di Stanley Cohen.
Sociologi, giornalisti, politici e altri hanno scoperto con sgomento e imbarazzo
che, se si vogliono fare delle previsioni sul possibile sviluppo futuro di una
data istituzione della società, si va incontro a notevoli rischi. Le
tendenze passate non sono necessariamente una guida precisa per valutare quelle
future, e non è sempre possibile prevedere ciò che avverrà
confrontando gli sviluppi verificatisi in società diverse, in momenti
diversi. Pur essendo consapevole dei rischi che l'impresa comporta, vorrei tuttavia
(come parte di un più esteso progetto di lavoro sul controllo sociale
nelle società a livello industriale più avanzato) costruire uno
scenario per alcuni sviluppi futuri del sistema carcerario britannico, sulla
base di ciò che si è verificato, o si sta verificando, in sistemi
penali più avanzati del mondo occidentale, in particolare in quello americano.
Partendo da questo presupposto, spero che l'analisi sia garantita da ogni fuga
fantascientifica in cui potrebbe diversamente scivolare.
Ogni scenario che presento si basa sull'assunto fondamentale che il nucleo del
sistema carcerario - la reclusione a scopo punitivo dei delinquenti in edifici
separati dal resto della società - non può essere cambiato. La
prigione è esattamente questo - o si elimina completamente l'istituzione,
oppure la si mantiene, con tutte le contraddizioni e i paradossi che emergono
quando si tenta di riformarla. Non metto qui in discussione l'opportunità
di queste riforme (eccetto che non vengano impropriamente presentate sotto l'alibi
della riabilitazione), né dubito della sincerità di chi le auspica;
ciò che intendo affermare è che dal momento che le riforme sono
tese, secondo la definizione esatta, a «migliorare un'istituzione eliminando
o abbandonando le imperfezioni, i difetti o gli errori», esse non portano
a una vera ri-formazione dell'istituzione stessa. La forma del sistema carcerario
- nel senso in cui io uso questo termine - è simile a una forma d'arte
come il cinema: si possono eliminare le imperfezioni (usando ad esempio attrezzature
più complesse), si possono apportare innovazioni tecniche (il colore
o la tridimensionalità), è possibile anche compiere certe esperienze
estetiche radicali (come il surrealismo o il cinema-verità), ma la forma
rimane intatta.
- Rumori tra le quinte.
Nella sua inchiesta internazionale sulla politica carceraria, condotta dieci anni fa (1), John Conrad illustra con la seguente parabola il modo in cui il sistema correzionale cambia:
«Per circa settant'anni, la vita nella prigione di San Quentin
in California fu dominata da una fabbrica di juta. Enorme, sporca, rumorosa
e pericolosa, la fabbrica forniva a migliaia di carcerati un'occupazione considerata
faticosa. Col passare dei primi decenni del ventesimo secolo, lo stabilimento
'progredì': da antiquato divenne totalmente improduttivo. La ditta scozzese
che produceva i pezzi di ricambio smise di fabbricarli. La fabbrica, che era
sempre stata unica nel suo genere in California, dovette diventare autosufficiente
per poter sopravvivere. Si cominciò allora a produrre i ricambi nella
prigione, in una fonderia appositamente creata. I carcerati venivano addestrati
all'uso e alla manutenzione di telai di un tipo che ormai non si trovava più
in tutto l'emisfero occidentale. Col passare degli anni, i sacchi di juta prodotti
dalla fabbrica risultavano più cari, sul mercato al dettaglio, di quelli
importati dall'India, nonostante i salari bassissimi che ricevevano i carcerati.
Il fatto che la fabbrica fosse non solo antiquata, ma anche economicamente improduttiva
non aveva importanza: forniva un'occupazione ai carcerati, anche se ne aumentava
il risentimento. La sua capacità di creare occupazioni secondarie era
considerata un vantaggio.
Nel 1951 la fabbrica fu distrutta dal fuoco, nonostante le notevoli precauzioni
antincendio che venivano prese. Le cause di questo incendio non saranno mai
accertate con sicurezza. In seguito, fu sostituita da una moderna fabbrica di
cotone».
La sua osservazione di carattere generale è che «l'inerzia,
la legge e la connaturata resistenza burocratica ai cambiamenti preservano non
solo le strutture materiali, ma anche le idee, l'organizzazione e le prospettive
del sistema». Quando i cambiamenti si verificano, essi vengono imposti
al sistema da avvenimenti drammatici all'interno o da sviluppi esterni, particolarmente
di natura politica, e dalle loro ramificazioni all'interno delle prigioni. Può
essere utile definire la prigione come un'istituzione totale, ma facendolo ci
si limita a vedere ciò che accade in palcoscenico, mentre da fuori, da
dietro le quinte, dal mondo del crimine, della storia, della politica, provengono
i rumori che influiscono su ciò che accade sulla scena.
Si consideri la semplice questione dell'informazione. Le persone che sono dentro
nel sistema sanno benissimo quello che accade intorno a loro, ma la somma di
tutti questi fatti conosciuti si esprime praticamente solo in forma di denunce
drammatiche. E' stata l'incarcerazione degli obiettori di coscienza durante
la prima guerra mondiale a rivelare l'assoluto squallore della normale prigione
inglese, e fu principalmente la crescente presa di coscienza politica di alcuni
carcerati militanti verso la fine degli anni sessanta a portare alla ribalta
le prigioni in America. Scritti come quelli di George Jackson e avvenimenti
come quello di Attica fecero conoscere l'ambiente carcerario in un modo che
solo dieci anni prima sarebbe stato impensabile. Il numero dei prigionieri dichiaratamente
politici aumentò; i cosiddetti prigionieri «non politici»
si formarono una coscienza politica mentre scontavano la propria condanna, e
la sinistra rivoluzionaria, che fino ad allora si era completamente disinteressata
dell'ambiente carcerario, cooptò il movimento delle prigioni, incorporandolo
alla propria lotta, e la coopzione portò ad eccessi talmente romantici
che si arrivò a considerare i carcerati come l'avanguardia della rivoluzione.
Anche nell'Europa occidentale si ebbero fatti simili, specialmente in Francia
e in Italia dopo il maggio 1968. La reazione dell'apparato di controllo - lo
sviluppo di mezzi di pacificazione più sofisticati - era, e continua
ad essere, prevedibile.
Anche in Gran Bretagna, in seguito alla pubblicazione del rapporto Mountbatten,
si ebbero dei cambiamenti, meno significativi dal punto di vista ideologico:
dopo decenni di riforme «progressiste», le condizioni del carcerato
medio nelle prigioni chiuse non solo smisero di migliorare, ma improvvisamente
peggiorarono. Ciò non era dovuto a una modificazione cosciente della
politica interna, né a un totale e ingiustificato irrigidimento dei funzionari
delle carceri, ma a nuovi rumori tra le quinte, alcuni cumulativi, altri drammatici.
In particolare, l'aumento della criminalità organizzata fece affluire
nel sistema soggetti che dovevano essere tenuti in condizioni di massima sicurezza
per lunghi periodi, problema questo semplicemente inesistente fino alla metà
degli anni sessanta. L'abolizione della pena di morte, unita al tentativo in
atto già da tempo di non incarcerare individui che dovessero scontare
pene molto brevi, modificò la composizione della popolazione delle prigioni,
che comprendeva un numero sempre maggiore di condannati a lunghi periodi di
detenzione. Fu solo dopo l'evasione dei componenti della banda della «rapina
del treno», e, ancor più, quella della «superspia»
George Blake, che la pressione sull'amministrazione carceraria si fece sentire
pressantemente. Dalla pubblicazione del rapporto Mountbatten, che ne fu la conseguenza,
anche se non solo e non del tutto per questo, «il pendolo si è
spostato verso un nuovo tipo di reclusione, dominato dal principio della sicurezza»
(2). Le attività e le rivendicazioni dei militanti (sia fuori che dentro
le prigioni), l'aumento della criminalità professionale e organizzata
e di alcune specie violente di delitto, il criterio seguito dai tribunali nell'emissione
delle sentenze e le continue pressioni esercitate dal pubblico e dai mass-media
perché si rendessero più rigide le prigioni (per esempio quando
un rilasciato in libertà vigilata che si pensa sia stato scarcerato prematuramente
commette un reato), sono alcuni dei molti rumori che peseranno su ciò
che avviene sul palcoscenico della prigione.
La mia prima previsione è quindi che se e quando ci saranno cambiamenti
nel sistema carcerario, essi non saranno la conseguenza di un nuovo modo di
pensare e di politiche innovatrici, bensì di un cumulo di mutamenti esterni
di altra natura, quali l'immissione nel sistema di un nuovo tipo di delinquenti,
le attività di gruppi di pressione politici, e anche di avvenimenti drammatici
- rivolte o evasioni - seguiti da una pubblica denuncia, seguita a sua volta
da un'inchiesta. La prigione è l'ultima depositaria di cambiamenti che
avvengono altrove, e non soltanto nel senso più ovvio. Solo in epoca
recente si è cominciato a collocare lo sviluppo della prigione nel suo
giusto contesto storico (3): l'apparizione, nella prima metà del diciannovesimo
secolo, di un nuovo tipo di struttura sociale - il manicomio, la prigione, la
casa di lavoro, l'asilo dei poveri, l'orfanotrofio - come posti nei quali si
può prendersi cura, o sbarazzarsi in modo ordinato, di gruppi devianti
(una prassi che sarà poi legittimata dalla comune ideologia dell'assistenza
sociale e della riabilitazione). Il punto che qui ci interessa non è
tanto che queste istituzioni possono - come suggeriscono Goffman e altri - avere
caratteristiche interne comuni, quanto che le loro radici vanno ricercate in
comuni valori e sviluppi sociali esterni. Secondo Rothman, in America l'istituto
emerse nel periodo jacksoniano come risposta alla devianza e alla dipendenza,
per promuovere la stabilità sociale in un momento in cui le idee e i
metodi tradizionali sembravano sorpassati: «L'istituto di ricovero bene
organizzato dovrebbe esemplificare i giusti principi dell'organizzazione sociale,
per assicurare la protezione del pubblico e promuovere la sua gloria».
In Gran Bretagna, la fine delle deportazioni era direttamente legata, se non
ne fu addirittura la causa diretta, all'invenzione della prigione come luogo
di punizione, come una specie di colonia interna. Per Foucault, che prende in
esame un quadro storico molto più ampio, le Grandi Incarcerazioni del
diciannovesimo secolo - i matti in manicomio, i ladri in prigione, i soldati
nelle caserme, gli operai nelle fabbriche, i bambini nelle scuole - facevano
parte di un vasto disegno intimamente legato alla Rivoluzione Industriale e
allo spirito del capitalismo. La proprietà doveva essere protetta, la
produzione standardizzata secondo i regolamenti, i giovani segregati in istituzioni
appositamente costruite, nelle quali si inculcava loro l'ideologia dell'economia
e del successo. Che si accetti o no la tesi del vasto disegno - ed essa contiene
numerose imperfezioni storiche: ad esempio, esistevano le prigioni già
in altre società preindustriali - non possiamo non vedere la prigione
di oggi come un piccolo, e non necessariamente definitivo punto terminale di
un processo di mutamento sociale molto più esteso.
- Scena prima: un deposito.
Anche se la popolazione delle prigioni in Inghilterra e nel Galles
è aumentata in modo regolare fino a raggiungere il livello attuale di
40 mila persone, ci sono oggi indicazioni che fanno pensare che il "tasso"
di incremento tende a diminuire. La popolazione media delle carceri nel 1971
era di 39708 persone, con un aumento del 1,7 per cento rispetto al 1970, aumento
comunque limitato se lo si confronta con quello dell'anno precedente, in cui
si era verificato un salto del 12,6 per cento. La media del 1972 è stata
inferiore a quella dei due anni precedenti. Questa tendenza è già
evidente in certi stati americani, ad esempio la California, e anche in diversi
stati europei la popolazione delle prigioni sta effettivamente diminuendo. Negli
Stati Uniti, il numero degli internati nelle prigioni federali o statali è
sceso da un massimo di 220 mila nel 1961 a 195 mila nel 1967, nonostante l'aumento
della popolazione e del tasso globale di criminalità. Nel caso degli
ospedali psichiatrici (per motivi ben noti, quali l'impiego della chemioterapia,
i laboratori protetti, le case di ricovero aperte, e altri progetti di terapia
comunitaria) la popolazione diminuì da un massimo di 560 mila nel 1950
a circa 400 mila nel 1970. I motivi che, in Gran Bretagna, sono alla base di
questi cambiamenti sono complessi, ma due in particolare si rivelano specificamente
importanti ai fini di questo scenario, e nel contempo provano che è possibile
far accettare la riforma penale al sistema ufficiale:
1. Durante gli ultimi trent'anni, gran parte degli sforzi dei riformatori del
sistema carcerario e - in modo meno esplicitamente impegnato - dei governi che
si sono susseguiti, sono stati diretti a diminuire il numero dei condannati
che scontano pene brevi. Il fatto che la presenza di questi prigionieri e i
conseguenti problemi di sovraffollamento sono gli ostacoli principali che si
frappongono all'applicazione di un sistema progressista è da tempo un
dogma accettato dalla politica ufficiale. Pertanto, i progetti attuali per espandere
la capienza delle prigioni (111,5 milioni preventivati per un quinquennio che
avrà fine nel 1975-76) vengono giustificati con la necessità di
predisporre nuovi posti per eliminare il sovraffollamento delle celle che sono
occupate da due o più persone. Ciò vuol dire che i posti occorreranno
anche se la popolazione delle carceri rimarrà stazionaria.
Si suppone che questo programma di espansione sia collegato allo sviluppo di
nuovi tipi di punizione non basati sulla reclusione, alla creazione di speciali
istituti per derelitti e alcolizzati, che altrimenti andrebbero a finire in
prigione e all'applicazione di riforme al sistema di emissione delle sentenze,
quali l'introduzione della condizionale: tutte queste riforme sono dirette a
diminuire il numero dei carcerati che scontano pene di breve durata. Al momento
attuale, gli individui condannati a più di cinque anni rappresentano
meno del 3 per cento di tutti quelli che vengono incarcerati in un anno. La
grande maggioranza dei 150 mila individui che passano ogni anno per le prigioni
non va oltre la porta girevole delle carceri locali. Questo gruppo è
da sempre considerato una «crisi nel sistema», e sarebbe inutile
elencare in questa sede le argomentazioni che provano il totale fallimento dell'incarcerazione
come metodo per risolvere il problema creato da questi trasgressori. Fanno bene
i riformatori delle prigioni a concentrarsi sulla riduzione del numero di carcerati
condannati a pene brevi, ma dovrebbero tuttavia rendersi conto che l'idea sta
comunque lentamente penetrando.
2. Un'altra tendenza, complementare alla prima, è rappresentata dal movimento
che auspica l'abbandono totale della pratica dell'incarcerazione per intere
categorie di trasgressori. Nel caso dei cosiddetti crimini senza vittima, per
esempio droga, aborto, omosessualità, si auspica, e autorevolmente, da
più parti, non solo l'abolizione della pena detentiva prevista, ma addirittura
la decriminalizzazione dell'infrazione stessa, che dovrebbe essere affrontata
secondo un modello di assistenza sociale e riabilitazione. Non si tratta di
opinioni espresse esclusivamente dai «liberali» e dai riformatori
del sistema penale. Secondo i risultati di una recente valutazione fatta dall'American
Correctional Association, la reclusione in una normale prigione di sicurezza
sarebbe necessaria soltanto per il 15-20 per cento dei carcerati. Queste valutazioni,
unite al progressivo sviluppo di reti di appoggio e di sostegno nella comunità,
vanno considerate come parte di una crescente reazione contro il trionfo dell'istituto
che ho descritto: i movimenti che vogliono togliere dalle istituzioni i malati
di mente, gli orfani, i minorati fisici, i subnormali e gli anziani per reinserirli
nella comunità, anche quando non hanno pieno successo, non sono soltanto
voci isolate di alcuni riformatori eccentrici. Non c'è ragione di supporre
- pur tenendo in dovuta considerazione le limitazioni imposte dalla richiesta
di punizione e protezione - che le prigioni rimarranno completamente estranee
a queste tendenze. Le limitazioni sono naturalmente ardue da superare: per alcuni,
le porte non si apriranno mai.
E quale sarà il destino di questo gruppo che rimane? La tendenza attuale,
in Gran Bretagna, è di incarcerare sempre più persone per periodi
lunghi, ed ho già accennato ad alcuni degli sviluppi «esterni»
che hanno portato a questa situazione: 1) l'abolizione della pena di morte,
e la conseguente condanna all'ergastolo di molti criminali che prima del 1957
sarebbero certamente stati impiccati (i condannati all'ergastolo per omicidio
sono oggi 850, in confronto ai 120 del 1957). Le condanne a vita prevedono oggi
periodi di detenzione superiori a quelli medi di una volta, e si raccomandano
inoltre periodi minimi fino a trent'anni. 2) L'aumento della criminalità
organizzata e professionale e i drammatici (anche se molto rari in confronto
agli standard di altri paesi) casi di uccisioni di poliziotti, e 3) l'ansia
paranoica di sicurezza dopo la serie di sensazionali evasioni che ebbero luogo
verso la metà degli anni sessanta.
Tutto questo significa che stiamo entrando in una nuova era della politica penale,
nella quale il «problema» non sarà più rappresentato
dai condannati a pene brevi, i patetici personaggi che entrano ed escono dalle
nostre sovraffollate prigioni locali, bensì dalla presenza di un numero
sempre maggiore di condannati a lunghi periodi di detenzione, uomini «pericolosi»,
che pongono difficoltà completamente diverse di disciplina, controllo
e sicurezza. E il paradosso consiste nel fatto che, proprio a causa del successo
ottenuto dai «liberali», questo gruppo verrà definito in
termini ancor più negativi e distruttivi. Saranno i «duri»,
la feccia, i recalcitranti, gli incorreggibili: quelli per cui non si può
far niente, se non isolarli in prigioni speciali o in bracci di sicurezza. Come
dichiarò il segretario della Prison Officers Association (associazione
dei funzionari addetti alle carceri) nel 1972, reclamando punizioni più
severe per i condannati a pene lunghe che partecipavano alle dimostrazioni:
«la prigione non è soltanto un cambiamento d'indirizzo».
E' vero, e per questo tipo di delinquenti le prigioni sono destinate a diventare
"depositi per esseri umani": posti in cui la gente viene tenuta fino
a quando la società non deciderà che cosa farne.
Siamo ancora in un periodo di transizione: nell'immediato futuro le prigioni
verranno ancora utilizzate come ultima forma di punizione e come deterrente
per la vastissima gamma di delinquenti esistente. Non solo, alcuni provvedimenti
- ad esempio, l'abolizione dell'obbligatorietà di sospendere determinate
sentenze - potrebbero, nel breve periodo, portare addirittura ad un "aumento"
numerico dei carcerati. Le pene brevi continueranno ad essere scontate fino
a quando i metodi alternativi che non prevedono la reclusione rimarranno allo
stadio sperimentale o non riusciranno a soddisfare il bisogno di scoraggiare
la criminalità e di punire, implicito nel sistema giudiziario. non vuol
dire che il trattamento indegno e le privazioni che sono parte della vita quotidiana
dei carcerati, accenneranno a diminuire. Un'evoluzione caratteristica - parallelamente
a ciò che accadrà negli ospedali psichiatrici - sarà la
prigione-industria, nella quale l'individuo viene sfruttato come manodopera
a buon mercato.
Ma in questo periodo di transizione esisteranno ancora i depositi accanto agli
istituti modello, e li vedremo imporsi sempre più all'attenzione pubblica,
come accadde in Europa e negli Stati Uniti verso la fine degli anni sessanta,
attraverso agitazioni, rivolte, tentativi di evasione. Io credo che, a lungo
andare, ciò che veramente succede in quei depositi sia la prova generale
per il gran finale. Data la generale tendenza storica diretta contro l'istituzionalizzazione,
le prigioni non potranno più operare una selezione. Accoglieranno soltanto
quelli che sono al di là delle possibilità di recupero, i casi
limite che devono essere rimossi dalla società.
- Una scatola cinese sulla scena.
Man mano che lo scenario del «deposito» prende lentamente
forma, emergeranno nuovi imperativi all'interno del sistema carcerario. Una
delle principali esigenze sarà quella di fare un'ulteriore classificazione
e segregazione dei carcerati. E' da tempo che i riformatori delle prigioni sventolano
la bacchetta magica della classificazione; si crede che correzione e riabilitazione
siano possibili soltanto dopo un'accurata divisione della popolazione delle
carceri in categorie: quelli che potrebbero trarre beneficio da un dato metodo,
quelli che ne impedirebbero l'applicazione, e quelli che comporterebbero «grossi
rischi». I condannati a pene lunghe, ad esempio, quelli che rappresentano
un rischio dal punto di vista della sicurezza, i violenti, quelli che hanno
ripetutamente tentato di evadere e quelli che soffrono di disturbi psicologici
formano tanti gruppi considerati possibili fonti di contaminazione. Se fosse
possibile isolarli in istituzioni separate, si permetterebbe al sistema di funzionare
nel modo desiderato. Esiste una quasi totale unanimità di opinioni tra
riformatori delle prigioni, responsabili delle decisioni di politica interna,
e personale delle carceri a tutti i livelli sul fatto che la segregazione è
la chiave del «successo» di un sistema. Lo stesso impulso a classificare
è rilevabile in altre istituzioni - si noti, per esempio, l'elaborata
gerarchia di reparti «di accoglimento», «cronici», «acuti»
eccetera negli ospedali psichiatrici.
Ovviamente, quasi tutti i sistemi carcerari contengono già una certa
classificazione: i condannati a lunghi periodi di detenzione, o per delitti
sessuali, gli omicidi, quelli che scontano la prima condanna, sono tutti segregati,
in istituzioni diverse o all'interno di una stessa istituzione. Nell'ultimo
decennio, le argomentazioni a favore della segregazione si sono rafforzate,
in nome della necessità di inasprire il controllo e la disciplina. Ogni
volta che ci sono disordini, agitazioni, un tentativo d'evasione, si dice che
a provocare i guai è sempre lo stesso ristretto gruppo di provocatori:
se solo fosse possibile identificarli e segregarli, gli altri carcerati e il
personale potrebbero continuare tranquillamente la loro solita vita. La reazione
caratteristica della società di fronte alla devianza consiste nel considerarla
propria di un gruppo ristretto di persone con una particolare predisposizione,
che bisogna in qualche modo identificare e segregare. Da qui il prestigio e
l'importanza attribuiti alla ricerca tesa a sviluppare nuove tecnologie per
la localizzazione dei devianti «potenziali» o «predisposti»,
prima che abbiano veramente infranto qualche regola.
Nell'ambiente della prigione, l'unica questione ancora non risolta è
il modo in cui la segregazione deve essere attuata. Il conflitto è tra
le cosiddette politiche di dispersione e di concentrazione. Il rapporto Mountbatten
proponeva la segregazione in un'unica enorme prigione di sicurezza, e questo
sistema fu appoggiato da quasi tutti i funzionari carcerari. Il governo, tuttavia,
sembrò essere più impressionato dalle argomentazioni - presentate
principalmente nel successivo rapporto della commissione Radzinowicz - che sconsigliavano
la creazione di una Alcatraz o un'Isola del Diavolo, e decise invece di smistare,
in un secondo tempo, i carcerati pericolosi, internandoli in diverse prigioni
speciali (4). Spesso, tuttavia, il concetto di dispersione è mal compreso;
infatti, la segregazione per concentrazione è una caratteristica già
presente, e in notevoli proporzioni, nel sistema. Questa presenza si manifesta
in almeno tre modi diversi: in primo luogo, attraverso la divisione formale
in categorie dei carcerati, secondo la pericolosità e il rischio che
comportano per la sicurezza, e, in particolare, l'esistenza della Categoria
A, che è soggetta a particolari restrizioni e privazioni; in secondo
luogo, attraverso la creazione di istituzioni di concentrazione separate: i
quattro bracci di sicurezza originali (due dei quali esistono ancora) e le sei
prigioni di «dispersione» speciali, e, in terzo luogo, c'è
la segregazione "nell"'istituzione: bracci di punizione, celle d'isolamento,
eccetera. (Dopo i disordini del 1972 ad Albany, una prigione speciale di «dispersione»,
trenta carcerati vennero segregati in un braccio speciale. Nella vicina Parkhurst
si creò un braccio speciale dopo la rivolta del 1969, per rinchiudervi
«giovani aggressivi condannati a lunghi periodi di detenzione» e
«individui che soffrono di disturbi mentali ma non vengono mandati in
ospedale»).
Se si esamina più attentamente la natura dell'incarcerazione, ci si rende
conto che queste disposizioni non sono affatto casuali: esse rivelano l'essenza
del sistema carcerario. Perché, indipendentemente dagli obiettivi finali
dell'incarcerazione così come vengono discussi nelle conferenze, negli
articoli di fondo dei giornali, in Parlamento e in seno al potere giudiziario,
il compito quotidiano dei dirigenti del sistema consiste nel mantenere la sicurezza
prevenendo evasioni e disordini. Data l'incompatibilità delle esigenze
sociali di cui la società stessa ha loro affidato la cura, i funzionari
vivono nel terrore che possa esserci una agitazione. Un funzionario del ministero
degli interni ha dichiarato: «Se arrivo alla fine della giornata, senza
che il telefono suoni, è stata una buona giornata». Dal punto di
vista della gestione, il suo era un problema reale: come si fa a mantenere la
tranquillità, considerando la presenza di tante forze che tendono al
disordine e disponendo di mezzi tanto limitati per assicurare il buon comportamento
delle persone che ci sono affidate?
La risposta è data dalla gestione attraverso la segregazione. Nel suo
studio su quelle che egli definisce le «strategie del controllo»,
sviluppatesi nel sistema carcerario californiano negli ultimi quindici anni,
Sheldon Messinger sostiene che questa soluzione corrisponde, in realtà,
alla "logica" del controllo (5). I provocatori potenziali o reali
(cioè i «rischi per la sicurezza»), vengono concentrati o
segregati in uno stesso posto per salvaguardare le particolari caratteristiche
di quei sistemi nei quali non vengono ammessi (o dai quali vengono espulsi),
nella speranza di riuscire a trovare una soluzione collettiva al problema che
essi rappresentano. In California, questo obiettivo è stato raggiunto
sia concentrando in una stessa prigione i carcerati che rappresentavano i rischi
maggiori, sia creando unità diverse all'interno delle prigioni stesse:
centri di adattamento, divisioni di segregazione, bracci d'isolamento. Questa
strategia della segregazione porta all'elaborazione di diversi livelli di privazione,
controllo e restrizione: ci sono certe sezioni che presentano determinati vantaggi
rispetto ad altre, celle d'isolamento per segregazione temporanea, centri di
adattamento che implicano una segregazione di tipo più stabile, e addirittura
«sezioni di segregazione indeterminata». L'autore descrive in quale
modo un centro di adattamento nel quale si segregavano i reclusi che si temeva
potessero agire come forze disgreganti (secondo un sistema simile alla divisione
per categorie proposta da Mountbatten e alla istituzione dei bracci di sicurezza)
finì per generare una propria unità di segregazione interna, per
neutralizzare i casi che non riusciva a risolvere. L'effetto che ne risultò,
simile a una «complicata serie di scatole cinesi ad incastro», nella
quale «i carcerati che si trovavano nella scatola più interna dovevano
idealmente passare attraverso ognuna delle scatole immediatamente successive
per raggiungere una relativa libertà», è molto simile al
modello secondo il quale si sta sviluppando il sistema carcerario britannico.
Come osserva Messinger, la «logica» della strategia della segregazione
è abbastanza semplice: «identificate i provocatori potenziali il
più presto possibile, tentate di domarli, e se non ci riuscite, segregateli».
Che si riesca o no, con questo metodo, a minimizzare i disordini, è chiaro
che «la strategia della segregazione porta a ulteriori misure di segregazione».
Data l'assoluta necessità organizzativa di esercitare un controllo sui
reclusi, i funzionari fanno notare, e possiamo credere alle loro affermazioni,
che le altre strategie sono inefficaci: l'uso della forza è possibile
solo in certi casi (disordini, agitazioni), e in ogni caso non è con
la forza che si può convincere i carcerati a voler fare determinate cose:
le possibilità di creare delle motivazioni attraverso punizioni e ricompense
sono limitate, e non si può neppure selezionare liberamente chi ammettere
o non ammettere in un'istituzione. Date le restrizioni imposte all'uso legittimo
della forza, il problema del controllo - problema dominante nelle attività
quotidiane dei funzionari carcerari a tutti i livelli - può essere risolto
unicamente motivando i carcerati a fare ciò che vuole la direzione, oppure
neutralizzando i recalcitranti. La segregazione è la soluzione sviluppata
dal sistema correzionale californiano, e non c'è ragione di supporre
che nei prossimi decenni altri funzionari riusciranno a trovarne uno molto diverso.
Un fattore importante, che faciliterà queste nuove forme di controllo
sociale, è il potere sempre maggiore del personale carcerario ai livelli
più bassi. Questo potere è in grado di svilire qualsiasi liberalizzazione
dettata dai livelli gerarchici più elevati e - unito in una strana alleanza
con il personale psichiatrico - è riuscito a creare forme coercitive
di modificazione del comportamento, utilizzando per esempio programmi di condizionamento
operativi. I reclusi sono sottoposti a privazioni di infimo grado, e poi ricompensati
per la loro buona condotta con passaggi successivi in ambienti meno restrittivi.
Il sindacato inglese del personale carcerario auspica da tempo l'instaurazione
di un «sistema graduale di trattamento dei carcerati, secondo il quale
coloro che con maggiore probabilità provocherebbero dei problemi, i tipi
violenti, ad esempio, verrebbero segregati dagli altri, e rinchiusi nel braccio
più sicuro della prigione». Il sindacato sottolinea il fatto che
la decisione relativa allo spostamento di questi elementi pericolosi dovrebbe
dipendere in grande misura dal parere espresso dal personale di custodia. Gli
individui in questione dovrebbero rimanere nelle sezioni di segregazione «fino
a quando non saremo convinti che sono disposti a collaborare». Questa
politica è inoltre giustificata - anche dal personale carcerario di livello
inferiore - facendo riferimento alla necessità di liberare il sistema
da quelle forze che potrebbero impedire una «costruttiva riabilitazione».
Questa serie di scatole cinesi si svilupperà dunque lentamente, partendo
da una combinazione di esigenze interne al sistema e pressioni esterne. Il carcerato
che si trova nella scatola più interna - il braccio di segregazione,
la cella d'isolamento - può aspettarsi non la liberazione, ma soltanto
il trasferimento alla scatola successiva, semprecché riesca a convincere
il personale di essere «disposto a collaborare». Come espresso nel
rapporto Radzinowicz: «non si dovrebbe permettere alle autorità
delle carceri di giustificare con delle scuse l'uso intelligente del braccio
di segregazione».
Un esempio esplicito dell'uso «intelligente» della segregazione
ai fini del controllo e della cura si ha nella descrizione del Braccio C di
Pankhurst, fornita da due dei suoi direttori (6). Questo braccio era un'unità
autonoma creata dopo i disordini dell'ottobre 1969 per risolvere i problemi
posti dal nuovo tipo di detenuto, sofferente di certi disturbi e tendenzialmente
disgregante per il sistema. Dei cinque obiettivi principali di questa unità
speciale che vengono elencati, quattro si riferiscono esplicitamente alla necessità
di sottoporre i carcerati a terapie adeguate. Il quinto consiste nell'occuparsi
«di un gruppo potenzialmente disgregante, e sollevare così altri
settori della prigione da alcuni gravosi compiti di controllo». I criteri
che governano l'ammissione al braccio speciale, pertanto, includono la ripetizione
di certi comportamenti, come ad esempio, atti di violenza contro il personale
di custodia o altri carcerati, tentativo di suicidio, esaurimento nervoso, scioperi
della fame regolari, ripetute richieste di cure mediche, atti contrari alla
disciplina risultanti in denunce formali e danni alla proprietà dell'istituzione.
Ed è già stata creata un'ulteriore scatola: anche nel braccio
stesso «... le esigenze della comunità sono tali da rendere necessaria
la segregazione di certi individui per brevi periodi... La segregazione come
strumento di gestione è accettata, e la sua validità terapeutica,
se correttamente utilizzata, riconosciuta».
Negli scenari del «deposito» e della scatola cinese gli agenti di
custodia e i loro immediati superiori sono costretti a recitare in un dramma
che non è stato scritto interamente da loro. I loro sforzi sembrano tanto
obbligati e stilizzati, e a volte disperati e dannosi, anche perché c'è
poco spazio per l'improvvisazione.
- Entra il medico.
La diffusione della retorica riformistica liberale si è
sovrapposta, in questo secolo, alla diffusione dell'ideologia psichiatrica.
L'una ha sostenuto l'altra. Nelle prigioni, e in altre istituzioni di controllo
sociale, questa convergenza ha raggiunto la sua apoteosi nell'ideologia della
riabilitazione. Non è più necessario giustificare queste istituzioni
soltanto in termini di vendetta e punizione, ma si può presentarle come
strumenti per un cambiamento positivo: la prigione diventa un istituto di «correzione».
Per diffondere e amministrare la nuova ideologia abbiamo a disposizione le schiere
sempre più fitte di psichiatri e dei loro collaboratori di gruppi professionali
meno prestigiosi, come psicologi clinici, e consiglieri di gruppo. Questi gruppi
si sono uniti ai più vecchi guardiani nella lotta per il potere nell'infrastruttura
del mondo delle carceri. E la vittoria sembra andare sempre più chiaramente
agli scienziati e ai tecnici, non perché il loro paradigma del crimine
sia di per sé superiore, ma semplicemente perché dimostrano di
essere dei guardiani più efficienti.
I riformatori delle prigioni si sono lasciati incantare troppo facilmente dalla
retorica della terapia (invece di trattarla con cautela e accettare le sgradevoli
conseguenze del vedere la prigione com'è in realtà), e sono stati
indotti da certe idee, quali la comunità terapeutica, a pensare che gli
stessi sacrifici possono propiziare sia gli dei della punizione che quelli della
terapia. Lo scenario che certamente si formerà nei prossimi decenni sarà
rappresentato dalla rapida entrata nel sistema penale di personale e metodi
psichiatrici. Ci sono già «ospedali speciali», variazioni
sul tema della terapia di gruppo, l'impiego dell'elettroshock e terapie a base
di farmaci, e varie forme di terapia comportamentale che utilizzano modelli
di condizionamento positivo e condizionamento negativo o terapia dell'avversione
(eufemismo per punizione), che consiste appunto nella somministrazione di medicinali
o l'applicazione dell'elettroshock.
La scuola antipsichiatrica e altri gruppi hanno messo in chiaro che, per quanto
riguarda la psichiatria in generale, ciò che si teme non è l'intervento
di una data professione, intervento mirante veramente ad aiutare e guarire,
bensì la possibilità di abusi, che potrebbero consistere nello
sviluppo di nuovi metodi di controllo sociale sotto la forma di cure benevole.
I timori più gravi sono già stati confermati dall'impiego scoperto
della manipolazione psichiatrica per sopraffare i dissenzienti politici (in
recenti e ben documentati casi in Russia, per esempio), e quando gli psichiatri
entrano a far parte del sistema carcerario, si tratta evidentemente di timori
fondati e reali. L'organizzazione, per la sua stessa natura, si presta a questi
abusi (e anche ad altri, quali l'uso dei carcerati come «volontari»
in esperimenti medici e psicologici), mentre, in base a considerazioni finanziarie,
o perché considerati non adatti, i carcerati che veramente chiedono aiuto
sono quelli che hanno "meno" possibilità di riceverlo.
Al momento attuale, le funzioni reali della psichiatria nelle prigioni - sia
nel nostro sistema penale che in altri più avanzati - sono a dir poco
oscure. La sua funzione potrebbe essere meramente «tranquillizzante»,
e la terapia avere il compito di aiutare il carcerato ad adattarsi al sistema,
oppure potrebbe essere consapevolmente manipolata dal carcerato come metodo
di arrangiarsi all'interno dell'istituzione. Chi partecipa alle sedute terapeutiche
lo fa perché ha la promessa di una contropartita da parte del medico
- sotto forma di sigarette o di una chiacchierata piacevole, oppure, caso molto
più importante, di una raccomandazione per la concessione della libertà
vigilata e il rilascio anticipato per dimostrata «comprensione»
del proprio problema. Queste funzioni stanno diventando sempre più accettabili
nelle prigioni.
Vi sono tuttavia altri sviluppi, che non si limitano ad appoggiare il sistema
o a fornire un alibi medico per tranquillizzare le coscienze dei teneri. Il
progresso tecnologico nel campo del controllo del comportamento ha dato, a questa
parte del mio scenario, un carattere sempre più fantascientifico. La
terapia dell'avversione, per esempio con la somministrazione di farmaci come
l'Anectina (che provoca dolore e paura attraverso sensazioni di morte o annegamento)
è già largamente impiegata per modificare forme specifiche di
comportamento indesiderabile, particolarmente nel campo dei reati sessuali,
ma il suo uso si sta estendendo anche a forme più generali di modificazione
del comportamento. Si sono fatti esperimenti usando tranquillanti potenti, come
il Prolixin, che produce una specie di intontimento. Sia i sedativi forti sia
le medicine che provocano alterazioni mentali vengono usati su vasta scala nelle
prigioni, per controllare la violenza reale o potenziale. Ma non ci si ferma
qui: in certe istituzioni, come la M.P.D.U. (Maximum Psychiatric Diagnostic
Unit) in California, si caldeggia la possibilità di interventi chirurgici
sul cervello per ridurre gli agitatori in condizioni che il California Department
of Correction definisce di «sonno temporaneo».
Anche queste tecniche, tuttavia, appaiono innocue se le confrontiamo con la
più recente scoperta tecnologica nel campo del controllo del comportamento:
l'uso dell'elettronica per osservare e controllare i delinquenti. Non intendo
qui trattare i complessi aspetti tecnici ed etici di queste metodologie, anche
se, lungi dall'appartenere al mondo della fantascienza, esse vengono usate e
sperimentate già da almeno dieci anni su carcerati e rilasciati in libertà
vigilata. Il paragrafo che segue - tratto, si noti bene, non dagli scritti di
qualche scienziato pazzo, ma da una sobria valutazione di due criminologi «liberali»
- può dare un'idea di quello che si sta prendendo in considerazione (7):
«Nel prossimo futuro, la tecnologia dei computers ci fornirà un'alternativa al carcere. Lo sviluppo dei sistemi per la trasmissione telemetrica di informazioni in partenza da sensori impiantati nel corpo umano renderà possibile l'osservazione e il controllo del comportamento di un uomo senza bisogno di stabilire un contatto fisico. Con questi apparecchi telemetrici sarà possibile tenere il soggetto sotto sorveglianza continua e intervenire con mezzi fisici o elettronici per influenzarne e controllarne il comportamento che sarà stato precedentemente selezionato. Sarà dunque possibile controllare il comportamento umano a distanza e senza contatto fisico. Le possibili implicazioni di questi sistemi telemetrici nel campo della criminologia e della correzione sono di importanza straordinaria».
L'ultima affermazione deve essere un tentativo di minimizzare le cose. Anche senza analizzare tutte queste possibili implicazioni, è importante sottolineare un aspetto della discussione: se le argomentazioni che riformatori e sociologi portano contro le prigioni sono giuste, l'adozione di questi nuovi metodi è assolutamente plausibile. Le prigioni potrebbero alla fine essere addirittura abolite, perché anche i carcerati pericolosi, quelli che rappresentano un rischio o che non possono essere rilasciati in libertà vigilata verrebbero reinseriti nella comunità - dopo avergli fatto inghiottire o aver impiantato sul loro corpo il trasmettitore telemetrico - e la società continuerebbe ad essere protetta e difesa da loro. Inoltre - argomentazione di quelle che si ripetono sempre nella nostra società - finalmente lavorerebbero e pagherebbero le tasse, invece di costituire perdite economiche per la comunità. Ecco un parere favorevole a questa tecnologia riportato da Ingraham e Smith:
«Un individuo rilasciato in libertà vigilata avrebbe meno occasioni di infrangere la legge se fosse possibile controllare la sua posizione da una sede centrale. Se inoltre fosse possibile incorporare nel sistema un metodo per stabilire comunicazioni reciproche, si potrebbe instaurare un rapporto terapeutico in base al quale trasmettere all'individuo in questione ricompense, avvertimenti o altri segnali, a seconda della terapia programmata».
Al momento attuale queste tecniche si trovano ancora ad un livello rudimentale, in termini di "controllo" del comportamento come opposto al comportamento "guidato". Tuttavia, si avanza già l'ipotesi che i progressi dell'elettrofisiologia, anche se non permetteranno forse mai un «controllo totale del pensiero», ci permetteranno di modificare la memoria, certe sensazioni ed emozioni, e di guidare l'azione lungo direzioni prestabilite. Di fronte a questa prospettiva, Ingraham e Smith, pur essendo disposti ad ammettere tutti i problemi etici che essa comporta, citano Victor Hugo quando afferma che «niente è più potente di un'idea il cui momento è arrivato». «Lo stesso - essi concludono - si può dire di una tecnologia il cui momento si sta avvicinando», e continuano:
«I paesi in cui la vita sociale progredisce di pari passo con l'avanzare della tecnologia riusciranno a sopravvivere nel mondo di domani; quelli che guardano al passato e rimangono ancorati a valori superati da tempo cadranno nello stesso stato di decadenza in cui si trovò la Cina nel diciannovesimo secolo e all'inizio di quello attuale a causa dell'esasperato culto del passato. Le nazioni che riusciranno a controllare il comportamento in modo da controllare la criminalità saranno immensamente avvantaggiate rispetto a quelle che non ne saranno capaci. Ci piaccia o no, i cambiamenti tecnologici richiedono cambiamenti anche nella vita politica e sociale, e un sistema di valori che si adatti a questi cambiamenti nel modo migliore».
In altre parole, quelli di noi che conserveranno «valori
sorpassati da tempo» verranno spazzati via nel nome del progresso. E quando
il Progresso riceverà la benedizione della Scienza e della Medicina,
sarà difficile impedirne l'entrata nel sistema carcerario.
Non entrerò qui in un'analisi della portata di queste tecniche di sorveglianza
e controllo al di fuori dell'ambiente circoscritto delle prigioni. Ma istituzioni
come le prigioni e i manicomi sono soltanto l'embrione in cui si sviluppano
nuove forme di controllo sociale, che verranno poi applicate non solo su coloro
che hanno apertamente infranto le regole o minacciato la società, ma
anche su chi è giudicato - in base all'autorità scientifica -
potenzialmente pericoloso. L'efficacia dei metodi di applicazione della legge
e di punizione continua a diminuire - persino i criminologi più ortodossi,
come Leslie Wilkins, prevedono che se si continua a usare gli stessi metodi
l'intero sistema della giustizia crollerà prima della fine del secolo
(8) e questo porterà gradualmente all'impiego di specialisti in cibernetica
e psichiatria. Lo sviluppo delle banche nazionali delle informazioni ed altre
forme di sistemi di raccolta e di sorveglianza computerizzati e centralizzati
è solo l'inizio. L'industria elettronica sposterà una parte dei
suoi stanziamenti di bilancio per le ricerche in materia di difesa, verso quelli
che vengono eufemisticamente definiti «studi di possibilità di
applicazione nel settore pubblico», e con ciò si evolverà
una nuova teoria dell'applicazione della legge, e la verifica da parte del pubblico
in questo campo avrà un'importanza altrettanto limitata che nelle decisioni
riguardanti gli armamenti. Nella sua autorevole e favorevole analisi delle tecniche
coercitive di modificazione del comportamento, Schwitzgebel cita una relazione
(sull'impianto di apparecchiature radiotrasmittenti sulle persone per inviare
informazioni alla polizia) che fu presentata non a una conferenza criminologica,
ma all'Istituto Enrico Fermi per gli studi nucleari... Il linguaggio spersonalizzato
e privo di valori della tecnologia ricorre: Schwitzgebel e altri difensori della
modificazione coercitiva del comportamento (che comprende l'impianto obbligatorio
di strumenti nel cervello) osservano blandamente che «è possibile
che gradualmente emerga un nuovo campo di studio, che potrebbe venire chiamato
ingegneria del comportamento o strumentazione del comportamento» (9).
Gli intellettuali pensano, altri fanno la parte disonesta del lavoro, e poi
gli intellettuali lo trasformano in un «campo di studio».
I riformatori sociali che seguono la tradizione democratica «liberale»
hanno pensato, ingenuamente, che l'innesto di una ideologia terapeutica nelle
prigioni o addirittura la loro eliminazione totale avrebbero potuto risolvere
completamente il problema, e che lo sviluppo di forme alternative di controllo
poteva essere affidato con tranquillità ai tecnici dello stato.
- Il sipario non cala.
La tendenza al prolungamento della durata delle pene detentive
è ormai ovvia. Le voci che chiedono sentenze a vita che siano proprio
«a vita» sono diventate stridenti e rispettabili. Alla fine del
1972 il Parlamento inglese ha discusso una proposta che partendo dal presupposto
che «la condanna a vita nella sua forma attuale si è rivelata quasi
una farsa», vorrebbe che ai giudici venisse "richiesto" di fare
ciò che in ogni modo fanno già, sia pure non formalmente: raccomandare
la sentenza minima che ogni condannato a vita dovrebbe scontare. La proposta
originale, che fissava in trent'anni il termine minimo, è stata accantonata,
ma è chiaro che si suggerisce l'adozione di un periodo di simile lunghezza.
Nello scenario del «deposito» ho descritto le principali conseguenze
di questa tendenza. Ma le condanne a medio e lungo termine potrebbero - con
l'aiuto dell'ideologia della riabilitazione - svilupparsi lungo un'altra direzione,
il che aggiungerebbe un elemento interamente nuovo alle prigioni. Alcuni riformatori
sociali sostengono da tempo che emettere sentenze in base a una scala temporale
"fissa" a seconda della gravità dell'offesa non ha senso se
ciò che si deve stabilire è in che momento un carcerato dovrebbe
essere rimesso in libertà. Al momento della sentenza, il tribunale non
può sapere per quanto tempo un individuo dovrà rimanere in prigione
per trarre i supposti benefici dall'esperienza vissuta; soltanto la direzione
della prigione può sapere quando può essere rilasciato. Naturalmente,
questi principi si sono già infiltrati nel sistema, almeno per quanto
si riferisce al condono per buona condotta di una parte della pena e all'introduzione
del sistema di libertà vigilata, il che è ancora più importante.
L'estensione logica ed estrema di questo sistema non può peraltro essere
attuata senza eliminare prima i limiti abbastanza rigidi imposti dal sistema
giuridico all'applicazione delle norme relative alla buona condotta, alla concessione
di licenze e ai sistemi di libertà vigilata, né senza arrivare
a delle sentenze originali che siano almeno parzialmente indeterminate.
Attualmente, le condanne a vita hanno già questa configurazione, e -
nel caso delle condanne per omicidio - il Comitato britannico per la revisione
del diritto penale ha raccomandato, all'inizio del 1973, di non modificare la
legge che impone al giudice di applicare la condanna all'ergastolo. Vi sono
due ragioni alla base di questa raccomandazione: primo, la prospettiva di una
possibile condanna a vita scoraggia i criminali, e, secondo, la legge attuale
è notevolmente elastica: è possibile (ed è stato fatto)
incarcerare un individuo per il resto della sua vita naturale. Resta da vedere
se questa caratteristica di flessibilità verrà estesa anche ad
altri delitti, per i quali attualmente si applicano condanne a tempo determinato
di media o lunga durata.
Nel caso della sentenza indeterminata, l'autorità del tribunale è
limitata all'invio del condannato in carcere per un periodo indefinito di tempo:
dopo un certo lasso (anche solo un giorno) l'istituzione, o un'altra autorità,
può rilasciarlo definitivamente o in libertà vigilata (con l'obbligo
cioè di presentarsi al controllo). Considerate tutte le critiche che
vengono rivolte al sistema con cui si emettono le sentenze oggi, e le attrattive
dell'ideologia riabilitativa, questo metodo è visto con favore da molti
riformatori. A dire il vero, sembra l'unico logico. Come dimostra Martin Miller
nell'analizzare l'evoluzione del paradigma delle sentenze indeterminate in America
(10), è da tempo che lo si propone come una specie di toccasana in materia
penale. Miller cita un riformatore penale che scriveva nel 1847:
«Mi chiedete per quanto tempo dovrebbe essere condannato a questo isolamento? Ovviamente mi sembra, fino a quando la malvagità non sarà scomparsa dal suo animo, fino a quando sarà nuovamente capace di vivere in libertà: fino a quando, cioè, non si sarà riformato».
Considerandola nel contesto dei movimenti riformatori del diciannovesimo secolo, e dei loro corrispondenti attuali, è facile capire perché l'idea di tenere al fresco un individuo fino a quando il suo atteggiamento non dia qualche indicazione che non ripeterà l'atto delittuoso una volta rilasciato, risulti attraente: lo è, infatti, per quelli che vogliono che la società sia protetta da ulteriori degradazioni criminali, ma si adatta molto bene anche a tutti i modelli medici applicabili nell'area del crimine e della prigione. Come in un ospedale, l'internato può essere rilasciato soltanto quando è stato «curato» . E' ancora Miller a citare una delle prime (1905) dichiarazioni esplicite a questo riguardo:
«Condannare un ladro a cinque anni di carcere sarebbe tanto irrazionale quanto ricoverare un matto in manicomio per un periodo prestabilito di cinque anni o un malato di vaiolo in ospedale per esattamente tre settimane. Sia il pazzo, sia la persona affetta da una malattia contagiosa devono essere rinchiusi fino a quando sono guariti - fino a quando il loro rilascio non costituisce più un pericolo per il pubblico. E questo sistema è anche l'unico razionale per quanto riguarda i criminali».
Non intendo esaminare in questa sede tutti i vari aspetti del
funzionamento del sistema di Sentenze Indeterminate (S.I.), che si applica nella
maggior parte degli stati americani. Alcuni punti importanti emergono tuttavia
dal modo in cui questo modello è stato applicato in California, stato
in cui il sistema - dato l'ampio divario temporale tra condanne massime e minime
e l'impiego di personale specializzato per effettuare le valutazioni - ha acquisito
la reputazione di essere il più evoluto tra quelli ad orientamento terapeutico
del sistema penale americano. Vi sono due critiche fondamentali da sollevare:
1) la sentenza a tempo indeterminato può diventare di fatto una sentenza
"indefinita", per cui chi non si adegua alle regole stabilite dall'autorità
che deve concedergli la liberazione viene semplicemente messo in una specie
di «deposito»; 2) il principio della cura può diventare poco
più di una facciata, dietro la quale gli amministratori della prigione
dispongono di una nuova e potente forma di controllo sociale. L'incertezza del
recluso, e l'impossibilità di elaborare una strategia temporale, possono
servire per manipolare il suo atteggiamento, inducendolo all'obbedienza passiva
e alla conformità con il sistema. Inoltre, i carcerati pericolosi o difficili
possono essere trattenuti senza che vi sia la necessità di giustificare
pubblicamente questa decisione. Come conclude Miller, la retorica del modello
medico rende il sistema molto flessibile: si ha «... un eccellente strumento
di gestione per controllare i mutamenti della popolazione, stabilizzare la crescita
organizzativa, addolcire le riforme amministrative ed ideologiche, e soddisfare
efficacemente le necessità delle industrie, dell'approvvigionamento e
del personale della prigione».
A mio avviso, il sistema S.I. prenderà piede in Gran Bretagna e in Europa,
ma sembra comunque probabile che si sviluppino forme diverse dello stesso principio,
e questo, assieme all'attuale ovvia tendenza ad eliminare per quanto possibile
i condannati a pene brevi, significa che per un numero sempre maggiore di carcerati
il sipario non calerà: essi rimarranno per lungo tempo sulla scena.
- Le recensioni dei critici.
L'uso che io faccio della metafora teatrale non dovrebbe essere
interpretato in modo troppo letterale, poiché esso non intende affermare
che le critiche dall'esterno non possono in alcun modo influire sul corso degli
avvenimenti. In ogni caso, anche volendo continuare con questa metafora, dovrebbe
apparire evidente che i critici possono avere, e hanno, influenza sul modo in
cui il dramma viene rappresentato, e possono, in ultima analisi, decidere anche
che venga o non venga rappresentato. Ho già indicato come, in quasi tutti
gli «scenari», ciò che accadeva all'esterno ha influito sul
sistema. Nell'ultimo decennio, infatti, c'è stato in Inghilterra uno
sviluppo notevole delle organizzazioni interessate alla trasformazione del sistema:
oltre alle organizzazioni riformatrici esistenti già da tempo, come la
Howard League, altri gruppi, quali il Rap (Radical Alternatives to Prison) e
il Prop (Preservation of the Rights of Prisoners, il sindacato dei carcerati),
e altri gruppi comunitari minori, hanno svolto, in vari modi, un ruolo di primo
piano, pubblicizzando la situazione delle prigioni e creando alcune alternative
funzionali.
E' chiaro che l'attività e l'impegno aumenteranno, anche se non è
tanto facile prevedere la direzione che seguiranno. E' probabile che, nel futuro
prevedibile, le voci dominanti provenienti dall'esterno si limiteranno ad appoggiare
la tradizionale retorica delle critiche provenienti dall'interno del sistema
stesso. Queste recensioni, in altre parole, saranno scritte come quelle delle
riviste aziendali. Quelli che conoscono la situazione dall'interno - amministratori
e tecnici - leggendo articoli di fondo, manifesti politici dei partiti, relazioni
annuali e ascoltando i discorsi alle conferenze riconosceranno annoiati le seguenti
«richieste»: maggiori disponibilità finanziarie, personale
più qualificato, edifici più moderni, salari più elevati,
maggiore prestigio per i professionisti, status più elevato per le guardie
carcerarie, appoggio dei sindacati alle industrie delle prigioni, migliori sistemi
di classificazione, più ampie possibilità di aiuto dopo la scarcerazione,
migliore comprensione da parte del pubblico, eccetera. Soltanto un critico totalmente
indottrinato può credere che queste riforme, pur desiderabili in sé
come alcune effettivamente sono, possano cambiare realmente il sistema, o che
si tratti di riforme veramente nuove. Si chiederà indubbiamente, da più
parti, «un chiarimento degli obiettivi dell'incarcerazione», nonostante
la confusione delle politiche sia una caratteristica innata del sistema, ulteriormente
complicata dalle impossibili pretese della società che si impegna a stabilire
quello che le prigioni dovrebbero fare, fatto questo ben noto a coloro che sono
"nel" sistema, e non tanto ai loro critici dall'esterno. Non è
sorprendente - anche se apparentemente lo è stato per i ricercatori -
che il ponderoso Studio sul sistema correzionale californiano (California Correctional
System Study) - basato su un'analisi del sistema molto più ampia di tutte
quelle che sono state programmate in questo paese, e comprendente la disamina
delle risposte di 5000 membri del personale e 8000 «clienti» - abbia
concluso che «non c'è, nell'attuale 'non-sistema', alcun accordo
sull'obiettivo generale della correzione, e anche l'accordo sugli obiettivi
di determinate specifiche componenti è molto limitato» (11). Quella
che ho definito «critica aziendale» continuerà dunque a inseguire
la inafferrabile soluzione della «chiarificazione», mentre le sue
proposte specifiche saranno assolutamente prevedibili e tradizionali e serviranno
soltanto a sostenere gli scenari già descritti.
Se le esperienze americana e scandinava costituiscono un dato indicativo, i
gruppi di pressione più attivi e militanti si concentreranno probabilmente
su tre serie di problemi: primo, la definizione del proprio status organizzativo
e dei propri problemi; secondo, la ricerca di una propria collocazione all'interno
dei gruppi di pressione politica maggiormente riconosciuti (partecipazione alle
attività dei gruppi parlamentari, preparazione di memorandum), e altri
impegnati in attività diverse (sit-ins, manifestazioni); terzo - e si
tratta di un punto critico - dovranno decidere se concentrarsi specificamente
sulle prigioni o ampliare decisamente il proprio raggio d'azione e attaccare
il sistema politico nel suo insieme. Quest'ultimo punto si collega al clima
politico generale; è significativo, per esempio, che l'impulso ai sindacati
dei carcerati in Gran Bretagna e in Scandinavia sia provenuto "dall'interno"
del sistema. L'interesse politico esterno è stato tiepido, e limitato
a una specie di continuazione delle tradizioni dello stato assistenziale. In
alcuni paesi, l'Italia per esempio, il notevole interessamento al movimento
carcerario è, d'altra parte, altamente politicizzato, e fondato su tradizioni
specificatamente marxiste o anarchiche. Queste differenze influiranno profondamente
su un aspetto del problema che è stato completamente trascurato in questo
studio: la resistenza opposta da quelli che dovrebbero ricevere il prodotto
di questi nuovi sistemi di controllo.
Un ultimo gruppo di critici è composto da sociologi, psicologi e altri,
che entrano nel sistema in qualità di ricercatori. Dato lo stretto legame
istituzionale che esiste tra molti di questi ricercatori e lo stesso ministero
degli interni (12), è difficile che da questa fonte possa emergere un
tipo di lavoro prolungato nel tempo e indipendente. I devianti istituzionalizzati,
come i carcerati, diventano di proprietà del ministero degli interni
e di altre autorità equivalenti che controllano l'accesso alle informazioni
e la pubblicazione (per mezzo dei meccanismi di leggi come quella sui Segreti
Ufficiali). Si tratta di un controllo molto centralizzato, influenzato da una
spaventosa alleanza tra i guardiani della burocrazia statale e un anacronistico
positivismo metodologico che governano rigidamente la definizione di ricerca
«corretta». Ci sono già alcune spaccature in questo monumento
monolitico, provocate soprattutto dal dissenso di alcuni amministratori del
livello gerarchico più elevato sulle restrizioni imposte al diritto di
comunicare liberamente tra loro su argomenti relativi al lavoro, e recentemente,
alcune commissioni hanno proposto, in Gran Bretagna, di rendere meno severe
le leggi corrispondenti. Ma per l'immediato futuro, la possibilità che
il pubblico possa procedere a un esame più particolareggiato delle ricerche
svolte è piuttosto tenue, né, bisogna ammetterlo, si può
avere la certezza che questo esame avrebbe un peso considerevole sull'evoluzione
del sistema.
E' forse giusto finire su questa nota: nessuno che sia al corrente dell'enorme
quantità di denaro, tempo ed energie che da più di un secolo è
stata spesa per parlare e scrivere delle prigioni può avere molta fiducia
in un modello di progresso che presuppone un certo grado di razionale coordinamento
tra le nozioni e le conoscenze acquisite e il sistema. Inoltre, soltanto un'analisi
assolutamente politica del ruolo degli intellettuali nella fabbricazione delle
nozioni e delle conoscenze e dei tecnici nell'attuazione della politica, può
rivelare chiaramente l'ideologia del controllo sociale. Il dramma delle prigioni
ha implicazioni che vanno molto al di là della scena su cui viene rappresentato.
[Traduzione di Giovanna Weber Sommermann].