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UNO SCENARIO PER IL SISTEMA CARCERARIO FUTURO
di Stanley Cohen.


Sociologi, giornalisti, politici e altri hanno scoperto con sgomento e imbarazzo che, se si vogliono fare delle previsioni sul possibile sviluppo futuro di una data istituzione della società, si va incontro a notevoli rischi. Le tendenze passate non sono necessariamente una guida precisa per valutare quelle future, e non è sempre possibile prevedere ciò che avverrà confrontando gli sviluppi verificatisi in società diverse, in momenti diversi. Pur essendo consapevole dei rischi che l'impresa comporta, vorrei tuttavia (come parte di un più esteso progetto di lavoro sul controllo sociale nelle società a livello industriale più avanzato) costruire uno scenario per alcuni sviluppi futuri del sistema carcerario britannico, sulla base di ciò che si è verificato, o si sta verificando, in sistemi penali più avanzati del mondo occidentale, in particolare in quello americano. Partendo da questo presupposto, spero che l'analisi sia garantita da ogni fuga fantascientifica in cui potrebbe diversamente scivolare.
Ogni scenario che presento si basa sull'assunto fondamentale che il nucleo del sistema carcerario - la reclusione a scopo punitivo dei delinquenti in edifici separati dal resto della società - non può essere cambiato. La prigione è esattamente questo - o si elimina completamente l'istituzione, oppure la si mantiene, con tutte le contraddizioni e i paradossi che emergono quando si tenta di riformarla. Non metto qui in discussione l'opportunità di queste riforme (eccetto che non vengano impropriamente presentate sotto l'alibi della riabilitazione), né dubito della sincerità di chi le auspica; ciò che intendo affermare è che dal momento che le riforme sono tese, secondo la definizione esatta, a «migliorare un'istituzione eliminando o abbandonando le imperfezioni, i difetti o gli errori», esse non portano a una vera ri-formazione dell'istituzione stessa. La forma del sistema carcerario - nel senso in cui io uso questo termine - è simile a una forma d'arte come il cinema: si possono eliminare le imperfezioni (usando ad esempio attrezzature più complesse), si possono apportare innovazioni tecniche (il colore o la tridimensionalità), è possibile anche compiere certe esperienze estetiche radicali (come il surrealismo o il cinema-verità), ma la forma rimane intatta.

- Rumori tra le quinte.

Nella sua inchiesta internazionale sulla politica carceraria, condotta dieci anni fa (1), John Conrad illustra con la seguente parabola il modo in cui il sistema correzionale cambia:

«Per circa settant'anni, la vita nella prigione di San Quentin in California fu dominata da una fabbrica di juta. Enorme, sporca, rumorosa e pericolosa, la fabbrica forniva a migliaia di carcerati un'occupazione considerata faticosa. Col passare dei primi decenni del ventesimo secolo, lo stabilimento 'progredì': da antiquato divenne totalmente improduttivo. La ditta scozzese che produceva i pezzi di ricambio smise di fabbricarli. La fabbrica, che era sempre stata unica nel suo genere in California, dovette diventare autosufficiente per poter sopravvivere. Si cominciò allora a produrre i ricambi nella prigione, in una fonderia appositamente creata. I carcerati venivano addestrati all'uso e alla manutenzione di telai di un tipo che ormai non si trovava più in tutto l'emisfero occidentale. Col passare degli anni, i sacchi di juta prodotti dalla fabbrica risultavano più cari, sul mercato al dettaglio, di quelli importati dall'India, nonostante i salari bassissimi che ricevevano i carcerati. Il fatto che la fabbrica fosse non solo antiquata, ma anche economicamente improduttiva non aveva importanza: forniva un'occupazione ai carcerati, anche se ne aumentava il risentimento. La sua capacità di creare occupazioni secondarie era considerata un vantaggio.
Nel 1951 la fabbrica fu distrutta dal fuoco, nonostante le notevoli precauzioni antincendio che venivano prese. Le cause di questo incendio non saranno mai accertate con sicurezza. In seguito, fu sostituita da una moderna fabbrica di cotone».

La sua osservazione di carattere generale è che «l'inerzia, la legge e la connaturata resistenza burocratica ai cambiamenti preservano non solo le strutture materiali, ma anche le idee, l'organizzazione e le prospettive del sistema». Quando i cambiamenti si verificano, essi vengono imposti al sistema da avvenimenti drammatici all'interno o da sviluppi esterni, particolarmente di natura politica, e dalle loro ramificazioni all'interno delle prigioni. Può essere utile definire la prigione come un'istituzione totale, ma facendolo ci si limita a vedere ciò che accade in palcoscenico, mentre da fuori, da dietro le quinte, dal mondo del crimine, della storia, della politica, provengono i rumori che influiscono su ciò che accade sulla scena.
Si consideri la semplice questione dell'informazione. Le persone che sono dentro nel sistema sanno benissimo quello che accade intorno a loro, ma la somma di tutti questi fatti conosciuti si esprime praticamente solo in forma di denunce drammatiche. E' stata l'incarcerazione degli obiettori di coscienza durante la prima guerra mondiale a rivelare l'assoluto squallore della normale prigione inglese, e fu principalmente la crescente presa di coscienza politica di alcuni carcerati militanti verso la fine degli anni sessanta a portare alla ribalta le prigioni in America. Scritti come quelli di George Jackson e avvenimenti come quello di Attica fecero conoscere l'ambiente carcerario in un modo che solo dieci anni prima sarebbe stato impensabile. Il numero dei prigionieri dichiaratamente politici aumentò; i cosiddetti prigionieri «non politici» si formarono una coscienza politica mentre scontavano la propria condanna, e la sinistra rivoluzionaria, che fino ad allora si era completamente disinteressata dell'ambiente carcerario, cooptò il movimento delle prigioni, incorporandolo alla propria lotta, e la coopzione portò ad eccessi talmente romantici che si arrivò a considerare i carcerati come l'avanguardia della rivoluzione. Anche nell'Europa occidentale si ebbero fatti simili, specialmente in Francia e in Italia dopo il maggio 1968. La reazione dell'apparato di controllo - lo sviluppo di mezzi di pacificazione più sofisticati - era, e continua ad essere, prevedibile.
Anche in Gran Bretagna, in seguito alla pubblicazione del rapporto Mountbatten, si ebbero dei cambiamenti, meno significativi dal punto di vista ideologico: dopo decenni di riforme «progressiste», le condizioni del carcerato medio nelle prigioni chiuse non solo smisero di migliorare, ma improvvisamente peggiorarono. Ciò non era dovuto a una modificazione cosciente della politica interna, né a un totale e ingiustificato irrigidimento dei funzionari delle carceri, ma a nuovi rumori tra le quinte, alcuni cumulativi, altri drammatici. In particolare, l'aumento della criminalità organizzata fece affluire nel sistema soggetti che dovevano essere tenuti in condizioni di massima sicurezza per lunghi periodi, problema questo semplicemente inesistente fino alla metà degli anni sessanta. L'abolizione della pena di morte, unita al tentativo in atto già da tempo di non incarcerare individui che dovessero scontare pene molto brevi, modificò la composizione della popolazione delle prigioni, che comprendeva un numero sempre maggiore di condannati a lunghi periodi di detenzione. Fu solo dopo l'evasione dei componenti della banda della «rapina del treno», e, ancor più, quella della «superspia» George Blake, che la pressione sull'amministrazione carceraria si fece sentire pressantemente. Dalla pubblicazione del rapporto Mountbatten, che ne fu la conseguenza, anche se non solo e non del tutto per questo, «il pendolo si è spostato verso un nuovo tipo di reclusione, dominato dal principio della sicurezza» (2). Le attività e le rivendicazioni dei militanti (sia fuori che dentro le prigioni), l'aumento della criminalità professionale e organizzata e di alcune specie violente di delitto, il criterio seguito dai tribunali nell'emissione delle sentenze e le continue pressioni esercitate dal pubblico e dai mass-media perché si rendessero più rigide le prigioni (per esempio quando un rilasciato in libertà vigilata che si pensa sia stato scarcerato prematuramente commette un reato), sono alcuni dei molti rumori che peseranno su ciò che avviene sul palcoscenico della prigione.
La mia prima previsione è quindi che se e quando ci saranno cambiamenti nel sistema carcerario, essi non saranno la conseguenza di un nuovo modo di pensare e di politiche innovatrici, bensì di un cumulo di mutamenti esterni di altra natura, quali l'immissione nel sistema di un nuovo tipo di delinquenti, le attività di gruppi di pressione politici, e anche di avvenimenti drammatici - rivolte o evasioni - seguiti da una pubblica denuncia, seguita a sua volta da un'inchiesta. La prigione è l'ultima depositaria di cambiamenti che avvengono altrove, e non soltanto nel senso più ovvio. Solo in epoca recente si è cominciato a collocare lo sviluppo della prigione nel suo giusto contesto storico (3): l'apparizione, nella prima metà del diciannovesimo secolo, di un nuovo tipo di struttura sociale - il manicomio, la prigione, la casa di lavoro, l'asilo dei poveri, l'orfanotrofio - come posti nei quali si può prendersi cura, o sbarazzarsi in modo ordinato, di gruppi devianti (una prassi che sarà poi legittimata dalla comune ideologia dell'assistenza sociale e della riabilitazione). Il punto che qui ci interessa non è tanto che queste istituzioni possono - come suggeriscono Goffman e altri - avere caratteristiche interne comuni, quanto che le loro radici vanno ricercate in comuni valori e sviluppi sociali esterni. Secondo Rothman, in America l'istituto emerse nel periodo jacksoniano come risposta alla devianza e alla dipendenza, per promuovere la stabilità sociale in un momento in cui le idee e i metodi tradizionali sembravano sorpassati: «L'istituto di ricovero bene organizzato dovrebbe esemplificare i giusti principi dell'organizzazione sociale, per assicurare la protezione del pubblico e promuovere la sua gloria». In Gran Bretagna, la fine delle deportazioni era direttamente legata, se non ne fu addirittura la causa diretta, all'invenzione della prigione come luogo di punizione, come una specie di colonia interna. Per Foucault, che prende in esame un quadro storico molto più ampio, le Grandi Incarcerazioni del diciannovesimo secolo - i matti in manicomio, i ladri in prigione, i soldati nelle caserme, gli operai nelle fabbriche, i bambini nelle scuole - facevano parte di un vasto disegno intimamente legato alla Rivoluzione Industriale e allo spirito del capitalismo. La proprietà doveva essere protetta, la produzione standardizzata secondo i regolamenti, i giovani segregati in istituzioni appositamente costruite, nelle quali si inculcava loro l'ideologia dell'economia e del successo. Che si accetti o no la tesi del vasto disegno - ed essa contiene numerose imperfezioni storiche: ad esempio, esistevano le prigioni già in altre società preindustriali - non possiamo non vedere la prigione di oggi come un piccolo, e non necessariamente definitivo punto terminale di un processo di mutamento sociale molto più esteso.

- Scena prima: un deposito.

Anche se la popolazione delle prigioni in Inghilterra e nel Galles è aumentata in modo regolare fino a raggiungere il livello attuale di 40 mila persone, ci sono oggi indicazioni che fanno pensare che il "tasso" di incremento tende a diminuire. La popolazione media delle carceri nel 1971 era di 39708 persone, con un aumento del 1,7 per cento rispetto al 1970, aumento comunque limitato se lo si confronta con quello dell'anno precedente, in cui si era verificato un salto del 12,6 per cento. La media del 1972 è stata inferiore a quella dei due anni precedenti. Questa tendenza è già evidente in certi stati americani, ad esempio la California, e anche in diversi stati europei la popolazione delle prigioni sta effettivamente diminuendo. Negli Stati Uniti, il numero degli internati nelle prigioni federali o statali è sceso da un massimo di 220 mila nel 1961 a 195 mila nel 1967, nonostante l'aumento della popolazione e del tasso globale di criminalità. Nel caso degli ospedali psichiatrici (per motivi ben noti, quali l'impiego della chemioterapia, i laboratori protetti, le case di ricovero aperte, e altri progetti di terapia comunitaria) la popolazione diminuì da un massimo di 560 mila nel 1950 a circa 400 mila nel 1970. I motivi che, in Gran Bretagna, sono alla base di questi cambiamenti sono complessi, ma due in particolare si rivelano specificamente importanti ai fini di questo scenario, e nel contempo provano che è possibile far accettare la riforma penale al sistema ufficiale:
1. Durante gli ultimi trent'anni, gran parte degli sforzi dei riformatori del sistema carcerario e - in modo meno esplicitamente impegnato - dei governi che si sono susseguiti, sono stati diretti a diminuire il numero dei condannati che scontano pene brevi. Il fatto che la presenza di questi prigionieri e i conseguenti problemi di sovraffollamento sono gli ostacoli principali che si frappongono all'applicazione di un sistema progressista è da tempo un dogma accettato dalla politica ufficiale. Pertanto, i progetti attuali per espandere la capienza delle prigioni (111,5 milioni preventivati per un quinquennio che avrà fine nel 1975-76) vengono giustificati con la necessità di predisporre nuovi posti per eliminare il sovraffollamento delle celle che sono occupate da due o più persone. Ciò vuol dire che i posti occorreranno anche se la popolazione delle carceri rimarrà stazionaria.
Si suppone che questo programma di espansione sia collegato allo sviluppo di nuovi tipi di punizione non basati sulla reclusione, alla creazione di speciali istituti per derelitti e alcolizzati, che altrimenti andrebbero a finire in prigione e all'applicazione di riforme al sistema di emissione delle sentenze, quali l'introduzione della condizionale: tutte queste riforme sono dirette a diminuire il numero dei carcerati che scontano pene di breve durata. Al momento attuale, gli individui condannati a più di cinque anni rappresentano meno del 3 per cento di tutti quelli che vengono incarcerati in un anno. La grande maggioranza dei 150 mila individui che passano ogni anno per le prigioni non va oltre la porta girevole delle carceri locali. Questo gruppo è da sempre considerato una «crisi nel sistema», e sarebbe inutile elencare in questa sede le argomentazioni che provano il totale fallimento dell'incarcerazione come metodo per risolvere il problema creato da questi trasgressori. Fanno bene i riformatori delle prigioni a concentrarsi sulla riduzione del numero di carcerati condannati a pene brevi, ma dovrebbero tuttavia rendersi conto che l'idea sta comunque lentamente penetrando.
2. Un'altra tendenza, complementare alla prima, è rappresentata dal movimento che auspica l'abbandono totale della pratica dell'incarcerazione per intere categorie di trasgressori. Nel caso dei cosiddetti crimini senza vittima, per esempio droga, aborto, omosessualità, si auspica, e autorevolmente, da più parti, non solo l'abolizione della pena detentiva prevista, ma addirittura la decriminalizzazione dell'infrazione stessa, che dovrebbe essere affrontata secondo un modello di assistenza sociale e riabilitazione. Non si tratta di opinioni espresse esclusivamente dai «liberali» e dai riformatori del sistema penale. Secondo i risultati di una recente valutazione fatta dall'American Correctional Association, la reclusione in una normale prigione di sicurezza sarebbe necessaria soltanto per il 15-20 per cento dei carcerati. Queste valutazioni, unite al progressivo sviluppo di reti di appoggio e di sostegno nella comunità, vanno considerate come parte di una crescente reazione contro il trionfo dell'istituto che ho descritto: i movimenti che vogliono togliere dalle istituzioni i malati di mente, gli orfani, i minorati fisici, i subnormali e gli anziani per reinserirli nella comunità, anche quando non hanno pieno successo, non sono soltanto voci isolate di alcuni riformatori eccentrici. Non c'è ragione di supporre - pur tenendo in dovuta considerazione le limitazioni imposte dalla richiesta di punizione e protezione - che le prigioni rimarranno completamente estranee a queste tendenze. Le limitazioni sono naturalmente ardue da superare: per alcuni, le porte non si apriranno mai.
E quale sarà il destino di questo gruppo che rimane? La tendenza attuale, in Gran Bretagna, è di incarcerare sempre più persone per periodi lunghi, ed ho già accennato ad alcuni degli sviluppi «esterni» che hanno portato a questa situazione: 1) l'abolizione della pena di morte, e la conseguente condanna all'ergastolo di molti criminali che prima del 1957 sarebbero certamente stati impiccati (i condannati all'ergastolo per omicidio sono oggi 850, in confronto ai 120 del 1957). Le condanne a vita prevedono oggi periodi di detenzione superiori a quelli medi di una volta, e si raccomandano inoltre periodi minimi fino a trent'anni. 2) L'aumento della criminalità organizzata e professionale e i drammatici (anche se molto rari in confronto agli standard di altri paesi) casi di uccisioni di poliziotti, e 3) l'ansia paranoica di sicurezza dopo la serie di sensazionali evasioni che ebbero luogo verso la metà degli anni sessanta.
Tutto questo significa che stiamo entrando in una nuova era della politica penale, nella quale il «problema» non sarà più rappresentato dai condannati a pene brevi, i patetici personaggi che entrano ed escono dalle nostre sovraffollate prigioni locali, bensì dalla presenza di un numero sempre maggiore di condannati a lunghi periodi di detenzione, uomini «pericolosi», che pongono difficoltà completamente diverse di disciplina, controllo e sicurezza. E il paradosso consiste nel fatto che, proprio a causa del successo ottenuto dai «liberali», questo gruppo verrà definito in termini ancor più negativi e distruttivi. Saranno i «duri», la feccia, i recalcitranti, gli incorreggibili: quelli per cui non si può far niente, se non isolarli in prigioni speciali o in bracci di sicurezza. Come dichiarò il segretario della Prison Officers Association (associazione dei funzionari addetti alle carceri) nel 1972, reclamando punizioni più severe per i condannati a pene lunghe che partecipavano alle dimostrazioni: «la prigione non è soltanto un cambiamento d'indirizzo». E' vero, e per questo tipo di delinquenti le prigioni sono destinate a diventare "depositi per esseri umani": posti in cui la gente viene tenuta fino a quando la società non deciderà che cosa farne.
Siamo ancora in un periodo di transizione: nell'immediato futuro le prigioni verranno ancora utilizzate come ultima forma di punizione e come deterrente per la vastissima gamma di delinquenti esistente. Non solo, alcuni provvedimenti - ad esempio, l'abolizione dell'obbligatorietà di sospendere determinate sentenze - potrebbero, nel breve periodo, portare addirittura ad un "aumento" numerico dei carcerati. Le pene brevi continueranno ad essere scontate fino a quando i metodi alternativi che non prevedono la reclusione rimarranno allo stadio sperimentale o non riusciranno a soddisfare il bisogno di scoraggiare la criminalità e di punire, implicito nel sistema giudiziario. non vuol dire che il trattamento indegno e le privazioni che sono parte della vita quotidiana dei carcerati, accenneranno a diminuire. Un'evoluzione caratteristica - parallelamente a ciò che accadrà negli ospedali psichiatrici - sarà la prigione-industria, nella quale l'individuo viene sfruttato come manodopera a buon mercato.
Ma in questo periodo di transizione esisteranno ancora i depositi accanto agli istituti modello, e li vedremo imporsi sempre più all'attenzione pubblica, come accadde in Europa e negli Stati Uniti verso la fine degli anni sessanta, attraverso agitazioni, rivolte, tentativi di evasione. Io credo che, a lungo andare, ciò che veramente succede in quei depositi sia la prova generale per il gran finale. Data la generale tendenza storica diretta contro l'istituzionalizzazione, le prigioni non potranno più operare una selezione. Accoglieranno soltanto quelli che sono al di là delle possibilità di recupero, i casi limite che devono essere rimossi dalla società.

- Una scatola cinese sulla scena.

Man mano che lo scenario del «deposito» prende lentamente forma, emergeranno nuovi imperativi all'interno del sistema carcerario. Una delle principali esigenze sarà quella di fare un'ulteriore classificazione e segregazione dei carcerati. E' da tempo che i riformatori delle prigioni sventolano la bacchetta magica della classificazione; si crede che correzione e riabilitazione siano possibili soltanto dopo un'accurata divisione della popolazione delle carceri in categorie: quelli che potrebbero trarre beneficio da un dato metodo, quelli che ne impedirebbero l'applicazione, e quelli che comporterebbero «grossi rischi». I condannati a pene lunghe, ad esempio, quelli che rappresentano un rischio dal punto di vista della sicurezza, i violenti, quelli che hanno ripetutamente tentato di evadere e quelli che soffrono di disturbi psicologici formano tanti gruppi considerati possibili fonti di contaminazione. Se fosse possibile isolarli in istituzioni separate, si permetterebbe al sistema di funzionare nel modo desiderato. Esiste una quasi totale unanimità di opinioni tra riformatori delle prigioni, responsabili delle decisioni di politica interna, e personale delle carceri a tutti i livelli sul fatto che la segregazione è la chiave del «successo» di un sistema. Lo stesso impulso a classificare è rilevabile in altre istituzioni - si noti, per esempio, l'elaborata gerarchia di reparti «di accoglimento», «cronici», «acuti» eccetera negli ospedali psichiatrici.
Ovviamente, quasi tutti i sistemi carcerari contengono già una certa classificazione: i condannati a lunghi periodi di detenzione, o per delitti sessuali, gli omicidi, quelli che scontano la prima condanna, sono tutti segregati, in istituzioni diverse o all'interno di una stessa istituzione. Nell'ultimo decennio, le argomentazioni a favore della segregazione si sono rafforzate, in nome della necessità di inasprire il controllo e la disciplina. Ogni volta che ci sono disordini, agitazioni, un tentativo d'evasione, si dice che a provocare i guai è sempre lo stesso ristretto gruppo di provocatori: se solo fosse possibile identificarli e segregarli, gli altri carcerati e il personale potrebbero continuare tranquillamente la loro solita vita. La reazione caratteristica della società di fronte alla devianza consiste nel considerarla propria di un gruppo ristretto di persone con una particolare predisposizione, che bisogna in qualche modo identificare e segregare. Da qui il prestigio e l'importanza attribuiti alla ricerca tesa a sviluppare nuove tecnologie per la localizzazione dei devianti «potenziali» o «predisposti», prima che abbiano veramente infranto qualche regola.
Nell'ambiente della prigione, l'unica questione ancora non risolta è il modo in cui la segregazione deve essere attuata. Il conflitto è tra le cosiddette politiche di dispersione e di concentrazione. Il rapporto Mountbatten proponeva la segregazione in un'unica enorme prigione di sicurezza, e questo sistema fu appoggiato da quasi tutti i funzionari carcerari. Il governo, tuttavia, sembrò essere più impressionato dalle argomentazioni - presentate principalmente nel successivo rapporto della commissione Radzinowicz - che sconsigliavano la creazione di una Alcatraz o un'Isola del Diavolo, e decise invece di smistare, in un secondo tempo, i carcerati pericolosi, internandoli in diverse prigioni speciali (4). Spesso, tuttavia, il concetto di dispersione è mal compreso; infatti, la segregazione per concentrazione è una caratteristica già presente, e in notevoli proporzioni, nel sistema. Questa presenza si manifesta in almeno tre modi diversi: in primo luogo, attraverso la divisione formale in categorie dei carcerati, secondo la pericolosità e il rischio che comportano per la sicurezza, e, in particolare, l'esistenza della Categoria A, che è soggetta a particolari restrizioni e privazioni; in secondo luogo, attraverso la creazione di istituzioni di concentrazione separate: i quattro bracci di sicurezza originali (due dei quali esistono ancora) e le sei prigioni di «dispersione» speciali, e, in terzo luogo, c'è la segregazione "nell"'istituzione: bracci di punizione, celle d'isolamento, eccetera. (Dopo i disordini del 1972 ad Albany, una prigione speciale di «dispersione», trenta carcerati vennero segregati in un braccio speciale. Nella vicina Parkhurst si creò un braccio speciale dopo la rivolta del 1969, per rinchiudervi «giovani aggressivi condannati a lunghi periodi di detenzione» e «individui che soffrono di disturbi mentali ma non vengono mandati in ospedale»).
Se si esamina più attentamente la natura dell'incarcerazione, ci si rende conto che queste disposizioni non sono affatto casuali: esse rivelano l'essenza del sistema carcerario. Perché, indipendentemente dagli obiettivi finali dell'incarcerazione così come vengono discussi nelle conferenze, negli articoli di fondo dei giornali, in Parlamento e in seno al potere giudiziario, il compito quotidiano dei dirigenti del sistema consiste nel mantenere la sicurezza prevenendo evasioni e disordini. Data l'incompatibilità delle esigenze sociali di cui la società stessa ha loro affidato la cura, i funzionari vivono nel terrore che possa esserci una agitazione. Un funzionario del ministero degli interni ha dichiarato: «Se arrivo alla fine della giornata, senza che il telefono suoni, è stata una buona giornata». Dal punto di vista della gestione, il suo era un problema reale: come si fa a mantenere la tranquillità, considerando la presenza di tante forze che tendono al disordine e disponendo di mezzi tanto limitati per assicurare il buon comportamento delle persone che ci sono affidate?
La risposta è data dalla gestione attraverso la segregazione. Nel suo studio su quelle che egli definisce le «strategie del controllo», sviluppatesi nel sistema carcerario californiano negli ultimi quindici anni, Sheldon Messinger sostiene che questa soluzione corrisponde, in realtà, alla "logica" del controllo (5). I provocatori potenziali o reali (cioè i «rischi per la sicurezza»), vengono concentrati o segregati in uno stesso posto per salvaguardare le particolari caratteristiche di quei sistemi nei quali non vengono ammessi (o dai quali vengono espulsi), nella speranza di riuscire a trovare una soluzione collettiva al problema che essi rappresentano. In California, questo obiettivo è stato raggiunto sia concentrando in una stessa prigione i carcerati che rappresentavano i rischi maggiori, sia creando unità diverse all'interno delle prigioni stesse: centri di adattamento, divisioni di segregazione, bracci d'isolamento. Questa strategia della segregazione porta all'elaborazione di diversi livelli di privazione, controllo e restrizione: ci sono certe sezioni che presentano determinati vantaggi rispetto ad altre, celle d'isolamento per segregazione temporanea, centri di adattamento che implicano una segregazione di tipo più stabile, e addirittura «sezioni di segregazione indeterminata». L'autore descrive in quale modo un centro di adattamento nel quale si segregavano i reclusi che si temeva potessero agire come forze disgreganti (secondo un sistema simile alla divisione per categorie proposta da Mountbatten e alla istituzione dei bracci di sicurezza) finì per generare una propria unità di segregazione interna, per neutralizzare i casi che non riusciva a risolvere. L'effetto che ne risultò, simile a una «complicata serie di scatole cinesi ad incastro», nella quale «i carcerati che si trovavano nella scatola più interna dovevano idealmente passare attraverso ognuna delle scatole immediatamente successive per raggiungere una relativa libertà», è molto simile al modello secondo il quale si sta sviluppando il sistema carcerario britannico. Come osserva Messinger, la «logica» della strategia della segregazione è abbastanza semplice: «identificate i provocatori potenziali il più presto possibile, tentate di domarli, e se non ci riuscite, segregateli». Che si riesca o no, con questo metodo, a minimizzare i disordini, è chiaro che «la strategia della segregazione porta a ulteriori misure di segregazione». Data l'assoluta necessità organizzativa di esercitare un controllo sui reclusi, i funzionari fanno notare, e possiamo credere alle loro affermazioni, che le altre strategie sono inefficaci: l'uso della forza è possibile solo in certi casi (disordini, agitazioni), e in ogni caso non è con la forza che si può convincere i carcerati a voler fare determinate cose: le possibilità di creare delle motivazioni attraverso punizioni e ricompense sono limitate, e non si può neppure selezionare liberamente chi ammettere o non ammettere in un'istituzione. Date le restrizioni imposte all'uso legittimo della forza, il problema del controllo - problema dominante nelle attività quotidiane dei funzionari carcerari a tutti i livelli - può essere risolto unicamente motivando i carcerati a fare ciò che vuole la direzione, oppure neutralizzando i recalcitranti. La segregazione è la soluzione sviluppata dal sistema correzionale californiano, e non c'è ragione di supporre che nei prossimi decenni altri funzionari riusciranno a trovarne uno molto diverso. Un fattore importante, che faciliterà queste nuove forme di controllo sociale, è il potere sempre maggiore del personale carcerario ai livelli più bassi. Questo potere è in grado di svilire qualsiasi liberalizzazione dettata dai livelli gerarchici più elevati e - unito in una strana alleanza con il personale psichiatrico - è riuscito a creare forme coercitive di modificazione del comportamento, utilizzando per esempio programmi di condizionamento operativi. I reclusi sono sottoposti a privazioni di infimo grado, e poi ricompensati per la loro buona condotta con passaggi successivi in ambienti meno restrittivi. Il sindacato inglese del personale carcerario auspica da tempo l'instaurazione di un «sistema graduale di trattamento dei carcerati, secondo il quale coloro che con maggiore probabilità provocherebbero dei problemi, i tipi violenti, ad esempio, verrebbero segregati dagli altri, e rinchiusi nel braccio più sicuro della prigione». Il sindacato sottolinea il fatto che la decisione relativa allo spostamento di questi elementi pericolosi dovrebbe dipendere in grande misura dal parere espresso dal personale di custodia. Gli individui in questione dovrebbero rimanere nelle sezioni di segregazione «fino a quando non saremo convinti che sono disposti a collaborare». Questa politica è inoltre giustificata - anche dal personale carcerario di livello inferiore - facendo riferimento alla necessità di liberare il sistema da quelle forze che potrebbero impedire una «costruttiva riabilitazione».
Questa serie di scatole cinesi si svilupperà dunque lentamente, partendo da una combinazione di esigenze interne al sistema e pressioni esterne. Il carcerato che si trova nella scatola più interna - il braccio di segregazione, la cella d'isolamento - può aspettarsi non la liberazione, ma soltanto il trasferimento alla scatola successiva, semprecché riesca a convincere il personale di essere «disposto a collaborare». Come espresso nel rapporto Radzinowicz: «non si dovrebbe permettere alle autorità delle carceri di giustificare con delle scuse l'uso intelligente del braccio di segregazione».
Un esempio esplicito dell'uso «intelligente» della segregazione ai fini del controllo e della cura si ha nella descrizione del Braccio C di Pankhurst, fornita da due dei suoi direttori (6). Questo braccio era un'unità autonoma creata dopo i disordini dell'ottobre 1969 per risolvere i problemi posti dal nuovo tipo di detenuto, sofferente di certi disturbi e tendenzialmente disgregante per il sistema. Dei cinque obiettivi principali di questa unità speciale che vengono elencati, quattro si riferiscono esplicitamente alla necessità di sottoporre i carcerati a terapie adeguate. Il quinto consiste nell'occuparsi «di un gruppo potenzialmente disgregante, e sollevare così altri settori della prigione da alcuni gravosi compiti di controllo». I criteri che governano l'ammissione al braccio speciale, pertanto, includono la ripetizione di certi comportamenti, come ad esempio, atti di violenza contro il personale di custodia o altri carcerati, tentativo di suicidio, esaurimento nervoso, scioperi della fame regolari, ripetute richieste di cure mediche, atti contrari alla disciplina risultanti in denunce formali e danni alla proprietà dell'istituzione. Ed è già stata creata un'ulteriore scatola: anche nel braccio stesso «... le esigenze della comunità sono tali da rendere necessaria la segregazione di certi individui per brevi periodi... La segregazione come strumento di gestione è accettata, e la sua validità terapeutica, se correttamente utilizzata, riconosciuta».
Negli scenari del «deposito» e della scatola cinese gli agenti di custodia e i loro immediati superiori sono costretti a recitare in un dramma che non è stato scritto interamente da loro. I loro sforzi sembrano tanto obbligati e stilizzati, e a volte disperati e dannosi, anche perché c'è poco spazio per l'improvvisazione.

- Entra il medico.

La diffusione della retorica riformistica liberale si è sovrapposta, in questo secolo, alla diffusione dell'ideologia psichiatrica. L'una ha sostenuto l'altra. Nelle prigioni, e in altre istituzioni di controllo sociale, questa convergenza ha raggiunto la sua apoteosi nell'ideologia della riabilitazione. Non è più necessario giustificare queste istituzioni soltanto in termini di vendetta e punizione, ma si può presentarle come strumenti per un cambiamento positivo: la prigione diventa un istituto di «correzione». Per diffondere e amministrare la nuova ideologia abbiamo a disposizione le schiere sempre più fitte di psichiatri e dei loro collaboratori di gruppi professionali meno prestigiosi, come psicologi clinici, e consiglieri di gruppo. Questi gruppi si sono uniti ai più vecchi guardiani nella lotta per il potere nell'infrastruttura del mondo delle carceri. E la vittoria sembra andare sempre più chiaramente agli scienziati e ai tecnici, non perché il loro paradigma del crimine sia di per sé superiore, ma semplicemente perché dimostrano di essere dei guardiani più efficienti.
I riformatori delle prigioni si sono lasciati incantare troppo facilmente dalla retorica della terapia (invece di trattarla con cautela e accettare le sgradevoli conseguenze del vedere la prigione com'è in realtà), e sono stati indotti da certe idee, quali la comunità terapeutica, a pensare che gli stessi sacrifici possono propiziare sia gli dei della punizione che quelli della terapia. Lo scenario che certamente si formerà nei prossimi decenni sarà rappresentato dalla rapida entrata nel sistema penale di personale e metodi psichiatrici. Ci sono già «ospedali speciali», variazioni sul tema della terapia di gruppo, l'impiego dell'elettroshock e terapie a base di farmaci, e varie forme di terapia comportamentale che utilizzano modelli di condizionamento positivo e condizionamento negativo o terapia dell'avversione (eufemismo per punizione), che consiste appunto nella somministrazione di medicinali o l'applicazione dell'elettroshock.
La scuola antipsichiatrica e altri gruppi hanno messo in chiaro che, per quanto riguarda la psichiatria in generale, ciò che si teme non è l'intervento di una data professione, intervento mirante veramente ad aiutare e guarire, bensì la possibilità di abusi, che potrebbero consistere nello sviluppo di nuovi metodi di controllo sociale sotto la forma di cure benevole. I timori più gravi sono già stati confermati dall'impiego scoperto della manipolazione psichiatrica per sopraffare i dissenzienti politici (in recenti e ben documentati casi in Russia, per esempio), e quando gli psichiatri entrano a far parte del sistema carcerario, si tratta evidentemente di timori fondati e reali. L'organizzazione, per la sua stessa natura, si presta a questi abusi (e anche ad altri, quali l'uso dei carcerati come «volontari» in esperimenti medici e psicologici), mentre, in base a considerazioni finanziarie, o perché considerati non adatti, i carcerati che veramente chiedono aiuto sono quelli che hanno "meno" possibilità di riceverlo.
Al momento attuale, le funzioni reali della psichiatria nelle prigioni - sia nel nostro sistema penale che in altri più avanzati - sono a dir poco oscure. La sua funzione potrebbe essere meramente «tranquillizzante», e la terapia avere il compito di aiutare il carcerato ad adattarsi al sistema, oppure potrebbe essere consapevolmente manipolata dal carcerato come metodo di arrangiarsi all'interno dell'istituzione. Chi partecipa alle sedute terapeutiche lo fa perché ha la promessa di una contropartita da parte del medico - sotto forma di sigarette o di una chiacchierata piacevole, oppure, caso molto più importante, di una raccomandazione per la concessione della libertà vigilata e il rilascio anticipato per dimostrata «comprensione» del proprio problema. Queste funzioni stanno diventando sempre più accettabili nelle prigioni.
Vi sono tuttavia altri sviluppi, che non si limitano ad appoggiare il sistema o a fornire un alibi medico per tranquillizzare le coscienze dei teneri. Il progresso tecnologico nel campo del controllo del comportamento ha dato, a questa parte del mio scenario, un carattere sempre più fantascientifico. La terapia dell'avversione, per esempio con la somministrazione di farmaci come l'Anectina (che provoca dolore e paura attraverso sensazioni di morte o annegamento) è già largamente impiegata per modificare forme specifiche di comportamento indesiderabile, particolarmente nel campo dei reati sessuali, ma il suo uso si sta estendendo anche a forme più generali di modificazione del comportamento. Si sono fatti esperimenti usando tranquillanti potenti, come il Prolixin, che produce una specie di intontimento. Sia i sedativi forti sia le medicine che provocano alterazioni mentali vengono usati su vasta scala nelle prigioni, per controllare la violenza reale o potenziale. Ma non ci si ferma qui: in certe istituzioni, come la M.P.D.U. (Maximum Psychiatric Diagnostic Unit) in California, si caldeggia la possibilità di interventi chirurgici sul cervello per ridurre gli agitatori in condizioni che il California Department of Correction definisce di «sonno temporaneo».
Anche queste tecniche, tuttavia, appaiono innocue se le confrontiamo con la più recente scoperta tecnologica nel campo del controllo del comportamento: l'uso dell'elettronica per osservare e controllare i delinquenti. Non intendo qui trattare i complessi aspetti tecnici ed etici di queste metodologie, anche se, lungi dall'appartenere al mondo della fantascienza, esse vengono usate e sperimentate già da almeno dieci anni su carcerati e rilasciati in libertà vigilata. Il paragrafo che segue - tratto, si noti bene, non dagli scritti di qualche scienziato pazzo, ma da una sobria valutazione di due criminologi «liberali» - può dare un'idea di quello che si sta prendendo in considerazione (7):

«Nel prossimo futuro, la tecnologia dei computers ci fornirà un'alternativa al carcere. Lo sviluppo dei sistemi per la trasmissione telemetrica di informazioni in partenza da sensori impiantati nel corpo umano renderà possibile l'osservazione e il controllo del comportamento di un uomo senza bisogno di stabilire un contatto fisico. Con questi apparecchi telemetrici sarà possibile tenere il soggetto sotto sorveglianza continua e intervenire con mezzi fisici o elettronici per influenzarne e controllarne il comportamento che sarà stato precedentemente selezionato. Sarà dunque possibile controllare il comportamento umano a distanza e senza contatto fisico. Le possibili implicazioni di questi sistemi telemetrici nel campo della criminologia e della correzione sono di importanza straordinaria».

L'ultima affermazione deve essere un tentativo di minimizzare le cose. Anche senza analizzare tutte queste possibili implicazioni, è importante sottolineare un aspetto della discussione: se le argomentazioni che riformatori e sociologi portano contro le prigioni sono giuste, l'adozione di questi nuovi metodi è assolutamente plausibile. Le prigioni potrebbero alla fine essere addirittura abolite, perché anche i carcerati pericolosi, quelli che rappresentano un rischio o che non possono essere rilasciati in libertà vigilata verrebbero reinseriti nella comunità - dopo avergli fatto inghiottire o aver impiantato sul loro corpo il trasmettitore telemetrico - e la società continuerebbe ad essere protetta e difesa da loro. Inoltre - argomentazione di quelle che si ripetono sempre nella nostra società - finalmente lavorerebbero e pagherebbero le tasse, invece di costituire perdite economiche per la comunità. Ecco un parere favorevole a questa tecnologia riportato da Ingraham e Smith:

«Un individuo rilasciato in libertà vigilata avrebbe meno occasioni di infrangere la legge se fosse possibile controllare la sua posizione da una sede centrale. Se inoltre fosse possibile incorporare nel sistema un metodo per stabilire comunicazioni reciproche, si potrebbe instaurare un rapporto terapeutico in base al quale trasmettere all'individuo in questione ricompense, avvertimenti o altri segnali, a seconda della terapia programmata».

Al momento attuale queste tecniche si trovano ancora ad un livello rudimentale, in termini di "controllo" del comportamento come opposto al comportamento "guidato". Tuttavia, si avanza già l'ipotesi che i progressi dell'elettrofisiologia, anche se non permetteranno forse mai un «controllo totale del pensiero», ci permetteranno di modificare la memoria, certe sensazioni ed emozioni, e di guidare l'azione lungo direzioni prestabilite. Di fronte a questa prospettiva, Ingraham e Smith, pur essendo disposti ad ammettere tutti i problemi etici che essa comporta, citano Victor Hugo quando afferma che «niente è più potente di un'idea il cui momento è arrivato». «Lo stesso - essi concludono - si può dire di una tecnologia il cui momento si sta avvicinando», e continuano:

«I paesi in cui la vita sociale progredisce di pari passo con l'avanzare della tecnologia riusciranno a sopravvivere nel mondo di domani; quelli che guardano al passato e rimangono ancorati a valori superati da tempo cadranno nello stesso stato di decadenza in cui si trovò la Cina nel diciannovesimo secolo e all'inizio di quello attuale a causa dell'esasperato culto del passato. Le nazioni che riusciranno a controllare il comportamento in modo da controllare la criminalità saranno immensamente avvantaggiate rispetto a quelle che non ne saranno capaci. Ci piaccia o no, i cambiamenti tecnologici richiedono cambiamenti anche nella vita politica e sociale, e un sistema di valori che si adatti a questi cambiamenti nel modo migliore».

In altre parole, quelli di noi che conserveranno «valori sorpassati da tempo» verranno spazzati via nel nome del progresso. E quando il Progresso riceverà la benedizione della Scienza e della Medicina, sarà difficile impedirne l'entrata nel sistema carcerario.
Non entrerò qui in un'analisi della portata di queste tecniche di sorveglianza e controllo al di fuori dell'ambiente circoscritto delle prigioni. Ma istituzioni come le prigioni e i manicomi sono soltanto l'embrione in cui si sviluppano nuove forme di controllo sociale, che verranno poi applicate non solo su coloro che hanno apertamente infranto le regole o minacciato la società, ma anche su chi è giudicato - in base all'autorità scientifica - potenzialmente pericoloso. L'efficacia dei metodi di applicazione della legge e di punizione continua a diminuire - persino i criminologi più ortodossi, come Leslie Wilkins, prevedono che se si continua a usare gli stessi metodi l'intero sistema della giustizia crollerà prima della fine del secolo (8) e questo porterà gradualmente all'impiego di specialisti in cibernetica e psichiatria. Lo sviluppo delle banche nazionali delle informazioni ed altre forme di sistemi di raccolta e di sorveglianza computerizzati e centralizzati è solo l'inizio. L'industria elettronica sposterà una parte dei suoi stanziamenti di bilancio per le ricerche in materia di difesa, verso quelli che vengono eufemisticamente definiti «studi di possibilità di applicazione nel settore pubblico», e con ciò si evolverà una nuova teoria dell'applicazione della legge, e la verifica da parte del pubblico in questo campo avrà un'importanza altrettanto limitata che nelle decisioni riguardanti gli armamenti. Nella sua autorevole e favorevole analisi delle tecniche coercitive di modificazione del comportamento, Schwitzgebel cita una relazione (sull'impianto di apparecchiature radiotrasmittenti sulle persone per inviare informazioni alla polizia) che fu presentata non a una conferenza criminologica, ma all'Istituto Enrico Fermi per gli studi nucleari... Il linguaggio spersonalizzato e privo di valori della tecnologia ricorre: Schwitzgebel e altri difensori della modificazione coercitiva del comportamento (che comprende l'impianto obbligatorio di strumenti nel cervello) osservano blandamente che «è possibile che gradualmente emerga un nuovo campo di studio, che potrebbe venire chiamato ingegneria del comportamento o strumentazione del comportamento» (9). Gli intellettuali pensano, altri fanno la parte disonesta del lavoro, e poi gli intellettuali lo trasformano in un «campo di studio».
I riformatori sociali che seguono la tradizione democratica «liberale» hanno pensato, ingenuamente, che l'innesto di una ideologia terapeutica nelle prigioni o addirittura la loro eliminazione totale avrebbero potuto risolvere completamente il problema, e che lo sviluppo di forme alternative di controllo poteva essere affidato con tranquillità ai tecnici dello stato.

- Il sipario non cala.

La tendenza al prolungamento della durata delle pene detentive è ormai ovvia. Le voci che chiedono sentenze a vita che siano proprio «a vita» sono diventate stridenti e rispettabili. Alla fine del 1972 il Parlamento inglese ha discusso una proposta che partendo dal presupposto che «la condanna a vita nella sua forma attuale si è rivelata quasi una farsa», vorrebbe che ai giudici venisse "richiesto" di fare ciò che in ogni modo fanno già, sia pure non formalmente: raccomandare la sentenza minima che ogni condannato a vita dovrebbe scontare. La proposta originale, che fissava in trent'anni il termine minimo, è stata accantonata, ma è chiaro che si suggerisce l'adozione di un periodo di simile lunghezza.
Nello scenario del «deposito» ho descritto le principali conseguenze di questa tendenza. Ma le condanne a medio e lungo termine potrebbero - con l'aiuto dell'ideologia della riabilitazione - svilupparsi lungo un'altra direzione, il che aggiungerebbe un elemento interamente nuovo alle prigioni. Alcuni riformatori sociali sostengono da tempo che emettere sentenze in base a una scala temporale "fissa" a seconda della gravità dell'offesa non ha senso se ciò che si deve stabilire è in che momento un carcerato dovrebbe essere rimesso in libertà. Al momento della sentenza, il tribunale non può sapere per quanto tempo un individuo dovrà rimanere in prigione per trarre i supposti benefici dall'esperienza vissuta; soltanto la direzione della prigione può sapere quando può essere rilasciato. Naturalmente, questi principi si sono già infiltrati nel sistema, almeno per quanto si riferisce al condono per buona condotta di una parte della pena e all'introduzione del sistema di libertà vigilata, il che è ancora più importante. L'estensione logica ed estrema di questo sistema non può peraltro essere attuata senza eliminare prima i limiti abbastanza rigidi imposti dal sistema giuridico all'applicazione delle norme relative alla buona condotta, alla concessione di licenze e ai sistemi di libertà vigilata, né senza arrivare a delle sentenze originali che siano almeno parzialmente indeterminate.
Attualmente, le condanne a vita hanno già questa configurazione, e - nel caso delle condanne per omicidio - il Comitato britannico per la revisione del diritto penale ha raccomandato, all'inizio del 1973, di non modificare la legge che impone al giudice di applicare la condanna all'ergastolo. Vi sono due ragioni alla base di questa raccomandazione: primo, la prospettiva di una possibile condanna a vita scoraggia i criminali, e, secondo, la legge attuale è notevolmente elastica: è possibile (ed è stato fatto) incarcerare un individuo per il resto della sua vita naturale. Resta da vedere se questa caratteristica di flessibilità verrà estesa anche ad altri delitti, per i quali attualmente si applicano condanne a tempo determinato di media o lunga durata.
Nel caso della sentenza indeterminata, l'autorità del tribunale è limitata all'invio del condannato in carcere per un periodo indefinito di tempo: dopo un certo lasso (anche solo un giorno) l'istituzione, o un'altra autorità, può rilasciarlo definitivamente o in libertà vigilata (con l'obbligo cioè di presentarsi al controllo). Considerate tutte le critiche che vengono rivolte al sistema con cui si emettono le sentenze oggi, e le attrattive dell'ideologia riabilitativa, questo metodo è visto con favore da molti riformatori. A dire il vero, sembra l'unico logico. Come dimostra Martin Miller nell'analizzare l'evoluzione del paradigma delle sentenze indeterminate in America (10), è da tempo che lo si propone come una specie di toccasana in materia penale. Miller cita un riformatore penale che scriveva nel 1847:

«Mi chiedete per quanto tempo dovrebbe essere condannato a questo isolamento? Ovviamente mi sembra, fino a quando la malvagità non sarà scomparsa dal suo animo, fino a quando sarà nuovamente capace di vivere in libertà: fino a quando, cioè, non si sarà riformato».

Considerandola nel contesto dei movimenti riformatori del diciannovesimo secolo, e dei loro corrispondenti attuali, è facile capire perché l'idea di tenere al fresco un individuo fino a quando il suo atteggiamento non dia qualche indicazione che non ripeterà l'atto delittuoso una volta rilasciato, risulti attraente: lo è, infatti, per quelli che vogliono che la società sia protetta da ulteriori degradazioni criminali, ma si adatta molto bene anche a tutti i modelli medici applicabili nell'area del crimine e della prigione. Come in un ospedale, l'internato può essere rilasciato soltanto quando è stato «curato» . E' ancora Miller a citare una delle prime (1905) dichiarazioni esplicite a questo riguardo:

«Condannare un ladro a cinque anni di carcere sarebbe tanto irrazionale quanto ricoverare un matto in manicomio per un periodo prestabilito di cinque anni o un malato di vaiolo in ospedale per esattamente tre settimane. Sia il pazzo, sia la persona affetta da una malattia contagiosa devono essere rinchiusi fino a quando sono guariti - fino a quando il loro rilascio non costituisce più un pericolo per il pubblico. E questo sistema è anche l'unico razionale per quanto riguarda i criminali».

Non intendo esaminare in questa sede tutti i vari aspetti del funzionamento del sistema di Sentenze Indeterminate (S.I.), che si applica nella maggior parte degli stati americani. Alcuni punti importanti emergono tuttavia dal modo in cui questo modello è stato applicato in California, stato in cui il sistema - dato l'ampio divario temporale tra condanne massime e minime e l'impiego di personale specializzato per effettuare le valutazioni - ha acquisito la reputazione di essere il più evoluto tra quelli ad orientamento terapeutico del sistema penale americano. Vi sono due critiche fondamentali da sollevare: 1) la sentenza a tempo indeterminato può diventare di fatto una sentenza "indefinita", per cui chi non si adegua alle regole stabilite dall'autorità che deve concedergli la liberazione viene semplicemente messo in una specie di «deposito»; 2) il principio della cura può diventare poco più di una facciata, dietro la quale gli amministratori della prigione dispongono di una nuova e potente forma di controllo sociale. L'incertezza del recluso, e l'impossibilità di elaborare una strategia temporale, possono servire per manipolare il suo atteggiamento, inducendolo all'obbedienza passiva e alla conformità con il sistema. Inoltre, i carcerati pericolosi o difficili possono essere trattenuti senza che vi sia la necessità di giustificare pubblicamente questa decisione. Come conclude Miller, la retorica del modello medico rende il sistema molto flessibile: si ha «... un eccellente strumento di gestione per controllare i mutamenti della popolazione, stabilizzare la crescita organizzativa, addolcire le riforme amministrative ed ideologiche, e soddisfare efficacemente le necessità delle industrie, dell'approvvigionamento e del personale della prigione».
A mio avviso, il sistema S.I. prenderà piede in Gran Bretagna e in Europa, ma sembra comunque probabile che si sviluppino forme diverse dello stesso principio, e questo, assieme all'attuale ovvia tendenza ad eliminare per quanto possibile i condannati a pene brevi, significa che per un numero sempre maggiore di carcerati il sipario non calerà: essi rimarranno per lungo tempo sulla scena.

- Le recensioni dei critici.

L'uso che io faccio della metafora teatrale non dovrebbe essere interpretato in modo troppo letterale, poiché esso non intende affermare che le critiche dall'esterno non possono in alcun modo influire sul corso degli avvenimenti. In ogni caso, anche volendo continuare con questa metafora, dovrebbe apparire evidente che i critici possono avere, e hanno, influenza sul modo in cui il dramma viene rappresentato, e possono, in ultima analisi, decidere anche che venga o non venga rappresentato. Ho già indicato come, in quasi tutti gli «scenari», ciò che accadeva all'esterno ha influito sul sistema. Nell'ultimo decennio, infatti, c'è stato in Inghilterra uno sviluppo notevole delle organizzazioni interessate alla trasformazione del sistema: oltre alle organizzazioni riformatrici esistenti già da tempo, come la Howard League, altri gruppi, quali il Rap (Radical Alternatives to Prison) e il Prop (Preservation of the Rights of Prisoners, il sindacato dei carcerati), e altri gruppi comunitari minori, hanno svolto, in vari modi, un ruolo di primo piano, pubblicizzando la situazione delle prigioni e creando alcune alternative funzionali.
E' chiaro che l'attività e l'impegno aumenteranno, anche se non è tanto facile prevedere la direzione che seguiranno. E' probabile che, nel futuro prevedibile, le voci dominanti provenienti dall'esterno si limiteranno ad appoggiare la tradizionale retorica delle critiche provenienti dall'interno del sistema stesso. Queste recensioni, in altre parole, saranno scritte come quelle delle riviste aziendali. Quelli che conoscono la situazione dall'interno - amministratori e tecnici - leggendo articoli di fondo, manifesti politici dei partiti, relazioni annuali e ascoltando i discorsi alle conferenze riconosceranno annoiati le seguenti «richieste»: maggiori disponibilità finanziarie, personale più qualificato, edifici più moderni, salari più elevati, maggiore prestigio per i professionisti, status più elevato per le guardie carcerarie, appoggio dei sindacati alle industrie delle prigioni, migliori sistemi di classificazione, più ampie possibilità di aiuto dopo la scarcerazione, migliore comprensione da parte del pubblico, eccetera. Soltanto un critico totalmente indottrinato può credere che queste riforme, pur desiderabili in sé come alcune effettivamente sono, possano cambiare realmente il sistema, o che si tratti di riforme veramente nuove. Si chiederà indubbiamente, da più parti, «un chiarimento degli obiettivi dell'incarcerazione», nonostante la confusione delle politiche sia una caratteristica innata del sistema, ulteriormente complicata dalle impossibili pretese della società che si impegna a stabilire quello che le prigioni dovrebbero fare, fatto questo ben noto a coloro che sono "nel" sistema, e non tanto ai loro critici dall'esterno. Non è sorprendente - anche se apparentemente lo è stato per i ricercatori - che il ponderoso Studio sul sistema correzionale californiano (California Correctional System Study) - basato su un'analisi del sistema molto più ampia di tutte quelle che sono state programmate in questo paese, e comprendente la disamina delle risposte di 5000 membri del personale e 8000 «clienti» - abbia concluso che «non c'è, nell'attuale 'non-sistema', alcun accordo sull'obiettivo generale della correzione, e anche l'accordo sugli obiettivi di determinate specifiche componenti è molto limitato» (11). Quella che ho definito «critica aziendale» continuerà dunque a inseguire la inafferrabile soluzione della «chiarificazione», mentre le sue proposte specifiche saranno assolutamente prevedibili e tradizionali e serviranno soltanto a sostenere gli scenari già descritti.
Se le esperienze americana e scandinava costituiscono un dato indicativo, i gruppi di pressione più attivi e militanti si concentreranno probabilmente su tre serie di problemi: primo, la definizione del proprio status organizzativo e dei propri problemi; secondo, la ricerca di una propria collocazione all'interno dei gruppi di pressione politica maggiormente riconosciuti (partecipazione alle attività dei gruppi parlamentari, preparazione di memorandum), e altri impegnati in attività diverse (sit-ins, manifestazioni); terzo - e si tratta di un punto critico - dovranno decidere se concentrarsi specificamente sulle prigioni o ampliare decisamente il proprio raggio d'azione e attaccare il sistema politico nel suo insieme. Quest'ultimo punto si collega al clima politico generale; è significativo, per esempio, che l'impulso ai sindacati dei carcerati in Gran Bretagna e in Scandinavia sia provenuto "dall'interno" del sistema. L'interesse politico esterno è stato tiepido, e limitato a una specie di continuazione delle tradizioni dello stato assistenziale. In alcuni paesi, l'Italia per esempio, il notevole interessamento al movimento carcerario è, d'altra parte, altamente politicizzato, e fondato su tradizioni specificatamente marxiste o anarchiche. Queste differenze influiranno profondamente su un aspetto del problema che è stato completamente trascurato in questo studio: la resistenza opposta da quelli che dovrebbero ricevere il prodotto di questi nuovi sistemi di controllo.
Un ultimo gruppo di critici è composto da sociologi, psicologi e altri, che entrano nel sistema in qualità di ricercatori. Dato lo stretto legame istituzionale che esiste tra molti di questi ricercatori e lo stesso ministero degli interni (12), è difficile che da questa fonte possa emergere un tipo di lavoro prolungato nel tempo e indipendente. I devianti istituzionalizzati, come i carcerati, diventano di proprietà del ministero degli interni e di altre autorità equivalenti che controllano l'accesso alle informazioni e la pubblicazione (per mezzo dei meccanismi di leggi come quella sui Segreti Ufficiali). Si tratta di un controllo molto centralizzato, influenzato da una spaventosa alleanza tra i guardiani della burocrazia statale e un anacronistico positivismo metodologico che governano rigidamente la definizione di ricerca «corretta». Ci sono già alcune spaccature in questo monumento monolitico, provocate soprattutto dal dissenso di alcuni amministratori del livello gerarchico più elevato sulle restrizioni imposte al diritto di comunicare liberamente tra loro su argomenti relativi al lavoro, e recentemente, alcune commissioni hanno proposto, in Gran Bretagna, di rendere meno severe le leggi corrispondenti. Ma per l'immediato futuro, la possibilità che il pubblico possa procedere a un esame più particolareggiato delle ricerche svolte è piuttosto tenue, né, bisogna ammetterlo, si può avere la certezza che questo esame avrebbe un peso considerevole sull'evoluzione del sistema.
E' forse giusto finire su questa nota: nessuno che sia al corrente dell'enorme quantità di denaro, tempo ed energie che da più di un secolo è stata spesa per parlare e scrivere delle prigioni può avere molta fiducia in un modello di progresso che presuppone un certo grado di razionale coordinamento tra le nozioni e le conoscenze acquisite e il sistema. Inoltre, soltanto un'analisi assolutamente politica del ruolo degli intellettuali nella fabbricazione delle nozioni e delle conoscenze e dei tecnici nell'attuazione della politica, può rivelare chiaramente l'ideologia del controllo sociale. Il dramma delle prigioni ha implicazioni che vanno molto al di là della scena su cui viene rappresentato.

[Traduzione di Giovanna Weber Sommermann].


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