di Erving Goffman.
1.
Da più di duecento anni si è andata affermando l'idea
che esiste qualcosa che si chiama malattia mentale, che si tratta di una malattia
come le altre e che deve essere affrontata con cure mediche: coloro che ne soffrono
devono essere curati, presi in cura da medici, se è necessario in un
ospedale, e non devono essere ritenuti responsabili della propria malattia.
Questo concetto ha precisi usi sociali. Se non esistesse saremmo probabilmente
costretti ad inventarlo.
Negli ultimi vent'anni si è visto tuttavia che la gestione medica della
malattia mentale ha avuto scarsi risultati. Il migliore trattamento ottenibile
con il denaro, la psicoterapia individuale protratta per anni, non si è
rivelato particolarmente efficace. Il trattamento ricevuto dalla maggior parte
dei pazienti - l'ospedalizzazione - è da considerarsi estremamente discutibile.
E' vero che il più delle volte i pazienti guariscono, almeno temporaneamente,
ma questo sembra accadere nonostante l'ospedale psichiatrico, piuttosto che
grazie ad esso. Molte di queste istituzioni si sono rivelate null'altro che
pattumiere senza speranza, coperte da un alibi psichiatrico. Sono servite a
spostare il paziente dalla scena in cui ha avuto luogo il suo comportamento
sintomatico, cosa di per sé positiva, ma questa funzione è stata
svolta dalle inferriate e non dai medici. Inoltre, il prezzo che il paziente
ha dovuto pagare per questo servizio è considerevole: l'allontanamento
dalla vita civile, il distacco affettivo dalle persone amate, ritenute responsabili
del suo internamento, l'umiliazione dell'irreggimentazione e della sorveglianza
ospedaliera, la stigmatizzazione permanente dopo la dimissione. Dire che è
stato un affare cattivo è dire poco: è stato per lo meno un affare
grottesco.
Appunto per queste considerazioni, nell'ultimo decennio si sono verificati alcuni
importanti cambiamenti nel trattamento dei malati mentali. Vi sono stati notevoli
miglioramenti nelle condizioni di vita degli ospedali psichiatrici, quantunque
non più di quanto sia avvenuto in America in altre zone di risacca penetrate
dal concetto del diritto inalienabile dell'uomo di disporre di servizi ricreativi.
Inoltre, ci sono stati inviti a mantenere il potenziale malato il più
possibile nella comunità e a restituire alla comunità il malato
ricoverato, il più presto possibile. I diritti legali di persone imputate
di malattia mentale sono aumentati al punto che in alcuni stati, come la California,
è difficile organizzare l'internamento coatto. L'idea generalmente diffusa
è che la meta da raggiungere non è la cura del paziente, ma il
fatto di riuscire a contenerlo all'interno di una nicchia nella società
libera, dove possa essere tollerato. Ove non sia possibile trovare una nicchia
già pronta, a volte ne viene costruita una artificiale, come succede
nelle istituzioni: la cura a domicilio e l'ospedale di giorno. Nel caso questo
nuovo approccio alla malattia gravi troppo sulla famiglia, sul vicinato e sul
luogo di lavoro del paziente, c'è pronta una nuova interpretazione del
disturbo mentale che giustifica questo peso: dato che il paziente è stato
oppresso, dato che egli altro non è se non il portatore dei sintomi di
una situazione malata, è giusto che sia tutto il gruppo a dividerne il
peso; è giusto incoraggiare il paziente e coloro che gli stanno attorno
a trovare, preferibilmente con l'aiuto della psichiatria, una soluzione insieme.
Considerato il tipo di vita che viene ancora condotto nella maggior parte degli
ospedali psichiatrici e la stigmatizzazione ancora implicita nella malattia
mentale, la teoria del contenimento del disturbo mentale nella comunità
sembra tuttora la migliore. Tuttavia è necessario esaminare cosa significhi
questa scelta per i vari «altri» che sono in rapporto con il paziente,
cioè per coloro che, secondo lui, hanno i ruoli più significativi
nella sua vita. Ma per farlo dobbiamo esaminare prima il significato che assumono
i sintomi del paziente per questi «altri». Così facendo scopriremo
non solo il significato del «contenimento», ma anche quello del
disordine mentale.
Prima di procedere voglio introdurre un'altra questione e i concetti in essa
impliciti: quella che riguarda il mondo medico e il rapporto medico-paziente.
La teoria che sottende il servizio medico è simile a quella che sottende
altri servizi legittimi e, come in questi casi, viene spesso messa in pratica.
Il paziente si presenta al medico di propria iniziativa, si mette nelle sue
mani e ne segue le istruzioni, ottenendo di conseguenza risultati che giustificano
largamente la fiducia riposta e il prezzo pagato.
Ovviamente vi sono punti di attrito. Il paziente può non sapere di avere
bisogno di assistenza; sapendolo può rivolgersi a persone non qualificate;
avendo bisogno di un servizio medico, può non essere in grado di permetterselo;
o, potendo permetterselo, può passare da un medico all'altro prima di
sceglierne uno; o, una volta scelto, può non seguirne i consigli; o,
se li segue, può accorgersi che la sua situazione è in qualche
modo migliorata, ma non radicalmente mutata.
Inoltre gli scambi e le relazioni a due tra medico e paziente possono complicarsi
con l'intervento di altre parti. Per esempio: le équipes mediche di specialità
diverse possono rendere difficile al paziente l'identificazione di chi siano
coloro che lo assistono: malattie infettive o ferite sospette obbligano il medico
ad agire a tutela della comunità oltre che a tutela del paziente. Mi
soffermerò su un solo tipo di queste «terze parti», gli ambienti
quotidiani del paziente: i servizi assistenziali di cui dispone nella comunità,
il posto di lavoro, le amicizie e, in modo particolare, la famiglia.
Per tradizione, nell'assistenza medica si dà alla famiglia del malato
un certo numero di funzioni. Per esempio, spesso ci si aspetta che la famiglia
cooperi, dia una mano, metta in moto le risorse di casa per rispondere ai bisogni
temporaneamente particolari del paziente. Se la malattia è più
grave, il minimo che può fare la famiglia è portare in ospedale
il malato con la propria macchina e poi andarlo a prendere; il massimo è
che la casa diventi un ospedale fuori dell'ospedale. Qualunque sia la portata
dell'aiuto prestato dalla famiglia, il medico dovrà in genere dare istruzioni
sul da farsi, sia direttamente che attraverso il paziente.
Altra funzione della famiglia è la tutela. I membri adulti della famiglia
possono venire esplicitamente chiamati ad agire al posto del paziente, in genere
perché è al di sotto o al di sopra dell'età della ragione,
per ratificare decisioni mediche che altrimenti richiederebbero il libero consenso
della persona che riguardano direttamente.
Inoltre, se il paziente è adulto e la sua situazione è senza speranza,
la famiglia può avere un incontro segreto col medico. Egli potrà
riferire fatti sulla condizione del paziente che è bene i familiari conoscano,
ma che il medico non ritiene di poter comunicare al malato, per motivi umanitari
o sanitari. Si forma quindi una specie di tutela di emergenza che richiede un'alleanza
tra i parenti del malato e il medico.
A questo punto sono necessarie alcune definizioni. Una «coalizione»
è un accordo di collaborazione tra due parti che ne fanno uso per controllare
l'ambiente di una terza parte, accordo questo che non viene stabilito, né
riconosciuto esplicitamente in questi termini. Una «rete di complicità»
o una «complicità di linea» è una coalizione che cerca
un certo tipo di controllo: la definizione della situazione fatta dalla terza
parte (1). Per quante siano le persone realmente coinvolte nelle varie parti,
esistono solo due ruoli basilari: le due o più persone che si allineano,
cioè i complici, e la o le persone la cui definizione della situazione
viene segretamente manipolata: questi ultimi possono essere ritenuti gli esclusi
dalla complicità. E' da notare che se deve esserci una complicità,
i complici devono mantenersi in contatto fra di loro, poiché se si verificassero
risposte indipendenti, non si potrebbe concertare la linea da mantenere. Questa
comunicazione complice ha due aspetti: nel primo caso i partecipanti non sono
in presenza degli esclusi e quindi devono solo nascondere il fatto di tenersi
in contatto; nel secondo, la comunicazione avviene nell'immediata presenza dell'altro,
e quindi si attua generalmente attraverso segni furtivi. Si tratta cioè,
nel primo caso, di un'aperta comunicazione tra persone nascoste e nel secondo,
di una comunicazione furtiva tra persone non nascoste (2).
La complicità implica il fatto di usare consapevolmente la falsità
come base di azione. Si viene a formare quindi una specie di cospirazione, in
particolare per quanto riguarda due questioni fondamentali. La prima è
la realtà. La complicità serve a mantenere ferma, per colui che
è escluso, una definizione della situazione che è invece instabile,
e che verrebbe a cadere e ad essere screditata, se i complici rivelassero ciò
che sanno e se cessassero di manipolare i fatti che rendono accessibili all'escluso.
La seconda sono i rapporti. Il rapporto personale che un individuo escluso sente
di avere con ciascuno dei complici, verrebbe messo in discussione se egli scoprisse
che tra loro esiste un rapporto di complicità rivolto contro di lui (3).
Gli adulterî, grandi banchi di prova per la recitazione nella vita, ne
sono un esempio calzante.
Naturalmente una cospirazione può essere benintenzionata e fatta solo
a vantaggio di colui contro cui si cospira. La complicità è infatti
un elemento comune nella vita sociale, senza dubbio utile. I bambini vengono
allevati nella complicità, specialmente se si tratta di bambini handicappati.
Ovunque, grazie ad essa, viene conservato l'io individuale e insieme si salva
la faccia. Direi di più: è forse impensabile che un rapporto tra
tre persone continui per un certo periodo di tempo senza che intervenga un tipo
di complicità, poiché il tacito tradimento della terza persona
è uno dei modi migliori con cui due persone esprimono la particolarità
del proprio rapporto. I terzetti costanti sembrano di fatto implicare almeno
un minimo di complicità scherzosa in cui si crea un'alleanza fra ognuna
delle tre coppie possibili e in cui ognuno dei tre fa a turno la parte di escluso.
Nella pratica medica comune la complicità non è un problema. Forse
è così anche per quanto riguarda il paziente moribondo (Glaser
e Strauss) che con ogni probabilità, almeno per un po' di tempo, verrà
ingannato sul suo futuro dal personale medico, se non dalla famiglia. Ma, come
vedremo più oltre, è nella cura psichiatrica che la complicità
diventa discutibile e pericolosa.
2.
Possiamo cominciare con l'esaminare la «pazzia del posto»
["insanity of place"] rivedendo e allargando alcune definizioni elementari
sulla sociologia del posto.
Il modo in cui un individuo tratta gli altri ed è trattato dagli altri
esprime e sottintende una definizione dell'individuo stesso, definizione che
viene insieme espressa e sottintesa dalla scena sociale in cui ha luogo il rapporto.
Si tratta di una definizione «virtuale»; essa è basata sui
modi di comprendere della comunità ed è alla portata di chiunque
ne faccia parte, sia che tali interpretazioni vengano realmente effettuate o
no, e se effettuate, lo siano o no in modo corretto - cioè nel modo approvato
dalla maggior parte dei suoi membri. Il punto di riferimento fondamentale è
qui un codice sottinteso, comprensibile soltanto a un esperto del comportamento,
e non concetti o immagini che esistono già nella mente della gente. E'
da notare che una definizione completa richiede una serie di informazioni su
aspetti rilevanti del comportamento e sulla loro interpretazione, cosa questa
che anche un profano potrebbe fare, ma che di solito non ha motivo di fare.
Le definizioni virtuali di un individuo possono essere «date» nel
senso che sono riscontrabili nel comportamento di agenti considerati esterni
all'individuo stesso. Esse costituiscono quindi la «persona» dell'individuo.
In corrispondenza a queste supposizioni date sull'individuo, vi saranno quelle
virtualmente «agite», proiettate attraverso ciò che viene
considerato il suo comportamento personale. Queste supposizioni costituiscono
il «sé» (4) dell'individuo. La persona e il sé sono
due immagini dello stesso individuo, la prima incorporata nelle azioni degli
altri, la seconda in quelle dell'individuo stesso.
La definizione che l'individuo dà di sé può, per molti
versi, essere diversa da quella che gli viene data. Inoltre, il rapporto psicologico
che egli sostiene con la definizione data e quella agita è enormemente
complicato. Può essere inconsapevole di alcuni elementi di queste definizioni
e può essere erroneamente consapevole di altri. Può essere legato
in modi diversi alle definizioni di cui è a conoscenza, gradendo o meno
ciò che sente sottinteso ai suoi riguardi nei rapporti con gli altri,
accettando o rifiutando intimamente, in modi diversi, questi giudizi su di sé.
Inoltre può intervenire per mutare questi giudizi, oppure può
sottomettersi passivamente a definizioni di sé a lui sgradite. Come ha
detto giustamente Cooley, in questo processo sono implicati sentimenti di rispetto
di sé come l'orgoglio e la vergogna. Quando questi diversi rapporti che
l'individuo può avere con ciò che gli altri possono vedere di
lui vengano codificati e diventino abituali, allora si possono definire «personalità»
e «carattere», intendendo con questo significare tutto ciò
che affermiamo quando consideriamo quello che realmente è un individuo,
quello che è essenzialmente, quello che è in quanto essere umano.
A questo punto dovrebbe essere chiaro che le implicazioni presenti nel comportamento
di un individuo hanno un carattere molto avvolgente. Anche se la sua condotta
complessiva può essere interpretata secondo le considerazioni di sé
di cui è costituita, alcuni atti minori comunicheranno che cosa l'individuo
pensi del fatto di avere un sé definito in un certo modo, del fatto che
gli altri lo definiscono come una data persona, e questi atti a loro volta possono
essere, da lui e da altri, considerati come parte del suo sé agito, cosa
che a sua volta può venir presa in considerazione nel momento in cui
lui o gli altri arrivano ad una valutazione di ciò che è. L'individuo
espone un «sé», commenta l'azione fatta e commenta i propri
commenti, mentre gli altri prendono in considerazione l'intero processo per
poter giungere a decidere quale sia la definizione da dare di lui, definizione
di cui a sua volta egli terrà conto per rivedere la propria opinione
di sé (5).
Avendo considerato la persona e il sé dell'individuo, passiamo ora a
considerare le norme che li regolano. Si definisce norma o regola sociale qualunque
indicazione diretta a far scegliere un certo tipo di azioni in quanto appropriate,
adatte alla situazione, corrette e moralmente giuste. In questo processo sono
coinvolte tre parti: la persona che può legittimamente «aspettarsi»
e esigere di essere trattata in un certo modo, conforme alla regola: la persona
che è «obbligata» ad agire secondo la regola; la comunità
che rafforza la legittimità di queste aspettative e di questi obblighi.
Il modo in cui si trattano gli altri e si è trattati dagli altri è
regolato da norme sociali, così come lo sono le implicazioni esteriori
di questi rapporti. Quindi, quando un individuo è coinvolto nel mantenimento
di una regola, egli stesso tende a limitarsi ad una serie specifica di definizioni
agite e date di se stesso. Se la regola lo obbliga a fare qualche cosa nei confronti
degli altri, egli diviene, per sé e per loro, il tipo di persona che
agirebbe spontaneamente nel modo correttamente delineato da ciò che è
espresso nel suo comportamento. Se invece la regola lo porta ad aspettarsi che
siano gli altri a fare qualcosa nei suo confronti, allora egli diviene per sé
e per loro una persona il cui carattere è correttamente indicato da ciò
che implica questo modo di trattarlo. Accettata questa definizione di sé,
egli è allora obbligato ad assicurarsi - sia attraverso il modo di trattare
gli altri, sia attraverso quello di essere trattato da loro - che la regola
venga seguita, il che gli consente di essere ciò che pensa di essere.
In genere, quindi, quando viene rotta una regola di condotta, due individui
corrono il rischio di risultarne screditati: l'uno a causa dell'obbligo che
aveva di comportarsi secondo la regola; l'altro a causa della pretesa di essere
trattato in un certo modo, in seguito a quest'obbligo. Viene minacciata cioè
parte della definizione di entrambi (agente e ricevente), così come,
seppure in grado minore, parte della definizione della comunità che li
contiene.
Dopo aver visto come le regole di condotta siano fondamentali per la definizione
del "sé", dobbiamo vedere come esse siano altrettanto fondamentali
nella vita sociale che le incorpora. Il che, molto sinteticamente, significa:
le attività di qualunque organizzazione sono assegnate ai propri membri
e coordinate dal fatto di essere sottoposte a (o di poter ricadere all'interno
di o di essere coperte da) alcune regole. In questo modo molti degli obblighi
e delle aspettative di un individuo riguardano le attività dell'organizzazione
sociale cui appartiene, e ne permettono il perdurare.
Voglio insistere su questa posizione sociologica generale. Attraverso la socializzazione
nella vita di un gruppo, l'individuo si trova di fatto a formulare delle supposizioni
su di sé. Sebbene queste supposizioni siano su di sé, esse sono
comunque delineate secondo i rapporti che egli tiene con gli altri membri del
gruppo, e da questi approvati secondo il suo rapporto con il lavoro collettivo
- cioè il contributo che ha il dovere di dare e la quota che ha il diritto
di ricevere. In breve, queste supposizioni su di lui riguardano il suo posto
nel gruppo, posto che viene sostenuto dalle norme del gruppo stesso.
L'individuo tende a organizzare la propria attività come se il punto
chiave sia ciò che egli suppone di sé. Presume cioè che
la sua parte di aspettative e di obblighi nei confronti del gruppo gli verrà
suddivisa sulla base (e come conferma) di ciò che egli presume di sé.
E in generale questa autoorganizzazione dell'attività dell'individuo
funziona perché gli altri nel gruppo fanno più o meno le stesse
supposizioni su di lui e lo trattano in conformità. Il sé e la
persona vengono a coincidere. Il modo in cui l'individuo tratta gli altri e
il modo in cui gli altri lo trattano, è visto, tranne per quanto riguarda
il punto di riferimento iniziale, come lo stesso insieme di supposizioni fatte
su di lui: insieme di supposizioni che non sarà un'implicazione casuale
del modo reciproco di trattarsi, ma ne sarà la chiave.
E' da notare a questo punto che il linguaggio espressivo della società
e del gruppo cui appartiene l'individuo garantiranno che egli può provare
ciò che suppone di sé, non solo compiendo i propri principali
obblighi materiali, ma anche attraverso mezzi espressivi, fra cui il modo di
comportarsi in presenza di altri o nel rapporto con loro. Attraverso minimi
atti di deferenza e di contegno, attraverso piccoli segnali di comportamento,
l'individuo fa trasparire ciò che pensa di sé. Con questo egli
offre agli altri un messaggio continuo, un'informazione continua su quale posto
si aspetti nelle successive attività del gruppo, anche se in quel momento
di posto ce n'è poco. Di fatto, il comportamento di un individuo, nella
misura in cui è percepito dagli altri, ha una funzione indicativa, costituita
di premesse e minacce, che conferma o no il fatto che egli conosce e mantiene
il proprio posto.
3.
Partendo da questi concetti elementari come struttura di riferimento,
occupiamoci ora di una questione specifica: il confronto tra sintomi medici
e sintomi mentali.
Le manifestazioni e i sintomi di un disturbo "medico" si riferiscono
presumibilmente a patologie interne all'organismo individuale, patologie che
costituiscono delle deviazioni dalle norme biologiche sostenute dal funzionamento
omeostatico della macchina umana. In questo caso, il sistema di riferimento
è chiaramente l'organismo individuale e il termine «norma»,
per lo meno idealmente, non ha connotati morali, né sociali. (Naturalmente,
oltre alla patologia interna, si può individuare la causa nell'ambiente
esterno, forse anche una causa sociale, come nel caso di situazioni di lavoro
nocive o che producono contagi; ma in genere lo stesso disturbo può essere
prodotto all'interno di una vasta gamma di ambienti socialmente differenziati).
Ma che cosa sono i sintomi mentali?
Senza dubbio alcune psicosi, nelle loro cause principali, sono organiche, altre
psicogenetiche, altre ancora situazionali. In molti casi, l'eziologia riguarderà
tutti questi elementi causali. Inoltre, sembra non esservi alcun dubbio che
l'intenzionalità del pre-paziente - cioè, di colui che agisce
in modo tale da poter ad un certo punto essere percepito come malato - può
essere di diversi tipi: egli può non essere in grado di sapere ciò
che sta facendo; oppure può conoscere l'effetto dei suoi atti, ma non
essere in grado di frenarsi, o può essergli indifferente farlo; oppure,
conoscendo l'effetto di certi atti, può compierli con premeditazione,
proprio per raggiungere quegli effetti. Tutto questo ora non ci interessa. Infatti,
quando per la prima volta la persona che più tardi verrà considerata
un malato mentale, compie un atto che più tardi verrà considerato
sintomo di malattia mentale, l'atto che compie non viene preso come sintomo
di malattia, ma come deviazione dalle norme sociali, cioè un'infrazione
alle regole e alle aspettative sociali (6). La ricostruzione percettiva dell'offesa
o infrazione come sintomo medico privo di valore, può avvenire molto
più tardi; al suo apparire sarà labile e verrà interpretato
diversamente a seconda che sia il paziente, la parte offesa o il personale psichiatrico
professionale a percepirla.
Il fatto che il comportamento del malato mentale sia al suo apparire una forma
di deviazione sociale è più o meno accettato nell'ambiente psichiatrico.
Ma ciò che non viene notato - e di cui si parlerà in questo lavoro
- è che le norme biologiche e le norme sociali sono cose ben diverse
e che i metodi elaborati per analizzare le deviazioni dalle prime, difficilmente
sono usabili per analizzare le deviazioni dalle seconde.
Il primo problema è che i sistemi regolati da norme sociali non sono
individui biologici, ma rapporti, organizzazioni e comunità; l'individuo
semplicemente segue o contravviene alle regole, e il suo rapporto con qualunque
insieme di norme che egli segue o rifiuta, può essere estremamente complesso
- come vedremo, può risultare un problema più politico che medico.
Il secondo problema ha a che fare con lo stesso processo normativo. Il modello
biologico può essere formulato in termini estremamente semplici: deviazione,
reazione riparatoria, rimessa in equilibrio (associata all'eliminazione o alla
distruzione dell'agente patogeno); o disorganizzazione, cioè distruzione
del sistema. Un quadro realistico del regolamento sociale è molto meno
ordinato.
La risposta sociologica tradizionale al problema della regolazione e della conformità
alla regola, si trova nel senso normativo del termine «controllo sociale»
e del ciclo correttivo che presumibilmente si mette in moto nel caso abbia luogo
un'infrazione.
Come abbiamo già detto, l'individuo, attraverso la socializzazione, giunge
ad incorporare l'idea che determinate regole sono giuste e sacrosante e che
una persona quale egli ritiene di essere è tenuta a sostenerle e a sentirsi
in colpa qualora non lo faccia. Impara anche a dare automaticamente peso all'immagine
che gli altri possono farsi di lui; impara cioè ad avere una giusta preoccupazione
circa la propria reputazione.
Considerando come fondamentale il concetto di norma personalmente incorporata,
si possono distinguere tre forme basilari di controllo sociale normativo. Primo,
e senza dubbio il più importante, è il «controllo personale»:
l'individuo si astiene da un'azione impropria agendo come poliziotto di se stesso.
Accorgendosi di aver agito in modo improprio si prende cura di ammettere il
proprio errore e di compiere spontaneamente gli atti riparatori che ristabiliscono
le norme e insieme lo ripropongono come uomo che le rispetta.
Secondo, il «controllo sociale informale». Quando l'individuo incomincia
a sbagliare, le parti offese possono avvisarlo che sta uscendo di strada, che
è imminente la disapprovazione di ciò che fa, e che è probabile
abbiano luogo misure punitive se egli vorrà persistere. Come risultato
di questo avvertimento più o meno sottile, aumentato o sostenuto finché
l'offesa viene riparata, il reprobo viene riportato alla ragione ed agisce nuovamente
in modo da affermare le idee comunemente approvate. Come ha notato Parsons,
questo feed-back correttivo si verifica costantemente nella vita sociale ed
è, di fatto, uno dei meccanismi principali del processo di socializzazione
e di apprendimento.
Terzo, la minaccia che l'offensore costituisce per l'ordine sociale viene gestita
attraverso una sanzione sociale «formale», amministrata da agenti
specializzati, specificatamente designati a questo scopo. I criminali - senza
dubbio - contravvengono alle regole sociali, ma c'è un elemento grazie
al quale essi non minacciano l'ordine sociale e questo è costituito dal
rischio che essi accettano di essere presi, imprigionati e sottoposti a una
dura censura morale. Possono trovarsi obbligati, come si dice, a pagare il loro
debito alla società - il cui prezzo si presume proporzionato alla misura
dell'offesa - cosa che, a sua volta, conferma la ragionevolezza di coloro che
non contravvengono alle regole. Comunque essi spesso cercano di nascondere il
fatto di contravvenire alla legge, se vengono accusati si dichiarano innocenti
e fingono di pentirsi se la loro colpevolezza viene comprovata - cose queste
che dimostrano come essi conoscano le regole e non si ribellino apertamente
ad esse. E' da notare però che l'efficacia del controllo sociale, informale
e formale, dipende in certa misura dal controllo personale, poiché un
controllo che ha la sua origine al di fuori dell'offensore non risulterà
molto efficace se insieme non riuscirà a risvegliare almeno in parte
un'azione correttiva dal suo interno.
Controllo personale, informale e formale sono i mezzi morali (e anche i mezzi
principali) grazie ai quali le deviazioni vengono inibite o corrette e viene
assicurato il rispetto delle norme. Ma anche se considerati assieme, questi
strumenti di controllo offrono un quadro molto angusto dei rapporti tra norme
sociali e deviazioni sociali.
Per prima cosa, gli agenti di controllo che abbiamo esaminato sono efficaci
non per le preoccupazioni morali dell'offensore, ma per una sua scelta di convenienza.
La buona opinione degli altri può essere ricercata per poterli sfruttare
con maggior facilità. Una multa da pagare può essere considerata
non come una dichiarazione di colpevolezza, ma come una spesa ordinaria da preventivare
nel calcolo delle uscite (7). Naturalmente ciò che vogliamo dire qui
è che spesso ci si può aspettare da un individuo una sottomissione
automatica e sicura, solo se il prezzo da pagare rientra in una gamma di prezzi
strettamente limitata.
Inoltre, le norme possono essere mantenute non a causa della coscienza o della
punizione, ma perché il mancato assoggettarsi ad esse porta a complicazioni
indesiderate e impreviste di cui l'offensore non era al corrente nel momento
di intraprendere l'azione offensiva (8).
Ma anche questa base più allargata di controllo sociale ce ne offre una
visione parziale. Il modello di controllo che essa implica - modello che considera
le norme sociali più o meno come fossero norme biologiche - è
esso stesso troppo restrittivo. Poiché quando si verifica un'offesa non
è assolutamente vero che sempre ne conseguano delle sanzioni, e quando
invece vengono applicate sanzioni negative o punizioni, o quando si verificano
conseguenze punitive impreviste - cioè quando è già iniziato
il ciclo correttivo - non è assolutamente vero che sempre la deviazione
ne risulti diminuita.
Quando ha luogo l'offesa, le parti offese possono risolvere la situazione semplicemente
cessando di avere rapporti significativi con l'offensore, investendo i propri
affari sociali con qualcun altro. La minaccia di questo tipo di ritirata è,
naturalmente, un mezzo di controllo sociale informale e una reale cessazione
di rapporto può senza dubbio esprimere una valutazione negativa, a volte
neppure intenzionale. Ma un tale processo costituisce qualcosa di più
di una semplice sanzione negativa; esso è di per sé una forma
di gestione del proprio diritto. Come vedremo, è proprio tale ritiro
dai rapporti che consente, a coloro che si trovano in un contatto sociale, di
comunicare definizioni chiaramente incompatibili e insieme riuscire a sopportarsi
l'un l'altro senza che vi sia un vero e proprio disaccordo.
Se l'offesa è tale da provocare un'azione legale, la persona offesa può
tuttavia desistervi (e cessare i rapporti) per ragioni pratiche che limitano
nettamente l'applicazione del controllo formale: le spese e la perdita di tempo
richiesti per presentare una querela formale e presentarsi in tribunale; l'incertezza
della decisione legale; il fatto di doversi esporre come personalmente coinvolto
in un'azione ufficiale, la reputazione di litigioso che ne può conseguire;
il pericolo di un'eventuale rappresaglia da parte dell'offensore.
Vi sono ancora altre contingenze. L'individuo che viene meno alle aspettative,
può prevalere, imponendo agli altri di accettarlo nei nuovi termini da
lui stabiliti, e di accettare, insieme, la nuova definizione della situazione
implicita in questa imposizione. I bambini che crescono in famiglia sono costantemente
impegnati in questo processo, negoziando costantemente con i loro tutori, nuovi
privilegi che ben presto verranno ad essere considerati come dovuti. Alcune
delle rivolte nelle scuole, nelle carceri e nei ghetti ci dànno un esempio
dello stesso processo. I cambiamenti sociali prodotti dal movimento dei lavoratori
e da quello delle suffragette ne sono altri esempi.
E ancora, il controllo sociale può risultare superfluo anche nel caso
non si verifichi la cessazione dei rapporti con l'offensore, né la sottomissione
all'offensore stesso. Le sanzioni morali negative e il costo concreto della
deviazione possono ulteriormente alienare il deviante, costringendolo a esacerbare
la sua deviazione, spingendolo sempre più oltre nelle infrazioni. E,
come vedremo più avanti, può non esservi alcuna soluzione al disaccordo
che ne risulta. Il corpo estraneo non viene né estromesso né incapsulato
e il corpo che lo ospita non muore. L'offeso e l'offensore possono rimanere
incatenati assieme a urlare, socialmente legati nella loro furia e nel loro
malessere; un caso cioè di disorganizzazione organizzata.
Questi limiti della versione sociale del modello omeostatico sono anch'essi
insufficienti, in quanto conseguenze delle definizioni stesse che ci proponiamo
di ampliare. La questione è che dallo studio tradizionale del controllo
sociale traspare un'interpretazione irrealisticamente meccanicistica dell'atto
sociale, limitazione questa da rifiutare se si vuol giungere a un'analisi sufficientemente
corretta del controllo sociale.
Come suggerisce la legge, la nostra reazione a un individuo che compie fisicamente
un atto offensivo è radicalmente condizionata da una serie di considerazioni
interpretative. Conosceva la regola che stava violando, o se la conosceva, si
rendeva conto di violarla? Se non ha considerato le conseguenze offensive del
suo atto, avrebbe dovuto invece considerarle? E se ha previsto questi risultati
offensivi, essi costituivano lo scopo principale del suo atto o ne erano solo
un effetto marginale? Era nelle sue possibilità fisiche trattenersi dal
compiere l'offesa, e se lo era, vi erano motivazioni sociali attenuanti?
Le risposte a queste domande ci rivelano l'atteggiamento di colui che agisce,
nei confronti della regola che sembra aver violato, e ci si deve rendere conto
di questo atteggiamento, prima di poter anche solo dire che cosa è successo.
Il problema non è dato semplicemente dal fatto che egli abbia rispettato
le regole o no (spesso questo non è nemmeno il problema principale),
ma piuttosto del tipo di rapporto da lui mantenuto nei confronti della regola
dalla quale avrebbe dovuto essere controllato. Si può dire addirittura
che è un aspetto significativo di "qualunque" atto, ciò
che l'atto stesso chiarifica sul rapporto fra colui che lo compie e le norme
che legittimamente lo controllano.
Tuttavia l'atteggiamento di chi compie l'atto nei confronti di una regola è
una questione soggettiva; se c'è qualcuno che ne è pienamente
al corrente, questi può essere solo lui. Inevitabilmente, quindi, le
interpretazioni che gli altri dànno della sua condotta e le espressioni
chiarificatrici che egli fornisce, sia per assicurarsi che non venga mal interpretato
un proposito di per sé corretto, sia per nasconderne invece uno non corretto,
giocano un ruolo importante. Ne consegue, per esempio, che se un deviante è
sufficientemente abile e circospetto nelle sue infrazioni muovendosi con segretezza
e nascostamente, si eviteranno di fatto molte delle conseguenze disgreganti
implicite nella violazione. Viene contrastata la regola in un suo punto specifico,
ma il valore della regola stessa non viene apertamente messo in discussione.
Suggeriamo quindi a questo punto una rettifica. Un offensore reale o sospetto
non è tanto sottoposto a un ciclo correttivo automatico, quanto alla
necessità di compiere delle azioni riparatrici rituali. Sono a sua disposizione
tre possibilità principali: le spiegazioni, le scuse e le richieste.
Con le spiegazioni dimostra di non essere stato lui a compiere l'offesa, o di
averlo fatto senza pensarci, o di non essere stato in sé in quel momento,
o di essere stato sottoposto a particolari pressioni o di aver fatto ciò
che ogni uomo ragionevole avrebbe fatto al suo posto (9); con le scuse egli
dimostra che se veramente ha inteso compiere l'atto offensivo, ora rinnega ciò
che egli era in quel momento, disapprova la propria azione, se ne pente e desidera
gli venga data la possibilità di essere ciò che ora sa di dover
essere; con le richieste cerca di ottenere dall'altro l'offerta o il permesso
di trasformare il senso della propria azione da offensivo ad accettabile. Con
queste azioni rituali, con le spiegazioni, le propiziazioni, le preghiere, l'offensore
cerca di dimostrare che l'offesa non è espressione reale del suo atteggiamento
nei confronti delle regole. L'empietà è solo apparente; egli in
realtà è uno che la regola la sostiene.
Dopo aver visto che le azioni rituali poggiano sulla natura stessa degli atti
sociali, e che dànno maggior elasticità a ciò che si intende
per equilibrio sociale, possiamo tornare a occuparci della differenza fondamentale
tra sintomi clinici e sintomi psichici.
La cosa più interessante dei sintomi clinici è la straordinaria
correttezza e lo straordinario coraggio con cui il paziente può gestirli.
Può trattarsi di normali atti fisici, che egli non può compiere;
potrebbe avere qualche parte del corpo da tenere fasciata o nascosta; potrebbe
doversi astenere dal lavoro per un certo tempo, o potrebbe dover passare un
periodo in un letto d'ospedale. Ma per ognuna di queste deviazioni dal proprio
aspetto esterno e dalla propria funzione sociale, il paziente sarà in
grado di fornire qualche espressione che la controbilanci. Dà spiegazioni,
minimizza la propria sofferenza e presenta delle scuse come per dire che nonostante
le apparenze, nel profondo della sua anima sociale, è uno che conosce
il proprio posto, uno che si rende conto di ciò che dovrebbe essere se
fosse una persona normale e che nello spirito lo è realmente, nonostante
quanto è successo al suo corpo. E' uno che non è bisognoso di
aiuto e inutile per propria volontà. I tubercolotici, un tempo isolati
nei sanatori, mandavano a casa lettere sui loro progressi che erano sì
piene di soffumigi, ma erano anche allegre. Vi sono piccoli coraggiosi gruppi
di colostomitici e ileostomitici che fanno le loro brevi apparizioni travestiti
da persone pulite e decorose, nascondendo stoicamente le ore infernali di truccatura
richieste per apparire in pubblico come persone normali. E infine il personaggio
di Beckett, chiuso fino al collo nel polmone d'acciaio, impossibilitato a soffiarsi
il naso, che tuttavia esprime con le sopracciglia che lì c'è una
persona intera, che sa come ci si comporta e certamente si comporterebbe in
quel modo se solo ne avesse la possibilità fisica.
Questo implica qualcosa di più che un semplice atteggiamento. Per quanto
la malattia renda bisognoso di aiuto il paziente, ci sarà sempre qualcosa
che coloro che lo assistono "non" dovranno dirgli. Si potrà
contare su una certa collaborazione fisica; ci sarà qualcosa che può
fare per dare una mano, spesso anche qualcosa che esulerebbe dai suoi compiti
se stesse bene. Su questa sua disponibilità si può contare "assolutamente",
proprio come se non fosse un partecipante meno responsabile degli altri. Nel
loro contesto questi piccoli contributi assumono un'importante funzione simbolica.
Naturalmente, non sempre i malati stringono i denti (per non parlare delle notevoli
differenze etniche nella gestione del ruolo di malato); l'ipocondria è
comune, così come non è raro il controllo sugli altri attraverso
la malattia. Penso però che anche in questi casi un esame più
dettagliato rivelerebbe che il paziente tende ad accettare la corretta etichetta
implicita nel ruolo di malato. Può trattarsi anche solo di una copertura,
di una vernice esterna, un modo di affettare un comportamento. Ma ciò
significa: «Qualunque cosa richieda la mia condizione medica, il mio io
reale deve essere dissociato da queste necessità, poiché io sarei
uno che farebbe solo richieste modeste e ragionevoli e accetterei un ruolo modesto
e medio nel gruppo, se solo lo potessi».
Il modo in cui la famiglia e il datore di lavoro trattano il malato conferma
questa definizione. Di fatto essi dicono che gli si possono concedere particolari
privilegi temporanei, perché se egli solo potesse farci qualcosa, non
farebbe le richieste che fa. Finché lo spirito, la volontà e le
intenzioni del paziente sono quelli di un membro leale e corretto del gruppo,
il posto che aveva in precedenza deve essergli conservato, poiché egli
lo occuperà, come non fosse successo nulla di strano, non appena il suo
comportamento esterno potrà nuovamente essere diretto dal suo io interno
ed esserne nuovamente l'espressione. L'aumento delle sue richieste non esprime
quindi ciò che potrebbe esprimere, in quanto è chiaro che egli
ha delle «buone» ragioni per farlo, ragioni che cancellano ciò
che altrimenti queste richieste potrebbero significare. Ciò non vuol
dire che i membri della famiglia siano soddisfatti di quello che devono fare.
Nel caso per esempio di malattie incurabili, che producono sconvolgimenti, gravi
handicap, le azioni compensative richieste ai membri sani della famiglia possono
costare le possibilità di vita di cui godono altri del loro stesso grado
sociale, possono stroncare le loro carriere personali, colorare di tragedia
la loro vita e trasformare tutti i loro sentimenti in amarezza. Ma il fatto
che tutti questi inconvenienti possano essere sopportati, dimostra quanto chiaramente
sia stata segnata la via della sfortunata famiglia, e come questo ne obblighi
i componenti a unirsi e a resistere in qualche modo finché la malattia
non sia superata.
Naturalmente, questo discorso ha dei limiti. In situazioni estreme, come quella
militare, quando cioè è fin troppo chiaro che a marcar visita
c'è tutto da guadagnare, si esamina la possibilità che la persona
sia in malafede e che rimetta così in discussione tutta la struttura
di riferimento medico (10). Inoltre c'è anche il problema particolare
causato da malattie che colpiscono direttamente la faccia e la voce, organi
specifici dell'espressione. Un difetto organico di queste parti del corpo può
essere un problema minore secondo un sistema di riferimento medico o biologico,
e avrà invece un'enorme importanza sul piano sociale. Non c'è
deformazione del corpo che non possa essere decorosamente coperta da un lenzuolo,
o per cui non ci si possa scusare con una certa espressione del volto; ma molte
deformazioni della faccia non possono essere coperte senza causare un arresto
nella comunicazione, né d'altronde possono essere lasciate scoperte senza
produrre effetti disastrosi sul piano della comunicazione. Una persona con un
carcinoma della vescica può morire, volendo, con più correttezza,
proprietà ed apparente normalità sociale interiore di quanta ne
dimostri un uomo col labbro leporino che ordina un pezzo di pan pepato.
A parte queste eccezioni dunque, le persone hanno la possibilità di dissociare
espressivamente la loro malattia clinica dalla loro condotta responsabile (cioè
da loro stessi) e in genere desiderano farlo. Continuano a sostenere il gruppo
sociale cui appartengono e ad accettare il proprio posto al suo interno. La
loro personalità o il loro carattere verranno considerati sempre gli
stessi, nonostante il cambiamento nel loro ruolo. Questo significa che la malattia
può mettere alla prova le risorse materiali del gruppo, può renderne
figure tragiche i membri sani, e tuttavia può non minare l'integrità
della famiglia. In breve, azioni rituali e altre azioni minori di assistenza
possono compensare una momentanea infrazione, perché una componente importante
dell'infrazione stessa è il fatto di poter essere considerata simbolo
dell'atteggiamento normale dell'offensore verso il mantenimento del proprio
ruolo sociale; se egli riesce a trovare altri modi di dimostrare come riesca
a mantenersi in linea, le infrazioni momentanee non sono necessariamente minacciose.
E' da notare che, in questo caso, l'efficacia delle espressioni di scusa (a
parte le eccezioni di cui sopra) è dovuta al fatto che i sintomi clinici
coinvolgono comportamenti che o non sono affatto infrazioni alle norme sociali
- come i vari tipi di tumori interni - o lo sono solo per caso. Sono gli effetti
collaterali non intenzionali della deviazione fisica che dispensano la persona
dall'adesione alle regole. Quando un mutilato non si alza all'arrivo di una
signora, è evidente che questa sua mancanza è solo una conseguenza
casuale e non intenzionale della sua condizione; nessuno può dire che
si è tagliato le gambe per non essere cortese. Così come la sua
inadeguatezza ad attività che richiedano rapidi spostamenti verrà
considerata un effetto collaterale della sua deviazione, non l'espressione di
ciò che egli è inizialmente. E' un deviatore, non un deviante.
Si tratta di incapacità, non di alienazione.
Esaminiamo ora i sintomi del disordine mentale come forma di deviazione sociale.
Il punto più ovvio da notare è che, poiché esistono molti
tipi di deviazione sociale che poco hanno a che fare con la malattia mentale,
non si guadagna molto a chiamare sintomi le deviazioni sociali (11).
Si può pensare che la malattia mentale, parlando pragmaticamente, sia
innanzitutto una struttura di riferimento sociale, una costruzione concettuale,
una prospettiva da applicare alle offese sociali come mezzo per comprenderle.
L'offesa di per sé non è sufficiente, deve essere percepita e
definita nei termini dell'immagine costruita della malattia mentale. Per definizione
si presume quindi vi sarà sempre una certa elasticità e un certo
dissenso sui modi di applicare questa struttura. Il che coinvolge molte contingenze,
alcune delle quali portano ad applicare questa immagine a comportamenti psicologicamente
normali, con la conseguente ricostruzione di questi in sintomi mentali. Ma,
data questa premessa indispensabile, possiamo domandarci: qual è nella
nostra società la natura dell'offesa sociale cui sarà applicato
il sistema di riferimento «malattia mentale»?
Spesso si tratta di un tipo di offesa sulla quale non fanno presa i mezzi di
controllo formali. L'offensore sembra non preoccuparsi di nascondere l'offesa
o di neutralizzarla con mezzi rituali. Le infrazioni si verificano spesso in
condizioni in cui, per varie ragioni, è impossibile sia all'offensore
che all'offeso risolvere la situazione ritirandosi fisicamente dall'organizzazione
e dal rapporto in cui ha avuto luogo l'offesa e l'organizzazione non può
essere ricostruita su basi che legittimino le nuove definizioni di sé
proposte dall'offensore - o per lo meno gli altri partecipanti pensano che questi
compromessi non siano possibili. Le norme in questione sono norme che si applicano
frequentemente e che richiedono costanti approvazioni, in quanto spesso riguardano
il comportamento espressivo - quello cioè che comunica a tutti quelli
che sono alla sua portata, avvertimenti, segni e sottintesi su ciò che
la persona pensa di sé. Per ultimo, ad eccezione della paranoia dei gruppi
primari (follia a due, a tre, eccetera) l'offesa non è compiuta da un
gruppo di persone che agiscono insieme, ma piuttosto - e così viene percepita
- da un individuo che agisce da solo. Riepilogando, i sintomi mentali sono comportamenti
inadatti alla situazione, volontari che, a loro volta, costituiscono la prova
di come l'individuo non sia disposto a stare al proprio posto (12).
Vorremmo ora analizzare un'implicazione delle offese di cui ho parlato. I sintomi
mentali non sono un'infrazione sociale casuale. Sono specificamente e provocatoriamente
offensivi. Per quanto riguarda gli «altri» vicini al paziente, questi
atti importuni non coincidono per caso con ciò che è socialmente
offensivo, come succede invece per i sintomi clinici; essi sono interpretati,
per lo meno all'inizio, come atti di deviazione sociale, intrinsecamente volontari.
E' importante sottolineare il fatto che una deviazione sociale non può
essere esaminata separatamente dai rapporti e dalla organizzazione cui appartengono
offensore e offeso, in quanto praticamente non esistono atti sociali che non
siano appropriati o per lo meno giustificabili in alcuni contesti sociali. I
deliri di un soldato semplice sono diritti per un generale; gli inviti osceni
di un uomo a una ragazza che non conosce sono complimenti piccanti di un marito
alla moglie; la circospezione di un paranoico è la pratica giustificata
di migliaia di agenti segreti.
I sintomi mentali, quindi, non sono niente di per sé, né sono
qualcosa che possa essere in tal modo etichettato; sono atti per mezzo dei quali
un individuo dichiara apertamente agli altri la sua esigenza di ottenere definizioni
di sé che la parte dirigente dell'organizzazione sociale non può
né accettare né gestire.
Ne consegue che se il paziente persiste nel suo comportamento sintomatico, agisce
come elemento disgregante nell'organizzazione e nella mente dei suoi membri.
Sebbene il fatto di accusare qualcuno di malattia mentale sia l'ultima risorsa
per far fronte a un provocatore che deve, ma non può essere contenuto,
quest'accusa in sé difficilmente risolverà la situazione. L'elemento
disgregante introdotto resterà, anche se tutti i membri del gruppo sono
convinti che la persona responsabile sia completamente matta, perché
questa definizione da sola non li libera dal fatto di dover vivere in un sistema
sociale in cui egli gioca un ruolo disgregante.
La disgregazione implicita in questo comportamento indica che i sintomi clinici
e quelli mentali sono radicalmente diversi nelle conseguenze sociali e nel carattere.
E' questa disgregazione che deve essere gestita dalla filosofia del contenimento.
E' nell'esaminare questo elemento disgregante che gli psichiatri sono miseramente
falliti ed è questo che i sociologi ignorano trattando la malattia mentale
semplicemente come un processo di etichettamento. E' questo che noi dobbiamo
esplorare.
4.
Il fallimento più evidente nell'organizzazione della condotta
secondo definizioni di sé accettate dagli altri, si riscontra nei casi
drammatici in cui un individuo, ritenuto responsabile di uno stato di disorganizzazione,
si dà una entità biografica personale non sua, o quando ricostruisce
temporaneamente se stesso secondo età, sesso e categorie professionali
che non gli corrispondono. A questo si unisce spesso il presumere di disporre
di possibilità personali enormi (13). Egli tenta poi di trattare gli
altri secondo questa definizione e cerca di costringerli a confermare questa
sua identità attraverso il loro modo di trattarlo.
E' da notare che gli ospedali psichiatrici riescono a gestire queste diffusioni
e distorsioni di identità senza soverchi sforzi. In queste istituzioni,
l'individuo è privato di gran parte del proprio coinvolgimento abituale
con le attività degli altri e di gran parte delle proprie abituali possibilità
di contatto col mondo. I suoi atti hanno ben poche conseguenze. Un paziente
che pensa di essere re non fa temere coloro che lo assistono di essere suoi
schiavi. Non si dà la minima attendibilità al fatto che abbia
del potere su di loro. Lo guardano e ridono, come se guardassero una rappresentazione
improvvisata. Analogamente, quando un ricoverato tratta la moglie come fosse
una sconosciuta sospetta, la moglie può far fronte a questa situazione
impossibile semplicemente diminuendo la frequenza e la lunghezza delle visite
(14). Così come il terapista dell'ospedale può sostenere le espressioni
di odio e di amore che il paziente gli dimostra durante le sedute, essendo aiutato
in questo suo disimpegno (cosa straordinariamente comoda) dalla teoria secondo
cui un intervento diretto sul paziente, o una conversazione che duri più
di cinquanta minuti, non possono che nuocere al rapporto terapeutico. In questi
casi la distanza permette di arrivare ad un accomodamento; il paziente può
esprimere idee assurde su di sé, ma l'ospedale, la famiglia o il terapista
non sono obbligati ad esserne coinvolti.
Tuttavia la questione è ben diversa quando il paziente è fuori
dalle mura dell'ospedale o dallo studio del terapista - fuori, dove gli altri
attorno a lui affidano la propria persona nelle sue mani, dove le sue azioni
formulano richieste riconosciute legittime, e non sono sintomi, bizze o qualcosa
di deprimente da cui si possa sottrarsi. Dall'altra parte della barricata, non
occorre un'identificazione drammaticamente errata per causare grane. Qualunque
forma di organizzazione sociale cui il paziente partecipa ha una serie particolare
di offese interpretabili come malattia mentale, che possono provocare la disgregazione
dell'organizzazione.
Un punto dell'organizzazione che risulta cruciale per i sintomi mentali consiste
nei luoghi pubblici e semipubblici - strade, negozi, vicinato, mezzi di trasporto
e luoghi simili. In questi luoghi l'ordine del traffico e la coesistenza dei
presenti sono garantiti da una rete di obblighi. Vengono delineate le modalità
della territorialità personale e il rispetto per i confini altrui è
usato come mezzo essenziale per regolare la presenza reciproca delle persone.
Molti sintomi classici di psicosi sono violazioni precise e provocatorie di
questi accordi territoriali. Vi possono essere delle invasioni, come quando
una paziente mentale che si trova in un supermercato fruga ingiustificatamente
nel carrello della spesa di un altro, o entra dietro il banco per vedere che
cosa c'è dentro, o supera apertamente le persone che fanno la fila alla
cassa, o si intromette in una conversazione altrui, o lancia un commento di
passaggio a qualcuno con cui non ha un rapporto di conversazione. Ci sono poi
le autocontaminazioni che implicano una esibizione o un insudiciamento, come
quando un paziente è esibizionista, o provoca troppo facilmente gli altri
a conversare con lui, o fa ammissioni vergognose parlando forte, o si impiastriccia
con del cibo mezzo masticato, o gioca apertamente col proprio muco, o si mette
in bocca oggetti sporchi. Ci possono essere le «iperpreclusioni»
come quando un paziente rifiuta di ammettere qualsiasi apertura alla conversazione,
o si nasconde agli sguardi dei passanti, o si rifiuta di andare dal medico,
o non si lascia portare via cose di nessun valore.
Dopo questo breve sguardo ai luoghi pubblici e all'ordine sociale tra persone
che non si conoscono (15), soffermiamoci sulle organizzazioni sociali più
ristrette, che implicano gli obblighi di un gruppo di persone che si conoscono.
Per prime esaminiamo le organizzazioni formali di lavoro. Per queste mi propongo
di rivedere lo studio di E. Lemert su pazienti mentali con disturbi di tipo
paranoide, i cui problemi sembrano essere focalizzati nel posto di lavoro (16).
Lemert rintraccia l'inizio della carriera malata di ogni paziente preso in esame
dal suo campione, affermando che ognuno di essi aveva subito una perdita, o
una minaccia di perdita di status sul lavoro o fuori del lavoro, perdita per
la quale, evidentemente, non si poteva trovare un'alternativa di compenso. L'individuo
può reagire rifiutando di esercitare il controllo su se stesso e resistendo
al controllo informale che gli altri tentano di imporgli. La sua disponibilità
a giocare il suo ruolo sul posto di lavoro diminuisce. Incomincia a intromettersi
nella decisione dei suoi subordinati e fa loro richieste scorrette, sottintendendo
così una loro subordinazione alla sua sfera d'azione. Rifiuta di rendere
la confidenza accordatagli dai suoi pari, ponendo gli altri in un rapporto di
non reciprocità e di incertezza. Incomincia a insultare e ad essere arrogante,
non dimostrando la giusta considerazione per ciò che pensano gli altri
e, contemporaneamente, esprimendo una considerazione troppo elevata di sé.
Tenta di arrogarsi privilegi informali che sono parte dei simboli di status
del gruppo e che da esso erano stati diversamente distribuiti. Tenta di usare
delimitazioni di spazio, senza possedere realmente lo spazio in genere definito
da quei limiti.
La condotta di cui abbiamo finora parlato viola le norme informali della gestione
dello spazio personale. Si vede qui una semplice interdipendenza tra colui che
agisce e gli altri, e la linea di demarcazione disturbata è quella che
li separa. Ma oltre a questi disturbi diretti, ve ne sono anche di indiretti.
Data l'appartenenza di colui che agisce ad un gruppo di lavoro che è
di per se stesso un segmento dell'organizzazione totale, troviamo che egli è
in grado di rompere le barriere dei rapporti tra il suo segmento e gli altri.
Per esempio, dimentica le linee di separazione tra i gruppi, minacciando i rapporti
di lavoro. Rende esplicita la struttura di potere informale, minacciando i suoi
rapporti con la sovrastante struttura ufficiale. Usa mezzi formali ed ufficiali
per obbligare i vicini a prendere direttamente in considerazione le sue richieste,
fors'anche solo perché ha obbligato i superiori a prestare attenzione
alle lamentele presentate. Chiaramente, quindi, il fatto che colui che agisce
in questo modo non riesca a mantenere il proprio posto, ha conseguenze distruttive
per i compagni di lavoro, minando in loro l'idea che esista un modo comune di
intendere il posto sociale di ognuno e che questo sia il giusto modo di organizzare
la propria attività quotidiana. Una parte importante dell'analisi di
Lemert è quella in cui considera la serie di avvenimenti determinati
da questo disturbo iniziale.
Per poter far fronte al collega importuno gli altri lo evitano fisicamente,
appena possibile, e lo escludono dalle decisioni e dalle imprese di gruppo.
Tale reale esclusione incomincia a caratterizzare questi avvenimenti escludenti
e a dare loro un nuovo significato. Quando i compagni di lavoro si accorgono
di non poter evitare un'interazione diretta con lui, usano un modo di rispondere
compiacente, tranquillizzante e non impegnativo che serve a raffreddare per
quanto possibile l'interazione, senza però offrire all'altro lo spunto
per potersene lamentare. Per essere più pronti a reagire a ciò
che il collega importuno potrebbe fare, possono arrivare a spiarlo e comunque
a riunirsi in sua assenza per comunicarsi le impressioni sugli ultimi movimenti,
mettere insieme le loro informazioni, prevedere la sua prossima mossa, preparare
insieme la loro, e, in genere, celebrare la particolare solidarietà creata
fra di loro dall'antagonismo nei suoi confronti. Si viene così a formare,
attraverso i pettegolezzi, un contro-gruppo che ha come bersaglio il paziente.
Egli diventa in questo modo il centro della distrazione.
A causa di questo raggelamento, l'agente, ormai privo di azioni correttive,
può sentirsi obbligato a reazioni relativamente violente per poter colpire
in un certo modo la sfera opaca che gli altri gli hanno costruito attorno. A
loro volta, questi possono ritenere necessario formare una rete di complicità
attorno a lui per spingerlo ad accettare di farsi curare da uno psichiatra.
Si possono suggerire due punti sottintesi nell'analisi di Lemert. Primo, un
sistema di controllo sociale informale può essere facilmente distorto.
Il tatto e la segretezza possono avere come ultima conseguenza il fatto di creare
una reale comunità paranoica attorno al paranoide. Secondo, finché
l'individuo viene ricoverato o finché la sua reputazione è talmente
nota che nessuno lo prenderà più sul serio (quest'ultima forma
di incapsulamento si riscontra nelle organizzazioni sociali più vaste)
i suoi sintomi hanno un effetto di disturbo molto grave; è troppo pretendere
che i membri dell'organizzazione rispondano con comprensione e solidarietà
- anzi è già una meraviglia che le organizzazioni siano tanto
tolleranti.
Ho abbozzato il rapporto tra sintomi mentali e due forme di organizzazione sociale:
l'ordine pubblico e i posti di lavoro formalmente organizzati.
Rivolgiamoci ora all'ultima unità organizzativa da esaminare, l'istituzione
domestica o familiare.
5.
Avviciniamoci alla famiglia - diciamo alla versione medio-borghese
americana - secondo i termini sociologici convenzionali. Esaminandone il funzionamento
e l'economia sociale interni, troviamo una distribuzione legittimata di autorità,
risorse materiali, lavoro e tempo libero. Ogni membro è tenuto ad aiutare
e a proteggere gli altri, nella misura in cui essi hanno bisogno del suo aiuto
e nella misura in cui egli può darlo. Rispetto, affetto e solidarietà
morale sono ripartiti secondo norme stabilite. Si mantengono alcuni valori comuni
e certi modi caratteristici di comportarsi. Si condivide la conoscenza della
biografia della famiglia e il ricordo delle esperienze vissute insieme. Si incoraggia
la formazione di una rete di rapporti interpersonali. Tutti (tranne i più
piccoli) stanno attenti a evitare i danni che fuoco, acqua, sporcizia e rotture
possono facilmente arrecare alla casa. Ognuno ha fiducia che gli altri non faranno
uso di strumenti letali disponibili in casa per far del male a se stessi o agli
altri. Per ultimo, e questa è la caratteristica particolare della famiglia
in quanto organizzazione sociale, ogni suo membro condiziona i propri pensieri
e impegni a ciò che ritiene l'interesse e la situazione personale di
ciascuno degli altri membri.
Se si esamina da vicino il comportamento di qualunque membro, specialmente quello
in presenza degli altri, esso rivela uno stile espressivo che conferma questa
distribuzione di doveri. Il mantenimento di questo stile da parte di ogni membro
della famiglia rassicura costantemente gli altri sul fatto che le loro speranze
non andranno deluse e che tutto va come dovrebbe andare. In breve, l'attività
di ciascun membro tende ad esprimere il fatto che egli sa qual è il suo
posto sociale nella famiglia e che lo mantiene. Naturalmente, se uno dei membri
ha problemi medici avrà probabilmente qualche pretesa in più,
ma può esprimerle con tranquillità poiché le azioni rituali
che compie neutralizzano la minaccia all'ordine normativo della famiglia implicita
in queste pretese, assicurando così la continuità dell'idea circa
la personalità del malato che hanno gli altri membri. Crisi non mediche,
quali l'assenza prolungata di un membro per il servizio militare, possono essere
gestite in modo analogo purché vengano compiute le appropriate azioni
rituali.
Se passiamo ad esaminare l'economia esterna della famiglia, troviamo qualcosa
di simile. Tutte le risorse che hanno valore nell'ambiente esterno sono suddivise
tra i membri in modo prudente e dichiaratamente equo. Il capitale di informazioni
di natura privata riguardanti la famiglia di cui dispongono i suoi membri viene
conservato, e si costituisce un fronte unito, ed in un certo senso falso, contro
il mondo, come se esistesse un regolamento delle informazioni familiari. Infine,
i rapporti e gli obblighi di lavoro e di studio che legano ogni membro a persone
e organizzazioni del mondo esterno, si conformano a regole giurisdizionali prestabilite,
in base alle quali la famiglia mantiene alcuni diritti. In ogni caso, il membro
della famiglia viene tirato fuori dallo spazio familiare solo da persone e organizzazioni
reali, che gli hanno creato uno spazio reale. In breve, le richieste dall'esterno
ai membri della famiglia sono limitate e regolarizzate.
La continuità dell'ordinato funzionamento interno ed esterno della famiglia
è tanto importante che, quando i membri di una data famiglia pensano
alle caratteristiche essenziali, alla reale personalità di uno dei loro,
di solito fanno riferimento al modo in cui egli abitualmente contribuisce all'attività
organizzata della famiglia e ai rapporti familiari, nonché al modo in
cui accetta il suo posto all'interno di essi. Si tende ad interpretare ogni
cambiamento evidente nel suo contributo come cambiamento evidente del suo carattere.
La natura più profonda di un individuo è solo superficiale: è
profonda quanto lo è la sensibilità di coloro che hanno rapporti
con lui.
Nel caso dei ritiri - depressioni o regressioni - ciò che ne risente
maggiormente è il funzionamento interno della famiglia. Il peso della
partecipazione emotiva e del lavoro familiare deve essere sopportato da un numero
minore di membri. Rarefacendo artificiosamente i suoi interventi nella vita
sociale, la famiglia può nascondere questi disordini alla maggior parte
del pubblico, e mantenere la facciata di un funzionamento esterno convenzionale.
Analogamente si possono contenere gli effetti di un alcolismo tranquillo, purché
ciò non minacci la stabilità economica della famiglia.
Sono i disturbi maniacali e le fasi attive di tipo paranoide a provocare i veri
problemi, sono queste le situazioni che costituiscono la pazzia del «posto».
Gli inizi sono poco chiari e variano a seconda dei casi. A volte accade qualcosa
che induce il prepaziente - sia esso marito, moglie o figlio - a pensare che
la vita che i suoi «altri» gli hanno permesso di condurre non è
sufficiente, non è giusta e non è più sopportabile. Allora
egli chiede nei modi convenzionali che lo si esenti dalle sue funzioni e che
si faccia qualche cambiamento; queste richieste non vengono soddisfatte, forse
nemmeno ascoltate. Quindi, invece di ricadere nello "status quo ante",
egli dà inizio alla sua attività maniacale. Come ho già
detto, vi sono senz'altro eziologie diverse e altre sequenze di fatti che risultano
determinanti nel far precipitare la situazione, ma tutte ci portano allo stesso
punto: l'attività maniacale che la famiglia si trova ad affrontare. Inizieremo
da qui, anche se da alcuni punti di vista la situazione - a questo punto - è
già molto avanzata.
Il maniaco incomincia autopromuovendosi nella gerarchia familiare. Decide che
non ha più tempo per fare la parte di lavoro in famiglia che solitamente
gli compete, dà ordini agli altri membri, diventa irascibile e impaziente,
fa promesse che pensa di poter non mantenere, invade lo spazio degli altri e
ne usa gli oggetti, dimostra solo saltuariamente amore e rispetto, scopre di
non aver voglia di adattarsi agli orari familiari per mangiare, andare a letto
e alzarsi. Si dimostra anche ipercritico nei confronti degli altri membri della
famiglia. Si rivolge al passato per fare esagerate affermazioni sul rango e
sulle qualità dei suoi antenati, e al futuro con una visione esaltata
delle imprese che si propone di portare a termine al più presto. Incomincia
a infiorare i suoi discorsi di vocaboli tecnici mal assimilati. Parla forte
e continuamente, esigendo che gli sia riconosciuto il ruolo di centro d'attenzione.
Esprime opinioni stranamente precise e definitive su grandi avvenimenti e sui
personaggi del giorno. Considera gli articoli delle riviste, i film e gli spettacoli
televisivi come fonti di informazioni fondamentali che bisogna comunicare a
tutti dettagliatamente e subito.
Oltre a questi disturbi della gerarchia, vi sono anche quelli che si riferiscono
ad obblighi minori, simbolo dell'appartenenza a un gruppo e della parentela.
E' solo lui a smettere di avere quei semplici riguardi che permettono di conservare
in buono stato gli oggetti di casa e di tenerne i membri della famiglia al sicuro.
E' solo lui che diventa volubile nel fare quelle piccole cortesie che tutti
i membri adulti si fanno, se non altro perché costano così poco
a chi le fa, mentre acquistano un notevole valore per chi le riceve. Esprime
idee senza senso, a volte provocate da allucinazioni, il che significa, per
i parenti, che egli ha cessato di regolare i suoi pensieri secondo i moduli
che formano una piattaforma comune a tutti coloro con cui essi hanno rapporti
stretti.
Ripeto che le dichiarazioni e le azioni della persona malata non sono necessariamente
bizzarre di per sé, ma solo in quanto fatte da un dato paziente che ha
un rapporto con una data famiglia. Oltre tutto non è questione di bizzarria.
Anche quando il paziente soffre di allucinazioni o ha delle idee strane, la
preoccupazione della famiglia non è soltanto il fatto che un suo membro
abbia delle idee folli, ma che non stia tenendo il suo posto nel rapporto. Una
persona con cui abbiamo dei rapporti stretti non dovrebbe avere idee che lo
allontanano da noi. Anche le varie forme di megalomania possono avere lo stesso
significato.
Lo sforzo costante sostenuto dalla famiglia nel discutere con il paziente per
fargli cambiare le sue sciocche idee, nel dimostrargli l'infondatezza delle
sue opinioni, nel farlo ragionare - argomento questo molto poco convincente
per alcuni terapisti - può essere interpretato come il bisogno e lo sforzo
dei familiari di ristabilire un rapporto corretto tra il paziente e loro stessi.
Non possono permettergli di persistere nelle sue idee sbagliate perché
non possono perderlo. Inoltre, se egli rovescia il proprio comportamento e riacquista
la padronanza di sé, bisogna cercare di fargli ammettere di essere stato
malato, perché in caso contrario la sua attuale sanità farà
sorgere dei dubbi sulle giustificazioni avanzate dalla famiglia per il modo
in cui lo ha trattato fino a quel momento, dubbi sulle motivazioni e sul "suo"
rapporto con lui. Per queste ragioni è necessario arrivare a fargli ammettere
la malattia. E ciò che si cerca è una cosa ben strana. Se le azioni
rituali sono un mezzo per mantenere un'immagine di sé costante nonostante
le deviazioni del comportamento, allora ammettere di essere malato di mente
è la più grave azione rituale che esista poiché questa
presa di posizione annulla anche le deviazioni più macroscopiche. Una
settimana di buriana in famiglia può essere messa da parte e prontamente
dimenticata nel momento in cui chi l'ha provocata ammette di essere stato malato.
C'è poco da stupirsi quindi se il paziente viene sottoposto a pressioni
per fargli accettare questa diagnosi, e c'è poco da stupirsi se cede,
anche se questo può significare che l'idea che egli ha del proprio carattere
è svilita per sempre e che non gli sarà più possibile affermare
le sue opinioni in modo irrevocabile.
Quello che ci interessa qui non è il fatto che la famiglia si accorga
che la vita domestica è diventata sgradevole a causa della presenza del
malato. Forse la vita familiare è già di per sé sgradevole.
Quello che ci interessa è che il significato stesso della sua esistenza
viene minacciato. I termini in cui la persona malata definisce gli altri membri
della famiglia sono meno gradevoli di quelli di prima, e ciò vuol dire
che i legami che i membri della famiglia hanno con lui sono meno forti di quanto
presumessero. Se essi accettano questa revisione dei termini è possibile
ristabilire un'organizzazione significativa, come accade, per esempio, quando
si stabilisce un culto familiare o una "folie à ménage".
Ma se ciò non avviene, incominciano i problemi (17).
C'è un punto sul quale vorrei insistere: il sé è la chiave
che rende decifrabili quasi tutte le azioni di un individuo, e ci fornisce una
base su cui organizzarle. Questo sé è tutto ciò che può
essere capito di una persona, interpretando il posto da essa occupato in un'organizzazione
di attività sociale e il suo comportamento esteriore all'interno di essa.
Se un individuo non offre, con azioni e allusioni espressive, una definizione
"funzionale" di sé che coloro che gli sono più vicini
possano accordargli attraverso il rispetto che gli dimostrano, egli li blocca,
li intralcia e li minaccia in quasi tutti i loro movimenti. Quei sé che
sono stati i reciproci del suo vengono insidiati. Quello che non si pensava
potesse cambiare - il carattere di una persona amata con cui si vive - sembra
cambiare del tutto e per il peggio, davanti ai loro occhi. Non riconoscendo
più la persona malata, non sono più sicuri di se stessi. Se viene
a mancare la sicurezza di lui e di se stessi, viene a mancare anche la sicurezza
del loro modo di conoscere. Di conseguenza si sentono profondamente smarriti.
Le azioni della persona malata non confermano più il fatto che tutto
è prevedibile e che tutto va come dovrebbe. Alla domanda: che cosa succede?
non c'è più un'unica risposta, la solita, buona in qualsiasi momento;
bisogna trovarne continuamente di nuove. E allora si dice che la vita è
diventata un brutto sogno, perché quello che sta accadendo non è
collocabile in alcuna delle realtà possibili.
E' a questo punto che i sintomi mentali deviano dagli altri tipi di deviazioni.
Se un individuo diventa improvvisamente egoista, cattivo, sleale, infedele o
drogato, si può gestirlo; se si dimostra appropriatamente contrito e
spiega le cause delle sue azioni, si può perdonarlo; se non si pente
ma può essere rimosso dal posto che occupa, il suo ruolo può essere
ridefinito. In questi casi gli altri possono arrivare ad un compromesso con
lui, nel senso che i suoi atteggiamenti nei confronti della definizione che
egli dà di se stesso e degli altri sono indicazioni che confermano un
tipo di rapporto che gli altri sentono di avere ora con lui. La grammaticalità
dell'attività ne viene rafforzata. Non è possibile tuttavia che
gli altri arrivino a un compromesso con i sintomi di una malattia mentale. Né
lui né loro si allontanano tanto dall'organizzazione o dal rapporto da
permettere ai suoi atteggiamenti di confermare quello che invece è implicito
nel suo "status", cosicché la sua condotta colpisce direttamente
la sintassi del comportamento, rompendo l'usuale armonia tra atteggiamento e
posto occupato, tra espressione e posizione.
La disorganizzazione domestica creata da una persona malata mette in evidenza
un fatto importante a proposito del controllo sociale in un'unità come
la famiglia. Qualunque membro adulto della famiglia può lasciare la casa
contro la volontà e i consigli della famiglia stessa, e, se non per quanto
riguarda il lato economico della questione, la famiglia non può far niente
per impedirglielo. La forza di chi se ne va è tanto maggiore se lo fa
in modo corretto, attraverso i giusti canali, per così dire, e annunciando
le sue intenzioni nel modo più appropriato. Dall'altro lato, vi sono
circostanze (che in America variano a seconda dello stato) in cui la famiglia
può far rimuovere fisicamente un suo membro e farlo internare in un luogo
di detenzione. Tuttavia, se la partenza non avviene in una di queste maniere
socialmente riconosciute, la famiglia e la casa diventano estremamente vulnerabili,
perché la nozione standardizzata del controllo sociale esercitato attraverso
un ciclo correttivo diventa insostenibile. Il fatto è che quando un trasgressore
viene disapprovato, punito e avvertito di ciò che potrebbe succedere
se persistesse nel suo comportamento, si presume che ciò sia sufficiente
a legarlo alla vita del gruppo, a costringerlo ad appoggiare coloro che presumono
di avere autorità all'interno del gruppo stesso, a prendere "volontariamente"
sul serio la sanzione, e a desistere, volente o nolente, dal ripetere quella
particolare trasgressione. Se il trasgressore decide di non curarsi dell'avvertimento,
gli si può fare ben poco di effettivo. Far fare ad una persona ciò
che si vuole senza averne la minima cooperazione richiede lo sforzo congiunto
di almeno due adulti robusti, e anche in quel caso lo si può fare per
tempi brevissimi - il tempo necessario a sbattere qualcuno fuori di casa, ma
non molto di più. Anche il semplice fatto di sorvegliare una persona
richiede un impegno molto maggiore di quello che alla lunga può prendersi
una famiglia. Ed è difficile far andare avanti una casa se bisogna preoccuparsi
di tenere fuori dalla portata di un adulto qualunque cosa possa essere danneggiata
o possa diventare pericolosa in mano sua.
Non si può quindi gestire una casa se non si può contare sulla
buona volontà di coloro che la abitano (18). E' interessante notare che
è proprio nel momento della punizione e della minaccia, proprio quando
il trasgressore ha presumibilmente ulteriori motivi di attrito, che la famiglia
dipende in modo più evidente dalla di lui decisione di sottomettersi
all'autorità familiare. Di fronte all'azione punitiva, il trasgressore
ha due possibilità: o sottomettersi e perdere la faccia, oppure privare
i suoi antagonisti dell'idea che possono esercitare un potere su di lui. Proprio
quando è più arrabbiato con loro, si rende conto che solo lui
può mantenere la loro illusione di avere il potere di controllarlo. Le
sanzioni negative nel seno di una famiglia assumono quindi il significato di
un momento della verità, obbligando il più forte a fingere di
essere il più debole, per non perdere l'ultima occasione di evitare il
crollo dell'ordine. Ovviamente, vi saranno momenti in cui egli non terrà
conto dei sentimenti altrui. Questa vulnerabilità dell'organizzazione
familiare è ulteriormente aggravata dal fatto che è facile che
il trasgressore dia meno importanza al proprio benessere fisico e al proprio
interesse di quanta ne diano gli altri che lo controllano.
Ho preso in esame alcune delle conseguenze disorganizzative del mancato appoggio
del paziente al mantenimento dell'ordine interno della famiglia. Tuttavia, è
nel considerare il funzionamento esterno della famiglia stessa che è
possibile osservare il suo totale sconvolgimento.
Il posto sociale di una famiglia nella comunità è una questione
piuttosto delicata, basata com'è su controlli personali e informali che
mettono la famiglia di fronte a migliaia di possibilità di impiego delle
proprie risorse, di qualunque natura esse siano; queste possibilità devono
essere amministrate prudentemente dalla famiglia per poter potenziare al massimo
i propri interessi a lunga scadenza, così come essi sono convenzionalmente
definiti. E' proprio questa prudenza, di solito autoindotta, che il paziente
trascende.
Incomincia a fare speculazioni sbagliate. I soldi della famiglia vengono sperperati
in piccole imprese arrischiate. Compra o contratta grandiosi servizi ed attrezzature,
dando così, tra l'altro, un bell'esempio dello spirito democratico e
accomodante di chi vende e, per contrasto, del controllo che tutti esercitiamo
quotidianamente su noi stessi (19). Ordina per telefono quantità eccessive
di prodotti reclamizzati sui giornali (20). Gioca sulla struttura gerarchica
del lavoro e dell'età in modo da riuscire a trovare subalterni e stipendiati
per mandare avanti i suoi grandi progetti privati. Impone alla casa un ufficio
o una struttura aziendale totalmente inutili. Trova che il suo lavoro normale
è soffocante, e si dimette o viene licenziato (21). Incomincia una miriade
di progetti, è sempre impegnatissimo.
Aumenta i contatti, usa sempre di più il telefono, le chiamate diventano
sempre più lunghe e numerose. Alcune persone vengono chiamate con sempre
maggiore frequenza. Se è troppo tardi per fare telefonate urbane senza
violare grossolanamente le regole informali, fa interurbane in posti dove l'ora
è più corretta; se è troppo tardi anche per questo, spedisce
telegrammi notturni (22). A volte inizia fiumi di corrispondenza.
Aumenta la sua partecipazione alla vita pubblica. Si offre di aiutare persone
o organizzazioni che non desiderano la sua assistenza - si rende conto infatti
che offrire i propri servizi è il modo più corretto di entrare
in contatto con coloro cui li si offre. Entra nella vita pubblica attraverso
i canali meno sorvegliati: partecipando a lavori volontari, scrivendo lettere
a personaggi politici, a direttori dei giornali, grandi società, andando
a caccia di celebrità, sporgendo querele. Prende a cuore avvenimenti
importanti a livello nazionale come elezioni, dichiarazioni sulla politica di
difesa, omicidi, eccetera. Può cercare di apparire alla radio o alla
televisione, o di organizzare conferenze e preparare comunicati stampa. Può
dare in escandescenze e protestare ufficialmente presso le autorità per
atti che considera affronti in pubblico.
Intensifica gli incontri sociali. Capita in casa dei vicini alle ore più
impensate, è il primo ad arrivare alle feste e l'ultimo ad andarsene;
può anche sentire la necessità di dare ricevimenti in casa con
una frequenza tale da provocare un'instabilità generale: gli amici abituali
vi partecipano finché altri impegni li fanno mancare, vengono quindi
sostituiti da amici di fresca data, ma ogni nuovo gruppo svanisce più
rapidamente di quello precedente ed è necessario trovare gente in posti
sempre meno adatti; alla fine, queste riunioni diventano socialmente bizzarre.
Per giustificarle, usa scuse sempre più improntate alla semiufficialità
e al senso civico, il che gli dà una certa libertà di invitare
gente di cui ha solo sentito parlare e di mettere insieme persone di posizioni
sociali molto diverse. Le liste degli invitati vengono allungate fino all'ultimo
minuto come se fosse necessario mantenersi in contatto con tutti quelli che
si conoscono, e riempire la situazione di persone. Organizza continuamente cene
d'affari e scampagnate di fine settimana, il che richiede ripetuti contatti,
e mescola insieme gente che non si conosce.
Per ultimo allarga le sue possibilità di rapporto. Gente presentatagli
per formalità o che conosce in modo del tutto casuale diventa importante
e da coltivare; presume rapporti di amicizia con persone che conosce appena
e, in modo analogo, fa proposte che, a suo giudizio, dovrebbero essere bene
accette alle mogli degli amici. Incomincia a fare da «intermediario»,
tentando di mettere in contatto tra loro persone che, secondo lui, possono essersi
reciprocamente utili. La specificità funzionale dei rapporti di servizio
viene distrutta. Offre e richiede alle persone di servizio consigli su una serie
innumerevole di questioni; propone di darsi del tu; estende a loro gli inviti
sociali. Contemporaneamente subissa gli amici personali con richieste di servizi
e li coinvolge nei suoi progetti. I lavoratori occasionali, che paga perché
lo aiutino nei suoi progetti, diventano amici, per poter riempire il vuoto che
si è creato intorno a lui, ma sono amici ai quali può far fare
quello che vuole; il risultato sarà una miniaturizzazione del suo circolo
sociale (23). Se riscontra piccole deficienze nei servizi prestati da professionisti,
commercianti e operai che impiega già da molto tempo, interrompe questi
rapporti di servizio e ne stabilisce immediatamente altri. Racconta i segreti
familiari a semplici conoscenti che incontra in riunioni informali. Loda sperticatamente
i suoi nuovi amici in famiglia, dando l'impressione di usare in modo arbitrario
la sua capacità di coinvolgimento in profondità. Se il paziente
è scapolo, corre il rischio di unirsi a persone non adatte a lui per
età, razza o classe; se è sposato, c'è il pericolo di una
nuova unione comunque non adatta. Può anche esserci una certa tendenza
alla promiscuità sessuale, del tipo più facilmente ottenibile,
perché imperniata su differenze di status ben marcate. In tutti questi
casi o approfitta degli altri, o li mette in condizione di approfittare di lui;
in entrambi i casi, la situazione è profondamente imbarazzante per la
famiglia.
A questo punto è possibile individuare una caratteristica generale della
smania del paziente di stabilire rapporti e di farsi una posizione. Dato che,
se riuscirà a muoversi dal posto a lui assegnato, lo farà esclusivamente
con la forza della propria inclinazione, avrà a sua portata due diverse
sfere d'azione. La prima è costituita da persone del vicinato, la cui
posizione sociale è notevolmente inferiore alla sua, disposte a farsi
avvicinare in qualunque momento perché vedono in questa amicizia qualche
possibile vantaggio economico o sociale. La seconda sfera è costituita
invece da personaggi potenti e famosi. Ovviamente, i contatti che si possono
stabilire con questi notabili sono più vaghi e mediati, e i canali per
stabilirli sono lettere, telegrammi, la presenza alle loro apparizioni pubbliche,
gli inviti che non verranno accettati e così via. Tuttavia, quando i
rapporti sociali reali vengono turbati o diventano insufficienti, queste figure
restano; acquistano una stupefacente immediatezza e servono come punti di riferimento
per l'organizzazione del sé dei pazienti.
Il paziente quindi è libero di muoversi in due direzioni: verso il basso,
rimettendoci come figura sociale, o verso l'alto, stabilendo contatti mediati
o appena abbozzati. Quanto più turbolenta è la situazione in casa,
tanto più forte è il bisogno di introdursi nella vita degli amici;
quanto più lo fa, tanto più sarà escluso da questo secondo
circolo in quanto chiede più di quanto esso possa dare; quando questo
accade, il paziente si rifugia in misura sempre maggiore nelle amicizie non
adatte a lui o mediate. Inoltre, ciò che rimane del circolo interno tende
ad essere alienato da ciò che il paziente cerca di fare nel successivo
circolo concentrico, mentre ciò che egli sviluppa in quest'ultimo viene
rovinato dalle sue peripezie in un cerchio ancora più ampio. I tentativi
di espansione verso l'esterno riducono così ciò che egli già
possiede, e fanno aumentare di colpo il suo bisogno di consolidare il nuovo
circolo. Il risultato di tutte queste forze che agiscono in concomitanza è
un'esplosione dei rapporti. Il paziente fugge verso la comunità.
Senza entrare in un'analisi dettagliata di questa situazione e senza considerare
l'ipotesi clinica che si tratti di una ricerca di un qualsiasi appoggio esterno
ad una condizione di disfacimento interno, diremo solo che la conseguenza che
ne deriva per l'organizzazione familiare è che la barriera che la divide
dalla comunità viene minacciata. Nel caso estremo, la famiglia, intesa
come unità staccata dal mondo esterno, viene spazzata via e i suoi membri
letteralmente estromessi dall'istituzione domestica da una fiumana di persone
che non ne fanno parte e dall'attività organizzativa del malato. Dato
il contesto comunitario della vita familiare, questo tipo di diffusione è
sempre possibile; il paziente non si costruisce nuove vie d'accesso, si limita
ad usare senza moderazione i mezzi che sono a disposizione di chiunque si trovi
nella sua posizione. Per comprendere meglio questo fatto, dobbiamo vedere la
comunità come un sistema di steccati e cancelli, che regola la formazione
e lo sviluppo dei rapporti sociali.
Un rapporto può esistere soltanto se due persone stabiliscono in qualche
modo un contatto personale (faccia a faccia o mediatamente), e può svilupparsi
soltanto se le due parti interagiscono per un certo periodo di tempo.
Il contatto stesso è socialmente favorito secondo modalità fondamentali.
La moderna organizzazione sociale fa in modo che i luoghi di residenza e di
lavoro siano raggiungibili tramite telefono, telegrafo, lettere e visite personali.
L'uso necessariamente comune dei luoghi pubblici, specialmente delle strade,
fornisce a una grande varietà di persone la possibilità di stabilire
contatti diretti. L'esistenza della conoscenza superficiale come istituzione
conferisce diritti di contatto preferenziali. Grazie a questi accorgimenti esiste
una larghissima gamma di possibilità di contatto, e, attraverso questo,
di sviluppo dei rapporti.
Ma questa possibilità è a sua volta nettamente limitata da una
serie di fattori. Non conosciamo né il volto né l'indirizzo di
molte persone con cui potremmo voler entrare in contatto. Siamo legati da regole
che ci impediscono di iniziare una conversazione con qualcuno che non conosciamo
se non su determinati argomenti permessi. Con ogni probabilità non sappiamo
quando e dove avrà luogo l'incontro sociale a cui saranno presenti le
persone con cui desideriamo fare conoscenza, e in cui il semplice fatto di essere
entrambi presenti potrebbe giustificare l'inizio di una conversazione. E anche
sapendo dove e quando avverrà l'incontro potremmo esserne esclusi, perché
non abbiamo soldi, perché non siamo membri dell'associazione o perché
non siamo stati invitati. Oltre a questo, c'è una serie di accorgimenti
che vengono usati per evitare i contatti: evitare di frequentare i luoghi pubblici,
non mettere il numero telefonico sull'elenco, avere un portinaio che impedisce
l'entrata agli uffici e alle abitazioni, isolarsi in luoghi dispendiosi o distanti
e così via (24). Queste limitazioni dei contatti non possono tuttavia
essere assolute. Una porta che rimane "ermeticamente" chiusa per gli
indesiderabili può impedire l'accesso anche ad alcune persone che non
lo sono; tutti i modi di rinchiudersi escludono anche i rapporti che potrebbero
rivelarsi vantaggiosi. Dopo tutto, ogni rapporto che poi è diventato
stretto è cominciato in qualche modo; ogni rapporto di servizio che poi
si è rivelato soddisfacente è cominciato con la telefonata di
un cliente sconosciuto; ogni progetto di successo è cominciato con la
semplice enunciazione di determinate intenzioni; una delle molte telefonate
ricevute da una celebrità, può averle portato una pubblicità
preziosa; un estraneo che ci avvicina può avvertirci che ci è
caduto il portafoglio; chissà di chi sarà la prossima telefonata
o la prossima lettera, e quali notizie ci porterà? Anche le più
serrate barriere difensive devono esporre almeno una persona dell'entourage
a "chiunque" si prenda il disturbo di tentare di stabilire un contatto.
Fosse anche per un solo momento, dobbiamo dare alle dichiarazioni degli altri
il beneficio del dubbio, per non rischiare di eliminare in partenza una cosa
che, se realizzata, potrebbe anche rivelarsi positiva. Bisogna sempre pensare
un attimo prima di rifiutare un'altra persona, per poter controllare se si tratta
o no di un importuno. Non c'è scelta, la vita sociale deve sempre esporsi
a offerte che non sono garantite da nessuno. Un meccanismo di selezione non
è funzionale se le uniche persone che superano la barriera sono quelle
che sono riuscite a raggiungerla.
I meccanismi che limitano e facilitano la formazione dei rapporti sono sostenuti
da controlli legali formali, nel senso che coloro che si rifiutano di partecipare
a determinate trattative possono essere costretti a farlo dalla legge, e altrettanto
vale per coloro che rifiutano di desistere da determinate molestie. E, fatto
ancora più importante, questi meccanismi sono sorretti da controlli personali
e informali, che alla fine diventano un contratto sociale sottinteso: l'individuo
è obbligato a rendersi disponibile ai contatti e alla formazione di rapporti,
e gli altri, in cambio, sono obbligati a non approfittare della sua disponibilità.
Il primo conserva così l'illusione di non essere lui ad allontanare gli
altri, mentre agli altri resta quella di pensare che non sarebbero stati rifiutati.
Questo contratto viene reso possibile dall'esistenza di una serie di espressioni
preventive. Un saluto aperto e amichevole sottintende che qualsiasi approccio
sarà il benvenuto; un atteggiamento sospettoso e rigido implica che la
risposta a qualunque molestia sarà un aperto rifiuto. Chiunque viva normalmente
la sua vita quotidiana si fa guidare non solo dalle proprie inclinazioni, ma
anche da queste espressioni. Evita così di accettare inviti velati che
potrebbero portare a rapporti non adatti e contemporaneamente di trasgredire
alle regole, se invece venisse comunicato un velato avvertimento. Così,
si mantiene in equilibrio, si controlla, perché c'è qualcosa da
perdere da tutte e due le parti.
A questo punto, è facile capire perché il mondo che circonda il
paziente sia così fragile. Rischiando appena un po' di più di
quanto in genere sia disposta a rischiare la gente come lui (esponendosi cioè
sia a rapporti non adatti, che a rifiuti insultanti), il paziente riesce a penetrare
almeno un poco tutte le barriere sociali. Chiunque sia l'altro, ci sarà
sempre una buona ragione per giustificare un contatto, e quindi una copertura,
per quanto labile, che permette di iniziare un rapporto di interazione.
Vorrei fare a questo punto un ultimo commento: l'attività maniacale che
ho illustrato è ovviamente possibile solo tra i privilegiati, l'alta
e media borghesia (25). Penso che questa evidente discriminazione nella scelta
degli esempi sia giustificata dal fatto che bisogna possedere delle ricchezze
sociali per poterle maneggiare nel modo che abbiamo descritto. Per questo sembrerebbe
che la mania fosse una malattia propria delle persone che hanno certi vantaggi
sociali, che sono ricche, hanno avi illustri, una posizione, una professione,
sono istruite, sessualmente attraenti, e hanno una rete di rapporti familiari
e sociali. Forse i maniaci poveri, dal momento che possono pagare poco per essere
presi sul serio, vengono presto obbligati a rendersi ridicoli, trasformando
tutti coloro che stanno attorno a loro in scettici infermieri di reparto. Si
potrebbe dunque sostenere che i benestanti sono particolarmente portati a questo
tipo di atteggiamento, o almeno sono abbondantemente rappresentati in questa
categoria. La pazzia del «posto» è una funzione della posizione
sociale.
Ho già esaminato alcuni aspetti della reazione della famiglia alla vita
col paziente. I suoi membri si accorgono di non vivere più in un ambiente
in cui tutto è prevedibile, e sono esterrefatti di fronte al cambiamento
di carattere e di personalità avvenuto nel paziente. Inoltre, dato che
il soggetto di questo drammatico cambiamento è una persona che loro dovrebbero
essere in grado di giudicare facilmente, la loro stessa capacità di conoscere
viene messa in discussione. Gli stessi criteri in base ai quali si pensa di
essere in grado di conoscere il carattere delle persone e di giudicarlo diventano
aleatori.
Consideriamo ora gli altri aspetti della reazione della famiglia. Il primo è
quello dell'attenzione da prestare. Per dirla in termini semplici, il paziente
è una persona da sorvegliare. Ogni volta che tiene in mano un oggetto
appuntito o pesante, ogni volta che risponde al telefono, ogni volta che si
avvicina a una finestra, ogni volta che sta sopra un tappeto con una tazza di
caffè in mano, ogni volta che è in casa quando qualcuno bussa
alla porta o entra, ogni volta che maneggia le chiavi della macchina, ogni volta
che riempie un lavandino o una vasca, ogni volta che accende un fiammifero -
in ognuna di queste occasioni la famiglia deve tenersi pronta a scattare. Quando
non si sa dov'è, o si sa che è dietro una porta chiusa a chiave,
bisogna stare in stato d'allarme per capire da qualunque piccolo indizio se
sta facendo qualcosa che non va. La possibilità che il paziente sia negligente
o cattivo, che, per disattenzione o intenzionalmente, danneggi se stesso, la
casa o gli altri, dimostra come tutti gli oggetti di uso comune in una casa
possano diventare pericolosi. Ovviamente, noi non pensiamo che questi oggetti
convenzionali possano costituire un pericolo perché prevediamo che ne
verrà fatto un uso convenzionale (26).
Ci sono tre cose da notare a proposito della sorveglianza da parte della famiglia.
Primo: in genere le case tendono ad essere organizzate in modo informale, cioè
ogni membro gode di una certa libertà di organizzare i propri compiti
e di muoversi nella direzione che preferisce. Avrà quindi delle cose
da fare, di cui sente il bisogno di occuparsi. Invece la necessità di
fare la guardia al paziente gli impedisce di occupare il suo tempo in modo per
lui più giusto e piacevole, e di conseguenza provoca un'imprevista dose
di fatica, impazienza e ostilità. Secondo: la sorveglianza dovrà
essere ben dissimulata e nascosta, per non destare i sospetti del paziente,
e questa copertura richiede una partecipazione e un'attenzione ancora maggiori.
Terzo: per poter mantenere alto il loro livello di efficacia e il loro morale,
è facile che i guardiani si uniscano in una collaborazione che diventa,
per forza di cose, una complicità.
La famiglia deve reagire non solo a quello che il paziente sta facendo nella
vita domestica, ma anche alla figura che sta facendo di fronte alla comunità.
All'inizio la famiglia sarà molto preoccupata per il fatto che uno dei
suoi emissari stia cedendo, e quindi cercherà di fare un intervento di
copertura per sostenere sia la sua che la propria facciata. Questo rinforza
lo schieramento di complicità della famiglia contro il malato.
Mentre all'interno della famiglia continua la discussione su quali debbano essere
i sé nei cui termini bisogna organizzare l'attività, essa comincia
a rivolgersi all'esterno, prima ai parenti del paziente, poi agli amici, ai
professionisti, ai datori di lavoro. Il suo scopo non è solo quello di
ottenere un aiuto nella gestione del paziente, ma anche di sentirsi confermare
la propria opinione su quello che sta succedendo, cosa di cui ha molto bisogno.
Le regole dell'informazione familiare si rovesciano. Conoscenti e altre possibili
fonti di aiuto, una volta molto lontane dalla famiglia, vengono ora trascinati
nel centro, come partecipanti al nuovo sodalizio che aiuta ad assistere il malato,
mentre altri, una volta vicini, possono venire abbandonati, perché apparentemente
non confermano la definizione che la famiglia dà della situazione.
Per ultimo, la famiglia scopre che per evitare che gli altri prendano troppo
sul serio queste attività del malato è necessario rendere partecipi
del segreto familiare anche persone relativamente distanti. Si può arrivare
al punto di dover ricorrere ai tribunali per porre freno alle sue spese folli
con procedimenti di interdizione, o per annullare un matrimonio non adatto,
e cose di questo genere. La famiglia ammette francamente di non riuscire più
a risolvere i propri problemi, perché bisogna che anche altri ne siano
al corrente. A questo punto i membri della famiglia avranno imparato a vivere
esposti, saranno meno orgogliosi e meno egocentrici. Dovranno impegnarsi a far
sapere che uno di loro è malato di mente, e indipendentemente dal successo
con cui lo faranno, si esporranno a diventare oggetto di quel tipo di ragionamento
abbastanza diffuso, secondo il quale la loro è una famiglia che produce
malattie mentali.
Mentre la famiglia rompe la barriera di discrezione tra sé e la società
- e rivolgersi a un terapista è solo un esempio esplicativo di questo
processo - può cominciare a infittire la rete del suo sistema di complicità
e allargarlo. Si intercettano alcune telefonate del paziente, si leggono alcune
delle sue lettere. Si cerca di sapere in confidenza che cosa ha detto il paziente
a persone diverse, per scoprire le incongruenze dei suoi discorsi. Si discute
dell'esperienza con il paziente con una cerchia sempre più ampia di persone,
per scoprirne e confermarne i comportamenti impropri. Si fanno al paziente proposte
segretamente programmate come fossero spontanee, oppure si fa finta che provengano
da qualcuno che il paziente non sospetta. Questa congiura, si noti, è
il risultato comprensibile del bisogno di conoscere la prossima mossa del malato,
per poterla prevenire.
Se osserviamo le reazioni della famiglia nei confronti del paziente, vediamo
che i suoi membri avranno mille ragioni per essere insofferenti. Ma oltre a
questo proveranno anche altri sentimenti, spesso ancora più forti. I
danni causati dal paziente, specialmente nei suoi tentativi di allargare il
proprio raggio d'azione al di fuori della famiglia, sembrano colpire i suoi
interessi ancor prima che quelli della famiglia stessa. Ma in genere questo
non viene visto dai familiari con soddisfazione, seppure un poco amara, né
viene considerato un pareggio dei conti; anzi, spesso contribuisce a peggiorare
la situazione. Come ho già detto, è caratteristica della famiglia
che i suoi membri non solo si sentano responsabili per chiunque di loro si trovi
in difficoltà, ma anche che si identifichino personalmente con la sua
situazione. Quando il paziente è fuori da solo, esposto a ciò
che può essere interpretato come una contaminazione del suo sé
o una degradazione del suo carattere, quando si è costretti a lasciare
il paziente solo a casa, esposti, lui e la casa, al pericolo di danni intenzionali
e non intenzionali, la famiglia è preoccupata e ha paura.
Ho detto in precedenza che una famiglia che deve lottare con la mania intesserà
con ogni probabilità una rete di complicità, dalla quale ovviamente
il paziente verrà escluso (27). Proviamo ora a vedere le cose dal punto
di vista del paziente.
La complicità familiare è benintenzionata, ma le sue conseguenze
sono quelle di tutte le complicità. Il paziente si ritrova in un mondo
innocente solo in apparenza, in cui può percepire piccoli segni - e ne
andrà quindi alla ricerca, attribuendoli anche a chi non c'entra - che
dimostrano come le cose non siano affatto quello che sembrano. A casa, se alza
improvvisamente lo sguardo durante una conversazione, può notare certi
elementi che indicano inequivocabilmente l'esistenza di una associazione complice
contro di lui, associazione che non ha nulla a che fare con quella che si dissolve
quando si rivela alla vittima uno scherzo simpatico fatto a sue spese (28).
Egli si accorge, giustamente, che tutto quello che gli viene detto è
diretto anche agli altri che sentono, per essere sicuri della loro partecipazione
alla gestione del paziente, e che i discorsi fatti ad altri in sua presenza
sono fatti apposta perché li senta anche lui. Questo sistema di comunicazione
lo sconcerta, e incomincia a pensare che gli altri lo tengano intenzionalmente
all'oscuro di quello che succede.
E' probabile, inoltre, che il paziente si accorga di essere sorvegliato, specialmente
quando si avvicina a qualche oggetto che può essere pericoloso per lui
o per gli altri, o che è prezioso o fragile. Si accorge di essere trattato
come un bambino di cui non ci si può fidare, ma nel suo caso non ci si
può nemmeno fidare di dirgli apertamente che non ci si fida. Se accende
un fiammifero o prende in mano un coltello, si accorge dopo averlo fatto che
gli altri lo hanno sorvegliato e che ora tentano di nasconderlo.
Per reazione alla reazione che egli stesso ha provocato, il paziente si accorge
anche lui che la vita familiare è diventata strana. Cercherà così
da qualcuno una conferma della sua opinione su quello che stanno facendo i suoi
parenti. E con ogni probabilità la troverà.
La conseguenza sarà la formazione di due fazioni di complici che si avvolgeranno
reciprocamente in un mare di incertezze, ricavando le loro forze da una cerchia
di membri segreti che continua a mutare. La casa cessa di essere il luogo in
cui si compie una serie di atti conformi e reciprocamente previsti. Cessa di
essere un solido fronte, organizzato da un gruppo stabile di persone, per resistere
al mondo, puntellato e rinforzato da un gruppo stabile di amici e accoliti.
La casa diventa una terra di nessuno dove fazioni sempre variabili sono costrette
a negoziare ogni giorno. La loro arma è la comunicazione complice, la
loro armatura una disattenzione selettiva di fronte alle macchinazioni della
parte avversa - disattenzione difficile da raggiungere, poiché ogni fazione
deve impegnarsi per decifrare i segni furtivi dell'altra. La casa, dove una
volta ci si rifugiava per leccarsi le ferite, diventa il luogo dove esse vengono
inflitte. Le barriere sono rotte. La famiglia è sconvolta.
Ci accorgiamo quindi che il maniaco che vive in famiglia si nutre e viene nutrito
nella disgregazione organizzativa, disgregazione fin troppo evidente. E tuttavia
rapporti clinici su questo argomento sono molto rari. Io tenterò di fare
un resoconto secondo i metodi di Durkheim.
Succede spesso che un paziente ricoverato in ospedale, pur essendosi comportato
a casa nel modo più strano e complicato, venga riaccettato nella famiglia,
la quale, per quanto trepidante, gli concede una specie di periodo di prova.
E' altrettanto comune inoltre che, prima del ricovero, la famiglia accetti solo
in modo discontinuo l'idea che la persona che crea dei problemi sia un malato
mentale. Ad ogni esplosione di follia si dovrà riconsiderare la possibilità
che si tratti di una malattia mentale, ma non appena il malato passa un periodo
di tranquillità rinascono le speranze: speranze che tutto stia tornando
alla normalità. Questa disposizione a oscillare, questi ritorni di speranza
della famiglia, non dovrebbero essere considerati come una particolare dimostrazione
di buona volontà o di paura per il proprio buon nome. In altre circostanze
sono sicuro che quasi tutte le famiglie sarebbero pronte a farsi un'idea rigida
e stereotipata del trasgressore. Il fatto è che la famiglia non può
concepire in modo stabile una vita nella quale uno dei suoi membri si comporta
da folle. La confusione e l'agitazione che il malato ha portato con sé
è qualcosa che la famiglia è prontissima a dimenticare; l'organizzazione
funzionale di «prima» è qualcosa che la famiglia sarà
sempre pronta a ripristinare. Perché, se si potesse trovare nella nostra
mente un posto per il comportamento malato, non si tratterebbe più di
un comportamento malato. E' come se la percezione potesse formarsi ed essere
conseguente solo dove esiste l'organizzazione sociale; è come se l'esperienza
della disorganizzazione potesse essere sentita ma non protratta nel tempo. Quando
la disgregazione è al suo apice, è difficile per i partecipanti
trovare qualcuno che abbia la benché minima idea di cosa sia viverci
dentro. Quando finalmente le acque si calmano, i partecipanti stessi non saranno
in grado di capire perché la cosa li avesse tanto turbati. Non è
molto strano quindi che durante la fase di disorganizzazione la famiglia viva
la sua realtà come se fosse un sogno, mentre la routine domestica, che
ormai non è che un ricordo, viene considerata come la realtà autentica.
6.
Torniamo ora a ciò che abbiamo detto prima sugli elementi
di complicità impliciti nel ruolo del medico. Torniamo al dilemma del
dottore.
L'immagine tradizionale del ricovero in ospedale psichiatrico e degli altri
servizi analoghi implica la presenza di una persona responsabile, in genere
un parente, che persuade, trascina o incastra il futuro paziente affinché
visiti uno psichiatra. Gli viene fatta una visita diagnostica. E' a quel punto
che, con ogni probabilità, avrà inizio la complicità tra
psichiatra e parente, basata sul fatto che non si può essere sicuri che
il paziente agisca nel proprio interesse e che a niente gli servirà conoscere
il nome e la gravità della propria malattia (29). Naturalmente il paziente
si sentirà tradito e perseguitato e continuerà a sentirsi così
finché starà abbastanza bene da accorgersi che quella complicità
aveva come unico scopo il suo bene.
Gli psicoanalisti sono i più grandi avversatori della complicità
della gestione del malato mentale. Secondo loro, se si deve sviluppare un reale
rapporto con il cliente, un rapporto cioè che permetta a terapista e
cliente di lavorare insieme con profitto, questo rapporto non può essere
messo in pericolo stabilendo comunicazioni di complicità con gli altri
responsabili del paziente. Se è necessario un contatto tra terapista
e parenti del malato, allora bisogna dire ai parenti che il paziente deve sapere
che cosa è successo, e, in linee generali, che cosa ha detto il terapista.
I terapisti prendono realisticamente nota del fatto che le informazioni sul
paziente, se comunicate ai parenti, possono benissimo essere usate contro di
lui. Può darsi che questo modo di impostare le comunicazioni tolga al
terapista diverse possibili fonti di informazione sul paziente, ma, se si accetta
la dottrina secondo la quale i problemi del paziente nascono dal suo modo di
proiettarsi e di avere rapporti, e che di questo si possano avere esempi esaurienti
in ciò che risulta dalle sedute, questa difficoltà è facilmente
superabile. In questo si può notare una similitudine con quella che viene
chiamata antropologia da hotel. Ciò che intendo è che i terapisti,
specialmente se analisti, tengono conto delle implicazioni di complicità
che i loro contatti con le terze persone comportano, e fanno molto per proteggere
il paziente da questa associazione complice. Tuttavia proprio nel far questo
contribuiscono a consolidare un altro rapporto di complicità, quello
cioè tra loro stessi e il paziente, nei confronti di altri. L'abitudine
a cercare di capire il punto di vista del paziente, lo sforzo di astenersi dal
dare ovvi giudizi morali, e l'obbligo per il paziente di rivelare qualunque
confidenza gli sembra importante; tutti questi fattori - uniti alla «privacy»
data dall'ambiente terapeutico - garantiscono la formazione di una coalizione
di complicità la cui forza non viene notata neppure dai parenti. (Mentre
i rapporti normali fanno nascere le coalizioni di complicità, la situazione
terapeutica è una complicità che fa nascere un rapporto). Questo
somiglia molto al sistema familiare di riconoscere un handicap alla squadra
più debole nei giochi in famiglia, dandole un uomo in più. Vorrei
aggiungere che anche se fare i complici a pagamento può sembrare un mestiere
un po' dubbio, forse fa più bene che male.
Ciò che si è detto può essere sintetizzato in una formula:
per tradizione, lo psicotico è sempre stato trattato da una coalizione
di complicità tra i terapisti e la famiglia e finisce escluso in un ospedale
psichiatrico, mentre il nevrotico (se lo vuole e se può permetterselo)
viene messo in condizioni di stabilire un rapporto di complicità con
il suo terapista contro la famiglia o il suo capo, e rimane nella comunità
(30).
C'è una complicità, quindi, per gli psicotici che finiscono in
manicomio, e un'altra per i nevrotici che restano nella comunità. Lo
psichiatra è obbligato a impegnarsi in una delle due, a seconda del paziente,
e, inoltre, a seconda del suo metodo. Ciò che tuttavia dobbiamo considerare
in questa sede è la complicità che si crea quando gli psicotici
di tipo maniacale vengono trattati nella comunità.
Per prima cosa dobbiamo notare che la complicità tra paziente e terapista
avrà delle deficienze. Le conversazioni private con il paziente non diranno
al terapista ciò che succede in famiglia e quali siano i suoi bisogni
più pressanti. Questo è indicato dal fatto cui abbiamo già
accennato, e cioè che i terapisti non hanno fornito quasi nessuna informazione
sul significato organizzativo che la malattia assume per le unità dell'organizzazione
sociale nelle quali si sviluppa. In ogni caso, visto che il paziente continua
imperterrito le sue azioni perturbatrici anche dopo aver iniziato la terapia,
la famiglia incomincerà a pensare che il terapista abbia aderito alla
fazione del paziente. E questa non è cosa da poco. I familiari oppositori
del paziente si trovano schiacciati contro il muro della salute mentale, devono
cioè tradire una persona che amano per impedire che le sue strane opinioni
su se stesso rendano la loro vita irreale. Il loro posto sociale viene minacciato,
e i criteri che hanno sempre usato per giudicare caratteri e identità
sono messi in discussione. Se qualcuno non conferma la loro opinione sul paziente,
anche solo rifiutandosi di prendere le parti dell'uno o dell'altro, questo fa
nascere l'allucinante possibilità che siano loro ad avere torto, e che,
avendo torto, stiano distruggendo il paziente. E chiunque sia distante dalla
famiglia certamente non confermerà il loro punto di vista. Bisogna tener
conto di un fatto a proposito della comunità in generale. A meno che
il paziente sia molto malato, quelli che lo conoscono poco - e ancor più
quelli che non lo conoscono affatto - possono non accorgersi che c'è
qualcosa che non va, e questo per molte ragioni; tutto quello che noteranno,
almeno in un primo tempo, sarà che egli è più amichevole
ed estroverso, più avvicinabile del solito. Quelli della comunità
che invece si accorgono di qualcosa saranno probabilmente tanto educati da non
dirlo apertamente. Dopo tutto, non devono far altro che interrompere i contatti
con il perturbatore. Il peggio che possa loro capitare è di dover affrontare
per un breve attimo l'idea di quanto sia condizionata la loro disponibilità
verso gli altri - condizionata dalla capacità degli altri di scomparire
qualora venga loro amabilmente suggerito di farlo.
L'altro tipo di complicità psichiatrica può non essere migliore.
Se lo psichiatra assicura alla famiglia che il matto è il paziente e
non loro, questo diminuisce parzialmente il loro bisogno di sentirsi confermare
la correttezza della loro posizione da parte di amici e conoscenti, limitando
dunque la loro fuga verso la comunità. Ma per poter controllare e disciplinare
il paziente e, attraverso questo, mantenere la possibilità di riprendere
in futuro l'antico rapporto, si sentiranno obbligati a dirgli che «non
è più se stesso» e che così ha detto anche lo psichiatra.
Questo non sarà molto utile. Ma la famiglia dovrà quasi certamente
usare questa carta, anche se non è quella giusta. Il paziente penserà
che i membri della famiglia non si preoccupano per la sua malattia, ma per la
propria posizione sociale intaccata. E di solito avrà anche ragione.
E allora dovrà accettare di essere un malato mentale, accettando così
una concezione distruttiva del proprio carattere o, in caso contrario, troverà
altre conferme del fatto che i parenti si sono rivoltati contro di lui all'improvviso.
Insomma, il medico si trova a dover scegliere tra la fazione della famiglia
e quella del paziente, sapendo che né l'una né l'altra soluzione
è sostenibile. Questo è il suo dilemma.
7.
In questo lavoro ho cercato di schematizzare alcuni dei significati
che i sintomi psichiatrici assumono per l'organizzazione in cui si manifestano,
riferendomi in particolar modo alla famiglia. La questione è che la moderna
psichiatria (sia in teoria che in pratica) non ha tenuto conto di questi significati.
Degradare le battaglie nei luoghi sociali di una famiglia problematica a cose
definibili con le parole «acting out» e «manie» è
un processo che tiene tutto in ordine, ma il risultato maggiore di questi termini
è lo splendido isolamento di chi ne fa uso. Il concetto di «iperattività»,
che in psichiatria significa proprio ciò che ho descritto finora, sembra
riferirsi a una disfunzione meccanica, e non ne rievoca tutte le conseguenze
sociali. C'è un'ultima complicazione. In tutto questo lavoro ho parlato
di malato mentale e dei suoi sintomi mentali, il che è fin troppo semplicistico.
I sintomi clinici e i cosiddetti sintomi mentali sono cose radicalmente diverse.
Come ho già detto la disfunzione indicata dai sintomi medici è
una disfunzione dell'organismo umano e raramente costituisce un rifiuto elegante
del funzionamento sociale. Per quanto sia impedito fisicamente, il malato fisico
può quasi sempre spiegare che non sta rifiutando né intenzionalmente,
né apertamente il suo posto nell'ordine sociale. I cosiddetti sintomi
mentali, d'altra parte, sono fatti della stessa materia di cui sono fatti gli
obblighi sociali. I sintomi mentali esprimono apertamente tutte le possibili
prese di posizione sociali di opposizione: alienazione, ribellione, insolenza,
slealtà, ostilità, apatia, molestia, invadenza e così via.
Queste prese di posizione non costituiscono - in un primo momento - un segno
di disfunzione nell'individuo, quanto un disturbo o un problema per un rapporto
o un'organizzazione. Siamo tutti d'accordo che bisogna fare di tutto per rattoppare
un corpo umano per tenerlo in vita, ma non lo siamo affatto sull'opportunità
di salvare tutte le strutture sociali, di qualunque tipo esse siano. Inoltre,
come ho già detto, anche una persona che non è affatto malata
di mente, ma che si accorge di non poter uscire da un'organizzazione, né
alterarla nei suoi caratteri essenziali, può per mille ragioni essere
causa degli stessi disturbi che causano i pazienti (31). Tutti i termini che
ho usato per descrivere la condotta offensiva del paziente - e lo stesso termine
«paziente» - esprimono il punto di vista dì persone che hanno
particolari interessi in gioco. Avrei dovuto metterli tra virgolette, ma ce
ne sarebbero state troppe.
La dottrina psichiatrica convenzionale lascia, naturalmente, posto alla psichiatria.
Si afferma che un individuo può sembrare abbastanza normale alla sua
famiglia, ai compagni di lavoro e ai vicini, mentre invece, sotto sotto, è
molto malato e ha bisogno di aiuto. Il futuro paziente e quelli che gli sono
vicini possono rifiutarsi di vedere che c'è qualcosa che non va, mentre
a un professionista salta subito all'occhio che sta veramente male. Nel momento
in cui il pre-paziente e i suoi cari si accorgono che c'è qualcosa che
non va, il malato - sostengono gli psichiatri - potrebbe essere già molto
grave. E' probabile che a quel punto i suoi lo stiano già punendo in
tutti i modi per la sua malattia, incolpandolo di una situazione che probabilmente
essi stessi hanno contribuito a produrre. La soluzione consiste nel prendere
in tempo le dovute misure, prima che i sintomi si moltiplichino, la personalità
si deteriori e sia stato fatto un danno irreparabile.
Questa opinione convenzionale, tuttavia, può essere tragicamente sbagliata,
sia dal punto di vista del paziente che da quello degli altri. Quando una persona
non ricoverata ha un episodio maniacale, dobbiamo prendere in considerazione
le seguenti possibilità.
Da una parte, può darsi che non ci sia niente di sbagliato nella dotazione
psicobiologica del trasgressore. Il significato psicologico che egli dà
alle grane che causa, può essere relativamente limitato, anzi, può
essere in parte comprensibile come espressione del cambiamento del suo rapporto
con quelli all'esterno dell'organizzazione in cui si verificano quegli episodi.
In fondo, la confusione causata dal paziente non se l'è inventata lui,
ma deriva dalla vulnerabilità delle organizzazioni domestiche e comunitarie
alle persone che hanno risorse sociali da spendere (32). D'altra parte tutti
i membri dell'organizzazione sociale di cui fa parte il maniaco sono costretti,
a causa della sua condotta sociale, a combattere per la propria sopravvivenza
sociale. Il significato sociale della confusione causata dal malato può
essere tanto profondo e basilare, quanto la stessa esistenza sociale.
La cosa peggiore che può succedere a un organismo sano, è di essere
contagiato da una malattia mortale. La cosa peggiore che può fare un
individuo è non riuscire a restare al posto che gli altri gli hanno assegnato
e che non è possibile cambiare. Qualunque sia la causa della condizione
psicologica del trasgressore - e ovviamente a volte può essere anche
organica - il significato sociale della malattia è che il suo portatore
riesce a trovare il modo di colpire proprio dove fa più male. Il significato
sociologico di questo è che la vita sociale è organizzata in modo
da rendergli possibile farlo. Il maniaco si introduce dove non è ben
accetto, o dove viene accettato, ma perdendo parte di quello che noi consideriamo
il suo valore e il suo status. Non si limita alle sfere d'azione che gli sono
concesse; sconfina, non sta al suo posto. Ma questo fatto implica molto di più
del luogo e del sé che il posto ti assegna. Il maniaco non accetta un
trattamento garbato in cambio dell'imporsi dei limiti. Non solo si rifiuta di
stare al posto che gli è stato destinato, ma, a quanto pare intenzionalmente,
rifiuta anche di impegnarsi nel lavoro rituale che permetterebbe agli altri
di sorvolare sulla sua mancanza.
Per reazione, gli altri pensano che il suo carattere e la sua personalità
sono improvvisamente cambiati, che non è più se stesso e non lo
è in un modo che impedisce a quelli che gli stanno vicino di essere quello
che pensano di dover essere. Rendendo il suo sé inadatto alla sua persona,
rende anche il sé degli altri inadatto alle loro persone. Ovunque egli
agisce, tutto si confonde.
Il maniaco rifiuta di farsi limitare dal gioco sociale che dà ordine
e senso alle nostre vite. Attraverso le sue azioni, rinuncia al rispetto per
se stesso, cioè al rispetto che avremmo per lui se restasse in un posto
sociale che per lui potrebbe non comportare altre soddisfazioni.
Il maniaco rinuncia a tutto ciò che può essere una persona, e
rinuncia anche al «tutto» che costituiscono per noi questi rapporti
di reciproca sorveglianza. Nel farlo (e può farlo per una serie di ragioni
indipendenti l'una dall'altra), ci fa notare che cosa sia questo «tutto»,
e di conseguenza ci accorgiamo di quanto poco esso rappresenti in realtà.
Impariamo una lezione analoga da tutti gli altri piantagrane che non stanno
al proprio posto.
[Traduzione di Franca Basaglia].