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Dei dolori e delle pene 7.
Dolore e corpi

91. Dopo aver accennato alla memoria, sarebbe utile parlare del corpo per riconsiderare il tema del dolore.
La prigione è anzitutto una pena corporale, non è un semplice divieto posto alla libertà di circolare, come si è provato a dimostrare fin qui. Pena corporale perché il suo scopo è quello di spezzare la personalità, in questo non facendo che seguire con altri mezzi il cammino segnato dalla tortura.
Tuttavia mi è impossibile affrontare in queste pagine l'argomento "corpo"; la sua vastità e la sua complessità vanno al di là delle mie forze e questo non è altro che un opuscolo abolizionista incentrato sul tema del dolore per affermare la prospettiva dell'abolizione delle carceri in quanto dolorifici legali. Posso dire però che la reclusione è organizzata come se volesse farci dimenticare che abbiamo un corpo.
Il corpo reso muto è un corpo da dimenticare.
Vorresti fare una passeggiata, là, e ora? Vorresti chiacchierare con qualcuno, qui, e ora? Ora sei chiuso in cella, qui. Puoi passeggiare e chiacchierare sì o no, dove, quando e come e con chi decide l'autorità.
Il corpo ignorato smette però di reagire come un animale domestico. E l'animale in gabbia rivela - anche se sembrava domestico - caratteristiche fino ad allora poco conosciute.
La prima scoperta da farsi è che il corpo ignorato non produce vuoto ma dolore: dolore fisico. Il dolore è una reazione all'ignoranza del corpo, serve a ricordarci che siamo un corpo. E' l'aspetto assunto dal senso della realtà, criterio di verità che prova ad ancorare la mente al mondo, dicendoci che ne siamo parte. E' la parola dei muti ai quali non è consentito il gesto.
Queste affermazioni sono valide per tutti gli esseri umani, e sembreranno pure ovvie. Ma è difficile accorgersene veramente, dal di dentro, altrove che nelle istituzioni totali o (come vedremo) nelle malattie "terminali". Posso offrire due tipi di osservazioni per dimostrare questa tesi.

92. Il primo tipo potrebbe essere una fornitura ragionata di dati sulla salute in carcere. Purtroppo in Italia manca una riflessione sistematica in questo senso. In Francia è stato pubblicato il libro di un medico penitenziario di Lione. Rimando a questa lettura chi voglia approfondire l'argomento. Si tratta de Il corpo incarcerato di Daniel Gonin (1991). La traduzione italiana è preceduta da un'introduzione di Massimo Pavarini che così riassume la "trasformazione dei sensi della carne imprigionata" nel primo periodo di carcerazione:

"circa un quarto degli entrati in prigione soffre già dai primi giorni di vertigini; l'olfatto viene prima sconvolto, poi annientato nel 31% dei detenuti; entro i primi quattro mesi un terzo degli entrati dallo stato di libertà soffre di un peggioramento della vista fino a diventare con il tempo "un'ombra dalla vista corta" perché lo sguardo perde progressivamente la funzione di sostegno della parola, l'occhio non si articola più alla bocca; il 60% dei reclusi soffre entro i primi otto mesi di disturbi all'udito per stati morbosi di iperacutezza; il 60%, fin dai primi giorni, soffre la sensazione di "carenza di energia"; il 28% patisce sensazioni di freddo anche nei mesi estivi.
L'implacabile documentazione del corpo martoriato del recluso non si ferma a questo solo: tre patologie sono sovrarappresentate tra gli uomini privati della libertà rispetto a un campione di riferimento di uomini liberi: la dentaria, la dermatologica, la digestiva. Al momento dell'ingresso in prigione la patologia digestiva ("il detenuto è un tubo digerente, anzi un buco") segue immediatamente alla patologia dermatologica, a pari grado con la patologia otorinolaringologica e polmonare; dopo sei mesi le affezioni della pelle diminuiscono di numero, le turbe del tubo digerente accompagnano nella loro crescita i disturbi delle vie respiratorie (28%) ponendosi al secondo posto dopo la patologia dentaria".

93. Il secondo tipo di osservazione è quello che m'interessa ancora di più perché è l'osservazione che, in certo modo, si sottrae a ogni dato, e che mi costringe ad attingere alla letteratura per trovare corrispondenze con quanto voglio dire.
Nel romanzo Morte di un apicultore, dell'autore svedese Gustafsson, il protagonista è condannato a morte da un cancro e scopre, come un prigioniero, che

"gli altri incominciano dalle passioni racchiuse nel mio corpo".

C'è una precisa ragione che rende simile la condizione di un condannato a lunga pena a quella di un malato di tumore. Il carcere ha come sola regola la sregolatezza nei tuoi confronti, la vetta della legalità è l'illegalità ecc. Socialmente parlando, il sistema penale ti si presenta perciò come un cancro, un insieme di cellule "impazzite", una "escrescenza".
In questo mondo fuori della legge riservato alle vittime della legge "le regole essenziali del gruppo esterno, - afferma Gonin - divenute derisorie, sono sostituite da costrizioni male accettate, poiché troppo concentrazionarie, che danno via libera a tutti i regolamenti di conti. E' il coacervo di questi regolamenti di funzionamento e disciplina, globalmente rifiutati dai reclusi, che forma la ganga impermeabile, al riparo della quale si sviluppa l'escrescenza carceraria. La vita in prigione presenta tutti i sintomi che si attribuiscono al tumore canceroso e alle cellule che lo compongono".
Il "tumore"-carcere, come in non pochi casi quello vero e proprio, avendoci fatto scoprire gli altri in noi sotto forma di passioni, porta alla stessa "inquietudine erotica" del protagonista del romanzo di Gustafsson:

"l'avvilente, costante memento che la solitudine è una condizione impossibile, che una cosa come un essere umano solo non può esistere.
Che la parola "io" è il vocabolo più assurdo della nostra lingua. Il punto vuoto del linguaggio.
(Così come un centro è sempre necessariamente vuoto)".

E' poi tipico di tutti i prigionieri rimpiangere momenti della vita precarceraria e concludere: "Ah, se ripotessi ora..." Il rimpianto non ha nulla a che fare col rimorso: è l'acquisizione di una maggior coscienza del valore di tante cose che nella normalità si sottovalutavano. Anche il rimpianto è una tipica esperienza della malattia grave:

"Quando, 14 giorni fa, i dolori sono cessati, mi è stato restituito una sorta di paradiso originario. Ma il presupposto di questo era il dolore. Il dolore era una forma di verità... Ora si potrebbe cominciare a costruire nuovamente una qualche scala di valori" (Gustafsson).

Malato grave e recluso di lunga pena possono allora raggiungere la stessa conclusione di fondo:

"Io sono un corpo. Tutto quello che si deve fare, che si può fare, dev'essere fatto dentro questo corpo" (Ibid.).

Il malato di cancro morirà o si salverà, magari sfidando la previsione dei medici. Qui però l'analogia fra malattia da carcere e malattia è già cessata. Il recluso non può guarire. Sfiderà la medicina non guarendo, qualunque cura gli si dia.
Quando la causa del dolore non si può rimuovere, lo stato irritato si ripete fino a diventare una sorta di continuum: si cronicizza. Allora parleremo di malattia.
Ogni detenuto è un malato, in quanto detenuto.
Un medico della scuola igienista spiegherà giustamente che ogni malattia è una forma specifica di intossicazione, a questo o quel grado d'intensità, con questa o quella localizzazione a seconda della storia d'ognuno. La malattia in fondo è sempre e solo una: una intossicazione squilibrante dalla quale si esce con una sola cura che, in teoria, non ha neppure bisogno di medici-esperti: basterebbe vivere in un ambiente rispettoso di alcune minime norme igieniche, con un regime alimentare sano e - soprattutto - in un clima umano stimolante.
Tutto il contrario della prigione. La "guarigione" è impossibile.
Ma sarà possibile, comunque, una "cura"?

94. Alla luce di una lunga esperienza personale mi sono formato una convinzione che forse scandalizzerà qualche liberale: in carcere la malattia psicosomatica è uno stato necessario del corpo. La malattia è la cura, anche se una cura pericolosa. Non si guarisce per non morire.
Come disse un detenuto: comportarsi da normali in una situazione anormale sarebbe proprio da anormali.
La malattia psicosomatica (artrite, gastrite, eczema ecc.) fa da barriera a un più grave grado d'intossicazione: la malattia degenerativa (o invecchiamento precoce, come si diceva più chiaramente una volta) o l'epidemia. E' il piccolo male che ci protegge dai grandi mali sempre in agguato fra le mura, in noi e fuori di noi: il diabete o l'epatite, la malattia cardiovascolare o la tubercolosi, il tumore o ..., ecc. La malattia da carcere che si sviluppa a partire dall'iniziale alterazione dei sensi, è omeopatia spontanea. E' l'arma della tolleranza verso il corpo contro l'annientamento.
La ragione più profonda della malattia omeopatica naturale in carcere è la necessità vitale di resistere contro l'esasperato dualismo di un ambiente organizzato per scindere il corpo dalla mente.
Il prezzo di una troppo buona... salute fisica rischia di essere la morte psichica. C'è un'abitudine che si sta diffondendo nella società (si pensi agli Stati Uniti) e che in carcere si è spesso vista da tempi più antichi: la dedizione maniacale al corpo di taluni attraverso diete rigorose ed esercizio fisico spaventoso. Il commento dei non-maniaci è bonario: "lo fa per non pensare, forse si è bevuto il cervello".
La scienza medica ci descrive casi di schizofrenici dotati di grande forza e di resistenza fuori dal comune. Vi sono casi in cui l'individuo ri-sente il proprio corpo, e perciò sta male, quando è lucido-depresso, e sta "bene" fisicamente nei suoi periodi di autoesaltazione, pur non pensando magari neppure a mangiare, stando nella sporcizia, ecc. Ma proprio in questo periodo diremo di lui che è un "altro": la sua identità è, per noi, quella di un estraneo rispetto alla realtà in cui si trova.
Sopprimere le sensazioni del corpo per difendersi dal dolore è una reazione adatta alla tortura. Molte sue vittime sono riuscite a difendere la loro libertà psichica negando l'esistenza del proprio corpo. Ma quel che va bene contro la tortura è disastroso contro la carcerazione, dove è invece fondamentale difendere la propria sensibilità (e i propri cinque sensi) a costo di affrontare il dolore come il "governo di una contraddizione" inevitabile.
Chi è reduce da una resistenza alla tortura deve spesso essere riabilitato con delle cure che gli facciano riacquistare la cognizione del proprio corpo. La riacquisizione del corpo è possibile per delle persone che hanno saputo difendere in circostanze eccezionali la libertà mentale. In carcere, invece, per desensibilizzarsi si è rinunciato proprio a questa libertà. Chi non è più se stesso per autorinuncia non può più guarire facilmente come il torturato.

95. Questi poli della condizione umana tra le mura vanno ovviamente misurati sulle singole persone.
Ci sono tante prigioni quanti sono i reclusi perché ogni carcere è definito prima di tutto dalla quantità di pena da scontare: la reclusione vera comincia dal processo e non dalla prigione, indipendentemente dal fatto che si sia già rinchiusi o no; è un percorso che, dal tribunale alla cella, isola progressivamente l'individuo fino alla sua completa atomizzazione. Se la pena è breve l'individuo tenderà a ignorare più che potrà il luogo in cui è capitato, rifiutandolo: metterà la sua esperienza tra parentesi, si autoincapsulerà. Maggiore è la pena, meno il letargo difensivo è possibile e andrà somigliando, piuttosto, alla morte.
Ma quando si arriva al "fine pena mai" recitato dal certificato di detenzione per l'ergastolo, entriamo in un altro mondo, dove non si ha più nulla a che spartire né con gli altri detenuti né con gli altri esseri umani. Qui l'"incapsularsi" non ha più senso, non è più parentesi ma abisso.

96. Con la pena perpetua il penitenziario si smaschera del tutto, ricordandoci di non essere solo il sofisticato sostituto della tortura, ma anche e prima di tutto della pena di morte. Poiché in Italia esistono moltissime condanne superiori ai 10 anni, è ridicolo parlare di recupero dell'individuo, è ridicolo fingere di credere che la sofferenza serva ad espiare e salvare il malcapitato dopo averlo purificato. Si evidenzia che per tutti i reclusi lo scopo è quello di asservire e spegnere le menti, ammansire delle bestie ai propri voleri di padroni di bestie in un mondo fondato sulla bestializzazione. E sull'ipocrisia, dato che con l'ergastolo la morte è affidata al tempo, la condanna limitandosi a dare una mano al percorso naturale per accelerarlo.
Ma se accelerare la morte è lo scopo della sentenza, quello del sistema penale che vi sta dietro è ancora più diabolico perché vuol trasformare già l'essere vivente in un morto che cammina. Qui il condannato è utile da vivo perché è regolato da un meccanismo prezioso: il suo comportamento è (dev'essere) dettato dal fatto che non è più "padrone" della propria vita. Essa appartiene veramente, nei fatti, per sempre (a meno che non venga concessa la grazia dal presidente della repubblica) e interamente al sistema penale, in primis ai suoi tribunali di sorveglianza, ma anche al resto del suo variegato personale, carcerario e non. Per chi ha un fine-pena, per il libero cittadino il quesito della "proprietà sulla vita" non si pone realmente dato che in fondo questa è sì la pretesa di ogni dominio, ma pure un non senso: non si possiede la propria vita, si è tutt'uno con essa, si è la propria vita nel bene e nel male. Ma per l'ergastolano avviene prima o poi questa singolare scoperta della propria assoluta diversità - come descrive in un libro Nicola Valentino, anch'egli condannato a vita.
Qualcuno saprà spiegare questa diversità e l'altro no, ma tutti la sentiranno, la vivranno. Molti faranno una fine tragica andando a costituire i due estremi del reducismo dignitoso e autoemarginato da un lato e, dall'altro, delle varie forme di identificazione col "proprietario occulto" nei ruoli di vegetale, o venduto, folle... Qualcuno resiste - spero di esserne una delle dimostrazioni.
Un luogo comune dice che ormai anche l'ergastolano esce di prigione, un giorno. E' vero, esce prestissimo se fa il pentito, dopo molti anni (un quarto di secolo) se non lo fa. Ma anche quando esce, la sua vita permane in mani altrui. Un tale lo perseguita, gli sputa addosso?: se reagisce potrà andare a rifarsi la prigione fino alla morte. La più banale reazione può avere il più fatale degli esiti.
A questo serve l'ergastolo, a stabilire un importantissimo principio: il potere totale sulla vita altrui da parte non già del carcere, ma del sistema penale nel suo complesso, anche al di là del carcere. La pena non si esaurisce più nella detenzione quale suo punto massimo, ma anticipando la morte (non si è più la propria vita) e provocando una sensazione (una sofferenza) peggiore della reclusione.
Le implicazioni di questo "principio" sono tante.
Da sempre, l'ergastolo trascina verso l'alto tutte le altre pene. I massimi edittali in Italia sono tra i più alti del mondo! Si tratta di pene che ora non tutti compiono fino in fondo nello stato di detenzione. Al contrario, la pena, di nuovo come un tempo, estendendosi al di là del penitenziario inventa... nuove forme di vita condizionata: lavoro esterno, semilibertà, affidamento al servizio sociale. E' tutto un pullulare di pene alternative al carcere invece che di alternative alla pena. E in tutte vige il principio che ha trovato la sua matrice nell'ergastolo: la tua vita non è nelle tue mani, sei il robot del sistema penale in una spirale che rischia di far diventare le pene da scontare sempre più lunghe. Queste pene "altre" non sostituiscono il carcere, vi si aggiungono.

97. I riformatori democratici del sistema penale (nella sinistra italiana, per esempio) chiedono l'abolizione dell'ergastolo, la messa in discussione della centralità della detenzione potenziando misure alternative a essa.
Come ho appena provato a dimostrare, a parte l'abolizione dell'ergastolo è da tempo che il processo auspicato dai riformatori è in atto: a modo suo. La centralità della detenzione è stata messa in discussione, ma per potenziare l'illibertà, il peso della pena nella società oltre le mura delle carceri, la pervasività del sistema penale. Non si vedono forse persino assistenti "sociali" (?) togliere bambini a famiglie povere invece di aiutarle?
Quel che i riformatori ignorano - perciò illudendosi - è la microsociologia della pena: la pena nella pena, il carcere nel carcere - realtà invisibile sperimentata per primo dall'ergastolano, che ora si diffonde in nome dell'umanizzazione, ed è impossessamento della "vita" da parte di un soggetto estraneo. E' una realtà che andrebbe chiamata "carcere invisibile" o "istituzione totale invisibile". In tal modo si comprenderebbe meglio che spesso con la generica e annebbiante parola "vita" si fa riferimento alla realtà interiore degli individui.
I riformatori più radicali giungono a voler abolire la stessa pena detentiva. Ma non il sistema penale. Il quale riuscirà sempre a riprodurre e mantenere il carcere se non si mira anche alla sua abolizione. Bisognerà pur chiedersi infatti perché le pene alternative si sono sommate e non sostituite alla reclusione: hanno fatto aumentare il numero di persone limitate nella loro libertà aggiungendole ai classici reclusi, riuscendo così a far aumentare anche il numero dei reclusi classici e a moltiplicare per essi i "trattamenti speciali" (cioè peggiori)!: l'"alternativo", dal 1986 in poi, è stato cioè usato soltanto come strumento di ulteriore differenziazione volto a ottenere maggiore collaborazione.

98. Il sistema penale è un groviglio inestricabile di interessi coagulatosi intorno alla storia millenaria della pena come un labirinto sempre più grande. Attraverso le pene alternative è persino riuscito a cooptare nuovi settori sociali. E' noto da decenni il ruolo svolto da sociologi e psicologi al riguardo, così come è stato inventato il ruolo dell'educatore per coadiuvare le direzioni penitenziarie. Ma si pensi al volontariato, spesso usato non già per il recupero e il reinserimento sociale ma di fatto come controllo per una sorta di carcere blando, quindi con compiti "sostitutivi" quasi come un personale ausiliario. C'è dunque una costellazione di ruoli che, nata in nome dell'alternativa, tende a rinnovare la centralità della classica pena detentiva alla prima "emergenza", creata da quella stessa costellazione.
La pena è la tossina e il sistema penale è lo stato tumorale della società. Tutte le riforme al suo interno fungono da metastasi che preparano la ricaduta.

99. Se l'ergastolo, sostituto mascherato di una lenta pena di morte, è matrice inquinante del meccanismo sovradescritto, la repressione della tossicodipendenza ne è uno dei risultati più illuminanti.
La figura del tossicomane si presta a tutti gli usi possibili di modo che ogni volta la logica della pena può esaltarsi, occultarsi, straripare ecc. Nella sua plasticità, la figura può essere presa in considerazione come: criminale, vittima, demente, malato fisico... A ognuna di queste facce corrisponde un ruolo e ogni ruolo è interscambiabile tanto ne sono labili e mobili i confini: poliziotto e guru, giudice e medico, assistente e carceriere, volontario e funzionario, moralista e scienziato...
Il delinquente maneggevole di Foucault è figura quanto mai primitiva, anche perché è soggettivamente ribelle alla reclusione. Il "drogato" invece si è costruito da solo, diciamo pure volontariamente, una prigione chimica e si tratta solo di inquadrarlo nell'illegalismo. Uno di essi spiegava: "quando prendo l'eroina, mi trovo bene dovunque e con chiunque". Nessun dominio potrebbe pretendere di più. Le irrequietezze della coscienza sono diventate disturbi, fastidi che si risolvono con un po' di polvere. Il campione settecentesco del riduzionismo interpretativo, il filosofo La Mettrie, consigliava l'uso di droghe per avere l'illusione della felicità. Il suo consiglio è diventato pratica di massa per accettare questo mondo così com'è, per sopportarlo dandocene una diversa percezione.
L'uscita dal proprio io isolato è una necessità irreprimibile della coscienza; è anzi meglio dire che il bisogno di autotrascendenza (Huxley) è il motivo stesso per cui abbiamo una coscienza. Che lo si risolvesse artificialmente come soluzione chimica di un fastidio è uno dei miracoli ottenuti dalla civiltà del dominio: eppure il miracolo da un lato viene sì favorito, ma dall'altro viene punito! Perché rafforza a dismisura il sistema penale.
A Zurigo è stata creata un'isola non proibizionista. Una ragazza prima costretta a vivere "ai bordi" per procurarsi la dose, è oggi una perfetta impiegata che va a prendere ogni giorno la sua dose d'eroina al centro. Oggi però un mucchio di gente - trafficanti, repressori, salvatori d'anime - non "mangia" più sulla sua esistenza come quando doveva prostituirsi o rubare o rischiare l'aids. Questa però è ancora una bassa spiegazione economicista. Il vero pericolo è che l'autotrascendenza prenda forme lucide diventando critica della società. La repressione del consumo di droghe consente come in nessun altro campo al repressore di presentarsi come salvatore della vittima. E' l'aiuto che uccide; ed è riconosciuto come tale da molti degli interessati. Solo un'infima minoranza frequenta le comunità terapeutiche, e di questa minoranza molti ci vanno soltanto per evitare il carcere. Mi è però capitato di conoscere dei giovani che, avendo sperimentato i due luoghi, preferivano di gran lunga il carcere alla comunità. Non perché là avessero subìto violenze fisiche, ma semplicemente perché in prigione si sentivano più rispettati come persone, erano più liberi di muoversi come individui "normali" anche solo leggendo il libro che si erano scelto loro alla biblioteca del carcere.
Certo non tutte le comunità sono uguali, ma quasi tutta la spesa per l'intervento sulla tossicomania va alle comunità, cioè per dei luoghi d'aiuto ritenuti talora peggio della prigione e da cui il 90% dei presunti interessati sta comunque lontano. Ecco dunque un settore che, al di là delle buone intenzioni dei suoi animatori, serve solo ad ampliare la presenza della pena e del suo sistema, ad aumentare le sofferenze. E che dimostra ancora una volta come la questione più importante sia la pena nella pena, il carcere invisibile capace in questo caso di essere a volte presente fuori dalla prigione più di quanto non lo sia dentro. Inoltre, con la droga, il sistema penale interviene in un campo che, per quanto sarebbe di sua stretta competenza, il consumatore ha già affrontato e risolto da solo. Quanto a ridare un senso dell'esistenza che non abbia bisogno d'interventi chimici, di sicuro la criminalizzazione del consumo di droghe fa il contrario.

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