di Thomas S. Szasz.
1.
DAL MATTATOIO AL MANICOMIO.
Come tutte le credenze molto diffuse, che comportano conseguenze
sociali rilevanti, la credenza nella «malattia mentale» in quanto
disturbo di carattere medico, è connaturata nel nostro linguaggio, e
dal nostro linguaggio riflessa e sostenuta.
Chiamiamo infatti «malattie mentali» determinati problemi della
vita; individui che si rivolgono ad uno psichiatra o che vengono obbligati a
farlo con la forza o con l'inganno, sono «malati mentali»; le cose
di cui si lamentano, o le lamentele degli altri per ciò che fanno, sono
«sintomi psichiatrici»; e i disturbi di cui, si sostiene, soffrono
e che, si dice, «provocano» e «spiegano» la loro condotta,
sono «malattie mentali», (fra questi, la schizofrenia occupa una
posizione di particolare rilievo); chiamiamo le indagini psichiatriche, siano
esse richieste da pazienti consenzienti o loro imposte contro volontà,
«diagnosi», e gli interventi psichiatrici «cure»; infine,
lo scenario in cui hanno luogo questi incontri psichiatrici viene da noi chiamato
«ambulatorio medico», o «clinica», o «ospedale».
E, dal momento che disponiamo persino di un Istituto nazionale per la salute
mentale, è facile capire perché i benpensanti considerino impensabile
che la malattia mentale e la salute mentale possano anche non esistere. Se fosse
così, noi saremmo le vittime della nostra follia (Szasz 1961). No! E'
molto meglio per noi mantenere, e se necessario rafforzare le nostre finzioni.
Molti medici illustri hanno dedicato i loro sforzi, e continuano a farlo, al
rafforzamento della finzione medica della malattia mentale: il risultato è
quella vera fortezza che si chiama Psichiatria Istituzionale (Szasz 1970). Come
ho dimostrato in "The Manufacture of Madness" (Szasz 1963), gli psichiatri
tenuti in più alta considerazione e stima sono quelli che hanno fabbricato
le armi migliori per difendere ed ampliare le giustificazioni alle pretese e
alle opinioni sostenute dalla loro professione. Le loro «scoperte»
- dalla liberazione del pazzo dalle catene, fino allo shock, alla lobotomia
o alle terapie a base di tranquillanti - costituiscono la storia delle «terapie»
psichiatriche delle «malattie mentali».
Questi brevi appunti intendono tracciare la storia di una di queste scoperte:
l'elettroshock; intendono inoltre suggerire che questa procedura costituisce
il paradigma degli interventi della psichiatria istituzionale, basata sulla
coercizione e sull'inganno e giustificata dalla «necessità medica».
L'obiettivo primario dei trattamenti psichiatrici - sia che utilizzino come
metodi i farmaci, l'elettricità, la chirurgia o la contenzione, specialmente
se vengono imposti a pazienti non consenzienti - è quello di autenticare
il soggetto come «paziente» e lo psichiatra come «medico»,
e l'intervento come una forma di «cura». I costi di questa finzione
sono elevati: si richiede infatti il sacrificio del paziente in quanto persona,
dello psichiatra in quanto pensatore critico e agente morale, e del sistema
legale in quanto protettore dei cittadini dagli abusi del potere statale (Szasz
1963).
Lo psichiatra italiano Ugo Cerletti ha introdotto, come si sa, il trattamento per elettroshock in psichiatria. In un saggio sulla scoperta di questo trattamento, egli descrisse nel modo seguente il lavoro che portò allo sviluppo del suo metodo:
«Vanni mi informò che al macello di Roma i maiali
venivano ammazzati con la corrente elettrica. Questa informazione sembrava confermare
i miei dubbi sulla pericolosità dell'applicazione di elettricità
all'uomo. Mi recai al macello per osservare questa cosiddetta macellazione elettrica,
e notai che ai maiali venivano applicate alle tempie delle tenaglie metalliche
collegate alla corrente elettrica (125 volt). Non appena queste tenaglie venivano
applicate, i maiali perdevano conoscenza, si irrigidivano e poi, dopo qualche
secondo, erano presi da convulsioni, proprio come i cani che noi usavamo per
i nostri esperimenti. Durante il periodo di perdita della conoscenza (coma epilettico),
il macellaio accoltellava e dissanguava gli animali senza difficoltà.
Non era vero, pertanto, che gli animali venissero ammazzati dalla corrente elettrica,
che veniva invece usata, secondo il suggerimento della Società per la
prevenzione del trattamento crudele agli animali, per poter uccidere i maiali
senza farli soffrire.
Mi sembrò che i maiali del macello potessero fornire del materiale di
grandissimo valore per i miei esperimenti. E mi venne inoltre l'idea di invertire
la precedente procedura sperimentale: mentre negli esperimenti sui cani avevo
tentato di utilizzare sempre la minima quantità di corrente sufficiente
a procurare un attacco senza causar danno all'animale, decisi ora di stabilire
la durata temporale, il voltaggio ed il metodo di applicazione della corrente,
necessari a provocare la morte dell'animale. L'applicazione di corrente elettrica
sarebbe stata dunque fatta attraverso il cranio, in diverse direzioni, e attraverso
il tronco, per parecchi minuti. La prima osservazione che feci fu che gli animali
raramente morivano, e questo solo quando la durata del flusso di corrente elettrica
passava per il corpo e non per la testa. Gli animali ai quali veniva applicato
il trattamento più severo rimanevano rigidi mentre durava il flusso di
corrente elettrica, poi, dopo un violento attacco di convulsioni, restavano
fermi su un fianco per un poco, alcune volte parecchi minuti, e finalmente tentavano
di rialzarsi. Dopo molti tentativi di recuperare le forze, riuscivano finalmente
a reggersi in piedi e fare qualche passo esitante, finché erano in grado
di scappar via. Queste osservazioni mi fornirono prove convincenti del fatto
che un'applicazione di corrente a 125 volt della durata di alcuni decimi di
secondo sulla testa, sufficiente a causare un attacco convulsivo completo, non
arrecava alcun danno.
A questo punto, ero convinto che avremmo potuto tentare di fare degli esperimenti
sugli uomini, e diedi istruzioni ai miei assistenti affinché tenessero
aperti gli occhi per selezionare un soggetto adatto.
Il 15 aprile 1938 il commissario di polizia di Roma mandò nel nostro
Istituto un individuo con la seguente nota di accompagnamento: 'S. E., trentanove
anni, tecnico, residente in Milano, arrestato alla stazione ferroviaria mentre
si aggirava senza biglietto sui treni in procinto di partire. Non sembra essere
nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, e lo invio nel vostro ospedale
perché venga posto sotto osservazione...' Le condizioni del paziente
al 18 aprile erano le seguenti: lucido, ben orientato. Descrive, usando neologismi,
idee deliranti riferendo di essere influenzato telepaticamente da interferenze
sensoriali, la mimica corrisponde al senso delle parole, stato d'animo indifferente
all'ambiente, riserve affettive basse; esami fisici e neurologici negativi;
presenta cospicua ipoacusia e cataratta all'occhio sinistro. Si arrivò
ad una diagnosi di sindrome schizofrenica sulla base del suo comportamento passivo,
l'incoerenza, le basse riserve affettive, allucinazioni, idee deliranti riguardo
alle influenze che diceva di subire, i neologismi che impiegava.
Questo soggetto fu scelto per il primo esperimento di convulsioni elettricamente
indotte sull'uomo. Si applicarono due grandi elettrodi alla regione frontoparietale
dell'individuo, e decisi di iniziare con cautela, applicando una corrente di
bassa intensità, 80 volts, per 0,2 secondi. Non appena la corrente fu
introdotta, il paziente reagì con un sobbalzo e i suoi muscoli si irrigidirono;
poi ricadde sul letto senza perdere conoscenza. Cominciò improvvisamente
a cantare a voce spiegata, poi si calmò.
Naturalmente noi, che stavamo conducendo l'esperimento, eravamo sottoposti ad
una fortissima tensione emotiva, e ci pareva di aver già corso un rischio
notevole. Nonostante ciò, era evidente per tutti che avevamo usato un
voltaggio troppo basso. Si propose di lasciare che il paziente si riposasse
un poco e di ripetere l'esperimento il giorno dopo. Improvvisamente il paziente,
che evidentemente aveva seguito la nostra conversazione, disse, chiaramente
e solennemente, senza alcuna parvenza della mancanza di articolazione del discorso
che aveva dimostrato fino ad allora: 'Non un'altra volta! E' terribile!'
Confesso che un simile esplicito ammonimento, in quelle circostanze, tanto enfatico
ed autorevole, fatto da una persona il cui gergo enigmatico era stato fino a
quel momento molto difficile da comprendere, scosse la mia determinazione di
continuare l'esperimento. Ma fu solo il timore di cedere ad un'idea superstiziosa
che mi fece decidere. Gli elettrodi furono applicati nuovamente, e somministrammo
una scarica di 110 volts per 0,2 secondi» (Cerletti 1956).
Come tutte le autorivelazioni oneste, il racconto di Cerletti
sulla sua scoperta dell'elettroshock dice più cose di quante l'autore
pensasse o desiderasse dire. Elencherò alcuni fatti citati da Cerletti,
e alcune deduzioni basate sugli stessi, che mi sembrano particolarmente significative.
1. L'applicazione dell'elettroshock ai maiali era un metodo empirico per calmare
e sottomettere gli animali, per poterli macellare senza l'eccitazione e gli
strilli che questa operazione generalmente comportava.
2. Il primo essere umano su cui l'elettroshock fu sperimentato era un uomo,
identificato soltanto dalle sue iniziali, S. E., dalla sua occupazione: «tecnico»;
dalla sua città di residenza: «Milano», e, fatto significativo,
dalla diagnosi psichiatrica di «schizofrenia».
3. S. E. era totalmente sconosciuto al dottor Cerletti, non richiese il suo
aiuto (e più tardi rifiutò il suo intervento). In realtà,
S. E. era un prigioniero: era stato «arrestato» dalla polizia per
«vagabondaggio», e invece di essere processato per questo reato,
fu inviato da Cerletti.
4. Anche se il soggetto era stato inviato in ospedale espressamente per essere
posto «sotto osservazione», Cerletti disobbedì chiaramente
alle istruzioni del commissario di polizia di Roma: invece di osservare S. E.,
lo utilizzò come soggetto sperimentale per l'elettroshock.
5. Cerletti non dice di aver ricevuto alcuna autorizzazione per questo esperimento.
Sembrerebbe che, avendo ricevuto il carcerato dalle mani della polizia, Cerletti
lo considerasse immediatamente come «paziente», e che vedesse in
se stesso il solo giudice del tipo di «cura» che il suo «paziente»
doveva ricevere. E' così che Cerletti scrive: «noi, che stavamo
conducendo l'esperimento, eravamo sottoposti ad una fortissima tensione emotiva,
e ci pareva di aver già corso un rischio notevole». Ma non dice
niente del rischio al quale era stato sottoposto S. E., senza il proprio consenso.
6. Per tutta la durata dell'esperimento, S. E. fu trattato come una cosa o un
animale. Non aveva alcun controllo sul proprio destino. Quando, dopo il primo
shock, annunciò «chiaramente e solennemente»: «Non
un'altra volta! E' terribile!», il suo messaggio che poteva apparire come
perfettamente razionale non ebbe alcun effetto su coloro che conducevano l'esperimento
su di lui.
7. In breve, la prima persona su cui si sperimentò l'elettroshock non
era un volontario, né si trattava di un paziente malato mentale regolare
(volontario o coatto) la cui storia, personalità e situazione familiare
fossero note agli psichiatri; né di un carcerato condannato per un reato
e dichiarato poi malato di mente che si trovasse sotto la giurisdizione di un
tribunale. Questi fatti sono importanti perché, in quanto professore
di psichiatria all'università di Roma, Cerletti deve aver potuto avvicinare
molti pazienti «schizofrenici» che avrebbero potuto essere candidati
potenziali per il suo trattamento sperimentale.
Anche se le stesse circostanze che hanno accompagnato la scoperta
dell'elettroshock sono rivelatrici, è possibile collocarle nella giusta
e completa prospettiva osservando alcuni fatti che si riferiscono allo scopritore,
Ugo Cerletti.
Cerletti era nato a Cornigliano il 26 settembre 1877, e morì a Roma il
25 luglio 1963. Studiò medicina a Torino e Roma, e si laureò a
Roma nel 1901. All'inizio, si dedicò alla ricerca nel campo dell'istopatologia
e della neuropatologia. Poi studiò psichiatria clinica con Kraepelin,
e ne fu irresistibilmente attratto. Nel 1933, cominciò a interessarsi
al lavoro di Meduna sulla schizofrenia, e divenne un entusiasta sostenitore
della teoria dell'incompatibilità fra schizofrenia e epilessia. Nel 1935,
dopo la nomina a professore di psichiatria all'università di Roma, Cerletti
iniziò i suoi esperimenti sulle convulsioni indotte. In collaborazione
con il professor Bini, creò il primo apparecchio per l'elettroshock e,
nell'aprile 1938, essi applicarono per la prima volta una convulsione elettrica
a un uomo, come abbiamo appena descritto.
Nel necrologio a Cerletti, Ferruccio Di Cori (1963) valutò nel modo seguente
l'importanza dell'elettroshock: «il nuovo metodo [di Cerletti] fu sottoposto
ad ampie ricerche, ed accettato universalmente in tutto il mondo... Innumerevoli
vite, sofferenze e tragedie erano state così risparmiate».
Cerletti continuò a lavorare all'elettroshock fino alla morte. «Formulò
una teoria secondo la quale i mutamenti umorali ed ormonali provocati nel cervello
da un attacco epilettico, portano alla formazione di certe sostanze che egli
chiamò 'acroagonine', sostanze di estrema difesa. Queste sostanze, se
iniettate al paziente, avrebbero avuto effetti terapeutici simili a quelli dell'elettroshock»
(Di Cori 1963).
Ayd (1963) rese noto un altro aspetto interessante del primo elettroshock della
storia. Pare che Cerletti avesse l'abitudine di riandare a quella memorabile
esperienza. «Mentre descriveva quello che era successo, - scrive Ayd,
- egli disse: 'Quando vidi la reazione del paziente, pensai: questo dovrebbe
essere abolito! Da quel momento ho sperato ed aspettato che si scoprisse un
nuovo trattamento che sostituisse l'elettroshock'». Ma se Cerletti aveva
pensato questo, perché lo tenne soltanto per sé? Né Cerletti,
né gli altri sostenitori dell'elettroshock parlarono mai in pubblico
dell'abolizione di questa «cura».
Così come la storia di Anna O. e Breuer (Szasz 1963) costituisce
un modello di vero "incontro personale" tra paziente e medico, la
storia di S. E. e Cerletti è un modello di vero "contatto impersonale"
tra soggetto disumanizzato e sperimentatore medico. La prima è un esempio
di rapporto volontario tra «nevrotico» e «psicoterapista»,
la seconda è un esempio di rapporto involontario tra «psicotico»
e «psichiatria istituzionale». E il fatto che queste distinzioni
fondamentali - tra persona ed oggetto, medico e alienista, interventi psichiatrici
volontari ed imposti - venissero apprezzati più nei primi decenni del
secolo di quanto non lo siano oggi, nella pratica se non nella teoria, costituisce
una misura del declino morale della psichiatria come professione (Szasz 1970).
L'invenzione dell'elettroshock è il moderno totalitarismo terapeutico
allo "status nascendi": il malato mentale, una non-persona, viene
passato dalla polizia agli psichiatri, e da loro «curato» senza
il proprio consenso. Le circostanze sociali nelle quali nacque e si sviluppò
la cura dell'elettroshock sono coerenti con la sua azione «terapeutica».
Se un uomo vuole punire e sottomettere un altro uomo, non gli chiede il permesso.
Nello stesso modo, il pubblico, in una società che permette e addirittura
incoraggia questo tipo di rapporto umano perché è «terapeutico»,
non può aspettarsi che la legge protegga le vittime.
2.
LINGUAGGIO, LEGGE E PAZZIA.
Accade troppo spesso che il linguaggio con cui si esprime un problema
sociale o personale, ne fornisca velatamente ma inesorabilmente la soluzione,
e ciò è particolarmente evidente nel campo delle cosiddette malattie
mentali.
Nei tempi andati, quando «il problema» era la stregoneria - cioè
quando si definivano streghe possedute dal demonio le persone che dovevano essere
punite per determinati comportamenti antisociali, o che venivano trasformate
in capri espiatori per altre ragioni, - le soluzioni erano l'esorcismo e il
rogo. Oggi, quando «il problema» è la malattia mentale -
cioè quando queste persone vengono definite come pazienti psichiatrici
che soffrono di malattie mentali - la soluzione consiste nell'imprigionarli
in edifici chiamati ospedali e torturarli in nome della cura. In nessuno dei
due casi la «soluzione» è stata il risultato di una analisi
precisa e approfondita della difficoltà che la situazione presenta, ed
è in questo contesto che dobbiamo esaminare ciò che oggi si chiama
correntemente «il problema dei diritti civili dei malati di mente».
Io sostengo che si tratta di un problema innanzitutto linguistico. Questo non
vuol significare, naturalmente, che si tratti «soltanto» di una
questione semantica o di termini, ma piuttosto di come vengono usati i termini
per formare l'opinione pubblica e per giustificare l'azione legale e i provvedimenti
politici. I concetti e i termini «malattia mentale» e «malato
di mente» combinano, confondendoli, due complessi di idee e di interventi
assolutamente diversi e, in fondo, contraddittori: la malattia e la cura da
una parte, la devianza e il controllo dall'altra.
- Cura e controllo.
Se consideriamo in modo imparziale i significati tradizionali
e comunemente accettati dei termini «malato» e «pazzo»,
vediamo che corrispondono a due concetti ben distinti e che rievocano immagini
diverse. Malattia significa che c'è qualcosa che non va nel corpo della
persona definita malata, mentre pazzia significa che c'è qualcosa che
non va nel comportamento della persona definita pazza. E' questa la ragione
per cui, per tradizione, la prima idea ha portato a forme di intervento chiamate
«trattamento» e «cura», mentre la seconda a interventi
chiamati «restrizione» e «controllo».
In particolare nelle società libere contemporanee non esiste, a tutti
gli effetti pratici, il trattamento medico non volontario degli adulti. L'atto
sociale del trattamento medico esiste non tanto perché il paziente è
ammalato, quanto perché vuole essere curato ed è disposto a sottoporsi
alla cura: la giustificazione ultima del trattamento medico non è la
malattia, ma il consenso. Al contrario, quello che caratterizza la diagnosi,
il ricovero e la cura psichiatrica non richiesti, è che questi esistono
non perché la persona considerata malata voglia, o sia disposta, a sottomettersi
ad essi, ma perché qualcuno, che non è il malato, afferma che
il «paziente» è «malato di mente».
Non si può capire l'attuale situazione psichiatrica se non si sa qualcosa
della storia della psichiatria. In breve, la psichiatria moderna ebbe inizio
nel diciassettesimo secolo con la costruzione dei manicomi nei quali si imprigionavano
persone indesiderabili o importune di ogni tipo. In origine, dunque, la psichiatria
era «istituzionale»; era un tipo di criminologia extralegale. Nei
tre secoli della sua storia, e specialmente negli ultimi cento anni, si sono
fatti enormi e costanti sforzi per ridefinire la segregazione psichiatrica come
«ricovero ospedaliero» e il controllo psichiatrico come «cura».
Forse a causa del fatto che gli sforzi principali degli psichiatri più
attivi - da Philippe Pinel e Benjamin Rusk a Sigmund Freud e Karl Menninger
- sono stati tesi a questo scopo, la medicalizzazione dei problemi umani e il
controllo coercitivo esercitato dal potere di polizia dello stato, hanno avuto
un successo sorprendente. (Vedi Szasz, "The Myth of Mental Illness",
1961; "The Manufacture of Madness", 1970; "The Age of Madness",
1973). Di conseguenza, nessun altro gruppo è stato, nella storia moderna,
perseguitato in modo altrettanto coerente e inesorabile, privato dei suoi diritti
umani e civili, come i pazzi o i cosiddetti malati di mente.
- Ricovero volontario o coatto negli ospedali psichiatrici.
Il più importante atto di privazione dei diritti umani
e costituzionali nei riguardi delle persone definite malate di mente, consiste
nella loro ospedalizzazione involontaria, cioè il ricovero coatto in
un'istituzione chiamata ospedale psichiatrico. Al momento attuale migliaia di
persone si trovano in questa situazione negli Stati Uniti e moltissime in altri
paesi. Anche se le precise disposizioni legali circa il ricovero coatto differiscono
tra uno stato e l'altro e tra i vari paesi, la procedura è di fatto basata
sui concetti, strettamente connessi, di malattia mentale e pericolosità,
concetti che nel contempo la giustificano. Possiamo citare come esempio la formula
legale tradizionale degli Stati Uniti, secondo la quale il paziente soffre di
«malattia o disturbo mentale» ed è «pericoloso a sé
e agli altri». Senza considerare la fraseologia legale che circonda le
leggi sul ricovero coatto, la loro applicazione dipende quasi completamente
dall'ideologia dalla quale sono animati gli psichiatri e i giudici che praticano
questo tipo di «medicina». Si tratta di un'ideologia semplicemente
paternalistica.
«Se un uomo porta da me sua figlia dalla California, - ha dichiarato un
eminente psichiatra davanti a una commissione del Senato degli Stati Uniti,
- perché è chiaramente in pericolo di cadere nel vizio o di disonorarsi
in qualche altro modo, non si aspetta che io la lasci girare liberamente nella
mia città perché succeda la stessa cosa» ("Constitutional
Rights of the Mentally I I I", U. S. Government Printing Office, Washington
[D.C.] 1961). I giuristi hanno sostenuto la stessa visione del problema. Nel
rifiutare un indennizzo a un uomo che, entrato volontariamente in ospedale psichiatrico,
si era visto rifiutare il permesso per uscirne, e aveva pertanto iniziato un'azione
giudiziaria, un giudice di corte d'appello del Connecticut sancì che
«i malati mentali spesso non sono in condizioni di valutare cosa è
bene per i propri interessi o quali sono i propri effettivi desideri»
(Roberts vs. Pain, 124 Conn., 199 A. 115 [1938]).
Anche se la maggior parte delle persone che vengono ricoverate negli ospedali
psichiatrici contro la propria volontà sono povere e vecchie, molte persone
importanti hanno subito la stessa sorte, sia in passato che oggi: Ludovico Secondo
di Baviera, Mary Todd Lincoln, la vedova del presidente americano, il ministro
per la difesa americano James Forrestal; Ernest Hemingway, e gli intellettuali
dissidenti dell'Unione Sovietica sono solo pochi esempi di vittime famose dell'incarcerazione
psichiatrica come metodo di controllo sociale.
In molti casi, le persone ricoverate in ospedale psichiatrico perdono apparentemente
soltanto il diritto a uscire dall'ospedale, in realtà spesso perdono
tutti i loro diritti civili. Possono essere dichiarati incapaci di gestire se
stessi e i propri beni, possono perdere il diritto di votare, di guidare l'automobile,
di esercitare la propria professione; possono essere assoggettati agli atti
più brutali ed ingiuriosi - chiamati cure psichiatriche - che l'uomo
moderno possa immaginare; e sono irriducibilmente stigmatizzati come «ex
malati di mente».
Anche se alcuni casi di ricovero psichiatrico sono, dal punto di vista nominale
e semantico, «volontari», i cosiddetti pazienti volontari subiscono
molte delle stesse privazioni dei diritti civili applicate ai ricoverati non
volontari. Non solo, ma dato che il ricovero volontario in ospedale psichiatrico
è sempre potenzialmente, e spesso realmente, una forma velata di ricovero
coatto - e dato anche che questo tipo di ospedalizzazione interessa oggi un
numero molto maggiore di persone che non il ricovero coatto - questo tipo di
intervento psichiatrico costituisce forse una minaccia ancora maggiore alle
libertà civili rispetto al ricovero coatto stesso. Sta di fatto che,
dal punto di vista legale, i pazienti volontari e coatti vengono trattati sostanzialmente
nello stesso modo. Inoltre, i pazienti volontari spesso entrano nell'istituzione
psichiatrica sotto la minaccia di un eventuale ricovero coatto. Una volta entrati,
non possono farsi dimettere come possono fare i pazienti affetti da qualsiasi
altra malattia, e, se insistono per essere dimessi contro il parere degli psichiatri,
possono essere obbligati a rimanere, dai familiari e dai medici. La condizione
di carcerati di questi pazienti è stata apertamente ammessa nel 1971
da una decisione della Corte Suprema dell'Utah, nella quale la corte ha sostenuto
che «un paziente volontario in un ospedale [psichiatrico] è altrettanto
'recluso', e la sua libertà altrettanto limitata, quanto un internato
mentalmente sano di una prigione» (Emery vs. Slate, 483 P 2d. 1296).
Si può invocare l'intervento psichiatrico contro le persone accusate
di un crimine, ad ogni momento in cui il procedimento criminale grava sull'accusato.
In ognuno di questi momenti, la psichiatria viene usata per privare l'accusato
della propria libertà e della propria dignità, in nome della protezione
della sua salute mentale e della cura della sua malattia mentale. Una persona
accusata di un delitto può essere dichiarata non in grado di presentarsi
al processo, e essere rinchiusa in un ospedale psichiatrico fino a quando non
sarà dichiarata in grado di farlo. La persona viene così privata
dei diritti conferiti dal Sesto Emendamento (alla Costituzione americana) che
garantisce un processo pubblico e rapido, e può essere incarcerata, certamente
sotto gli auspici della psichiatria, senza processo. Ezra Pound fu rinchiuso
in questo modo per tredici anni. Decine di migliaia di americani sono stati,
e sono, incarcerati in questo modo, e alcuni hanno ricevuto condanne psichiatriche
a vita per trasgressioni banali. Un accusato sotto processo può dichiararsi
non colpevole per infermità mentale - il suo avvocato può presentare
questa richiesta senza che l'accusato ne capisca veramente le implicazioni.
Come conseguenza, l'interessato può venir condannato a un periodo di
incarcerazione psichiatrica di durata indefinita, invece di ricevere una possibile
assoluzione o una condanna a un periodo definito di reclusione in carcere. Infine,
una volta in prigione, il carcerato può essere dichiarato psicotico e
trasferito in manicomio criminale.
Questo breve elenco non comprende tutti i modi in cui l'intervento psichiatrico
viene oggi usato come metodo di controllo sociale - attraverso la legislazione
e i tribunali, le organizzazioni mediche e le istituzioni psichiatriche, e,
non meno importante, attraverso il desiderio personale di controllare gli altri.
La nostra società è pervasa dall'uso delle incriminazioni e delle
giustificazioni psichiatriche, che vanno dalla dichiarazione di incapacità
mentale dei parenti ricchi, al tentativo di sottrarsi alla leva e alle conseguenze
della legge sull'aborto. (Vedi Szasz, "Law, Liberty and Psychiatry",
1963; "Psychiatric Justice", 1965; "Ideology and Insanity",
1970),
- Riforme.
Gli interventi psichiatrici non richiesti sono stati considerati
per secoli come misure prese "per" il paziente, e non come misure
prese "contro" di lui. Questa prospettiva, che è ancor oggi
la posizione psichiatrica ufficiale, preclude ogni riforma genuina nel campo
della salute mentale. Negli ultimi anni, tuttavia, sono sempre più numerosi
coloro, sia appartenenti alle professioni collegate con la malattia mentale,
sia operanti nella vita pubblica, che hanno riconosciuto gli interventi psichiatrici
non richiesti come forme di controllo sociale. Da questa premessa, il problema
della riforma psichiatrica si imposta nel modo seguente: vogliamo mantenere
questi metodi, con l'introduzione di alcune salvaguardie, o abolirli completamente?
Per motivi sia morali che pratici, io sostengo l'abolizione di tutti gli interventi
psichiatrici non volontari.
Questo scopo potrebbe essere raggiunto facilmente, ma data la nostra grande
devozione alla prospettiva medica dei problemi umani, ogni sforzo in questo
senso sarà, almeno per il momento, sgradito e poco pratico. Per raggiungere
lo scopo dovremmo prima riconoscere che i cosiddetti problemi rappresentati
dalle malattie mentali sono problemi umani e non medici - si tratta di problemi
economici, morali, sociali e politici. In altre parole, le malattie mentali
sono malattie metaforiche.
La natura metaforica del concetto di malattia mentale è naturalmente
incomprensibile, se non si analizza prima il significato letterale del concetto
di malattia comune o del corpo. Quando si dice che una persona è malata,
si intendono di solito due cose ben distinte: primo, che la persona, il suo
medico o ambedue credono che essa soffra di qualche anormalità o disfunzione
del corpo; secondo, che la persona interessata vuole, o almeno è disposta
ad accettare, l'assistenza medica nella sua sofferenza. Il termine malattia
si riferisce quindi, in primo luogo, ad una condizione biologica anormale, la
cui esistenza può essere affermata, a torto o a ragione, dal paziente,
dal medico o da altri, e, in secondo luogo, al ruolo sociale del paziente, che
può essere assunto o assegnato.
Il significato letterale della «malattia» è pertanto una
condizione biologica anormale, per esempio, un infarto miocardico. Quando delle
semplici lamentele - per esempio le lamentele di una persona riguardo al proprio
corpo, o ai corpi o ai comportamenti di altri - vengono definiti malattie, siamo
di fronte all'uso e al significato metaforico della parola «malattia».
In breve, il rapporto tra malattia del corpo e malattia mentale è simile
a quello tra un televisore che non funziona e un brutto programma televisivo.
Naturalmente, la parola malato è spesso usata in senso metaforico. Un
comico può raccontare barzellette «malate», le economie si
«ammalano», certe volte il mondo intero può sembrare «ammalato».
Ma soltanto quando diciamo che una mente è «ammalata» cadiamo
sistematicamente nell'errore, confondiamo strategicamente la metafora con i
fatti, e chiamiamo il medico perché «curi» la «malattia».
E' come se uno spettatore della televisione chiamasse il tecnico delle riparazioni
perché non gli piace il programma trasmesso. (Szasz, "Mental Illness
as a Metaphor", in «Nature», n. 242, marzo 1973, p.p. 305-7).
Per abolire gli interventi psichiatrici non richiesti, dovremmo anche ammettere
che diagnosi, prognosi, ricoveri e trattamenti cosiddetti psichiatrici non richiesti
esplicitamente dai pazienti stessi, sono coercitivi. In altre parole, la psichiatria
obbligatoria è un esercizio di controllo sociale, come la criminologia,
non come la medicina. Infine, si dovrebbe concludere che gli interventi psichiatrici
non richiesti dal paziente, sono una violazione delle protezioni garantite dalla
Costituzione degli Stati Uniti (alla faccia dei principi fondamentali di umana
lealtà e di giustizia) e devono quindi essere aboliti.
Il fatto stesso di parlare di proteggere i «diritti civili dei malati
mentali» è già un insulto ai loro diritti civili. Parlare
dei «diritti civili degli schiavi» è legittimare implicitamente
la distinzione legale tra schiavi e uomini liberi, e quindi privare i primi
delle libertà e della dignità che i secondi hanno. Noi oggi sappiamo
che questo non ha senso, che essere schiavi significa non avere diritti civili,
o averne meno degli uomini liberi. Ma parliamo ancora dei «diritti civili
dei malati di mente», e nel farlo legittimiamo implicitamente la distinzione
tra malati pazzi e cittadini sani, privando i primi delle libertà e dignità
godute dai secondi.
Soltanto quando un popolo libero accetterà e pretenderà che i
diritti civili siano indipendenti dai criteri psichiatrici, così come
oggi sono indipendenti dai criteri religiosi e stanno diventando indipendenti
dai criteri razziali o sessuali, e soltanto quando i legislatori e i giuristi
toglieranno ai medici, e soprattutto agli psichiatri, il potere di esercitare
il controllo sociale per mezzo di sanzioni quasi-mediche, si saranno protetti
i diritti civili delle persone accusate di malattia mentale o comunque coinvolte
in interventi psichiatrici che non hanno richiesto.
Che cosa ne sarebbe della psichiatria se le diagnosi psichiatriche non richieste,
i ricoveri e le cure fossero aboliti? La psichiatria diventerebbe, in questo
caso, nei suoi principi, più simile alle altre specialità della
medicina, come la dermatologia o l'oculistica, che vengono praticate solo su
pazienti volontari. Più in generale, diventerebbe come tutte le altre
professioni, come la ragioneria o l'architettura, che offrono in vendita determinati
servizi e prodotti, a compratori informati, e in un mercato libero. In pratica,
la psichiatria dovrebbe identificare e definire - come non è mai stata
costretta a fare - i servizi che offre in vendita. E' chiaro che un tale cambiamento
segnerebbe la fine della psichiatria così come la conosciamo oggi. Se
riuscisse a sopravvivere al cambiamento, cosa che ci sembra dubbia, la psichiatria
si manifesterebbe come un sistema, o più sistemi, di etica secolare applicata.
E quindi coloro che la praticano si troverebbero a dover concorrere non con
clinici, ma con chierici.
[Traduzione di Giovanna Weber Sommermann].