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PSICOLOGIA E IDEOLOGIA (1)
di Noam Chomsky.


Nelle società industriali contemporanee, indipendentemente dal modo in cui esse si autodefiniscono nella propaganda ufficiale, il potere viene accentrato in misura sempre crescente dall'esecutivo statale, che domina la vita politica ed economica. Nelle democrazie capitalistiche, l'esecutivo statale è composto in larga misura dai rappresentanti degli imperi economici privati, ed è ovviamente sensibile ai loro interessi e alle loro necessità. Nelle cosiddette società «socialiste» il potere statale autocratico stabilisce i limiti ristretti entro cui può svilupparsi la vita intellettuale e sociale.
L'intelligencija ha un rapporto naturale di fedeltà nei confronti del potere statale. Esso le offre i mezzi per poter esercitare un certo grado di autorità e godere di certi privilegi, per non parlare dell'illusione di giocare un ruolo importante. Bakunin, cento anni fa, aveva previsto che l'intelligencija scientifica avrebbe contribuito all'instaurazione di regimi coercitivi e terroristici, riferendosi sia alla «burocrazia rossa» degli intellettuali pseudoscientifici, sia a coloro che opprimono la gente con «il bastone del popolo» delle democrazie liberali.
Il servizio che l'intelligencija rende al potere assume forme diverse. Da un lato essa fornisce la tecnologia della coercizione, sia materiale che intellettuale; dall'altro cerca di trovare una giustificazione all'uso della forza. I suoi membri diventano, secondo un'espressione molto appropriata di Gramsci, «esperti in legittimazione». In un'era in cui si venerano la scienza e la meccanica, gli esperti in legittimazione hanno notevoli possibilità d'azione. Si insegna alla gente a rivolgersi agli esperti i quali, grazie alle speciali cognizioni che possiedono, costituiscono un gruppo a sé. Nessuno oserebbe interferire nel lavoro di un chirurgo o del progettista di una centrale nucleare. Come può, allora, un semplice operaio avere la presunzione di minacciare le prerogative dell'industriale, o come può il cittadino comune presumere di commentare i gravi problemi di politica interna ed internazionale?
Si sostiene che i problemi di una società complessa richiedono che le responsabilità vengano affidate ai più dotati e istruiti. Soltanto se questi disporranno del potere, del controllo delle risorse e di una ricompensa materiale, saranno in grado di servire nel modo migliore le masse non illuminate. Nella loro saggezza, essi progetteranno una società per le masse obbedienti, le quali, a loro volta, non devono essere tanto irrazionali da sfidare l'autorità dei loro capi naturali.
Che la «scienza» degli esperti, ad un esame più attento, si riveli una frode e che il suo livello intellettuale sia tale che uno studente intelligente sarebbe imbarazzato dalla sua elementarietà, sono cose che hanno poca importanza. Finché si riesce a mantenere la credibilità al mito dell'esperienza tecnica e della «scienza neutrale», finché la scuola, i mass-media, i partiti politici e i commentatori degli avvenimenti contemporanei educano il popolo ad accettare i misteri del sacerdozio secolare, la tirannia e l'ingiustizia non corrono alcun pericolo. E quando gli avvenimenti dimostrano l'incompetenza dell'élite, ci sono altre forze di riserva. La vera faccia di coloro che si definiscono «i migliori e i più brillanti» si scopre soltanto quando i contadini in Indocina rifiutano di sottomettersi ai loro piani; oppure nelle prigioni e negli ospedali - le «istituzioni totali» - dove le loro tecniche di manipolazione vengono utilizzate.
Henry Kissinger ci insegna che la politica estera deve essere isolata dai controlli democratici (per quello che sono!), mentre Robert McNamara si premura di spiegarci che l'uomo raggiunge lo stadio più alto della libertà quando si sottomette ad una direzione razionale. Gli esperti nella lotta contro le insurrezioni ci dicono che i problemi con cui si scontrano sono puramente tecnici e che le leggi che governano i loro atti sono tanto «eticamente neutrali» quanto quelle della fisica. Le preoccupazioni di ordine morale sono quindi fuori luogo ed il pubblico viene escluso, a parte i pochi ottenebrati mentalmente che non capiscono e non dànno il giusto valore al metodo scientifico. In tutti i campi l'ideologia della società industriale ci impone di sottometterci al clero secolare, mentre proibisce qualsiasi analisi del suo reale ruolo sociale.
Il lavoro che segue si riferisce ad uno degli elementi del rovesciamento della scienza e dello studio al servizio dell'ideologia di stato capitalista e, in particolare, di alcune pretese delle «scienze comportamentali». Le finalità sono due: prima, rendere esplicita la frode implicita nel ruolo dell'intellettuale; seconda, scoprire le premesse ideologiche nascoste ed esaminare il significato sociale di questo tipo di lavoro.

1.

Un secolo fa, una voce del liberalismo inglese definiva il «cinese» come «una razza inferiore di orientali malleabili» (2). In quegli stessi anni, l'antropologia diveniva una disciplina istituzionalizzata, «intimamente connessa alla nascita della razziologia» (3). Di fronte alle tesi dell'antropologia razzista del diciannovesimo secolo, una persona razionale solleverà due questioni di tipo diverso: qual è il valore scientifico di tali tesi? e a quali bisogni sociali e ideologici rispondono? Si tratta di questioni tra loro logicamente indipendenti, ma la seconda verrà naturalmente in primo piano una volta che risulti scalzata ogni pretesa di scientificità. Nel caso della antropologia razzista del diciannovesimo secolo, la questione del suo valore scientifico praticamente non si pone più, né è difficile scorgerne la funzione sociale. Se il cinese è per sua natura malleabile, che obiezioni si potranno muovere ad un eventuale dominio esercitato su di lui da una razza superiore?
Si prenda ora una generalizzazione della pseudoscienza del diciannovesimo secolo: non sono più soltanto gli incivili cinesi ad essere malleabili per natura, bensì le persone in generale. La scienza ha rivelato che è illusorio parlare di «libertà» e di «dignità». Ciò che una persona fa è completamente determinato dal suo patrimonio genetico e dalla sua storia di rinforzi. Dobbiamo pertanto fare uso della migliore tecnologia del comportamento per plasmare e controllare il comportamento delle persone in vista dell'interesse collettivo.
Anche in questo caso, si potrà indagare il preciso significato e valore scientifico della tesi, e le funzioni sociali da essa assolte. Anche in questo caso, se il valore scientifico di quanto si capisce chiaramente risulterà scarso, sarà particolarmente interessante esaminare l'atmosfera intellettuale in cui tale tesi è presa sul serio.

2.

Nelle sue riflessioni filosofiche sul comportamento umano, che vanno nettamente distinte dalla sua indagine sperimentale del condizionamento operante, B. F. Skinner (4) propone una versione particolare della teoria della malleabilità umana. L'accoglienza da essa avuta è cosa di un certo interesse. Skinner è stato condannato quale banditore dell'ideologia totalitaria e lodato per la sua rivendicazione di un ambiente sociale accuratamente amministrato. Viene tacciato di immoralità ed elogiato come portavoce della scienza e della razionalità nel campo degli affari umani. Rivendicando il controllo in luogo della difesa della libertà e della dignità, egli appare attaccare dei valori umani fondamentali. In ciò sembra esserci qualcosa di scandaloso, e poiché Skinner invoca l'autorità della scienza, alcuni critici condannano la stessa scienza, o la «visione scientifica dell'uomo», in quanto porterebbe a simili conclusioni, mentre altri ci assicurano che la scienza «sbaraglierà» il misticismo e l'irrazionalità.
Un'attenta analisi mostra che l'apparenza inganna. Skinner non dice nulla sulla libertà e la dignità, pur usando le parole «libertà» e «dignità» in un certo qual senso bizzarro e personalissimo. Le sue speculazioni sono prive di contenuto scientifico e non lasciano nemmeno intravvedere i lineamenti generali di una possibile scienza del comportamento umano. Per di più, Skinner impone alla ricerca scientifica talune arbitrarie limitazioni che in pratica garantiscono l'insuccesso permanente.
Quanto alle sue implicazioni sociali, la scienza del comportamento umano di Skinner, essendo del tutto vacua, va bene tanto al libertario quanto al fascista. Se certi suoi rilievi lasciano adito all'una o all'altra interpretazione, va sottolineato che tali interpretazioni non derivano dalla sua «scienza» più di quanto ne derivi la loro negazione. Penso sarebbe più giusto considerare "Oltre la libertà e la dignità" di Skinner come una specie di test di Rorschach. Il fatto che vi si veda comunemente un preannunzio del 1984 è tutt'al più un sintomo significativo di certe tendenze della moderna società industriale. Ci sono pochi dubbi che una teoria della malleabilità umana possa essere posta al servizio di una dottrina totalitaria. Se infatti la libertà e la dignità non sono che residui di credenze mistiche superate, quali obiezioni si potranno muovere a dei controlli rigorosi ed efficaci istituiti allo scopo di assicurare «la sopravvivenza di una cultura»?
Dato il prestigio della scienza, e date le tendenze al controllo autoritario centralizzato facilmente rilevabili nella moderna società industriale, è importante analizzare seriamente la tesi secondo cui la scienza del comportamento e la relativa tecnologia fornirebbero rispettivamente i criteri e i mezzi per il controllo del comportamento. Che cosa è stato in effetti dimostrato, o almeno ipotizzato su un piano di verosimiglianza, a questo riguardo?
Skinner ci assicura a più riprese che la sua scienza del comportamento sta facendo passi da gigante e che esiste una efficace tecnologia del controllo. E' «un fatto», egli sostiene, «che ogni controllo è esercitato dall'ambiente» (5). Di conseguenza, «quando sembra che rimettiamo a una persona il controllo su se stessa, in realtà non facciamo altro che passare da un tipo di controllo a un altro» (p. 97; trad. it. p. 117). Il solo compito serio, quindi, consisterà nell'escogitare controlli più efficaci e meno «avversivi», un semplice problema di ingegneria. «Le linee principali di una tecnologia del comportamento sono già chiare» (p. 158; trad. it. p. 185).
E' un dato di fatto, sostiene Skinner, che «il comportamento viene plasmato e consolidato dalle sue conseguenze» e che con il procedere dell'indagine sulle conseguenze inerenti al comportamento, sempre più queste ultime «stanno soppiantando le funzioni assolte in precedenza nella spiegazione dalla personalità, dagli stati mentali, dagli elementi caratteriali, dai fini e dalle intenzioni» (p. 18; trad. it. p. 31).

«Man mano che "una scienza del comportamento" adotta la strategia della fisica e della biologia, l'agente autonomo a cui il comportamento è stato tradizionalmente attribuito viene sostituito dall'ambiente: l'ambiente in cui si è evoluta la specie e in cui si è plasmato e consolidato il comportamento dell'individuo» (p. 184; trad. it. p. 214).

Un'«analisi del comportamento» si viene così a sostituire all'«uso tradizionale di richiamarsi a stati mentali, sentimenti e altri aspetti dell'uomo autonomo», e questa analisi è in realtà «già molto più avanti di quanto i critici si rendano normalmente conto» (p. 160; trad. it. p. 187). Il comportamento umano è una funzione delle «condizioni, ambientali e genetiche», e la gente non dovrebbe protestare «quando un'analisi scientifica riconduce il suo comportamento a condizioni esterne» (p. 75; trad. it. p. 93), o quando una tecnologia del comportamento migliora il sistema di controllo.
Non solo tutto ciò è stato dimostrato; di più, è inevitabile che col progredire della scienza del comportamento, questi fatti debbano trovare una più definitiva conferma. «E' nella natura del progresso scientifico che le funzioni dell'uomo autonomo siano eliminate una dopo l'altra man mano che si comprende meglio la funzione dell'ambiente» (p. 58; trad. it. p. 74). Così dice la «concezione scientifica», ed «è nella natura dell'indagine scientifica» che l'evidenza le dia ragione (p. 101, trad. it. p. 121). «E' nella natura dell'analisi sperimentale del comportamento umano di privare l'uomo autonomo delle funzioni precedentemente attribuitegli, trasferendole, una dopo l'altra, al controllo esercitato dall'ambiente» (p. 198; trad. it. p. 230). Inoltre, la fisiologia un giorno o l'altro «ci spiegherà perché il comportamento è legato a quei fatti antecedenti di cui si può dimostrare che è una funzione» ( p. 195; trad. it. p.p. 226-27).
Queste tesi si suddividono in due categorie. Alla prima appartengono le tesi riguardanti quanto è stato scoperto; alla seconda, le asserzioni riguardanti quanto la scienza dovrà per forza scoprire nella sua inesorabile avanzata. E' probabile che il senso di speranza, timore o rassegnazione suscitato dagli altisonanti discorsi di Skinner derivi, in parte, da tali asserzioni sull'inevitabilità che il progresso scientifico porti alla dimostrazione che ogni controllo è esercitato dall'ambiente, che la facoltà di scelta dell'«uomo autonomo» è un'illusione.
Le tesi del primo tipo vanno valutate sulla base delle prove addotte a loro sostegno. Nel nostro caso, il compito non è difficile. Di prove non ne viene addotta una sola. In realtà, come diverrà chiaro quando passeremo a degli esempi più circostanziati, il problema delle prove non si pone nemmeno, dal momento che le tesi in questione si riducono, in sede di analisi, a pura incoerenza o banalità. Più ambigue sono le tesi concernenti l'inevitabilità delle scoperte future. Forse Skinner vuol dire che per sua intrinseca necessità la scienza mostrerà come il comportamento sia determinato completamente dall'ambiente. Se è così, la sua tesi può essere liquidata come dogmatismo puro e semplice, estraneo alla «natura dell'indagine scientifica». E' del tutto concepibile che, coll'avanzare della comprensione scientifica, ci si renda conto di come, pur disponendo di tutte le informazioni sul patrimonio genetico e sulla storia personale di un organismo, una onniscienza laplaciana possa dire ben poco su ciò che questo organismo farà. Non è addirittura da escludere che la scienza arrivi un giorno a fornire ragioni di principio a sostegno di questa conclusione (ammesso naturalmente che sia vera). Ma forse Skinner vuole semplicemente proporre di restringere la nozione di «comprensione scientifica» alla previsione del comportamento sulla base delle condizioni ambientali. Se è così, la scienza potrebbe rivelare, man mano che progredisce, che la «comprensione scientifica del comportamento umano», intesa in questo senso, è intrinsecamente limitata. Allo stadio attuale, non abbiamo praticamente alcuna prova scientifica né alcun embrione di ipotesi significativa sul modo come il comportamento sia determinato. Di conseguenza, possiamo soltanto esprimere le nostre speranze e le nostre supposizioni circa quanto potrà eventualmente dimostrare una scienza di là da venire. In ogni caso, le tesi che Skinner avanza a questo livello sono o dogmatiche o insignificanti, a seconda dell'interpretazione che se ne dia.
Il risvolto dogmatico del pensiero di Skinner si manifesta altresì laddove egli afferma che «il compito di un'analisi scientifica è quello di spiegare in che modo il comportamento di una persona, considerata come un sistema fisico, si ricolleghi alle condizioni in cui la specie umana si è evoluta e a quelle in cui vivono gli individui» (p. 14; trad. it. p. 26). Una cosa è certa, ed è che il compito di un'analisi scientifica sta nello scoprire i fatti e nello spiegarli. Supponiamo che in effetti il cervello umano operi in base a principi fisici (per ora forse ignoti) che garantiscono la libera scelta, appropriata alla situazione ma solo marginalmente influenzata dalle circostanze ambientali. Lo scopo dell'analisi scientifica non è affatto, come crede Skinner, di dimostrare che le condizioni alle quali egli restringe la sua attenzione determinano completamente il comportamento umano, ma piuttosto di scoprire se effettivamente lo determinino (o se abbiano un'incidenza purchessia), il che è tutt'altra questione. Se non lo determinano, come sembra del tutto verosimile, «il compito di un'analisi scientifica» sarà di chiarire i termini del problema e scoprire una teoria esplicativa intelligibile che renda conto dei fatti reali. Sicuramente nessuno scienziato seguirà Skinner quando insiste sulla necessità "a priori" che l'indagine scientifica giunga ad una determinata conclusione stabilita in anticipo.
A sostegno della sua opinione secondo cui la scienza dimostrerà che il comportamento non è altro che una funzione di eventi antecedenti, Skinner osserva come la fisica abbia incominciato a progredire solo quando «ha smesso di personificare le cose», attribuendo ad esse «intenzioni, finalità, scopi, mete» e via dicendo (p. 8; trad. it. p.p. 1920). Pertanto, egli conclude, la scienza del comportamento progredirà soltanto quando avrà smesso di personificare la gente evitando ogni riferimento a «stati interni». Non c'è dubbio che la fisica ha progredito per aver rigettato l'idea che il desiderio di cadere che prova una pietra è un fattore del suo «comportamento», giacché in effetti una pietra non prova punto desideri del genere. Perché la sua argomentazione abbia un qualche valore, Skinner dovrebbe mostrare come la gente non abbia intenzioni, finalità, scopi, mete e simili più di quanto ne abbiano le pietre. Se la gente per questo aspetto differisce dalle pietre, la scienza del comportamento umano ne dovrà pure tener conto.
Analogamente, Skinner ha ragione di asserire che «la fisica moderna e la maggior parte delle scienze biologiche moderne» non discutono questioni quali la «crisi di sfiducia» o la «disperazione» (p. 10; trad. it. p. 21). E' peraltro evidente che da questa osservazione non discende nulla che abbia attinenza con la scienza del comportamento umano. La scienza fisica e biologica, osserva Skinner, «non progredì sicuramente esaminando più da vicino la gioia di un corpo in caduta libera, o... analizzando la natura degli spiriti vitali; così noi, per affrontare un'analisi scientifica del comportamento, non abbiamo sicuramente bisogno di cercare di scoprire la vera natura della personalità, degli stati mentali, dei sentimenti, dei tratti caratteriali, dei fini, delle intenzioni e delle altre prerogative dell'uomo autonomo»; e dobbiamo quindi per forza trascurare «la presunta mediazione di stati mentali» (p. 15; trad. it. p. 27). Ciò sarà anche vero, ove in effetti non ci sia una mediazione di stati mentali definibili per mezzo di una teoria astratta della mente, e ove la personalità, i sentimenti, eccetera non siano più reali della gioia provata da un corpo in caduta libera. Ma se le premesse fattuali sono false, dobbiamo per forza cercare di scoprire la vera natura delle «prerogative dell'uomo autonomo» e della «mediazione di stati mentali» - almeno, lo dobbiamo fare se desideriamo sviluppare una scienza del comportamento umano che abbia un minimo di sostanza intellettuale e di forza esplicativa. Skinner potrebbe semmai sostenere, più razionalmente, che la sua «scienza» non trascura tali prerogative e stati interni, bensì rende conto in altro modo dei fenomeni discussi in questi termini. Vedremo subito quale fondamento abbia un'affermazione del genere.
E' difficile sostenere che la scienza abbia progredito soltanto per aver rigettato le ipotesi sugli «stati interni». Scartando lo studio di presunti stati interni, Skinner denota la sua ostilità non solo per la «natura dell'indagine scientifica» ma anche per la prassi tecnologica corrente. Egli è ad esempio convinto che la «teoria dell'informazione» sia incappata in un «problema, quando ha dovuto inventare un meccanismo interno capace di convertire i problemi in risposta» (p. 18; trad. it. p. 30). Strano modo di presentare la questione: la «teoria dell'informazione» non è incappata in alcun «problema» del genere. Al contrario, la considerazione dei «meccanismi interni» della teoria matematica della comunicazione o le sue applicazioni alla psicologia hanno seguito il corso della normale prassi scientifica e tecnologica. Supponiamo che un ricercatore sia alle prese con un congegno di cui non capisce il funzionamento, e supponiamo che egli riesca ad ottenere delle informazioni sui rapporti di "input-output" insiti in questo congegno. Egli non esiterà, se è un essere razionale, a elaborare una teoria degli stati interni del congegno per poi sottoporla a verifica sulla base di nuovi elementi di prova. Potrà anche andare oltre, tentando di determinare i meccanismi che funzionano nel modo descritto dalla teoria degli stati interni, e i principi fisici che vi presiedono - lasciando aperta la possibilità che vi operino principi fisici nuovi e ignoti, questione questa particolarmente importante nello studio del comportamento degli organismi. La sua teoria degli stati interni potrebbe benissimo rappresentare la sola guida utile per la ricerca futura. Contestando, "a priori", questa scontata strategia di ricerca, Skinner non fa altro che condannare la sua strana versione di «scienza del comportamento» all'inettitudine permanente.
L'atteggiamento antiscientifico di Skinner si manifesta altresì nel suo modo di considerare i dati di fatto. Gli psicologi rispettosi dei fatti hanno sostenuto che l'acquisizione del linguaggio e dei vari concetti ad opera del fanciullo è in parte una funzione dell'età evolutiva, che attraverso un processo di maturazione il linguaggio del fanciullo cresce «come un embrione», e che l'isolamento interferisce con certi processi di crescita. Skinner respinge questa ipotesi (p.p. 139, 141 e 221; trad. it. p.p. 164, 166, 252), asserendo al contrario che le contingenze verbali e le altre contingenze ambientali spiegano la totalità dei fenomeni osservati. Né qui né altrove egli fornisce la minima prova o il minimo argomento razionale a sostegno di ciò, e nemmeno addita alcun altro errore nelle teorie perfettamente intelligibili, quand'anche per ventura sbagliate, da lui sommariamente respinte. (Egli avanza peraltro alcune obiezioni fasulle che per qualche ragione gli sembrano pertinenti - confronta le p.p. succitate). Il suo dogmatismo al riguardo è particolarmente curioso, giacché egli non negherebbe di sicuro che dei processi di maturazione geneticamente determinati siano implicati in altri aspetti dello sviluppo. Ma in questo campo egli insiste nel dire che la spiegazione deve trovarsi altrove. Quantunque la sua conclusione possa per puro caso risultare corretta, riuscirebbe pur sempre difficile immaginare un atteggiamento più antitetico alla «natura dell'indagine scientifica».
Non si può stabilire, "a priori", quali postulati e ipotesi siano legittimi. L'apriorismo di Skinner al riguardo non è più legittimo della tesi secondo cui la fisica classica non sarebbe «scienza», in quanto fa ricorso all'«occulta forza di gravità». Se un concetto o un principio trovano posto in una teoria esplicativa, non possono venirne esclusi per ragioni metodologiche, come vorrebbe invece l'argomentazione di Skinner. In generale, il concetto che Skinner ha della scienza è alquanto singolare. Non solo i suoi presupposti metodologici "a priori" fanno piazza pulita di quasi tutte le teorie scientifiche più scontate; in più, egli si compiace di strane enunciazioni, quale ad esempio l'asserto che «le leggi della scienza sono descrizioni di contingenze di rinforzo» (p. 189; trad. it. p. 220), la cui interpretazione lascio volentieri ad altri.
E' importante tenere a mente che le limitazioni fissate da Skinner non definiscono la prassi della scienza del comportamento. In realtà, coloro che si professano «scienziati del comportamento» o addirittura «comportamentisti» differiscono tra loro notevolmente per il genere di costruzioni teoretiche che sono disposti ad ammettere. W. V. O. Quine, che in altre occasioni ha cercato di muoversi entro la cornice skinneriana, arriva al punto di definire il «comportamentismo» come la semplice esigenza che le congetture e le conclusioni debbano in ultima istanza trovare una verifica a livello di osservazione (6). Come egli rileva, qualsiasi persona ragionevole è in questo senso «comportamentista». La posizione di Quine significa l'abbandono del comportamentismo come punto di vista a se stante, il che è più o meno la stessa cosa. Qualsiasi funzione abbia esercitato in passato, il comportamentismo ormai non è più nient'altro che un insieme di limitazioni arbitrarie alla costruzione di una teoria «legittima», e non c'è motivo per cui chi studia l'uomo e la società debba accettare dei ceppi intellettuali che nessun fisico sicuramente sopporterebbe e che condannano qualsiasi impresa intellettuale all'inanità.
Si badi che il punto qui in discussione non è il «comportamentismo filosofico», e cioè un complesso di idee sulle legittime pretese di conoscenza, bensì il comportamentismo in quanto insieme di condizioni imposte alla costruzione di teorie legittime nello studio delle capacità e acquisizioni intellettuali e dell'organizzazione sociale umana. Così, qualcuno potrebbe accettare la versione di comportamentismo proposta da Quine per la costruzione di una teoria scientifica, distaccandosi così in realtà dalla dottrina, pur tenendo fermo che le teorie scientifiche costruite in conformità al principio che le ipotesi devono in ultima istanza trovare una verifica a livello di osservazione non costituiscono genuina «conoscenza». Se coerente, questo qualcuno rigetterà anche le scienze naturali in quanto appunto non costituiscono «genuina conoscenza». Ovviamente al concetto di «conoscenza» si possono imporre le condizioni più arbitrarie di rigorosità. Quale che sia l'interesse di tale impresa, non è di questo che intendo discutere qui. Né intendo discutere la questione se il sistema di regole e principi inconsci che la mente costruisce, o lo schematismo innato che fornisce la base per tali costruzioni, si debbano propriamente chiamare «conoscenza», oppure vadano denominati in qualche altro modo. A mio giudizio, nessuna indagine sul concetto di conoscenza nella sua accezione corrente fornirà una risposta a questi problemi, dal momento che esso è troppo vago e incerto proprio sui punti cruciali. Non è questo tuttavia il nodo della presente discussione, e perciò non me ne occuperò oltre in questa sede.
Esaminiamo più attentamente che cosa intende dire Skinner quando asserisce che ogni comportamento dipende da un controllo esterno e che il comportamento è una funzione delle condizioni genetiche e ambientali. Intende forse dire che la completa conoscenza di tali condizioni permetterebbe, in linea di principio, previsioni specifiche su ciò che farà un individuo? Certamente no. Skinner intende dire che le condizioni genetiche e ambientali determinano una «probabilità di risposta». Ma questa nozione risulta in lui così vaga che è lecito chiedersi se le sue tesi sul determinismo abbiano un qualsiasi contenuto. Nessuno dubiterà che la probabilità che io mi rechi alla spiaggia dipenda dalla temperatura, o che la probabilità che io pronunci una frase in inglese anziché in cinese sia «determinata» dalla mia esperienza passata, oppure che la probabilità che io pronunci una frase del linguaggio umano, anziché di un qualche altro sistema di comunicazione concepibile ma umanamente inaccessibile, sia «determinata» dalla mia costituzione genetica. Per dirci questo forse non occorreva la scienza del comportamento. Quando però cerchiamo delle previsioni più specifiche, non troviamo praticamente nulla. Peggio, scopriamo che le limitazioni aprioristicamente imposte da Skinner alla ricerca scientifica gli impediscono non diciamo di indagare i concetti basilari, ma persino di formularli.
Prendiamo ad esempio la nozione «probabilità di pronunciare una frase in inglese anziché in cinese». Una volta definiti l'«inglese» e il «cinese» mediante una teoria astratta fondata sul postulato di stati interni (o mentali, come si vuole), si potrà conferire a questa nozione un certo significato - anche se le probabilità, essendo trascurabili in base a qualsiasi definizione nota dei fattori determinanti, non saranno di alcun interesse per la previsione del comportamento (7). Ma a Skinner è precluso persino questo modesto risultato. Per Skinner, ciò che noi chiamiamo «conoscenza del francese» è un «repertorio acquisito quando una persona impara a parlare francese» (p. 197; trad. it. p. 228). Le probabilità saranno perciò definite sulla base di tali «repertori». Ma che significa dire che una certa espressione che non ho mai udito né pronunciato appartiene al mio «repertorio», mentre non vi appartiene invece alcuna espressione cinese (sicché alla prima ineriscono maggiori «probabilità»)? Gli skinneriani, a questo punto della discussione, fanno ricorso alla «somiglianza» o «generalizzazione», sempre però senza definire i modi in cui una nuova espressione è «simile» a degli esempi di uso corrente o «generalizzata» a partire da essi. La ragione di questa omissione è semplice. Per quanto se ne sappia, le proprietà essenziali del linguaggio si lasciano esprimere solo in forma di teorie astratte, che si possono considerare come descrizioni di ipotetici stati interni dell'organismo, e tali teorie sono "a priori" escluse dalla «scienza» di Skinner. L'immediata conseguenza è che lo skinneriano cade per forza nel misticismo (concetti inesplicati di «somiglianza» o «generalizzazione» di un genere non meglio specificabile) non appena la discussione tocca il mondo dei fatti. Se la cosa si presenta forse più chiara nel caso del linguaggio, non c'è tuttavia ragione di supporre che altri aspetti del comportamento siano alla portata della «scienza» prigioniera delle aprioristiche limitazioni skinneriane.
E' interessante vedere, tra l'altro, come i difensori di Skinner reagiscano dinnanzi a quest'incapacità di affrontare le concrete questioni fattuali. Riferendosi alle critiche di Breger e McGaugh (8), i quali sostengono che l'approccio skinneriano all'apprendimento del linguaggio e al suo uso non rende conto di fatti che viceversa si spiegano postulando una teoria astratta (una grammatica) che sia appresa e usata dal soggetto parlante, Aubrey Yates ad esempio propone la seguente confutazione, da lui ritenuta «schiacciante»: «L'asserzione secondo cui i bambini imparano e utilizzano la grammatica non è... un "fatto" che Skinner debba spiegare, se la sua teoria ha da rimanere valida, bensì un'"inferenza", ossia una costruzione teoretica». «Nessuno ha mai osservato una "grammatica", né il bambino sarebbe in grado di esplicitarla; è del tutto fuori luogo elaborare una costruzione teoretica per rendere conto di un comportamento verbale complesso e pretendere poi che Skinner spieghi questa stessa costruzione teoretica per mezzo della sua teoria» (9).
Sennonché Breger e McGaugh non pretendono che Skinner spieghi la costruzione teoretica «grammatica» per mezzo della propria teoria (checché ciò possa significare); al contrario, sostengono che impiegando la costruzione teoretica «grammatica» è possibile render conto di fatti importanti che fuoriescono dai limiti del sistema di Skinner. Una risposta appropriata sarebbe che la spiegazione proposta non regge, o che Skinner può spiegare questi fatti in qualche altro modo, oppure che i fatti stessi non sono importanti ai suoi particolari fini. Ma la «schiacciante confutazione» di Yates, al pari del rifiuto dello stesso Skinner ad affrontare il problema, è un'evasione pura e semplice. Suppergiù con la stessa logica un mistico potrebbe sostenere che la sua spiegazione del moto planetario non va respinta a motivo della sua incapacità di dominare i fenomeni spiegati dalla fisica newtoniana, non essendo questa dopotutto che una teoria intesa a render conto dei fatti. Quanto poi al rilievo che la grammatica non può essere «osservata», né esplicitata dal bambino, è chiaro che nessuna costruzione teoretica viene «osservata», mentre la pretesa che le definizioni astratte di stati mentali interni siano accessibili all'introspezione, da parte del bambino come di qualsiasi altro individuo, non è (ad onta della sua venerabile vetustà) che dogmatismo della più bell'acqua, insostenibile in una seria ricerca. Potrà darsi che la teoria esplicativa discussa da Breger e McGaugh sia del tutto errata, ma non ha senso rilevare che non può essere osservata o descritta dalla persona il cui comportamento è per ipotesi spiegato mediante questa medesima teoria. Disgraziatamente, questo genere di astuzie è anche troppo classico.
Non meno illuminante è la replica di Skinner stesso ai suoi critici. Egli ritiene che lo si attacchi e gli si contesti la sua «immagine scientifica dell'uomo» in quanto «la formulazione scientifica ha distrutto [i] rinforzi abituali», facendo sì che «il comportamento precedentemente rinforzato dal credito o dall'ammirazione [sia] soggetto ad estinguersi». E l'estinzione, egli asserisce, «conduce spesso ad attacchi aggressivi» (p. 212; trad. it. p. 246). Altrove, egli accusa i suoi critici di «instabilità emotiva », riferendosi ai giudizi di Arthur Koestler e di Peter Gay secondo i quali il comportamentismo sarebbe «una monumentale banalità», contraddistinta da «un'innata ingenuità» e da «bancarotta intellettuale» (p. 165; trad. it. p. 193). Skinner non cerca di ribattere a queste critiche esibendo qualche importante risultato che non sia una monumentale banalità. Egli è del tutto incapace di comprendere che le obiezioni alla sua «immagine scientifica dell'uomo» derivano non già dall'estinzione di determinati comportamenti o dal rifiuto della scienza, ma dalla capacità di distinguere la scienza dalla banalità e dall'errore marchiano. Skinner non afferra la critica di fondo: prese alla lettera, le sue formulazioni sono o banalmente ovvie, o non verificate, o palesemente false; interpretate alla maniera vaga e metaforica che gli è congeniale, non sono altro che modesti surrogati del discorso quotidiano. Critiche come queste non si liquidano con scongiuri verbali, ripetendo semplicemente che il proprio approccio è scientifico e che quanti non se ne rendono conto sono dei nemici della scienza o dei mentecatti.
Analogamente, Skinner sostiene che la definizione del comportamentismo data da Koestler è in ritardo di settant'anni, ma non dice su quali grandi conquiste degli ultimi settant'anni Koestler abbia sorvolato. In realtà, le effettive conquiste della scienza del comportamento, per quanto ne sappiamo, non confermano affatto le conclusioni di Skinner (sempre che non si tratti di banalità). E' per questa ragione, si deve presumere, che Skinner assicura il lettore che non c'è alcun «bisogno di conoscere i particolari dell'analisi scientifica del comportamento» (p. 22; trad. it. p. 35), nessuno dei quali ci viene illustrato. Non sono la profondità o la complessità della sua teoria ad impedire a Skinner di esporla per sommi capi a beneficio del lettore profano. Jaques Monod, ad esempio, nel suo recente lavoro sulla biologia e i problemi umani (10), fornisce un quadro piuttosto particolareggiato delle conquiste della biologia moderna da lui ritenute importanti ai fini delle sue riflessioni filosofiche (chiaramente delineate). Aggiungerò, a scanso di equivoci, che non intendo rimproverare a Skinner la relativa povertà di conquiste significative che contraddistingue la scienza del comportamento a paragone, poniamo, con la biologia, bensì le sue affermazioni irresponsabili circa una «scienza del comportamento» che il lettore non avrebbe bisogno di conoscere, ma che avrebbe conseguito ogni sorta di notevoli risultati in fatto di controllo del comportamento.

3.

Veniamo ora alle prove addotte da Skinner a sostegno delle sue straordinarie tesi: come quella che «un'analisi del comportamento» rivelerebbe che le conquiste di artisti, scrittori, uomini di stato e scienziati si possono spiegare quasi interamente sulla base di contingenze ambientali (p. 44; trad. it. p. 58); o che sarebbe l'ambiente a rendere una persona saggia e compassionevole (p. 171; trad. it. p. 199); o che «quel che una persona 'si propone' di fare dipende da quel che ha fatto in passato e dalle conseguenze che quel comportamento ha avuto» (p. 72; trad. it. p. 90), e via dicendo.
Secondo Skinner il comportamento, patrimonio genetico a parte, è interamente determinato dal rinforzo. Per un organismo affamato, il cibo è un rinforzo positivo. Ciò significa che «è probabile che ogni azione dell'organismo seguita dall'assunzione di cibo si ripeta ogni volta che l'organismo è affamato» (p. 27; trad. it. p. 40); ma «il cibo esercita un'azione di rinforzo solo in stato di privazione» (p. 37; trad. it. p. 52). Un rinforzo negativo è uno stimolo che aumenta la probabilità di comportamenti che riducono l'intensità dello stimolo stesso; esso è «avversivo» e, detto così alla buona, rappresenta una minaccia (p. 27; trad. it. p. 40). Uno stimolo può diventare rinforzo condizionato in associazione con altri rinforzi. Così il denaro diventa «un rinforzo solo dopo essere stato scambiato con cose che hanno valore di rinforzo» (p. 33; trad. it. p. 47). Lo stesso vale in generale per l'approvazione e l'affetto. (Il lettore potrebbe tentare di fare qualcosa che Skinner evita sempre di fare, ossia di definire gli «stimoli» che costituiscono l'«approvazione»: ad esempio, perché l'enunciato «questo articolo meriterebbe di uscire sul giornale tal dei tali» assume valore di «approvazione» se detto da una persona e di «riprovazione» se detto da un'altra?) Il comportamento viene plasmato e consolidato dalla combinazione di siffatti rinforzi. Così, «mutiamo l'intensità relativa delle risposte mediante il rinforzo differenziale di linee d'azione alternative (p.p. 94-95; trad. it. p. 114); il repertorio di comportamento di un individuo è determinato dalle «contingenze di rinforzo cui è esposto come individuo» (p. 127; trad. it. p. 151); «un organismo si collocherà, tra un'attività vigorosa e una quiescenza completa, in una posizione dipendente dal programma di rinforzo cui è stato sottoposto» (p. 186; trad. it. p. 216). Come Skinner si rende ben conto (a differenza di certi suoi difensori) (11), per plasmare il comportamento in modo altamente specifico occorre un controllo meticoloso. Così, «la cultura... insegna all'individuo ad operare sottili distinzioni rendendo più preciso il rinforzo differenziale» (p. 149; trad. it. p. 226), fatto questo che pone dei problemi nei casi in cui «è impossibile predisporre le elusive contingenze necessarie a insegnare sottili distinzioni tra stimoli che rimangono inaccessibili a chi deve esercitare l'azione di rinforzo»; «ne consegue che il linguaggio delle emozioni non è preciso» (p. 106; trad. it. p. 127).
Il problema della «progettazione di una cultura» sta nel «liberare il più possibile l'ambiente sociale da stimoli avversivi» (p. 42; trad. it. p. 57), per «rendere la vita meno punitiva, rendendo in tal modo disponibili per attività che possono esercitare un maggior rinforzo il tempo e l'energia consumati nell'evitare la punizione» (p. 81; trad. it. p. 98). E' un problema di ingegneria, e lo potremmo affrontare se solo riuscissimo a liberarci della preoccupazione irrazionale per la libertà e la dignità. Quel che occorre è l'impiego più efficace della tecnologia disponibile, controlli più numerosi e migliori. In realtà, «disponiamo di una tecnologia del comportamento che potrebbe attenuare con successo le conseguenze avversive, prossime o differite, del comportamento stesso, e portare a livelli massimi le realizzazioni di cui l'organismo umano è capace, ma i difensori della libertà si oppongono al suo uso» (p. 125; trad. it. p. 148), contribuendo così al malessere sociale e alla sofferenza dell'uomo. E' questa irrazionalità che Skinner spera di persuaderci a superare.
A questo punto sorge una questione tanto imbarazzante quanto ovvia. Se la tesi di Skinner è errata, non avrà senso che lui abbia scritto il libro né che noi lo leggiamo. Ma se anche la sua tesi è giusta, non avrà ugualmente senso che lui abbia scritto il libro né che noi lo leggiamo. Giacché l'unico senso che potrebbe avere è quello di modificare il comportamento, e il comportamento, per ipotesi, è interamente controllato da una combinazione di rinforzi. Perciò la lettura del libro può modificare il comportamento solo se costituisce un rinforzo, ossia se la lettura del libro aumenta la probabilità del comportamento che aveva indotto a leggere il libro (posto un conveniente stato di privazione). A questo punto ci sembra di cadere in un controsenso.
Di rimando, si potrebbe obiettare che quand'anche la tesi di Skinner fosse errata, avrebbe pur sempre un senso sia aver scritto sia leggere il libro, dato che certe tesi, per quanto errate, sono tuttavia illuminanti e provocatorie. Ma la scappatoia appare piuttosto debole. In questo caso, la tesi diventerebbe elementare e di scarso interesse intrinseco. Il suo valore sta unicamente nella sua eventuale verità. Ma se la tesi è vera, tanto leggere quanto aver scritto il libro risulterà una mera perdita di tempo, dal momento che in entrambi i casi non si rinforza alcun comportamento.
Skinner sicuramente argomenterebbe che la lettura del libro, e fors'anche il libro stesso, sono un «rinforzo» in qualche altro senso. Con il suo libro egli vuole persuaderci e, c'era da aspettarselo, parla della persuasione come di una forma di controllo del comportamento, ancorché debole e inefficace. Skinner spera di persuaderci a dare più spazio ai tecnologi del comportamento, ed evidentemente ritiene che la lettura di questo libro aumenterà le probabilità che noi ci comportiamo in modo da concedere loro più spazio (libertà?) Pertanto, egli potrebbe concludere, la lettura del libro rinforza questo comportamento. Cambierà cioè il nostro comportamento nei confronti della «scienza del comportamento» (p. 24; trad. it. p. 37).
Sorvoliamo sul problema, insolubile nell'impostazione skinneriana, di specificare la nozione «comportamento che dà più spazio ai tecnologi del comportamento», ed esaminiamo la tesi secondo cui la lettura del libro potrebbe rinforzare tale comportamento. Disgraziatamente, la tesi è chiaramente errata, sempreché si usi il termine «rinforzo» in un'accezione sia pur lontanamente riconducibile al suo significato tecnico. Si rammenti che la lettura del libro rinforza il comportamento desiderato solo se è una conseguenza di questo stesso comportamento, e ovviamente quello di rimettere il nostro destino nelle mani dei tecnologi del comportamento non è il comportamento che ci ha indotti alla (e che quindi possa essere rinforzato dalla) lettura del libro di Skinner. La sua tesi può dunque essere vera solo a patto di svuotare il termine «rinforzo» del suo significato tecnico. Tirando le somme di queste osservazioni, vediamo che può avere un senso che noi leggiamo il libro o che Skinner lo abbia scritto solo a condizione che la tesi del libro venga avulsa da quella «scienza del comportamento» sulla quale pretende di fondarsi.
Esaminiamo ancora la questione della «persuasione». Secondo Skinner noi persuadiamo («mutiamo le menti») «manipolando le contingenze ambientali» o, più precisamente, «ricorrendo a stimoli associati a conseguenze positive» e «rendendo una situazione più favorevole all'azione, per esempio descrivendo conseguenze che è probabile esercitino un'azione di rinforzo» (p.p. 91-93; trad. it. p.p. 110-13). Anche tralasciando il fatto che la persuasione, così intesa, rappresenta una forma di controllo (una varietà di «rinforzo») ignota alla scienza di Skinner, il suo discorso non fa alcun passo avanti. Supponiamo che Skinner affermasse che il suo libro potrebbe persuaderci in quanto ci mostra le conseguenze positive della tecnologia del comportamento. Ma questo non significa nulla: non è sufficiente che egli ci mostri quelle conseguenze (ad esempio, presentandoci l'immagine di gente felice); egli deve bensì mostrarci che si tratta effettivamente di "conseguenze" del comportamento consigliato. Per persuaderci, egli deve stabilire un rapporto tra il comportamento consigliato e la situazione piacevole che descrive. La questione viene risolta ricorrendo al termine «conseguenze» (12). Non basta però associare così semplicemente la descrizione del comportamento desiderato a quella dello stato di cose «rinforzante» (di nuovo a prescindere dal fatto che nemmeno queste nozioni sono esprimibili in termini skinneriani). Bastasse questo a definire la «persuasione», si potrebbe convincere qualcuno dell'idea contraria associando semplicemente la descrizione di uno stato di cose spiacevole alla descrizione del comportamento che Skinner spera di provocare.
Se la persuasione si riducesse a una pura faccenda di stimoli rinforzanti e simili, qualunque argomento persuasivo conserverebbe la propria forza anche se i suoi passaggi venissero rimescolati a casaccio, o anche se qualcuno di questi passaggi fosse sostituito da arbitrarie descrizioni di stimoli rinforzanti. Evidentemente si tratta di sciocchezze. Per essere persuasivo, almeno agli occhi di una persona razionale, un argomento dev'essere coerente; le conclusioni devono scaturire dalle premesse. Ma queste nozioni esulano dal quadro concettuale skinneriano. Quando Skinner afferma che «la derivazione di ragioni nuove dalle vecchie, il procedimento deduttivo», dipende semplicemente «da una storia verbale molto più lunga» (p. 96; trad. it. p. 115), indulge a giochi di bussolotti della specie più patetica. Né lui né altri hanno mai offerto la più pallida indicazione di come «il procedimento deduttivo» possa essere definito nei suoi elementi sul fondamento di una «storia verbale», per quanto lunga. Un approccio che non permette non dico di risolvere, ma nemmeno di comprendere il problema del perché una qualsiasi nuova espressione sia intelligibile, mentre non lo è invece, poniamo, uno scambio tra i suoi elementi costitutivi, non può servire nemmeno ad impostare l'esame di nozioni quali quelle di «argomento coerente» o di «procedimento deduttivo».
Esaminiamo la tesi di Skinner secondo cui noi «possiamo determinare e mutare un comportamento verbale, non le opinioni» (p. 95; trad. it. p. 114), come risulta dall'analisi comportamentale. Preso alla lettera, ciò significa che qualora, sotto seria minaccia di tortura, costringessi qualcuno ad affermare a più riprese che la terra sta ferma, potrei dire di avergli fatto mutare opinione. Ogni commento è superfluo: si capisce al volo il significato di un'«analisi del comportamento» che approda a queste conclusioni.
Skinner sostiene che la persuasione è un metodo attenuato di controllo, e asserisce che «i difensori della libertà e della dignità accettano senza opporre resistenza l'intervento sulla mente... perché si tratta di un modo inefficace di agire sul comportamento, e quindi chi interviene sulla mente può sottrarsi all'accusa di esercitare un controllo» (p. 97; trad. it. p. 116). Supponiamo che il tuo dottore ti dimostri con un argomento stringente e razionale che, continuando a fumare, andrai incontro ad un'orribile morte per cancro polmonare. Questo argomento avrà davvero minore efficacia per la modificazione del tuo comportamento di una qualsiasi combinazione di rinforzi veri e propri? In realtà, che la persuasione sia efficace o meno dipende (per una persona razionale) dal contenuto dell'argomentazione, aspetto questo che Skinner non può nemmeno incominciare a descrivere. Il problema si complica ulteriormente se si prendono in considerazione altre forme di «intervento sulla mente». Supponiamo che la descrizione di un attacco al napalm contro un villaggio vietnamita spinga un americano qualsiasi a commettere un atto di sabotaggio. In questo caso lo stimolo determinante non è un rinforzo, la maniera di modificare il comportamento può anche risultare alquanto efficace e l'atto compiuto (il comportamento «rinforzato») è completamente nuovo (estraneo al «repertorio») e può persino prescindere da qualsiasi suggestione contenuta nello «stimolo» che ha provocato la modificazione del comportamento. Da qualunque parte la si guardi, dunque, la spiegazione di Skinner è palesemente incongrua.
Fin dalle sue lezioni del 1947 su William James (13), Skinner si è occupato di questi ed altri simili problemi. Il risultato è stato nullo. Rimane impossibile per Skinner formulare nei propri termini i concetti fondamentali, figuriamoci poi indagarli. Quel che più conta, nessuna ipotesi scientifica importante suffragata da prove è stata finora addotta a conferma delle stravaganti tesi alle quali è così affezionato (14). Inoltre, questo bilancio fallimentare era prevedibile fin dall'inizio, sulla base di un'analisi dei problemi e dei mezzi proposti per la loro soluzione. Occorre rilevare che il «comportamento verbale» è il solo aspetto del comportamento umano che Skinner abbia cercato di indagare un po' particolareggiatamente. Egli si rese conto ben presto, sia detto a suo onore, che solamente con un'adeguata analisi del linguaggio si sarebbe potuto sperare di venire a capo del comportamento umano. Confrontando i risultati ottenuti in quest'ultimo quarto di secolo con le tesi tuttora propugnate, si ricava un'idea abbastanza precisa del carattere della scienza del comportamento di Skinner. La mia impressione è che in realtà le sue tesi si stiano facendo più estreme e più stridenti man mano che si fanno più evidenti sia l'impossibilità di sostenerle sia le ragioni di questo scacco.
E' superfluo dilungarsi oltre su questo punto. Evidentemente Skinner non ha modo di rendere conto dei fattori operanti nell'atto di persuadere qualcuno o di mutarne il punto di vista. Il tentativo di ricorrere al «rinforzo» non fa che sfociare nell'incongruenza e nella mistificazione. E' qui il nodo decisivo. Il discorso sulla persuasione e sull'«intervento sulla mente» è uno dei pochi casi in cui Skinner cerca di venire a capo di ciò che egli definisce la «letteratura della libertà e della dignità». Il libertario da lui condannato distingue tra la persuasione e determinate forme di controllo. Approva il metodo della persuasione e si oppone alla coercizione. Per tutta risposta, Skinner sostiene che la persuasione è anch'essa una forma (attenuata) di controllo e che impiegando metodi attenuati di controllo non facciamo altro che trasferire il controllo ad altre condizioni ambientali, e non già all'individuo in quanto tale (p.p. 97 e 99; trad. it. p.p. 117 e 119). Sicché, sostiene Skinner, il difensore della libertà e della dignità si illude che la persuasione rimetta la questione della scelta all'«uomo autonomo», ed anzi rappresenta un pericolo per la società in quanto sbarra la strada a controlli più efficaci. Come si vede, tuttavia, la critica di Skinner alla «letteratura della libertà e della dignità» è inconsistente. La persuasione non è affatto una forma di controllo, nel senso skinneriano del termine; in realtà, egli è del tutto incapace di render conto nei propri termini di questo concetto.
Nessun dubbio però che la persuasione possa «mutare le menti» e influire sul comportamento, a volte in modo assai drastico. Visto che la persuasione non è coerentemente definibile in termini di combinazione di rinforzi, ne segue che il comportamento non è interamente determinato dalle contingenze specifiche alle quali Skinner restringe arbitrariamente la propria attenzione, e che pertanto la tesi principale del libro è errata. Skinner può sfuggire a questa conclusione solo sostenendo che la persuasione si riduce di fatto alla questione di combinare stimoli rinforzanti, ma questa tesi è sostenibile solo a patto di togliere al termine «rinforzo» il suo significato tecnico, usandolo come semplice sostituto della terminologia particolare e specifica del linguaggio corrente (la stessa cosa vale per la nozione di «combinazione o programmazione di rinforzi»). In ogni caso, la «scienza del comportamento» di Skinner non vale nulla; la tesi principale del libro è o errata (se ci atteniamo al significato tecnico della terminologia), oppure vacua (se non lo facciamo). E l'argomentazione antilibertaria crolla dalle fondamenta.
Skinner non solo è incapace di giustificare la sua tesi che la persuasione è una forma di controllo, ma non adduce nemmeno la più pallida prova a sostegno della sua tesi che l'impiego di «metodi attenuati di controllo» non fa che trasferire la funzione del controllo a qualche oscuro fattore ambientale anziché alla mente dell'uomo autonomo. Certo, dall'assunto che ogni comportamento è controllato dall'ambiente, discende che il ricorso a controlli attenuati anziché forti trasferisce il controllo ad altri aspetti dell'ambiente. Ma l'assunto, per quel tanto che risulta comprensibile, manca di un fondamento empirico, e in realtà potrebbe addirittura rivelarsi del tutto vacuo, come già s'è visto a proposito della «probabilità di risposta» e della persuasione. Non una delle critiche di Skinner alla «letteratura della libertà e della dignità» rimane in piedi.
La vacuità del sistema skinneriano è messa bene in evidenza dalla sua trattazione di argomenti più marginali. Egli sostiene (p. 112; trad. it. p. 133) che l'espressione «Dovresti leggere il "David Copperfield"» può essere tradotta in «Usufruirai di un rinforzo se leggerai il "David Copperfield"». Ma questo che significa? Applicando alla lettera la definizione di Skinner (vedi sopra), significa che il comportamento seguito dalla lettura del "David Copperfield" avrà maggiori probabilità di ripetersi qualora tu abbia bisogno di leggere. Oppure forse significa che l'atto di leggere il "David Copperfield" sarà seguito da qualche stimolo che aumenterà la probabilità che quest'atto si ripeta. Quando dunque dico a qualcuno che dovrebbe leggere il "David Copperfield", gli direi appunto qualcosa del genere. Supponiamo, allora, che ti abbia detto che dovresti leggere il "David Copperfield" perché questo ti farebbe recedere dall'idea che Dickens meriti di essere letto, o ti mostrerebbe che razza di noia è in realtà. Sta di fatto che, comunque si cerchi di interpretare l'indicazione di Skinner, dando al termine «rinforzo» un significato abbastanza vicino a quello letterale si cade nella più grande confusione.
Probabilmente ciò che Skinner intende dire con la frase «Usufruirai di un rinforzo se leggerai il "David Copperfield"» è che il libro ti piacerà, ti divertirà o ti insegnerà qualcosa di utile, per cui ne ricaverai un rinforzo. Ma qui casca l'asino. Giacché ora stiamo usando il termine «rinforzo» in un senso del tutto diverso da quello che ha nel modello del condizionamento operante. Non avrebbe senso cercare di applicare dei risultati relativi alla programmazione dei rinforzi, ad esempio, a questo particolare caso. Nessuna meraviglia, inoltre, che si riesca a «spiegare» il comportamento usando genericamente il termine «rinforzo» con tutta una gamma di significati che vanno dal «piacere» al «divertimento», all'«imparare qualcosa» e a non so che altro. Allo stesso modo, quando Skinner ci dice che un hobby affascinante è «rinforzante» (p. 36; trad. it. p. 50), non intende sicuramente affermare che il comportamento che ci porta a coltivare quell'hobby avrà maggiori probabilità di ripresentarsi. Intenderà piuttosto dire che quell'hobby ci procura un divertimento. Un'interpretazione letterale di siffatte osservazioni risulta priva di senso, mentre un'interpretazione metaforica mette capo alla semplice sostituzione di un termine corrente con l'omonimo di un termine tecnico, senza alcun guadagno in fatto di precisione.
Il sistema di traduzione skinneriano è facilmente accessibile a chiunque e si può anzi utilizzare senza nemmeno conoscere la teoria del condizionamento operante, e senza informazioni sulle circostanze in cui il comportamento si realizza, o sulla natura del comportamento stesso, all'infuori della comune osservazione. Questa constatazione ci permette di valutare esattamente l'importanza della «scienza del comportamento» per i nostri scopi presenti, e gli elementi di comprensione da essa forniti. Ma è bene tenere a mente che questo sistema di traduzione comporta una notevole perdita di precisione, per la semplice ragione che tutta la gamma di termini necessari alla descrizione e alla valutazione dei comportamenti, degli atteggiamenti, delle opinioni e così via, va tradotta nell'impoverito sistema terminologico preso a prestito dal laboratorio (e svuotato in questo passaggio del suo significato) (15). C'è dunque poco da sorprendersi che la traduzione skinneriana faccia generalmente cilecca, anche volendo dare un senso metaforico a termini come «rinforzo». Così Skinner asserisce che «una persona desidera qualcosa se, presentandosene l'occasione, agisce al fine di procurarsela» (p. 37; trad. it. p. 51). Ne segue che sarebbe impossibile agire al fine di procurarsi qualcosa, presentandosene l'occasione, pur senza desiderarla - mettiamo, per sventatezza o per senso del dovere (si può, come al solito, ridurre l'asserzione di Skinner a banalità, dicendo che quello che una persona desidera è fare il proprio dovere, e così via). Risulta chiaro dal contesto che Skinner intende «se» come «se e solo se». Discende pertanto dalla sua definizione del «desiderio» che sarebbe impossibile per una persona desiderare qualcosa e tuttavia non agire al fine di procurarsela, pur presentandosene l'occasione, mettiamo per ragioni di coscienza (di nuovo, ci si potrà rifugiare nella banalità facendo rientrare tali ragioni nell'«occasione»). Oppure si prenda la tesi secondo cui «siamo tanto più inclini ad ammirare un comportamento quanto meno lo comprendiamo» (p. 53; trad. it. p. 68). Secondo un'accezione rigorosa del termine «spiegazione», ne seguirebbe che ammiriamo praticamente ogni comportamento, dato che non ne possiamo spiegare praticamente nessuno. Secondo un'accezione più ampia, Skinner sosterrebbe che, se Eichmann ci risulta incomprensibile mentre capiamo invece perché i vietnamiti continuino a combattere, saremo più propensi ad ammirare Eichmann che non la resistenza vietnamita.
Il vero contenuto del sistema di Skinner può essere convenientemente valutato solo analizzando, ad esempio, dei passi come i seguenti:
«Trascurando le limitazioni fisiche, una persona è meno libera o sminuita nella sua dignità quando è esposta alla minaccia di una punizione» (p. 60; trad. it. p. 76). Sicché uno che si rifiuti di piegarsi all'autorità pur subendo una grave minaccia avrebbe perduto ogni dignità.
«Leggiamo. .. libri che ci aiutano a dire cose che siamo sul punto di dire, ma che non possiamo esprimere senza un aiuto», e in tal modo «comprendiamo l'autore» (p. 86; trad. it. p. 104). Si deve intendere la cosa nel senso che non leggiamo libri con i quali prevediamo di non trovarci d'accordo, e dei quali non saremmo comunque in grado di comprendere il messaggio? Se non è così, l'affermazione è vacua. Se è così, appare assurda.
Le cose che diciamo «buone» sono rinforzi positivi e quelle che diciamo «cattive» sono rinforzi negativi (p. 107; trad. it. p. 128) (16). Questo spiega perché la gente, per definizione, cerca sempre il bene ed evita il male. Di più, «un comportamento è chiamato buono o cattivo... a seconda del modo in cui è di solito rinforzato da altre persone» (p. 109; trad. it. p. 130). Finché Hitler fu «rinforzato» dagli avvenimenti e da quelli che lo attorniavano, il suo comportamento fu buono. Cattivo per definizione fu invece il comportamento di Dietrich Bonhoeffer e di Martin Niemoller. Nel racconto biblico era intrinsecamente contraddittorio cercare dieci uomini buoni a Sodoma. Si rammenti che lo studio del rinforzo operante, le cui conclusioni stiamo ora esaminando, si presenta come «una scienza dei valori»(p. 104; trad. it., p. 125).
«Una persona agisce intenzionalmente... nel senso che il suo comportamento è stato rinforzato dalle conseguenze» (p. 108; trad. it. p. 129) - come appunto nel caso di una persona che si suicida.
Gli elogi tributati all'eroe che ha ucciso il mostro sono diretti «precisamente a indurre l'eroe ad affrontare altri mostri» (p. 111; trad. it. p. 132) - è così che nessun eroe viene mai elogiato sul suo letto di morte o ai suoi funerali.
L'enunciato «devi dire la verità» significa, in questa scienza dei valori, «se l'approvazione dei tuoi compagni esercita su di te un rinforzo, godrai di un rinforzo quando dirai la verità» (p. 112; trad. it. p. 134). In una subcultura tanto cinica da considerare assurdo e riprovevole dire la verità, chi traesse un rinforzo dall'approvazione non dovrebbe dire la verità. O per essere più precisi, l'enunciato «devi dire la verità» sarebbe erroneo. Analogamente, è sbagliato dire a qualcuno di non rubare se è quasi sicuro di farla franca, essendo «non rubare» traducibile in «se vuoi evitare la punizione, evita di rubare» (p. 114; trad. it. p.136).
«Scoperte e invenzioni scientifiche sono improbabili; è questo appunto che si intende per scoperta e invenzione» (p. 155; trad. it. p. 182). Dunque, combinando formule matematiche in qualche maniera nuova e improbabile, si riuscirà (per definizione) a fare una scoperta matematica.
Gli stimoli attirano l'attenzione in quanto sono stati associati a delle cose importanti o sono comparsi in determinate contingenze di rinforzo (p. 187; trad. it. p. 217). Se dunque un gatto con due teste entrasse in una stanza, solo coloro per i quali i gatti sono importanti se ne accorgerebbero; gli altri non ci baderebbero nemmeno. Uno stimolo interamente nuovo - nuovo alla specie o all'individuo - sarebbe completamente ignorato.
Una persona può ricavare le sue regole di comportamento «da un'analisi delle contingenze punitive» (p. 69; trad. it. p. 86), e può trarre un rinforzo «dal fatto che la cultura gli sopravviverà per molto tempo» (p. 210; trad. it. p. 244). Dunque qualcosa di immaginato può rappresentare uno «stimolo rinforzante». (Si provi ad applicare a questo esempio la fantasiosa trattazione dei «rinforzi condizionati» che «usurpano» l'effetto rinforzante delle conseguenze differite - p.p. 120-22; trad. it. p.p. 142-45).
Una persona «si comporta coraggiosamente quando le circostanze ambientali lo inducono a comportarsi in tal modo» (p. 197; trad. it. p. 229). Poiché, come già s'è notato, noi agiamo al fine di ottenere rinforzi positivi, è lecito dedurne che nessuno si comporterà coraggiosamente quando la probabile conseguenza sia la punizione o la morte (a meno che non sia «rinforzato» da «stimoli» che lo attendono una volta morto).
Un giovane insoddisfatto, scoraggiato, frustrato, incapace di trovare uno scopo nella vita e così via, è semplicemente uno che manca di rinforzi appropriati (p.p. 146-47; trad. it. p.p. 171-72). Perciò nessuno proverà sentimenti del genere se riuscirà a raggiungere la ricchezza con i rinforzi positivi che questa può comprare.
Si badi che nella maggior parte dei casi, se non in tutti, si può trasformare l'errore in tautologia sfruttando la vaghezza della terminologia skinneriana, ad esempio usando il termine «rinforzo» in funzione di equivalente generale di qualunque cosa sia gradita, desiderata, progettata e via dicendo.
Ci si può fare un'idea del vigore esplicativo della teoria di Skinner da esempi (oltremodo tipici) come questi: un pianista impara a suonare con scioltezza una scala in quanto «le scale suonate con scioltezza hanno un'azione di rinforzo» (p. 204; trad. it. p. 237); «una persona può sapere esattamente che cosa significhi lottare per una causa solo dopo una lunga storia durante la quale ha imparato a percepire e a conoscere quello stato di cose che si indica con l'espressione 'lottare per una causa'» (p. 190; trad. it. p.p. 220-21); e via di questo passo.
Analogamente, ci si può render conto della potenza della tecnologia del comportamento skinneriana considerando le osservazioni e i consigli utili che fornisce: «Il comportamento punibile può essere ridotto al minimo creando circostanze in cui è improbabile che si presenti» (p. 64; trad. it. p. 81); se una persona, «quando vede gente felice,... subisce un rinforzo intenso, predisporrà un ambiente in cui i bambini siano felici» (p. 150; trad. it. p. 176); se la sovrappopolazione, la guerra nucleare, l'inquinamento e l'esaurimento delle risorse costituiscono un problema, «possiamo quindi modificare determinate norme di comportamento per indurre la gente ad avere meno bambini, a spendere meno in armi nucleari, a smettere di inquinare l'ambiente e a consumare le risorse a un ritmo più lento»(p. 152; trad. it. p.p. 177-78).
Il lettore cercherà forse pensieri più profondi di questi; li cercherà, ma non li troverà.
In questo libro, Skinner accenna al ruolo del patrimonio genetico più spesso che nelle sue precedenti riflessioni sul comportamento umano e la società. Si potrebbe pensare che ciò lo induca a modificare in parte le sue conclusioni, o a ricavarne di nuove. Ma non è così. La ragione sta nel fatto che Skinner è altrettanto generico ed evasivo riguardo al patrimonio genetico quanto lo è riguardo al controllo tramite le contingenze di rinforzo. Sfortunatamente, zero più zero fa ancora zero.
Secondo Skinner, «la facilità con cui le spiegazioni mentalistiche possono essere inventate su due piedi ci offre forse il pretesto migliore per giustificare il nostro disinteresse nei loro confronti» (p. 160; trad. it. p. 187). Possiamo convertire le sue parole in una proposizione veritiera sostituendo l'aggettivo «mentalistiche» con «skinneriane». Infatti, per qualsiasi descrizione di comportamento c'è sempre a disposizione una traduzione in termini skinneriani: si potrà sempre dire che un atto viene compiuto perché è «rinforzante» o «rinforzato», oppure perché le contingenze di rinforzo hanno plasmato il comportamento in quel certo modo, e così via. C'è una spiegazione bell'e pronta per ogni eventualità, e data la vacuità del sistema, non c'è alcun pericolo di essere colti in fallo.
Ma il discorso di Skinner sulle «spiegazioni mentalistiche» è senz'altro errato, dato il senso da lui attribuito a questo termine. Esaminiamo, ad esempio, le seguenti espressioni: 1) I due uomini promisero alle loro mogli di uccidersi l'un l'altro; 2) I due uomini persuasero le loro mogli ad uccidersi l'un l'altra; 3) I due uomini mi promisero di uccidersi l'un l'altro; 4) I due uomini mi persuasero ad uccidersi l'un l'altro.
Interpreteremo queste frasi (anche qualora siano nuove alla nostra esperienza) nel modo seguente: la 1) è una stretta parafrasi di «ciascuno dei due uomini promise a sua moglie di uccidere l'altro», e significa che i due uomini dovrebbero uccidersi l'un l'altro; la 2) è una stretta parafrasi di «i due uomini persuasero le rispettive mogli ognuna ad uccidere l'altra», e significa che le mogli dovrebbero uccidersi l'un l'altra; la 3) è una stretta parafrasi di «ognuno dei due uomini mi promise di uccidere l'altro»; ma la 4) non è parafrasabile in nessuno di questi modi, e difatti non appartiene al nostro «repertorio» fraseologico. Si può proporre una spiegazione di questo tipo di fatti nel quadro di una teoria astratta del linguaggio teoria che Skinner definirebbe (del tutto legittimamente) «mentalistica». Non è tuttavia per niente facile inventare una soddisfacente «spiegazione mentalistica» di questi e altri fatti correlativi (17), e cioè un sistema di principi che spieghi questi fatti senza trovarsi confutato da altri. Costruire una teoria degli «stati interni (mentali)» non è compito facile, contrariamente a quanto ritiene Skinner, benché naturalmente si possa anche in questo caso, ricorrendo alle nozioni mistiche di «analogia» e di «generalizzazione», inventare seduta stante una spiegazione skinneriana, quali che siano i fatti in discussione. La mancata comprensione di tutto ciò deriva in Skinner dal rifiuto di ogni tentativo di costruire teorie esplicative fornite di contenuto empirico nel campo del pensiero e dell'azione umana. A causa di questo rifiuto, nessun visibile progresso - le formulazioni odierne non sono gran che diverse da quelle di quindici o vent'anni fa - né alcuna critica convincente sono venuti da coloro che non si lasciano minimamente turbare dal fatto che le spiegazioni si possano inventare seduta stante, quali che siano i fatti, nel quadro di un sistema vuoto di ogni contenuto.

4.

Fin qui abbiamo considerato il valore scientifico delle tesi di Skinner. Passiamo ora alla questione della «progettazione di una cultura». I principi della scienza skinneriana non ci dicono nulla sulla progettazione della cultura (dal momento che non ci dicono nulla di nulla), ma questo non vuol dire che Skinner ci lasci completamente all'oscuro di quanto ha in mente. Egli è convinto che «il controllo della popolazione nel suo insieme dev'essere delegato a specialisti: poliziotti, preti, imprenditori, insegnanti, terapeuti, eccetera, che dispongono di rinforzi specializzati e di contingenze di rinforzo codificate» (p. 155; trad. it. p.p. 180-181; chi esercita il controllo e chi progetta una cultura deve far parte del gruppo controllato (p. 172; trad. it. p.p. 200-1). Quando la tecnologia del comportamento viene «applicata alla progettazione di una cultura, la funzione di valore viene assunta dalla sopravvivenza della cultura stessa». Se la nostra cultura «continua a considerare come suo principale valore la libertà o la dignità invece della sua sopravvivenza, è possibile che sia qualche altra cultura a dare un contributo più grande al futuro del l'uomo». Il rifiuto di esercitare i controlli a disposizione può rappresentare «una mutazione culturale letale». «La vita, la libertà, la ricerca della felicità sono diritti fondamentali... [ma] hanno solo un'importanza secondaria nel problema della sopravvivenza di una cultura» (p.p. 180-183; trad. it. p.p. 210-14); ci si potrebbe chiedere, allora, che importanza abbiano per il tecnologo del comportamento che considera la sopravvivenza di una data cultura come un valore. Queste e altre consimili osservazioni, di cui ci occuperemo subito, sono probabilmente ciò che ha indotto certi lettori a sospettare che Skinner propugni una forma di controllo totalitario.
Non c'è dubbio che con le sue specifiche proposte, per quanto vaghe, Skinner riesca a differenziare la sua posizione dalla «letteratura della libertà». Skinner sostiene che quest'ultima ha «trascurato... quel controllo che non ha mai conseguenze avversive, immediate o differite» (p. 41; trad. it. p. 56), incoraggiando l'opposizione a ogni tipo di controllo, laddove egli invece propone un uso assai più esteso di controlli che non abbiano conseguenze avversive. La più ovvia forma di controllo di questo benefico genere sono i salari differenziali. Beninteso, è errato dire che la letteratura della libertà abbia trascurato tali controlli. Fin dai tempi della rivoluzione industriale essa si è occupata a lungo dei problemi della «schiavitù salariata» e delle forme «benefiche» di controllo imperniate sulla privazione e sulla ricompensa anziché sulla punizione pura e semplice. Questa preoccupazione distingue nettamente la letteratura della libertà dalle concezioni sociali di Skinner. O si prenda la libertà di espressione. L'approccio skinneriano lascia intendere che il controllo della manifestazione del pensiero con mezzi meramente punitivi vada evitato, ma che sia del tutto logico controllare la manifestazione del pensiero, poniamo, riservando i posti migliori a quelli che dicono ciò che piace ai progettisti della cultura. Attenendosi alle idee di Skinner, non si avrebbe violazione alcuna della libertà accademica se le promozioni fossero concesse solo a coloro che si conformano, nei propri scritti e discorsi, alle regole della cultura, pur essendo sbagliato giungere fino a punire quelli che deviano dalla norma dicendo ciò che pensano. Tali soggetti devianti rimarrebbero semplicemente in uno stato di privazione. In effetti, dando alla gente delle regole rigide da seguire, in modo che sappia quello che esattamente deve dire per usufruire del «rinforzo» della promozione, contribuiremo a «rendere il mondo più sicuro», realizzando così gli scopi della tecnologia del comportamento (p.p. 74 e 81; trad. it. p.p. 92 e 99). La letteratura della libertà respingerebbe inorridita, e con piena ragione, controlli di questo genere.
In realtà, non c'è nulla nell'approccio skinneriano che sia incompatibile con uno stato di polizia, le cui rigide leggi siano fatte rispettare da persone ugualmente soggette ad esse e in cui la minaccia della punizione incomba su tutti. Skinner sostiene che lo scopo della tecnologia del comportamento sta nel «progettare un mondo in cui il comportamento probabilmente soggetto a punizione dovrebbe presentarsi raramente o addirittura mai» - un mondo di «bontà automatica» (p. 66; trad. it. p.p. 82-83). Il «vero problema, - egli spiega, - è l'efficacia delle tecniche di controllo», che devono contribuire a «rendere il mondo più sicuro». Si rende il mondo più sicuro per «i bambini, i ritardati mentali e gli psicotici», sistemando le cose in modo tale che il comportamento punibile si presenti raramente. Se si riuscisse a trattare tutte le persone a questa maniera, «si risparmierebbe tempo ed energia» (p.p. 66 e 74; trad. it. p.p. 83 e 92). Skinner arriva a dare, forse involontariamente, alcuni suggerimenti su come si potrebbe realizzare questo benefico ambiente:

«Uno stato che trasformi tutti i suoi cittadini in spie, o una religione che promuova il concetto di un Dio onnisciente, eliminano ogni possibilità di sottrarsi alla punizione e dànno quindi efficacia estrema al sistema punitivo. La gente si comporta bene benché non vi sia una supervisione percepibile» (p.p. 67-68; trad. it. p. 85).

Altrove veniamo edotti di come «ovviamente» la libertà «cresce al diminuire dei controlli visibili» (p. 70; trad. it. p. 88). Quella or ora descritta è dunque una situazione di massima libertà, data l'assenza di qualsiasi controllo visibile; e per la stessa ragione, è una situazione di massima dignità. Ma non basta. Visto che il «nostro compito» si riduce a «rendere la vita meno punitiva» (p. 81; trad. it. p. 99), la situazione or ora descritta sembrerebbe rappresentare l'ideale. Visto che la gente si comporta bene, la vita sarà solo minimamente punitiva. In questo modo, possiamo muovere «verso un ambiente in cui gli uomini siano automaticamente buoni» (p. 73; trad. it. p. 91).
Sviluppando queste riflessioni, si pensi ad un campo di concentramento ben amministrato con i prigionieri che si spiano tra loro e i forni che fumano in lontananza, magari con qualche avviso verbale di tanto in tanto per rammentare il significato di questo rinforzo. Sembrerebbe un mondo quasi perfetto. Skinner sostiene che uno stato totalitario è moralmente ingiusto per via delle sue conseguenze avversive differite (p. 174; trad. it. p.p. 202-3). Ma nella deliziosa cultura or ora delineata non ci dovrebbero essere conseguenze avversive di sorta, né immediate né differite. Il comportamento indesiderato sarà eliminato sin dall'inizio dalla minaccia dei crematori e dalle onniveggenti spie. Così ogni comportamento risulterà automaticamente «buono», come richiesto. Non ci sarebbero affatto punizioni. Tutti quanti fruirebbero di rinforzi - in proporzione diversa, naturalmente, a seconda dell'abilità nell'obbedire alle leggi. Nella concezione di Skinner non si trova alcun motivo di obiezione contro questo ordine sociale. Anzi, esso sembra rasentare l'ideale. Forse lo potremmo perfezionare ulteriormente, tenendo conto che «un pericolo scampato esercita un'azione di rinforzo tanto più intensa, quanto maggiore è il pericolo stesso» (come nell'alpinismo, p. 111; trad. it. p. 133). Potremmo quindi intensificare il rinforzo complessivo e migliorare la cultura in parola escogitando un pericolo ancora maggiore, ad esempio inserendo delle urla intermittenti o proiettando immagini di torture raccapriccianti mentre descriviamo i crematori ai nostri concittadini. La cultura potrebbe sopravvivere, magari per un migliaio di anni.
Quantunque le proposte di Skinner si possano interpretare in questo senso, sarebbe nondimeno inesatto concluderne che Skinner sia favorevole ai campi di concentramento e al potere totalitario (pur non avanzando del pari obiezioni di sorta). Una conclusione del genere non terrebbe conto di una fondamentale proprietà della scienza di Skinner, e precisamente della sua vacuità. Pur essendo apparentemente convinto che la «sopravvivenza di una cultura» rappresenti un valore importante per il tecnologo del comportamento, Skinner è incapace di affrontare gli interrogativi che si pongono a questo punto. Quando è che una cultura si trasforma, sopravvive oppure muore? Supponiamo che si trasformi nel senso di estendere i fondamentali diritti individuali che Skinner per parte sua ritiene superati (p.p. 180-83; trad. it. p.p. 210-14). Si dovrà parlare di sopravvivenza o di morte? Vogliamo la sopravvivenza del Reich millenario? E perché no, se la sopravvivenza della cultura assume funzione di valore per il tecnologo del comportamento? Supponiamo che in realtà la gente sia «rinforzata» dalla (cioè preferisca la) riduzione contemporanea delle sanzioni e del rinforzo differenziale. Orbene, progetteremo la cultura in vista di questo risultato, diminuendo pertanto i controlli efficaci anziché estenderli, come raccomanda invece Skinner? Supponiamo che gli esseri umani siano proprio costituiti in modo tale da desiderare di poter esercitare un lavoro produttivo da loro stessi liberamente scelto. Supponiamo che vogliano essere liberi dall'intromissione di tecnocrati e commissari, banchieri e grandi affaristi, bombardieri folli che ingaggiano bracci di ferro psicologici con dei contadini che difendono le proprie case, scienziati del comportamento che non sanno distinguere un piccione da un poeta, o di chiunque altro tenti di cancellare l'esistenza della libertà e della dignità o di relegarle nel dimenticatoio. «Progetteremo la nostra cultura» in modo da realizzare questi fini (che ovviamente sono suscettibili di appropriata traduzione skinneriana)? Nessuno di questi interrogativi trova risposta nella scienza di Skinner, nonostante la sua pretesa di accogliere (pienamente, a quanto pare) la considerazione dei «valori». E' per questa ragione che, come già s'è osservato, il suo approccio va bene tanto all'anarchico quanto al nazista (18).

5.

La trattazione skinneriana delle nozioni di «tempo libero» e di «lavoro» offre un interessante spaccato del sistema di idee del comportamentismo (nei limiti in cui se ne può ancora parlare come di una dottrina a sé stante - confronta sopra p. 292). Si rammenti l'affermazione secondo la quale il livello d'attività di un organismo dipende dalla sua «storia ambientale di rinforzi», per cui «un organismo si collocherà, tra una attività vigorosa e una quiescenza completa, in una posizione dipendente dal programma di rinforzo cui è stato sottoposto» (p. 186; trad. it. p. 216). L'allentamento dei controlli potrebbe dunque provocare passività o comportamenti casuali, specie in condizioni di benessere (ossia di scarsa privazione). La gente, nota Skinner, dispone di «tempo libero» se «ha poco da fare»; è il caso di individui che «hanno potere sufficiente per costringere o indurre altri a lavorare per loro»; di bambini, ritardati o malati di mente, membri di società opulente o di società del benessere, e via dicendo. Persone del genere «sembrano in grado di fare ciò che loro più piace». Si tratta, continua Skinner, di «un fine naturale dei fautori della libertà» (p.p. 177-80; trad. it. p.p. 207-10). Ma il tempo libero «è una condizione a cui la specie umana è stata preparata assai male», e perciò una condizione pericolosa.
Evidentemente occorre fare una distinzione tra l'aver niente da fare e il poter fare ciò che più piace. Entrambe le condizioni presuppongono una mancanza di costrizione, ma per poter fare ciò che più piace ci vogliono anche delle concrete opportunità. Sulla base degli assunti skinneriani è difficile distinguere esattamente tra l'aver niente da fare e il poter fare ciò che più piace, non essendoci da aspettarsi che qualcuno colga l'opportunità di lavorare in assenza di privazione o di rinforzo. Non sorprende quindi che Skinner slitti facilmente dalla definizione del «tempo libero» come stato in cui apparentemente si può fare quello che più piace, all'affermazione secondo cui il tempo libero (vale a dire l'aver niente da fare) è una condizione pericolosa, come quella di un leone in gabbia o di una persona internata.
Poter fare ciò che più piace è un fine naturale dei fautori della libertà, ma non lo è invece l'aver niente da fare. Se può essere giusto affermare che la specie umana è assai mal preparata all'aver niente da fare, tutt'altra cosa è affermare che essa è preparata assai male alla libertà di fare ciò che più piace. Persone in grado di fare ciò che più loro piace possono anche lavorare sodo, qualora abbiano l'opportunità di fare un lavoro interessante. Analogamente, un bambino che fruisca del «tempo libero» nel senso di Skinner può anche non aver bisogno di «rinforzi» per spendere energie in attività creative, e sfruttare anzi con entusiasmo l'occasione di farlo. L'uso generico che Skinner fa del termine «tempo libero», sebbene comprensibile in base ai suoi assunti, offusca nondimeno la fondamentale differenza tra la libertà di fare quello che si vuole (per Skinner, l'apparenza della libertà in questione, essendo egli convinto che non esista nulla del genere) e l'aver niente da fare, come in internamento o in pensione, allorché non è dato svolgere alcun lavoro interessante. Le osservazioni di Skinner suggeriscono perciò l'idea che possa essere cosa pericolosa, se non addirittura un'altra «modificazione culturale letale», creare dei rapporti sociali in cui la gente sia libera di scegliersi un lavoro che la soddisfi e di dedicarvisi fino in fondo. Un'ultima osservazione di Skinner secondo cui occorrerebbero «specifiche condizioni culturali» (non meglio specificate) per permettere a chi dispone di tempo libero di impegnarsi nella «produttività artistica, letteraria e scientifica», non contribuisce a chiarire i problemi più di quanto non facciano gli altri suoi rilievi sulle «contingenze di rinforzo» .
Fra le righe di tutta la discussione è presente il vago assunto di fondo secondo cui senza somministrazione di «rinforzi» gli individui finirebbero per vegetare. Che possa esserci un bisogno intrinsecamente umano di trovare un lavoro produttivo, che una persona libera possa, avendone l'opportunità, procurarsi un lavoro del genere e svolgerlo con energia, è una possibilità che non viene mai presa in considerazione - benché naturalmente il sistema di traduzione skinneriano, nella sua vacuità, ci permetta di dire che tale lavoro è appunto «rinforzante» (e come tale intrapreso), sempre che ci piacciano le tautologie.
Il persistente assunto di fondo dell'analisi skinneriana della libertà e del tempo libero viene a galla anche in indagini che sono un po' più serie della sua, in quanto per lo meno hanno la forma di un'argomentazione e si basano su qualche elemento di prova. E' in corso attualmente un grosso dibattito su un articolo dello psicologo di Harvard, Richard Herrnstein (19), che intende dimostrare come la società americana si stia incamminando verso una stabile meritocrazia ereditaria, con stratificazioni sociali derivanti da differenze innate e con una corrispondente distribuzione delle «ricompense». L'argomentazione poggia sull'ipotesi che le differenze di capacità intellettuali siano ereditarie e che le persone di capacità intellettuali più o meno uguali siano portate a sposarsi e ad avere figli tra loro (20), sicché nel lungo periodo ne deriverebbe una tendenza alla stratificazione secondo le capacità intellettuali, capacità che Herrnstein considera misurate dal quoziente d'intelligenza (Q.I.). Secondariamente, Herrnstein sostiene che per avere «successo» ci vogliono delle capacità intellettuali, e che le ricompense sociali «dipendono dal successo». Questo punto della sua argomentazione implica due assunti: primo, che le cose stiano effettivamente così; secondo, che le cose non possano che stare così se si vuole che la società funzioni a dovere. Se ne conclude che esiste una tendenza alla meritocrazia ereditaria, con la concentrazione delle «posizioni di preminenza sociale (che rispecchiano i guadagni e il prestigio)» nei gruppi aventi un più elevato quoziente di intelligenza. La tendenza si accentuerà man mano che la società diventerà più egualitaria, ossia man mano che le barriere sociali artificiali saranno eliminate, le deficienze dell'ambiente prenatale (ad esempio, nutritive) colmate, e via dicendo, di modo che le capacità naturali potranno incidere più direttamente sul conseguimento della ricompensa sociale. Di conseguenza, quanto più la società diventerà egualitaria, tanto più le ricompense sociali si concentreranno nelle mani di una "élite" meritocratica ereditaria.
Per questa sua teoria Herrnstein è stato ampiamente tacciato di razzismo, conclusione che a me non sembra affatto scontata. C'è tuttavia nella sua argomentazione un elemento ideologico che la infirma alla radice. Prendiamo il secondo punto, e cioè la tesi che il Q.I. sarebbe un fattore del conseguimento della ricompensa, e che ciò sarebbe indispensabile per far funzionare a dovere la società. Herrnstein riconosce che la sua argomentazione crollerebbe qualora, per l'appunto, la società potesse essere organizzata secondo il «motto socialista, da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni». La sua argomentazione non sarebbe valida per una società in cui «i redditi (economici, sociali e politici) non siano collegati al successo».
In realtà, Herrnstein manca di rilevare che la sua argomentazione presuppone non solo che il successo sia ricompensato, ma anche che lo sia in forme del tutto specifiche. Se gli individui fossero ricompensati per il loro successo solo col prestigio, non ne discenderebbe più alcuna conseguenza di un qualche rilievo. Ne discenderebbe semplicemente (fatte valide le altre premesse) che i figli delle persone stimate per i loro meriti avrebbero maggiori probabilità di essere a loro volta stimate per i loro propri meriti, una conseguenza innocua ancorché vera. Può anche darsi che il figlio di due nuotatori olimpici abbia delle probabilità superiori alla media di conseguire lo stesso successo (e il relativo plauso), ma da questa ipotesi non discende alcuna conseguenza socialmente disastrosa.
Per quanto possa sembrare ovvia, la questione è stata fraintesa (in particolare da Herrnstein), per cui forse merita un ulteriore commento. Ammettiamo, con Herrnstein, che le capacità «si esprimano nel lavoro solo in vista di un guadagno» e che tali capacità siano ereditabili. Consideriamo due genitori, dotati di capacità superiori alla media, che conseguano grazie ad esse un incremento R di ricompensa al di sopra della media. Per ipotesi, il figlio tenderà ad avere anch'egli capacità superiori alla media, per quanto in misura inferiore ai genitori a causa del regresso verso la media, come rileva Herrnstein. In tal modo il figlio dovrebbe presumibilmente conseguire, grazie alle proprie superiori capacità, un incremento R' di ricompensa sopra la media, dove R' è minore di R. Supponiamo che la ricompensa sia la ricchezza. L'incremento complessivo realizzato dal figlio, date le caratteristiche di questa ricompensa nella nostra società, sarà equivalente a R' + R1 + R2 + R3, dove R1 rappresenta la parte di R trasmessa al figlio, R2 l'incremento dovuto al fatto che R1 genera a sua volta nuova ricchezza, e R3 l'incremento conseguito dal figlio rispetto a R' in virtù dei vantaggi di partenza a lui assicurati da R1. Nella nostra società, R1, R2 e R3 sono consistenti, e naturalmente cumulabili di generazione in generazione. Se dunque la ricompensa sociale è la ricchezza, ci potrà senz'altro essere una accentuata tendenza alla concentrazione di quest'ultima, coll'andare del tempo, secondo linee familiari. Se viceversa la ricompensa sociale e i suoi effetti non sono suscettibili di trasmissione, l'incremento complessivo del figlio sarà R', in generale inferiore a R; nulla di paragonabile all'incremento consistente e cumulativo R1 + R2 + R3. Così, qualora prestigio e plauso siano ricompense sociali sufficientemente incentivanti, non si avrà alcuna tendenza alla concentrazione delle ricompense nelle mani di una «meritocrazia ereditaria» come Herrnstein predice, e la sua «sconvolgente» conclusione si dissolve nel nulla. Per quanto possano esistere delle deboli tendenze in questo senso, esse risulteranno ulteriormente ridotte dal fatto che l'incontro nel tipo di capacità che procurano «ricompense» è tutt'al più uno tra i tanti fattori della scelta del coniuge. Infine, per quanto il prestigio possa tendere a trasmettersi di padre in figlio, il fenomeno non ha nessuno degli estesi effetti sociali della concentrazione della ricchezza.
Inoltre, prestigio e plauso differiscono dalla ricchezza in ciò, che assegnando una parte maggiore di queste «ricompense» ad un dato individuo, non se ne toglie ad altri una parte equivalente. Pur accettando l'assunto di Herrnstein che gli individui lavorino solo per guadagno, qualora la ricompensa sia il prestigio, la prestazione lavorativa potrà essere in generale ottenuta accordando prestigio a ognuno nella misura in cui operi al meglio delle sue capacità, indipendentemente dalle mansioni svolte. (Si osservi inoltre che non ci sarebbe ragione di accordare maggior prestigio ai più dotati, per cui da un altro punto di vista ancora le idee di Herrnstein sull'ineluttabilità di una meritocrazia ereditaria appaiono prive di fondamento, posto che la ricompensa consista per ipotesi nel prestigio e nel plauso). Beninteso, è presumibile che qualche individuo lavorerà soltanto se la sua ricompensa in termini di prestigio sarà non solo maggiore di quanto sarebbe se non lavorasse affatto o se lavorasse meno bene, ma anche maggiore del prestigio accordato ad altri per le loro realizzazioni. Una persona siffatta probabilmente si sentirebbe anche defraudata o punita se altri avessero successo; se, per dire, qualcun altro dovesse scrivere un romanzo di vaglia, o fare una scoperta scientifica, o eseguire un bel lavoro di falegnameria, ed essere stimato per i risultati raggiunti. Anziché rallegrarsi della cosa, questa creatura sfortunata ne sarebbe addolorata. Per una persona siffatta il «prestigio differenziale» sarebbe fonte di piacere o di dolore nonché condizione necessaria per poter intraprendere qualsiasi iniziativa. Non c'è tuttavia motivo di supporre che questo genere di malattia psichica sia caratteristica di tutta la razza umana.
E' interessante rilevare come Herrnstein sia in realtà convinto che gli esseri umani sono costituiti per natura in modo tale che questa malattia sarebbe caratteristica della loro specie. Egli sostiene che se il prestigio fosse abbastanza forte da «sorreggere il lavoro non meno bene di quanto facciano le ricompense nella nostra società, denaro e potere compresi», la mancanza di prestigio provocherebbe «tristezza e rammarico» e la società verrebbe a trovarsi «stratificata da una mortale lotta per il prestigio» nella «meritocrazia ereditaria» da lui considerata ineluttabile. Come già notato, egli sbaglia a prevedere una stratificazione nel lungo periodo, anche fatti salvi i suoi presupposti, qualora la ricompensa sia costituita dal prestigio. E che dire dell'altro assunto secondo cui gli esseri umani hanno bisogno di una «ricompensa differenziale» nel suo speciale senso: vale a dire, non solo di più prestigio di quanto ne avrebbero non lavorando affatto o lavorando meno bene, ma di più prestigio dei loro colleghi? Se ciò è vero, si può facilmente prevedere che la gente subirà «dolorose privazioni psichiche» qualora altri riescano nella vita ed ottengano la stima del prossimo, e che si troverà a combattere una «lotta mortale per il prestigio». Benché tutto ciò si possa indubbiamente immaginare, l'assunto mi sembra ancor più sorprendente e improbabile di altri, sempre formulati da Herrnstein, che prenderemo in considerazione tra poco. Ma quale che sia il valore di questa strana opinione circa la natura umana, dovrebbe essere chiaro che essa non incide minimamente su quella che è la conclusione essenziale e «sconvolgente» di Herrnstein. Ripetiamo: se prestigio e stima sono incentivi sufficienti al lavoro (in base alla tesi di Herrnstein che l'abilità si esprime nel lavoro solo in vista di un guadagno), non c'è ragione di attendersi nel lungo periodo una tendenza di una qualche entità verso una stabile «meritocrazia» ereditaria, né tale tendenza sarà accentuata dalla realizzazione degli «obiettivi politici e sociali contemporanei», né infine c'è ragione alcuna di accettare l'«estrapolazione» di Herrnstein secondo la quale in ogni società vitale si formerà una stabile «meritocrazia ereditaria». Della sua conclusione essenziale e «sconvolgente», in poche parole, non rimane in piedi assolutamente nulla.
La conclusione che Herrnstein e altri trovano inquietante è che la ricchezza e il potere tendano a concentrarsi nelle mani di una meritocrazia ereditaria. Ma ciò vale solo nel caso che ricchezza e potere (e non la semplice stima) rappresentino necessariamente la ricompensa per la riuscita nella vita, e che tale ricompensa (con i suoi effetti) si trasmetta dai genitori ai figli. La questione risulta ingarbugliata a causa dell'incapacità di Herrnstein di isolare gli specifici fattori decisivi per il suo argomento, nonché dal suo uso dell'espressione «redditi (economici, sociali e politici)» per indicare «ricompense» di ogni tipo, la stima non meno della ricchezza. Essa è ulteriormente ingarbugliata dal fatto che Herrnstein finisce invariabilmente per identificare la «posizione di preminenza sociale» con la ricchezza. Così egli scrive che, se la scala sociale si restringe rapidamente verso l'alto, il modo più logico per recuperare la gente al fondo della scala sta nell'«incrementare la ricchezza cumulativa della società in modo da far più posto in cima» - il che non vale più se la «posizione di preminenza sociale» dipende dal plauso e dalla stima. (Sorvoliamo sul fatto che anche in base al suo tacito assunto la redistribuzione del reddito apparirebbe una strategia altrettanto logica).
Consideriamo ora l'assunto più limitato che appare decisivo per la sua argomentazione: la ricchezza e il potere suscettibili di trasmissione ereditaria sono il corrispettivo delle capacità intellettuali, né può essere altrimenti, se si vuole che la società funzioni a dovere. Se questo assunto è erroneo e la società si può organizzare più o meno secondo il «motto socialista», dell'argomentazione di Herrnstein non rimane in piedi nulla (se non che essa sarà valida per una società competitiva in cui si verifichino i suoi altri presupposti fattuali). Ma l'assunto è vero, sostiene Herrnstein. E la ragione starebbe nel fatto che «le capacità si esprimono nel lavoro solo in vista di un guadagno» e le persone «entrano tra loro in concorrenza solo in vista di un guadagno - economico o d'altro genere». La gente lavorerà solo a condizione di essere ricompensata in termini di «influenza politica e sociale o (di) sottrazione al pericolo». Tutto ciò viene soltanto asserito; nessuna giustificazione è addotta per queste asserzioni. Si noti di nuovo che l'argomento avvalora le spiacevoli conclusioni da lui tirate solo qualora si identifichi il «guadagno», per il quale le persone entrerebbero in concorrenza tra loro, con il potere e la ricchezza suscettibili di trasmissione ereditaria.
Per quale ragione si dovrebbe prendere per vero l'assunto decisivo secondo cui la gente lavorerebbe solo per accumulare ricchezza e potere (suscettibili di trasmissione ereditaria), sicché la società non potrebbe essere organizzata in base al motto socialista? In una società decente ognuno avrebbe la possibilità di procurarsi un lavoro interessante, e ad ognuno sarebbe concessa la più ampia facoltà di valorizzare le proprie attitudini. Ci vorrebbe forse anche qualcosa di più - in particolare, una ricompensa estrinseca sotto forma di ricchezza e potere? Solo se ammettessimo che l'esercizio delle proprie attitudini in un lavoro interessante e socialmente utile non sia di per se stesso remunerativo, che non ci sia alcuna intrinseca soddisfazione nel lavoro creativo e produttivo adeguato alle proprie capacità, o nell'aiutare gli altri (poniamo, la propria famiglia, gli amici, i colleghi o semplicemente i concittadini). A meno di non pensarla così, sia pure avallando tutti gli altri assunti di Herrnstein, non ne deriva che debba verificarsi alcuna concentrazione del potere e dell'influenza nelle mani di una "élite" ereditaria.
L'assunto implicito è in realtà lo stesso di Skinner. Perché l'argomentazione di Herrnstein abbia un minimo di forza, dovremmo ammettere che la gente lavori solo per guadagnare, e che la soddisfazione ricavabile da un lavoro interessante o socialmente benefico, o da un lavoro ben fatto o dalla stima che procurano tali attività, non costituisca un «guadagno» sufficiente per invogliare qualcuno a lavorare. L'assunto, in breve, è che senza ricompensa materiale, la gente finisca per vegetare. A sostegno di questo assunto decisivo non viene addotta nemmeno l'ombra di un'argomentazione. Al contrario, Herrnstein si limita ad asserire che se fornai e rigattieri «godessero dei salari più alti e della massima considerazione sociale» (21), invece di quelli che attualmente occupano il vertice della scala sociale, «anche la scala dei quozienti di intelligenza (Q.I.) risulterebbe capovolta», e i più dotati lotterebbero per diventare fornai e rigattieri. Il che, ovviamente, non è affatto un argomento, bensì una semplice ripetizione della tesi per cui, inevitabilmente, gli individui lavorano soltanto per una ricompensa estrinseca. Si tratta, oltretutto, di una tesi assai poco plausibile. Dubito assai che Herrnstein andrebbe a fare il fornaio o il rigattiere se in questo modo potesse guadagnare di più.
Obiezioni analoghe sono state fatte all'articolo di Herrnstein in sede di recensione (22), ma come risposta egli si limita a ribadire la propria convinzione che non vi sia modo di «eliminare la piaga delle ricompense differenziali». La reiterata affermazione di una certa idea non va peraltro presa per un argomento. L'altra affermazione di Herrnstein che la storia insegna... in realtà è una dichiarazione di resa. Certo la storia insegna che ha luogo una concentrazione di ricchezza e potere nelle mani di chi è in grado di accumularli. Ci si aspettava che Herrnstein cercasse di esibire qualcosa di più di questo truismo. Riducendo in definitiva il proprio argomento a questa asserzione, Herrnstein implicitamente ammette di non saper giustificare in alcun modo l'assunto decisivo sul quale poggia la sua argomentazione, e cioè la tesi, indimostrata e inverificata, che i più dotati debbano ricevere necessariamente ricompense più laute.
Se guardiamo più attentamente a ciò che insegnano la storia e l'esperienza, scopriremo che ove sia dato libero corso all'intreccio di spietatezza, astuzia, servilismo, e ogni altra qualità che procuri il «successo» nelle società fondate sulla conoscenza, quelli che possiedono tali qualità arriveranno al vertice e si serviranno delle loro ricchezze e del loro potere per conservare ed estendere i privilegi di cui godono. Essi elaboreranno inoltre delle ideologie intese a dimostrare che questo risultato è senz'altro giusto e sacrosanto. Scopriremo inoltre, contrariamente a quanto è sostenuto dall'ideologia capitalista e dalla dottrina comportamentista (quella di tipo non tautologico), che molta gente spesso non agisce unicamente, né prevalentemente, al fine di ottenere un guadagno materiale, e neppure al fine di suscitare il massimo di consenso. Quanto all'argomento (se addotto) che «la storia insegna» l'inapplicabilità di quel «motto socialista» che Herrnstein deve per forza respingere perché la sua argomentazione sia valida, ad esso si può attribuire lo stesso valore di un argomento settecentesco sull'impossibilità della democrazia capitalistica, come insegnato appunto dalla storia.
Capita a volte di imbattersi in argomenti intesi a dimostrare che gli individui sarebbero dei «massimizzatori economici», come attesterebbe il fatto che, offrendosene l'opportunità, certuni accumuleranno ricompense materiali e potere (23). Più o meno con la stessa logica si potrebbe dimostrare che gli individui sono dei pazzi criminali per il fatto che, date delle condizioni sociali in cui i portatori di violente tendenze criminali fossero liberi da ogni costrizione, questi potrebbero benissimo accumulare potere e ricchezza mentre le persone sane di mente languirebbero in schiavitù. Evidentemente, dalle lezioni della storia non si possono ricavare che conclusioni del tutto aleatorie circa le tendenze fondamentali dell'uomo.
Supponiamo che il decisivo ma indimostrato assunto di Herrnstein sia errato. Supponiamo che vi sia in realtà una certa soddisfazione intrinseca nello sfruttare le proprie attitudini in un lavoro stimolante e creativo. Dunque, si potrebbe arguire, ciò dovrebbe compensare persino una diminuzione della ricompensa estrinseca, mentre il «rinforzo» andrebbe assegnato nel caso di prestazioni fastidiose e sgradevoli. Ne segue che dovrebbe verificarsi una concentrazione della ricchezza (e del potere che ne deriva) nelle mani dei meno dotati. Non pretendo di imporre questa conclusione, voglio osservare semplicemente come essa sia più plausibile di quella di Herrnstein una volta respinto come falso il suo assunto decisivo ma indimostrato.
L'opinione che la gente debba essere spinta bene o male a lavorare dalla molla del «guadagno» è piuttosto curiosa. Naturalmente, corrisponderà al vero se adottiamo il vacuo sistema skinneriano e parliamo della «qualità rinforzante» del lavoro utile e interessante; e potrà ancora corrispondere al vero, per quanto in una prospettiva del tutto estranea al discorso di Herrnstein, se il «guadagno» perseguito non è altro che la stima e il prestigio generali. Il necessario presupposto dell'argomentazione di Herrnstein, vale a dire che la gente dev'essere spinta bene o male a lavorare con la promessa di una ricompensa in ricchezza o potere, non deriva ovviamente dalla scienza, né pare fondarsi sopra un'esperienza personale. Ho il sospetto che Herrnstein escluderebbe se stesso dalla generalizzazione, come già si diceva. Così non credo che farebbe immediatamente domanda per avere un posto di spazzino, se questo posto fosse più redditizio della sua attuale professione di insegnante e di psicologo sperimentale. Sono anzi sicuro che direbbe di fare questo lavoro non in quanto massimizza la ricchezza (o il prestigio), ma in quanto è interessante e stimolante, e cioè intrinsecamente remunerativo; né ci sarebbe da dubitare della veridicità della risposta. Le statistiche, egli rileva, indicano che «se il tuo obiettivo è un reddito "molto" alto, e se possiedi un elevato quoziente d'intelligenza, non dovresti sprecare il tuo tempo nella scuola dopo le medie superiori». Se dunque sei un massimizzatore economico, disponendo di un elevato quoziente d'intelligenza non ti conviene perderti dietro all'università. Pochi seguono questo consiglio, molto probabilmente perché preferiscono un lavoro interessante alla pura e semplice remunerazione materiale. L'assunto che la gente lavori solo per acquistare ricchezza e potere non solo risulta indimostrato ma probabilmente è falso, fuorché in casi di estremo bisogno. Ma questo assunto degradante e brutale, comune all'ideologia capitalistica e alla visione dell'uomo propria del comportamentismo (fatta di nuovo eccezione per il comportamentismo tautologico di Skinner), è fondamentale per l'argomentazione di Herrnstein.
Vi sono altri aspetti ideologici nell'argomentazione di Herrnstein, aspetti più marginali e tuttavia degni di segnalazione. Egli invariabilmente descrive la società che vede in evoluzione come una «meritocrazia», esprimendo così il giudizio di valore secondo cui le qualità che procurano ricompense sarebbero segni di merito, e cioè qualità positive. Egli si occupa in modo specifico del Q.I., ma ovviamente riconosce che potrebbero benissimo esserci altri fattori alla base del «successo sociale». Si potrebbe anche supporre, abbastanza plausibilmente, che ricchezza e potere tendano a finire nelle mani degli individui spietati, astuti, avari, egocentrici, privi di sensibilità e di calore umano, servili verso l'autorità e disposti a venir meno ai principi in cambio del guadagno materiale, e via dicendo. Inoltre, questi tratti caratteriali potrebbero essere benissimo altrettanto ereditabili quanto il Q.I., e magari avere il sopravvento sul Q.I. come fattori determinanti nel conseguimento delle ricompense materiali. Qualità del genere potrebbero benissimo essere quelle buone per una guerra di tutti contro tutti. In tal caso, la società che ne risulterebbe (applicando il «sillogismo» di Herrnstein) ben difficilmente potrebbe definirsi una «meritocrazia». Usando la parola «meritocrazia» Herrnstein dà per scontate alcune cose piuttosto interessanti, e tradisce in tal modo degli assunti impliciti sulla nostra società che sono tutt'altro che evidenti.
Gli insegnanti delle scuole dei ghetti constatano generalmente come gli studenti sicuri di sé, intellettualmente vivaci, intraprendenti e restii a sottomettersi all'autorità siano considerati dei rompiscatole e vengano puniti e a volte persino espulsi dal sistema scolastico. L'implicito assunto che in una società fortemente discriminatoria, o caratterizzata da enormi differenze di ricchezza e di potere, i «meritevoli» siano ricompensati, appare davvero singolare.
Si consideri inoltre l'assunto di Herrnstein secondo cui le ricompense sociali vanno effettivamente a coloro che svolgono servizi benefici e necessari. Egli sostiene che il «gradiente delle professioni» è «una misura naturale del valore e della scarsità», e che «i legami tra Q.I., professione e posizione sociale trovano una giustificazione sul piano pratico». E' questo il suo modo di enunciare la nota teoria che in una società giusta (e più o meno anche nella nostra) gli individui sono automaticamente ricompensati in proporzione al loro contributo al benessere o al «prodotto» sociale. La teoria è nota, come pure le sue incongruenze. Date grandi differenze di ricchezza, ci aspetteremmo di scoprire che il «gradiente delle professioni» in base alla retribuzione sia una misura naturale dei servizi resi alla ricchezza e al potere - a coloro cioè che possono comprare e costringere - è solo accidentalmente «una misura naturale del valore». I legami tra Q.I., professione e posizione sociale rilevati da Herrnstein trovano una «giustificazione sul piano pratico» per coloro che posseggono ricchezza e potere, ma non necessariamente per la società o la generalità dei suoi appartenenti (24).
La cosa è lampante. Il fatto che Herrnstein non se ne accorga è particolarmente sorprendente, visti i dati sui quali egli basa le sue osservazioni in merito al rapporto tra ricompensa sociale e professione. Egli basa infatti questi giudizi sopra una graduatoria di professioni che dimostrerebbe, ad esempio, come commercialisti, specialisti in pubbliche relazioni, contabili e direttori alle vendite tendano ad avere un Q.I. più elevato (quindi, secondo lui, a percepire una paga più alta, com'è indispensabile se si vuole che la società funzioni a dovere) di suonatori, carpentieri, fornai, rigattieri e autisti. Nella graduatoria in questione, su 74 professioni i commercialisti venivano per primi, con gli esperti di pubbliche relazioni al quarto posto, i suonatori al trentacinquesimo, i carpentieri al cinquantesimo, i fornai al sessantacinquesimo, i camionisti al sessantasettesimo e i rigattieri al settantesimo. Da tali dati Herrnstein desume che la società «amministra» saggiamente «le sue risorse intellettuali» (25) e che il gradiente delle professioni rappresenta una misura naturale del lavoro e trova una sua giustificazione sul piano pratico. Ma è davvero così ovvio che un commercialista che aiuta una società per azioni a pagare meno tasse svolga un lavoro socialmente più apprezzabile di un suonatore, di un carpentiere, di un fornaio, di un camionista o di un rigattiere? Un avvocato che riceve una parcella di centomila dollari per mantenere in commercio un farmaco pericoloso vale forse socialmente di più di un operaio o di un'infermiera? E un chirurgo che opera la gente ricca svolge forse un lavoro socialmente più apprezzabile di un medico praticante degli "slums", il quale può anche lavorare molto di più per una ricompensa estrinseca molto minore? Il gradiente delle professioni di cui si serve Herrnstein per suffragare le sue tesi riguardo alla correlazione tra Q.I. e valore sociale rispecchia senza dubbio, almeno in parte, le esigenze della ricchezza e del potere; ci vuole altro per dimostrare che quelli che stanno al vertice della graduatoria renderebbero i più alti servigi alla «società», la quale amministrerebbe saggiamente le sue risorse ricompensando commercialisti, esperti di pubbliche relazioni e ingegneri (ad esempio, progettisti di ordigni bellici antiuomo) per le loro specialissime capacità professionali. Il fatto che Herrnstein non si accorga di ciò che suggeriscono immediatamente i dati a sua disposizione è un altro indizio della sua accettazione acritica ed evidentemente inconscia dell'ideologia capitalistica nella sua forma più grossolana.
Si badi che ove la graduatoria delle professioni secondo il Q.I. corrisponda a quella secondo il reddito, i dati citati da Herrnstein si possono interpretare in parte come indizio di una malaugurata sperequazione nella ricompensa materiale a favore delle professioni che servono ai ricchi e ai potenti rispetto ad altre che potrebbero riuscire più appaganti e socialmente utili. Quanto meno, sembrerebbe questa un'ipotesi certamente plausibile, ipotesi che Herrnstein non prende mai in considerazione, data la sua cieca accettazione dell'ideologia dominante.
C'è, indubbiamente, un qualche complesso di qualità che dà adito alla ricompensa materiale in una società capitalistica di stato. Questo complesso di qualità può comprendere tanto il Q.I. come probabilmente altri fattori più importanti del genere di quelli già citati. Nella misura in cui tali qualità sono ereditabili (e incidono nella scelta del coniuge) si avrà una tendenza alla stratificazione su queste basi. Fin qui la cosa è abbastanza evidente.
Ancora, le persone con un Q.I. più elevato tenderanno a godere di maggiore libertà nella scelta della professione. A seconda dei loro altri tratti caratteriali e delle opportunità loro offerte, tenderanno a scegliersi i lavori più interessanti o i lavori più remunerativi, categorie queste niente affatto identiche. Ci si può aspettare pertanto di rinvenire una certa correlazione tra Q.I. e ricompensa materiale, e una certa correlazione tra Q.I. e una graduatoria indipendente di professioni ordinate secondo l'interesse intrinseco e il fascino intellettuale. Se dovessimo in qualche modo classificare le professioni secondo la loro utilità sociale, probabilmente troveremmo al massimo una labile correlazione con la remunerazione o con l'interesse intrinseco, e fors'anche una correlazione negativa. L'ineguale distribuzione della ricchezza e del potere determinerà naturalmente una tendenza alla migliore remunerazione dei servizi destinati ai privilegiati, facendo così divergere in molti casi la scala della remunerazione dalla scala dell'utilità sociale.
Dai dati e dagli argomenti addotti da Herrnstein non si può trarre alcun'altra conclusione su quanto avverrebbe in una società giusta, a meno di non aggiungervi l'assunto che l'individuo lavori solo in vista del guadagno materiale, della ricchezza e del potere, e non aspiri ad un lavoro interessante adatto alle sue capacità - e che vegeterebbe piuttosto di fare un lavoro del genere. Poiché Herrnstein non fornisce alcuna ragione per cui noi si debba credere minimamente a tutto ciò (mentre ci sono delle buone ragioni per credere il contrario), nessuna delle sue conclusioni discende dai suoi assunti fattuali, ammesso pure che questi siano corretti. Il passaggio cruciale del suo «sillogismo» si riduce in realtà alla tesi secondo cui l'ideologia della società capitalistica esprime dei tratti universali della natura umana, e che determinati assunti impliciti della psicologia comportamentista sono al riguardo corretti. Non è da escludere che questi assunti inverificati siano veri. Ma una volta appurato quanto sia critico il ruolo da essi giocato nella sua argomentazione, e quale fondamento empirico in realtà essi abbiano, ogni residuo interesse per questa argomentazione sembra svanire.
Ho dato fin qui per ammesso che prestigio, stima e cose del genere possano anche rappresentare dei fattori che inducono la gente a lavorare (come lascia intendere Herrnstein stesso). La cosa non mi sembra affatto ovvia, benché quand'anche sia vera non ne deriverebbero chiaramente le conclusioni di Herrnstein. In una società decente il lavoro socialmente necessario e spiacevole verrebbe diviso su basi egualitarie, e a parte ciò la gente avrebbe per diritto inalienabile le più ampie opportunità possibili di fare un lavoro che l'interessi. Gli individui potrebbero venir «rinforzati» dal senso della loro dignità, se svolgono il loro lavoro al meglio delle loro capacità, o se il loro lavoro va a beneficio di coloro ai quali essi sono legati da vincoli di amicizia, simpatia e solidarietà. Nozioni del genere sono comunemente messe in ridicolo - come era comune, tempo addietro, farsi beffe dell'assurda idea che un contadino avesse gli stessi inalienabili diritti di un nobiluomo. Ci sono sempre stati e indubbiamente ci saranno sempre quelli che non riescono a concepire come le cose possano essere diverse da come sono. Forse hanno ragione, ma una volta ancora se ne vorrebbe avere una spiegazione razionale.
In una società decente del tipo anzidetto - che, presumibilmente, diventa sempre più realizzabile con il progredire della tecnologia - non ci sarebbe scarsità di scienziati, ingegneri, chirurghi, artisti, insegnanti e via dicendo, semplicemente perché tali attività sono intrinsecamente remunerative. Non c'è motivo di dubitare che la gente così occupata lavorerebbe con altrettanta lena di quei pochi fortunati che possono normalmente scegliere la propria professione al giorno d'oggi. Naturalmente, se gli assunti che Herrnstein ha preso a prestito dall'ideologia capitalistica e dal credo comportamentista sono corretti, la gente rimarrà sfaccendata invece di fare lavori del genere, a meno che non vi sia spinta dal bisogno e da ricompense estrinseche. Ma nessuna ragione viene addotta per spiegare perché si dovrebbe accettare questa strana e avvilente dottrina.
Fa capolino, sullo sfondo del dibattito sul sillogismo di Herrnstein, la questione razziale, questione alla quale peraltro egli da parte sua accenna appena. I suoi critici sono preoccupati, e a ragione, dal fatto che la sua argomentazione sarà sicuramente sfruttata dai razzisti a difesa della discriminazione, per quanto Herrnstein personalmente possa deplorare la cosa. Più in generale, l'argomentazione di Herrnstein sarà fatta propria dai privilegiati per giustificare i propri privilegi con la tesi che essi sarebbero ricompensati per le loro capacità e che tale ricompensa sarebbe indispensabile se si vuole che la società funzioni a dovere. La situazione richiama alla memoria l'antropologia razzista del secolo scorso, di cui si parlava all'inizio. Osserva Marvin Harris:

«Anche il razzismo ebbe una sua utilità come giustificazione delle gerarchie di classe e di casta; esso rappresentava una splendida spiegazione di un duplice privilegio, nazionale e di classe. Contribuì a tenere in vita la schiavitù e il servaggio, spianò la via alla deportazione degli africani e al massacro degli indiani d'America; diede nervi d'acciaio ai capitani d'industria di Manchester nel momento in cui abbassavano i salari, prolungavano la giornata lavorativa, e assumevano sempre più donne e bambini» (26).

C'è da prevedere che le argomentazioni di Herrnstein siano usate in maniera analoga, e per analoghe ragioni. Una volta appurato che il suo discorso non regge, a meno di non adottare premesse indimostrate e poco plausibili, che guarda caso si identificano con l'ideologia dominante, viene del tutto spontaneo di volgersi alla questione della funzione sociale delle sue concezioni, e di chiedersi come mai il discorso venga preso sul serio, esattamente come è accaduto per l'antropologia razzista del diciannovesimo secolo.
Dato che il problema è sovente intorbidato dalla polemica, vale forse la pena di ribadire che la questione della validità e legittimità scientifica di un determinato punto di vista è naturalmente indipendente, sul piano logico, dalla questione della sua funzione sociale; ognuna delle due costituisce un legittimo campo d'indagine, e la seconda diventa particolarmente interessante quando il punto di vista in discussione si rivela gravemente carente a livello empirico o logico.
Gli antropologi razzisti dell'Ottocento erano indubbiamente molto spesso onesti e sinceri. Forse pensavano di essere semplicemente dei ricercatori spassionati che facevano progredire la scienza lasciandosi guidare dai fatti. Ammesso questo, si potrà nondimeno contestare la validità dei loro giudizi, e non solo in quanto le prove documentarie erano scarse e le argomentazioni erronee. Si potrà anche notare la relativa mancanza di preoccupazioni per come sarebbero state usate queste «ricerche scientifiche». Sarebbe stata una ben povera scusa, da parte degli antropologi razzisti dell'Ottocento, protestare come fa Herrnstein che «un commentatore neutrale... dovrebbe dire che la questione non è semplicemente risolta con sicurezza» (per quanto riguarda l'inferiorità razziale), e che il «problema fondamentale» sta nel sapere «se l'indagine dovrà essere (nuovamente) troncata perché qualcuno pensa sia meglio lasciare la società nell'ignoranza». L'antropologo razzista del diciannovesimo secolo, come ogni altra persona, era responsabile delle conseguenze di quel che faceva, nella misura in cui queste conseguenze erano chiaramente prevedibili. Se le probabili conseguenze del suo «lavoro scientifico» erano quelle descritte da Harris, egli era moralmente obbligato a tener conto di tale probabilità. Ciò varrebbe anche qualora il lavoro avesse autentici meriti scientifici - e ancor più proprio in questo caso.
Analogamente, immaginiamoci uno psicologo nella Germania hitleriana che pensi di poter dimostrare che gli ebrei hanno una tendenza geneticamente determinata all'usura (come gli scoiattoli allevati a raccogliere troppe noci) o una inclinazione al complotto o alla dominazione antisociale. Se venisse criticato per il semplice fatto di aver intrapreso questi studi, potrebbe forse limitarsi a rispondere che «un commentatore neutrale... dovrebbe dire che la questione non è semplicemente risolta con sicurezza», e che il «problema fondamentale» sta nel sapere «se l'indagine dovrà essere (nuovamente) troncata perché qualcuno pensa sia meglio lasciare la società nell'ignoranza»? Non credo. Al contrario, credo che una risposta del genere sarebbe accolta con giustificato disprezzo. Nella migliore delle ipotesi, egli potrebbe sostenere di trovarsi di fronte a un conflitto di valori. Da una parte, l'asserita importanza di stabilire se veramente gli ebrei abbiano o no una tendenza geneticamente determinata all'usura e alla dominazione (una questione empirica, senza dubbio). Dall'altra, la probabilità che il solo fatto di porre la questione, assumendola ad oggetto di un'indagine scientifica, porti frecce all'arco di Goebbels, di Rosenberg e dei loro accoliti. Se questo ipotetico psicologo se ne dovesse infischiare delle probabili conseguenze della sua ricerca (o anche del solo fatto di intraprenderla) nelle condizioni sociali vigenti, meriterebbe in pieno il disprezzo delle persone rispettabili. Certo, la curiosità scientifica va incoraggiata (benché non si possa dire lo stesso per gli argomenti sofistici o per l'indagine di questioni futili), ma non è un valore assoluto. Gli sperticati elogi tributati all'inconsistente argomentazione di Herrnstein e la diffusa incapacità di avvedersi della parzialità e degli assunti indimostrati in essa impliciti (27), lasciano ritenere che non si tratti di una semplice questione di curiosità scientifica. Essendo impossibile spiegare questo entusiastico consenso con la sostanza o il vigore dell'argomentazione, viene fatto di chiedersi se le sue conclusioni non suonino così gradite a molti commentatori da ottunderne le facoltà critiche fino a renderli incapaci di comprendere che certi assunti decisivi e affatto inverificati altro non sono in realtà che un'ennesima versione dell'ideologia dominante. Questa incapacità è preoccupante - più preoccupante forse delle stesse conclusioni che Herrnstein cerca di ricavare dal suo zoppicante sillogismo.
Tornando alla questione della razza e dell'intelligenza, si concede troppo allo studioso contemporaneo di questo problema allorché ce lo si immagina alle prese con un conflitto di valori: la curiosità scientifica contro le conseguenze sociali. Stante la virtuale certezza che il fatto stesso di intraprendere tale ricerca rafforzerà alcuni degli aspetti più spregevoli della nostra società, la serietà del presunto dilemma morale dipenderà in misura decisiva dalla rilevanza scientifica del problema che si è scelto di indagare. Anche qualora la sua rilevanza scientifica fosse immensa, ci sarebbe senz'altro da mettere in dubbio la serietà del dilemma, considerate le probabili conseguenze sociali. Ma qualora l'interesse scientifico di ogni eventuale scoperta sia minimo, il dilemma a questo punto svanisce.
In realtà, non sembra che la questione del rapporto tra razza e intelligenza, ammesso che un rapporto ci sia, abbia una grande rilevanza scientifica ( non avendo alcuna rilevanza sociale, se non nel quadro di una società razzista). Una eventuale correlazione tra Q.I. medio e colore della pelle non riveste maggior interesse scientifico di una correlazione tra due altri caratteri qualsiasi, ad esempio l'altezza media e il colore degli occhi. I risultati scientifici, quali che siano, appaiono avere scarsa incidenza su qualunque problema scientifico di un certo rilievo. Allo stato attuale della conoscenza scientifica, la scoperta che un carattere parzialmente ereditabile è correlato (o no) con un altro carattere parzialmente ereditabile non sembrerebbe rivestire che scarso interesse. Questioni del genere potrebbero essere interessanti se i risultati comportassero delle conseguenze, poniamo, per qualche teoria psicologica, o per le ipotesi riguardanti il corrispondente meccanismo fisiologico, ma così non è. L'indagine sembra pertanto di scarsissimo interesse scientifico, e il sacro zelo con cui alcuni vi si dedicano o la salutano non si può ragionevolmente attribuire al desiderio spassionato di far progredire la scienza. Sarebbe certo da sciocchi replicare che «la società non va lasciata nell'ignoranza». La società vive felicemente «nell'ignoranza» di ogni specie di cose. E con la più grande buona volontà del mondo, è difficile non dubitare della buona fede di chi deplora il presunto «antintellettualismo» dei critici di indagini scientificamente banali e socialmente insidiose. Piuttosto, chi indaga intorno alla razza e all'intelligenza farebbe bene a spiegare il significato intellettuale della questione da lui studiata, illuminandoci in tal modo sul dilemma morale che gli si presenta. Se non gliene si presenta alcuno, la conclusione è ovvia, senza ulteriori discussioni.
Quanto all'importanza sociale, una correlazione tra razza e Q.I. medio (quand'anche se ne dimostrasse l'esistenza) non comporta alcuna conseguenza se non in una società in cui ogni individuo è incluso in una categoria razziale e trattato non come individuo, avente dei diritti in quanto tale, ma come rappresentante di questa o quella categoria. Herrnstein accenna ad una possibile correlazione tra statura e Q.I. Quale importanza sociale rivestirebbe questo fatto? Nessuna. Noi non pretendiamo di includere ogni adulto nella categoria «meno di un metro e ottanta di statura» o in quella «più di un metro e ottanta di statura», allorché ci chiediamo che genere di istruzione gli si debba impartire, o dove egli debba vivere, o che lavoro debba fare. Al contrario, egli è quello che è, del tutto a prescindere dal Q.I. medio delle persone della sua categoria di statura. In una società non razzista, la categoria della razza non avrebbe maggiore importanza. Il Q.I. medio degli individui con un certo sfondo razziale ha ben poco a che vedere con la situazione di un individuo particolare, che è quello che è. Una volta riconosciuto questo fatto perfettamente ovvio, nessuna giustificazione plausibile ci rimane o quasi dell'interesse per il rapporto tra Q.I. medio e razza, a parte la «giustificazione» fornita dall'esistenza della discriminazione razziale.
La questione dell'ereditarietà del Q.I. potrebbe verosimilmente avere una certa importanza sul piano sociale, poniamo, in fatto di prassi scolastica. Peraltro, anche questo pare dubbio, e si vorrebbe averne una spiegazione argomentata. Detto per inciso, mi sorprende che tanti recensori trovino preoccupante l'idea che il Q.I. possa essere ereditario, fors'anche in gran parte (28). Sarebbe ugualmente preoccupante scoprire che la statura o il talento musicale o la bravura nel correre i cento metri piani sono geneticamente determinati? Perché si dovrebbero nutrire prevenzioni in un senso o nell'altro su tali questioni, e che rapporto hanno le risposte, non importa quali, date ad esse, con le questioni scientifiche serie (allo stato attuale delle nostre conoscenze) o con la pratica sociale in una società decente?

6.

Tornando a Skinner, abbiamo rilevato come la sua «scienza» non giustifichi ma nemmeno opponga alcuna obiezione razionale ad uno stato totalitario o addirittura ad un campo di concentramento ben amministrato. I libertari e gli umanisti che Skinner disdegna si oppongono al totalitarismo in nome della libertà e della dignità. Ma, ragiona Skinner, queste nozioni non sono che un residuo di credenze mistiche tradizionali e vanno sostituite dai rigorosi concetti scientifici dell'analisi comportamentale. Non esiste tuttavia alcuna scienza del comportamento che comprenda proposizioni non banali ed empiricamente fondate, suscettibili di applicazione agli affari umani e adatte a fornire i principi di una tecnologia del comportamento. E' per questa ragione che il libro di Skinner non contiene alcuna effettiva ipotesi o proposta chiaramente formulata. Noi siamo almeno in grado di incominciare a costruire delle ipotesi coerenti sull'acquisizione di determinati sistemi di conoscenze e di credenze a partire dall'esperienza e dal patrimonio genetico, e di delineare lo schema generale di un qualche congegno capace di riprodurre degli aspetti di questa operazione. Ma per quanto riguarda il modo come una persona, acquisiti dei sistemi di conoscenze e di credenze, passi poi ad applicarli nella vita quotidiana, su questo siamo al buio più completo, stante il livello attuale della ricerca scientifica. Se vi fosse una scienza capace di rendere conto di questi fenomeni, potrebbe darsi benissimo che si occupasse proprio della libertà e della dignità, e suggerisse delle possibili soluzioni miranti al loro rafforzamento. Forse, come suggerisce a volte la letteratura classica della libertà e della dignità, esiste un'innata inclinazione umana alla libera ricerca creativa e al lavoro produttivo, e l'uomo non è semplicemente un ottuso meccanismo plasmato da una storia di rinforzi e agente in modo prevedibile, senza altri bisogni intrinsechi all'infuori del bisogno di appagamento fisiologico. Gli esseri umani in questo caso non saranno soggetti atti ad essere manipolati, e noi cercheremo di progettare un ordine sociale conforme alla loro natura. Ma al momento attuale non ci si può rivolgere alla scienza per comprendere questi fenomeni. Affermare il contrario è pura menzogna. Per ora, uno scienziato onesto ammetterà subito che, per quanto riguarda la libertà e la dignità umana, allo stato attuale della ricerca scientifica non sappiamo praticamente nulla.
Non c'è dubbio, naturalmente, che il comportamento si possa controllare, ad esempio con la minaccia della violenza o con un sistema di privazioni e ricompense. Fin qui non ci sono problemi, e le conclusioni sono perfettamente compatibili con l'idea dell'«uomo autonomo». Se un tiranno ha il potere di esigere certi atti, vuoi con la minaccia della violenza vuoi permettendo di sottrarsi alla privazione solamente a quanti compiono questi atti (ad esempio, riservando a costoro i posti di lavoro), i suoi sudditi potranno scegliere di obbedire - sebbene alcuni di essi possano avere la dignità di rifiutare. Saranno coscienti tuttavia di sottomettersi per forza di costrizione. Comprenderanno la differenza tra questa costrizione e le leggi che regolano la caduta dei gravi. Naturalmente non saranno liberi. Le sanzioni puntellate dalla forza limitano la libertà, al pari delle ricompense differenziali. Un aumento salariale, per dirla con Marx, «non sarebbe altro che una migliore "remunerazione di schiavi" e non restituirebbe né al lavoratore né al lavoro il loro umano significato e valore». Ma sarebbe assurdo dedurre, dal semplice fatto che la libertà è limitata, che l'«uomo autonomo» sia un'illusione, o trascurare la distinzione tra una persona che sceglie di conformarsi di fronte alla minaccia o all'uso della forza, o alla privazione, o alla ricompensa differenziale, e una persona che «scelga» di obbedire ai principi newtoniani nel cadere dall'alto di una torre. L'inferenza rimane assurda anche laddove sia possibile predire la linea d'azione che sceglierebbe la maggior parte degli «uomini autonomi», in condizioni di costrizione o di limitate possibilità di sopravvivenza. L'assurdità si fa ancor più evidente quando consideriamo il mondo sociale reale, in cui le «probabilità di risposta» determinabili sono così ridotte da non possedere praticamente alcun valore previsionale. E sarebbe non già assurdo, ma grottesco, affermare che essendo possibile predisporre delle circostanze in cui il comportamento è del tutto prevedibile - come ad esempio in prigione, o nella società concentrazionaria più sopra «progettata» - non c'è bisogno di preoccuparsi per la libertà e la dignità dell'«uomo autonomo». Quando simili conclusioni sono prese per dei risultati di una «analisi scientifica», non c'è che da rimanere stupiti della dabbenaggine umana.
Skinner confonde la scienza con la terminologia. Egli crede evidentemente che basti riformulare dei luoghi comuni «mentalistici» nella terminologia derivata dagli studi di laboratorio sul comportamento, ma svuotata del suo preciso contenuto, per ottenere un'analisi scientifica del comportamento. Sarebbe difficile immaginare una più spiccata incapacità di comprendere gli stessi rudimenti del pensiero scientifico. Il pubblico potrà anche lasciarsi ingannare, dato il prestigio della scienza e della tecnologia. Potrà persino lasciarsi carpire il riconoscimento che non ci si debba più preoccupare della libertà e della dignità. Può darsi che scelga questa via spinto dal timore o dall'insicurezza dinanzi alle conseguenze di un serio impegno a difesa della libertà e della dignità. Le tendenze che nella nostra società spingono alla sottomissione a un regime autoritario potrebbero indurre gli individui ad accogliere una dottrina interpretabile come sua giustificazione.
I problemi discussi o, per meglio dire, «elusi» da Skinner sono il più delle volte indubbiamente reali. Ad onta della sua singolare opinione contraria, i suoi antagonisti libertari e umanisti non contestano il «progetto di una cultura», e cioè la creazione di forme sociali più adatte al soddisfacimento dei bisogni umani, pur differenziandosi da Skinner per il fatto di intendere intuitivamente la vera natura di questi bisogni. Essi non si opporrebbero, o almeno non dovrebbero opporsi, alla ricerca scientifica né, ove possibile, alle sue applicazioni, pur rifiutandone indubbiamente il travisamento parodistico proposto da Skinner.
Se un fisico ci assicurasse che non c'è da preoccuparsi per le risorse energetiche del mondo, avendo egli dimostrato nel suo laboratorio che i mulini a vento basteranno sicuramente per tutti i futuri bisogni umani, ci si attenderebbe da lui qualche elemento di prova, in mancanza del quale altri scienziati si incaricherebbero di denunciare la cosa come una perniciosa sciocchezza. Diversa è la situazione nel campo delle scienze del comportamento. A chi dichiara di possedere la tecnologia del comportamento adatta a risolvere i problemi mondiali e la scienza del comportamento che ne sta a fondamento, non si chiede di dimostrare nulla. Invano si attende che degli psicologi spieghino al grande pubblico i limiti effettivi di ciò che si conosce. Il che, dato il prestigio della scienza e della tecnologia, è un grossissimo guaio.

[Traduzione di Vittorio De Tassis].


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