni, in Inghilterra o in Francia, a Heidelberg o a Gorizia: "implicazione"
del ricercatore pratico responsabile; "analisi della richiesta", della
«commessa» sociale, del mandato (Basaglia); "collettivizzazione"
dell'analisi, dei compiti e delle decisioni («autogestione»); senza
parlare della messa in questione dei criteri giuridici e politici in materia
di salute mentale, di delinquenza, di devianza.
Trovandosi a dover combattere, a destra, coloro che l'accusano di provocare
o di tollerare la sovversione, a sinistra coloro che lo accusano di fare il
gioco della borghesia «tagliandosi fuori dalle masse» e favorendo,
con la crisi stessa, il consolidarsi dell'organizzazione sociale costituita,
la tendenza di cui mi occupo, in mancanza di meglio, cioè di analisi
istituzionale, viene quindi, anche se non ne ha «coscienza», politicizzata
da queste istanze, da queste accuse politiche. Prescindo, beninteso, dalle critiche
accademiche, mosse dalla sociologia, dalla psicosociologia o dalla psicanalisi.
E' tanto importante che il professore Touraine, figlio prediletto della «contestazione»
nel 1968, proclami nel 1969, nella discussione della mia tesi, che alla fin
fine «l'analisi istituzionale è un bordello»? Volesse il
diavolo che così fosse! (Godmuche, l'amministratore della casa, mi ha
ora interrotto: l'hanno chiamato perché il riscaldamento non funziona,
e il nostro soggiorno qui, dopo più di un mese e mezzo, resta sempre
problematico. Ho freddo alle mani mentre batto a macchina, e nello scrivere
penso più o meno alla lunghissima lista delle cose che non funzionano
nell'appartamento, sorvolando sulle altre preoccupazioni quotidiane o contingenti.
Godmuche, che in realtà si chiama Gauduchon, è il nostro persecutore-perseguitato.
Se ogni tanto non si facesse vivo, la sua esistenza sarebbe altrettanto fantastica
quanto quella di Madame Rose, personaggio immaginario inventato da mio figlio
[due anni e mezzo], e che appare improvvisamente alla finestra, o per la strada,
o in treno. Che cosa pensa Godmuche delle questioni che io sto trattando? Hum...
Sento che sto per dimenticare il carattere fatale, soprannaturale, eccetera
della divisione del lavoro. Ma siccome Godmuche ha gran rilievo nella mia vita,
non vedo perché non potrebbe entrare nel mio campo di analisi, col suo
vestito alla Mao ed il suo montgomery. Accidenti! è l'ora di andar a
prendere Giuliano alla scuola materna).
Ora, un giorno dopo aver scritto quanto precede, mi domando se non sia l'ora
di finirla con questo giochetto delle parentesi. Fra il discorso critico ed
il discorso clinico che finora ho cercato di portar avanti parallelamente, sembrava
che non si dovesse trovare mai un punto d'incontro: quale rapporto c'è
tra l'analisi istituzionale da una parte, e dall'altra il muratore monco, un
guasto alla caldaia, mia moglie, mio figlio, eccetera? Proprio ieri a mezzogiorno,
essendomi accorto che era l'ora di andar a prendere mio figlio Giuliano alla
scuola materna, l'incontro è avvenuto. Non nella mia mente, sotto forma
di «illuminazione» da metter subito sulla carta, ma nella realtà
del pranzo di mezzogiorno. Ecco cos'è successo. Più di quanto
è solito fare, mio figlio, in questo intervallo tra le lezioni che va
da mezzogiorno alle due, si è mostrato irrequieto, aggressivo, rifiutando
di mangiare un solo boccone, buttando via o rompendo le sue cose, i suoi giocattoli,
arrabbiandosi con qualsiasi pretesto, dandomi botte sempre più forti.
Alla fine, irritato, ho perso la pazienza, ed allora è intervenuta mia
moglie, di modo che sono uscito dai gangheri ed ho avuto uno di quegli accessi
che soltanto mia moglie conosce. Ho tirato calci un po' da ogni parte, facendomi
male al pollice del piede destro (ancor oggi zoppico!), tirando giù dalla
parete un attaccapanni con tutti i vestiti, eccetera. Qualche ora dopo, mio
figlio, che aveva fatto un buon sonno sul divano, rideva con me, mi leccava
la faccia e mi chiedeva di leggergli il suo libro con le figure. La riconciliazione
con mia moglie era stata quasi immediata. Ebbene, o analizzatori! Questa è
la mia IMPLICAZIONE! Capite perché mi trovo davanti stamane questo problema
delle parentesi. Il bambino come rivelatore delle contraddizioni, analizzatore
assoluto della coppia e di qualche altra persona aggregata... E' bello discorrere
su ciò, finché gli analizzatori non vi dilanino, non vi facciano
perdere ogni controllo delle vostre dita e dei vostri alluci.
Uno dei fenomeni più appariscenti nella storia recente è la "schizolatria"
che s'impadronisce della psicanalisi e della psichiatria, mentre l'etnologia
ha riattivato già da alcuni anni il culto del primitivo, e la sociologia,
in modo però meno massiccio (in Francia, con sociologhi come Edgar Morin
o Giorgio Lapassade) ha istituito la "marginalomania", l'apologia
della devianza.
Questo fenomeno è molto significativo per diverse ragioni. Anzitutto,
attesta una ricorrenza di temi che la letteratura mantiene in permanenza, e
da molto tempo. Inoltre, si può constatare che le barriere teoriche fra
la letteratura e le scienze dell'uomo stanno crollando, e che, al limite, non
è possibile scrivere su Artaud altro che scrivendo come Artaud, o in
un registro che trasporti nella scrittura critica la decomposizione schizofrenica
del discorso: vedi il saggio già vecchio (1959) di Charbonnier su Artaud,
nella collezione «Poètes d'aujourd'hui» (Segress, Paris),
e il recente "Anti-OEdipe" di Deleuze e Guattari. Infine, e più
generalmente, è la scrittura stessa, come attività del letterato,
che viene messa in questione da questa introiezione dell'oggetto di studio nel
soggetto della scrittura: i surrealisti avevano già teorizzato e praticato
questa rivoluzione, ma la loro influenza, prima di questi ultimi anni, non aveva
fatto presa sul discorso universitario, a parte qualche eccezione come quella
dell'etnologo-poeta (del resto ex surrealista) Michel Leiris. E' noto (o non
è noto), fra gli altri testi sperimentali dell'epoca surrealista, il
famoso plagio-imitazione-parodia di qualche accesso patologico scritto da Eluard
e Breton: "L'immacolata concezione". Si trattava, è vero, di
«saggi di simulazione», e non di quel tentativo di rovesciamento
totale dei rapporti fra soggetto dell'enunciazione e soggetto dell'enunciato,
di quella obiettivazione del soggetto da parte del suo «oggetto»
di studio, che si trova in alcune recenti manifestazioni di schizolatria. In
etologia e in sociologia, la transustanziazione si attua anche, in parte per
mezzo della scrittura (uso dello stile «giornale di bordo» o composizione
con ritagli di giornale), in parte grazie all'importanza data alle immagini,
ai grafismi. Ma, si tratti di psicanalisi o di scienze sociali, il limite della
trasgressione resta sempre, fino ad ora, la lingua come istituzione dello scambio
intellettuale ed affettivo. I testi degli schizolatri e dei marginalomaniaci
non spezzano le frasi e le parole come facevano Dada, Artaud o i «lettristi».
Si rimane entro la trasgressione decente alla André Breton, innalzando
spirali secondo la moda bizantina (in un equilibrio molto «sano»
della parola critica e della parola poetica), rendendo "spettacolare"
la frattura del discorso e l'impossibilità definitiva di un discorso
puramente specializzato (sia puramente poetico, sia puramente critico o teorico,
eccetera).
Nelle scienze sociali, la dicotomia fra il discorso spesso molto pedante e le
cinquanta pagine di doppie tabelle, statistiche e grafici in appendice a questo
discorso, con una retorica degna del tredicesimo secolo, manifestava già
una frattura, tragica o buffa. Nello psichiatra questa frattura, vissuta ed
espressa non più dal poeta d'avanguardia ma dal ricercatore pratico spesso
imbevuto di poesia avanguardista, non si manifesta sempre allo stesso grado
d'intensità. R. D. Laing accosta al suo saggio "The Politics of
Experience" un testo «libero» intitolato "The Bird of
Paradise". Cooper termina il suo libro "The Death of the Family"
con testi più o meno personali e poetici. La raccolta di testi sui fatti
di Heidelberg, tradotta in francese sotto il titolo "Psychiatrie politique"
conserva da un capo all'altro la serietà estremamente tesa della scrittura
critica. Lo stesso si può dire del libro "L'istituzione negata"
di Basaglia e della sua équipe di Gorizia, benché il ricorso massiccio
ad interviste spezzi in parte l'unità del discorso critico. In Francia,
si dovette attendere "I muri dell'asilo", di Gentis, per vedere il
culto di Artaud uscire definitivamente dalle conversazioni private e dagli accenni:
la modificazione della scrittura che ne consegue è dovuta tanto a Céline
che ad Artaud... Lo stesso può dirsi dell'"Anti-Edipo" già
citato. Da una ventina d'anni a questa parte, la gran maggioranza dei testi
prodotti dalla corrente francese di psicoterapia istituzionale conservavano
tutta la rigidità del linguaggio medico e psicanalitico, accostando faticosamente
esposizione teorica e monografia clinica. Cionondimeno la letteratura psicanalitica
e psichiatrica precorre sensibilmente la letteratura etnologica e sociologica
per quanto riguarda la messa in causa del mezzo di comunicazione e la messa
in evidenza dell'implicazione nell'oggetto della conoscenza.
Infine, il significato del fenomeno di cui stiamo parlando dev'essere ugualmente
spiegato come una volontà di deperimento delle scienze umane e sociali,
o semplicemente come una constatazione di questo deperimento. Freud scriveva
come un filosofo, e Durkheim come un ministro, ogni volta che si presentava
l'occasione, cioè ogni volta che essi sconfinavano dal loro lavoro propriamente
clinico o propriamente sociologico. Gli psicanalisti, in seguito, si sono abituati
a scrivere nel ridicolo linguaggio del medico, e talvolta come i filosofi. I
sociologhi hanno da parte loro tentato una scrittura tecnica, di fatto divorata
da un metalinguaggio destinato a significare continuamente che il loro discorso
era proprio scienza, e non ideologia insaporita colla retorica delle Grandi
Scuole. Gli etnologhi talvolta hanno optato per il materiale grezzo o semilavorato,
per un linguaggio fenomenologico, aderente alla descrizione, aderente ai loro
insolubili problemi d'implicazione. Comunque, la problematica dell'analizzatore
sorge proprio in questo contesto di una decomposizione del discorso «scientifico».
In modo più o meno felice, questa problematica cerca di assumere la constatazione
o la volontà di deperimento delle scienze umane. Essa tenta di superare
i romanticismi psicanalitici, etnologici e sociologici che costituiscono i segni
di questo deperimento. Superamento verso la costituzione di una "contro-sociologia"
che non è né una sintesi pluridisciplinare di discipline morte,
e nemmeno una sintesi delle loro negazioni (sociologia critica, antipsichiatria,
antietnologia, eccetera). Se, sempre in tal campo, la pratica sociale non ha
prodotto il concetto che si attende confusamente, non è meno vero che
l'idea «nell'aria» è quella di una pratica dell'intervento
sociale che faccia saltare le barriere tra scienza sociale, teoria rivoluzionaria
e prassi non omologate dalla scienza sociale e dalla teoria rivoluzionaria.
E così, non l'ho riaperta, la mia parentesi! Questa vittoria provvisoria
sulla discontinuità è forse una rivincita della positività
sulla negatività? Può darsi. Bisogna quindi decomporre di nuovo
il discorso pieno che credo di aver abbozzato, e ritrovare la negatività
che ho creduto di poter allontanare o esorcizzare momentaneamente. Troppi positivisti
che non sanno di esserlo (senza parlare degli altri!) massacrano i rapporti
sociali. La loro «Internazionale» ha già contaminato le Internazionali
che credono di seguire il filo della corrente dialettica. Dialettica che i suoi
teorici, da Hegel a Lenin passando per Marx, avevano quasi completamente liquidata
senza nemmeno accorgersene, in nome di valori universali e positivi come lo
Stato o la Produzione. Lavoratori del positivo, DISUNITEVI! E voi, lavoratori
del negativo, UNITEVI!
Contro l'utopia della scrittura piena, gli specialisti offrono
i loro rifugi sotterranei; e la rinuncia alle specialità riporta la problematica
della scrittura piena, in un contesto nuovo, è vero: quello del necessario
superamento della contraddizione così esperimentata, e non soltanto percepita
teoricamente.
Problematica arricchita di tutto il «concreto» prima rimosso. Se
in questo momento mi pongo il problema di un seguito al testo sotto il quale
ho avuto la tentazione di scrivere il mio nome per concluderlo (e non ho resistito
alla tentazione), mi si aprono davanti parecchie strade che non so dove conducano.
Posso parlare dei problemi che solleva la «Ricerca» quando uno è
sposato, padre di un figlio e professore all'università. Posso continuare
con l'estro teorico-lirico svolgendo il tema degli analizzatori. Posso provare
la scrittura poetica, la scrittura automatica, eccetera eccetera. L'epoca è
tanto meno propizia alle scelte intellettuali coerenti quanto più le
scadenze storiche appaiono ad un tempo lontane ed inevitabili (sono chiaro?)
Bene, Nerval ha detto ciò meglio di me, e questo mi fornisce un altro
piccolo «collage», proprio secondo la moda. «Vivevamo allora
in un'epoca strana, come quelle che di solito succedono alle rivoluzioni o alle
decadenze dei grandi regni. Non era più la galanteria eroica come sotto
la Fronda, il vizio elegante e agghindato come sotto la Reggenza, lo scetticismo
e le folli orge del Direttorio; era un misto di attività, di esitazione
e di pigrizia, di utopie brillanti, di aspirazioni filosofiche o religiose,
di entusiasmi vaghi, uniti a certi istinti di rinascita, di fastidio per le
discordie passate, di speranze incerte...» ("Silvia", cap. 1).
Questo è il quadro degli anni 1830, quest'epoca intermedia fra la Rivoluzione
del 1789 e quella - futura, ah sì, FUTURA - del 1848. Ma noi non siamo
né fra il 1789 e il 1848 e il 1871, né fra il 1917 e il 1936,
né fra il 1936 e il 1968 - e meno ancora fra la pubblicazione del "Contratto
sociale" e la convocazione degli Stati generali. Siamo nel 1972, fra...
tutte queste date e questi periodi (che non servono ad altro che ad inquadrare
la nostra memoria storica) da una parte, e dall'altra parte il Mondo Nuovo,
il grande Supermercato della Storia, che aprirà i battenti domani o dopodomani.
E allora?
Se scendo velocemente lungo la rampa, mi ritrovo alle prese con difficoltà
semplicissime, per esempio la seguente: come far capire (e PERCHE'?) che ciò
di cui sembro trattare con sicurezza, l'analisi istituzionale, esiste soltanto
in rapporto ad un certo numero di determinazioni le quali non solo la superano
ma la costituiscono? Se facessi una esposizione didattica dell'analisi istituzionale,
ecco i tre «piani» che distinguerei: a) l'A. I. nel contesto dell'intervento
sociale in genere, compreso l'intervento di tipo rivoluzionario; b) l'A. I.
nel contesto dei metodi d'intervento (e degli altri metodi) in sociologia, etnologia,
psicosociologia, psicanalisi, eccetera.; c) l'A. I. nelle sue correnti parallele
o divergenti, in concorrenza per liquidare l'eredità delle scienze umane,
della psichiatria, della pedagogia, anzi per liquidare l'eredità della
«teoria rivoluzionaria».
I lavoratori del negativo sono forse dei rivoluzionari senza rivoluzione - per
usare la formula che un ex surrealista applica precisamente al movimento surrealista?
Può darsi. Ma questa situazione non è più deludente di
quella prodotta da una rivoluzione senza rivoluzionari. L'analisi istituzionale
non è un metodo d'intervento rivoluzionario poiché non esistono
metodi omologati, depositati come rivoluzionari. Fra la pratica utopica e la
pratica riformista, nessuna certezza teorico-metafisica viene ad assicurare
il socioanalista che egli si trova nel «senso della storia» (ho
pensato - ed ecco di nuovo le parentesi - che il mio piccolo progetto di esposizione
didattica sull'analisi istituzionale era fortemente condizionato dal fatto che
siamo in periodo di apertura dell'anno accademico (oggi stesso avrò la
prima seduta) e che ad ogni inizio dell'anno dico a me stesso che bisogna trovare
qualche espediente per «agganciare» almeno provvisoriamente gli
studenti. E' esauriente questa spiegazione? Certo no. Ma come attuare quel magnifico
programma, proposto nel numero 10 dell'«Internazionale Situazionista»
(p. 73): «Un libro dialettico al giorno d'oggi non è soltanto un
libro che espone dialetticamente un ragionamento; è un libro che riconosce
e calcola la propria relazione con la totalità da trasformare realmente».
La «totalità», è forse un po' ambizioso; ciò
suppone che l'analisi della totalità possa essere effettuata da una sola
persona, il che contraddice violentemente il concetto di totalità come
insieme in movimento delle determinazioni, ma in compenso «calza»
abbastanza bene se ci si fa un concetto banale, astratto della suddetta totalità.
Il principio dell'analisi istituzionale, in quanto investe la totalità,
è proprio di essere collettiva. Perciò il progetto di un «libro
dialettico» è un'impossibilità, se viene formulato in modo
semplicistico e integrale come nel passo citato. Bisognerebbe aggiungere che
l'impossibilità di fare un'analisi della totalità sul piano individuale
comporta certe conseguenze di capitale importanza nei riguardi della scrittura
in generale e della produzione di un libro in particolare. Fra queste conseguenze,
la prima mi sembra essere che il «calcolo» della mia propria relazione
con la totalità da trasformare «realmente» non può
essere, sulla carta, altro che una simulazione dell'analisi collettiva; la seconda
conseguenza è, naturalmente, che siccome la «trasformazione reale»
della totalità fa parte di questa totalità (del movimento, della
negatività che la costituisce), la valutazione e l'azione del cambiamento
non possono essere anch'essi altro che collettivi, il che conferisce un carattere
utopico sia all'intento individuale di cambiare, sia all'immagine della totalità
che ne scaturisce. Ma non siamo forse tornati in tal modo alla problematica
iniziale, quella dell'azione microsociale (a cui l'azione individuale è
più vicina di quanto non lo sia l'azione macrosociale), quella dell'indicatore,
o dell'induttore, o dell'analizzatore delle «trasformazioni reali»,
realmente percettibili "hic et nunc"?)
Per qualche giorno ho interrotto la stesura di questo testo: ero a Parigi, ho
riveduto gli amici insegnanti e studenti a Nanterre, dove continuo un po' a
insegnare, ho discusso e alquanto riflettuto approfittando di conversazioni
ascoltate, per esempio quando Françoise, che era venuta a Parigi per
seguire un corso di «bio-energetica» (metodo di espressione corporea
ispirato all'ultimo periodo di W. Reich) raccontava quello che andava scoprendo
da una seduta all'altra. Ho preso alcuni appunti nel treno al ritorno, poi altri
qui, leggendo libri sulla rivoluzione francese (vecchi libri che hanno il merito
di far sentire apertamente la loro epoca, il che spesso non succede con un'opera
moderna immersa nell'ideologia del suo ambiente, nelle false evidenze della
nostra epoca). Mi è sembrato che molte idee mi si presentavano per continuare
il presente scritto. Devo anche dire che ho comperato a Parigi alcuni libri,
opuscoli e riviste recenti, e come al solito, come mi succede da quando compero
o mi faccio prestare dei libri (dall'età di quattordici o quindici anni),
il piacere che mi procura quel guazzabuglio di idee e di fatti diventa una delizia.
In che modo mettere un po' d'ordine in questi pensieri? Come direbbe Pascal,
il loro disordine non sarebbe forse più significativo? Ma di che cosa,
e per chi? Ecco che ricado nella letteratura genere «giornale di bordo»,
in cui mi sono deliziato per tutta la mia adolescenza ed oltre (tanti quaderni
riempiti, a che pro?) Forse la miglior cosa sarebbe tentare un'espressione grafica
meno lineare della scrittura, dei collages, dei disegni, delle foto, ma non
sono sicuro che il mezzo destinato a sopportare il mio testo e altri testi (Sartre,
Basaglia, Castel, Foucault...) sia previsto a questo fine. E per tentare una
prova di forza coll'editore (di cui ignoro perfino il nome) sono paralizzato
dalla pigrizia: devo sprecare abbastanza forze coi miei editori abituali...
Altra soluzione: lasciar riposare queste idee aspettando un'occasione più
favorevole: il mondo non morirà se non verrà a conoscerle nei
prossimi mesi. E nell'attesa, accontentarmi di «stenderle» così
come sono, sotto forma di piccoli paragrafi quasi aforistici, alla maniera di
certi filosofi e saggisti di cui, devo dirlo, non apprezzo il metodo: finte
prospettive dipinte su finto marmo. Procediamo lo stesso, e si vedrà
quello che ne salterà fuori.
Ebbene, no; non getterò giù alla rinfusa queste
famose «idee» che ho annotato in treno. Sono passate diverse settimane.
Ho incontrato Basaglia nel suo ultimo soggiorno parigino. Abbiamo parlato per
due ore buone. Da questa conversazione traggo due o tre elementi nuovi.
Da una parte, Basaglia mi ha raccontato quello che si sta facendo a Gorizia,
la volontà di liquidare l'istituzione psichiatrica e non più di
farla lentamente deperire: il personale curante proporrà alle altre istituzioni
responsabili della «salute mentale» di lasciar liberi la maggior
parte dei malati prima che l'istituzione psichiatrica non li renda veramente
malati e pazzi.
D'altra parte, son venuto a sapere che il collettivo a cui partecipo ha per
tema, e per titolo provvisorio: «L'intellettuale, il tecnico, la pratica
e le istituzioni». Ciò corrisponde abbastanza bene al testo che
ho scritto qui, benché la problematica dell'intellettuale non sia portata
abbastanza avanti nella mia riflessione.
Infine, evocando alcuni esponenti della corrente francese di psicoterapia istituzionale,
che conosco più o meno, ho creduto di capire che Basaglia non si sentiva
in perfetto accordo con loro. E' vero che la psicoterapia istituzionale non
sempre è arrivata, nonostante apparenti rielaborazioni radicali, ad uscire
dal suo psicanalismo, dalla sua referenza e dalla sua reverenza quasi religiosa
all'ideologia psicanalitica, anche se riveduta e corretta da Lacan e da Marx
(poveraccio: lui la cui «psicologia» era per forza quella del suo
tempo, e la cui ideologia dei «bisogni» si articola tanto difficilmente
con la problematica del desiderio, anche se trasformato in «macchina»
produttiva e produttivista). Ma infine, ciò che nella mia conversazione
con Basaglia mi ha fatto più riflettere è questo: quando gli proposi
la scelta fra il testo presente (allora abbozzato in grandi linee) ed una monografia
d'intervento, egli ha dimostrato una preferenza per la monografia. Ora, riflettendoci
sopra, mi son detto che un lavoro del genere, per quanto possa essere utile
in certi momenti, mi avrebbe impedito, causa gli imperativi che il genere impone,
di lasciar correre la mia immaginazione attorno ai due concetti centrali dell'analisi
istituzionale: l'analizzatore e l'implicazione del ricercatore pratico. Certo,
per mezzo di una monografia potrei fornire concrete illustrazioni del posto
occupato dall'analizzatore e dalle implicazioni dell'analista in un intervento.
E' quello che ho già fatto in alcune monografie. Ma questo tipo di «prova
empirica» può forse convincere qualcuno che non sia già
convinto dell'«efficacia» e della «scientificità»
del metodo? E poi non vi è nulla di più noioso in generale che
una monografia, anche se tratta delle popolazioni marginali di studenti alla
deriva o di cristiani in crisi.
Ho quindi deciso di continuare per la via tracciata sul tema dei "lavoratori
del negativo". O piuttosto, ho deciso di concludere - provvisoriamente
- proponendo la tesi seguente: ho pensato a ciò leggendo il mediocrissimo
ma molto suggestivo lavoro di Guy Hocquengem, "Il desiderio omosessuale"
(Puf, Paris 1972): la problematica dell'intellettuale pratico è inseparabile
dalla problematica dell'intellettuale rivoluzionario. Non nel senso che quest'ultimo
abbia delle lezioni o degli esempi da dare al primo. Tutt'altro, gli ostacoli
e le contraddizioni dell'intellettuale pratico (psichiatra, sociologo, eccetera)
rivelano i difetti della teoria rivoluzionaria e della prassi degli intellettuali
rivoluzionari. Questi difetti, li riassumerei schematicamente dicendo che fra
le norme o rapporti sociali istituzionalizzati che restano non analizzati, opachi,
nell'attività dell'intellettuale che si dice o che vien detto rivoluzionario,
bisogna sottolineare la separazione tra professione e azione politica, da una
parte, e la separazione tra vita privata e vita pubblica dall'altra.
Quando l'intellettuale cerca di spezzare la separazione istituita fra le sue
attività burocratiche dette «scientifiche» o «creatrici»
e le sue opzioni ed i suoi impegni politici, i rivoluzionari «coscienti»
gridano allo scandalo, al «ricupero», alla «provocazione inutile».
Così in Francia dei professori di filosofia o di educazione fisica (due
discipline-chiave dell'istituzione liceale) dal 1968 vengono sospesi, esclusi
dall'insegnamento, perché non si sono identificati con l'amministrazione
o perché la loro pedagogia s'ispira più a W. Reich che a Piaget.
Un medico è stato di recente sospeso dal Consiglio dell'Ordine perché
aveva distribuito all'ingresso di un liceo un testo che trattava l'argomento:
come imparare a fare l'amore, eccetera eccetera. Ogni volta, i «politici»
levano alte grida, o non riescono a nascondere il loro imbarazzo.
L'imbarazzo dei «politici» è ancora maggiore, e maggiore
la loro collera, quando un intellettuale tenta di spezzare la separazione fra
vita privata e vita pubblica. Che uno di loro abbia la fama di omosessuale,
ciò non dà fastidio né all'interessato né ai suoi
colleghi. Ma che un altro sveli in tutta franchezza la sua omosessualità,
non in uno sfogo narcisistico ed estetico alla Gide, ma in un'analisi delle
sue implicazioni di intellettuale pratico, ed ecco gli spiriti più spregiudicati
sorridere pudicamente e rifiutarsi di accettare l'inaccettabile.
Da quale pulpito si parla? Da quale cattedra si scrive? Vecchi problemi sempre
nuovi. Quello del rapporto fra teoria e pratica non viene forse di fatto distorto
finché non si cerca di rispondere a tutti gli altri problemi "rimossi"?
Finché non si cerca di ascoltare le risposte balbettanti o urlanti fornite
dagli analizzatori della nostra pratica, dai lavoratori del negativo?
Poitiers (Francia) 1972.
[Traduzione di Ernesto Zenari].