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9.
Pena come merce o lavoro come dono
11. L'abolizionismo ha oggi un'occasione storica: può uscire dall'utopia-pensiero di un "altro tempo" e diventare utopia concreta, cioè - secondo l'espressione di Ernst Bloch - un "principio-speranza" che guidi il nostro presente.
I tempi delle conquiste dell'utopia concreta non sono facilmente definibili poichè dipendono da una cultura diversa da quella attuale che cresca dal basso e renda superfluo quel che oggi appare necessario. Ma, ecco la novità, la possibilità è resa attuale dalle reazioni spontanee ad alcuni effetti della terza rivoluzione industriale altrimenti disastrosi.
L'utopia concreta ha infatti ben poco di profetico. E' una capacità di vedere con un nuovo sguardo il presente. Nel nostro caso si tratta anzitutto di vedere quel che pur essendoci sempre stato non è stato mai visto dai più.
La pena è il tentativo utopistico-insensato di far soggiacere il dolore alle leggi dell'economia. Il dolore dell'offensore dovrebbe ripagare la vittima del dolore ricevuto. Sappiamo che la ricerca dell'offensore riesce solo nell'1% dei casi perchè si fonda sull'idea sbagliata che esista un'ontologia del crimine mentre ogni caso concreto si rivela diverso dall'altro sottraendosi a questa astrazione. Ma ciò vuol dire - anche - che, in una proporzione che può arrivare a 99 casi su 100, "le alternative alla giustizia penale sono la norma piuttosto che l'eccezione"! (Hulsman, 1991). Ora però, secondo Hulsman,
"la cosa strana è che non sappiamo molto sul rimanente 99% (o 90% o 70%) degli eventi penalizzabili che non sono stati penalizzati. Una conseguenza di ciò è che tali eventi non figurano nei dibattiti pubblici sulla giustizia penale, dato che quest'ultima è basata su una conoscenza pubblica e non privata. Attualmente siamo tutti abbastanza a conoscenza - una conoscenza privata - delle cose che possono essere penalizzate e non lo sono, ma non abbiamo una conoscenza pubblica di questi fatti e nessun codice di linguaggio concordato all'interno del quale possano essere discussi. Per questa ragione, non si trovano sul tavolo dei dibattiti".
Per piccoli episodi sgradevoli molti considerano il ricorso alla giustizia un "inutile fastidio in più". (In caso di piccolo furto, la denuncia non è fatta per il suo risvolto penale che può avvenire d'ufficio, ma per il diritto civile al rimborso del danno da parte dell'assicurazione). Ma in Olanda c'è già qualcosa in più: donne molestate sessualmente, incoraggiate da abolizionisti e femministe, abbandonano il diritto penale e si rivolgono al diritto civile ottenendo che il molestatore non possa più frequentare la loro stessa zona abituale. I due tipi di casi hanno qualcosa in comune. Nel primo il soggetto passivo di un'esperienza sgradevole non vuol viverne una seconda che lo vedrà, appunto, di nuovo passivo. Nell'esempio olandese la vittima trova invece una soluzione in cui non è più passiva. Al di fuori della giustizia penale e dell'astratto piacere della vendetta, ha trovato un'alternativa che non la vede più espropriata del proprio conflitto: nella giustizia penale invece, essa potrebbe fare solo da testimone.
12. La mancata contemplazione delle alternative già esistenti alla giustizia penale non è altro che il riflesso di un'altra mancata contemplazione indotta dalla cultura dell'Uomo Economico: il non sapere che la maggior parte delle nostre vite si svolge, ancora oggi, al di fuori di ogni dimensione economica, fuori dal criterio utilitarista; e che la stessa vicenda economica si svolgeva fino a non troppi secoli fa soprattutto al di fuori del mercato al quale venivano anzi posti precisi limiti.
Nelle attività conviviali, nell'economia domestica, insomma nel pianeta dei rapporti personali si dà "senza contare". E questo pianeta è il rapporto sociale vero e proprio, il quale vive all'insegna del dono e non del guadagno. "Il dono non è altro che il sistema dei rapporti sociali tra le persone", "costituisce il sistema dei rapporti propriamente sociali in quanto questi sono irriducibili ai rapporti d'interesse economico o di potere", comprende "ogni prestazione di beni o servizi effettuata, senza garanzia di restituzione, al fine di creare, alimentare o ricreare il legame sociale tra le persone" (Godbout).
13. Finchè l'umanità conosceva un'economia motivata dalla sussistenza, l'economia svolgeva un ruolo secondario nella vita delle pesone. Il "bene" era asservito al legame sociale. Grosso modo con la prima rivoluzione industriale, l'economia asservita al principio del guadagno si generalizza in Occidente dando luogo alla società mercantile: ora è il legame ad essere asservito al bene, e si generalizza di conseguenza anche la pena detentiva come seconda faccia della stessa medaglia.
Ma questo processo non toglie che la base della nostra possibilità di vivere rimanga nel sistema del dono e non nell'economia di mercato. Il sistema del dono costituisce un elemento essenziale di ogni società, ivi compresa la nostra, restando quel "surplus necessario al di là del diritto e nello stesso tempo condizione dei diritti" (Godbout). Si noti, en passant, che Marx attribuiva al proletariato un ruolo per un destino dell'umanità al di là del diritto quando affermava di poter individuare in esso una "classe della società civile che non sia una classe della società civile, (...) di una sfera che per i suoi dolori universali possieda un carattere universale e non rivendichi alcun diritto particolare" (Introduzione a Per la critica della filosofia del diritto di Hegel).
La socialità - relazione umana non mercificata - costruisce delle persone, l'economia degli individui. La persona ha tanta più personalità (individualità) quanto più sono estese le sue relazioni sociali. Al contrario, l'individuo si afferma nell'atomizzazione: egli si crea indipendenza dai vincoli sociali in un processo di spersonalizzazione; diventa libero nella solitudine ricorrendo a beni e servizi acquistabili sul mercato quali sostituti del legame sociale; nel mondo della merce, simulacro del dono, egli non dà nè riceve doni, ha dei diritti perchè li paga. Il lavoro per esempio, non sembra più essere ciò che è, un'interazione tra gli esseri umani e la natura, ma viene presentato e organizzato come una merce (forza di lavoro) in cambio della quale ci spetta, "di diritto", un'altra particolarissima merce (o presunta, come sarebbero anche il lavoro e la terra secondo Polanyi), ossia la moneta. Per l'uomo primitivo lavorare per ottenere un guadagno sarebbe stato inconcepibile: il lavoro era fine a se stesso, la sua caratteristica costante era quella di andare al di là dello stretto necessario (ai nostri occhi).
14. La distruzione della socialità crea però una dipendenza assoluta dal reddito monetario e non tutti possono averne uno nei modi consentiti. Da qui nasce la criminalità, che perciò non è affatto una semplice questione economica ma, anzitutto, l'esito di una distruzione sociale, la possibile reazione di un processo di spersonalizzazione. La distruzione di socialità è una violenta operazione culturale che crea una mancanza di punti di riferimento, ossia un vuoto culturale che a sua volta spinge il singolo ad affermarsi come individuo in quell'unica libertà consentita dal mercato, la libertà del consumo, dove si può fare a meno dei legami sociali per vivere e basta appunto procurarsi un reddito monetario. La società di mercato finisce per creare un rapporto inversamente proporzionale tra "persona" e "individuo"...
La criminalità è perciò il punto in cui la distruzione della persona per la sua trasformazione in puro individuo spersonalizzato deve avvenire in modo violento per impedire una possibile uscita dall'economia (guadagno) che segni il ritorno della socialità (sussistenza) per vivere.
Il carattere primariamente culturale (sociale) dell'emarginazione criminalizzante è oggi particolarmente visibile nei paesi avanzati. Sempre di più dei nuovi delitti sono compiuti da ragazzi definiti "perbene", e si parla magari in questi casi di violenza... gratuita. La realtà dei tossicomani in regime proibizionista, dei casi di violenza familiare o interpersonale sfugge all'analisi economicista, risponde a una condizione esistenziale creata da una sorta di fiera dei sensi connaturata allo sviluppo della logica di mercato. Le persone ivi implicate spesso non hanno tanto bisogno di soldi o anzi ne devono spendere tanti, anzichè guadagnarne, proprio ricorrendo all'atto illegale. Lo compiono dunque per sopravvivere a un vuoto sociale e di senso, per rispondere a questa esigenza dentro le regole prefissate da un sistema deviato che ha distrutto nel loro caso ogni autentico legame sociale. Socialità e mercato, persona e individuo diventano termini antitetici nel mondo rovesciato della società mercantile. Il fine ricercato nella "via del male" non è affatto un guadagno, se non come mezzo, ma la versione deformata di un prestigio, di un'identità, di un riconoscimento sociale che il sistema del dono non può più dare di fronte alle alienazioni prodotte dall'Uomo Economico; oppure la rinuncia a tutto questo per un sostituto artificiale come nel caso dei tossicomani. Il "male" è allora la soluzione coerente in un mondo deviato dal mercato per continuare a inseguire ciò che è naturale nell'essere umano: l'immutabilità del suo essere sociale data la sua natura di essere interamente culturale e non di animale economico. La funzione del crimine è dunque quella di ricordarci che un tempo l'economia era asservita alla socialità.
15. Due sono gli strumenti che hanno asservito il lavoro al guadagno, creando povertà e pena moderna: la fame e la violenza. "Fu nella prima metà del sedicesimo secolo che i poveri apparvero per la prima volta in Inghilterra: essi si misero in evidenza come individui staccati dal feudo "o da qualunque superiore feudale" e la loro graduale trasformazione in una classe di liberi lavoratori fu il risultato combinato della feroce persecuzione contro il vagabondaggio e della promozione dell'industria domestica che fu potentemente sostenuta da una continua espansione del commercio estero" (Polanyi). In tutte le vicende dei popoli o delle classi, lo sfruttamento economico non precede ma segue la disgregazione culturale dell'ambiente sociale delle vittime di turno.
Un'analisi storico-statistica potrebbe dimostrare che lo sviluppo della pena detentiva corrisponde alla diminuzione delle zone di sussistenza nella vita sociale. Il carcere è una forma particolare di... assistenza sociale in cui lo Stato si sostituisce alla società; la pena è la seconda faccia dello Stato-provvidenza accanto alla prestazione di servizi. Compito dello Stato è di sostituire i propri servizi a quelli già offerti dalla comunità umana affinchè il rapporto sociale, espropriato della sua autonomia capace di dare e ricevere dono, non sia d'ostacolo al mercato. Lo Stato è l'agente dell'asservimento del rapporto sociale alla logica del mercato; Stato-provvidenza e giustizia penale sono il dono avvelenato del mercato che prova ad estirpare il vero dono per dare spazio al suo simulacro, la merce.
16. Il dono è la spontanea risposta umana al dolore; la pena è il dono mancato.
17. Il penitenziario è il luogo in cui, a partire dall'evento individuato e isolato come crimine, si costruisce la nuova cultura adeguata ad esso. Il delitto, evento sgradevole per una vittima, è il sintomo di una distruzione ambientale già avvenuta. Ma ora, date una persona e un crimine, si deve fabbricare il criminale: qui interviene il sistema penale. Goffman, al quale dobbiamo tra l'altro la definizione di "istituzioni totali" per indicare le comunità chiuse in cui si vuol modificare autoritariamente la personalità, cita in Asylums vari casi (ripresi da altri autori) che dimostrano questa tesi:
"... se l'internato è accusato di aver commesso un crimine, o qualcosa del genere, contro la società, il nuovo entrato - benchè spesso senza alcun motivo personale - può giungere a dividere sia il sentimento di colpa del compagno, che le difese elaborate contro questo suo stesso sentimento. Si tende a sviluppare un senso di ingiustizia comune a tutti e di amarezza contro il mondo esterno, il che segna un passo molto importante nella carriera morale dell'internato. Questa reazione al sentimento di colpa e di privazione totale risulta forse più chiara nella vita carceraria:
"Secondo il loro modo di pensare, dopo essere stato soggetto ad un'ingiustizia, ad una punizione eccessiva o ad un trattamento più degradante di quello prescritto dalla legge, il colpevole stesso incomincia a giustificare l'azione compiuta, che non aveva giustificato quando la compiva. Decide allora di far pagare caro l'ingiusto trattamento subito in prigione e, alla prima occasione favorevole, di vendicarsi con nuovi crimini.
E' con questa decisione che diventa un criminale".
Un detenuto obiettore di coscienza, ne dà un esempio simile, riferendo la sua esperienza personale:
"Un punto che voglio qui precisare è la strana difficoltà che io stesso ho nel considerarmi innocente. Mi trovo facilmente portato a convincermi di essere qui a pagare per i medesimi misfatti di cui sono accusati gli altri prigionieri e devo talvolta ricordare a me stesso che un governo che crede veramente nella libertà di coscienza, non dovrebbe mettere gli uomini in prigione perchè abbiano ad imparare a metterla in pratica. L'indignazione che provo verso la prigione e le sue regole non è quindi l'indignazione dell'innocente perseguitato o del martire, ma quella del colpevole il quale sente che la punizione che lo ha colpito va oltre ciò che merita, e che gli viene inflitta da chi non è certamente privo di colpe. Quest'ultimo fatto è sentito molto fortemente da tutti i detenuti ed è l'origine del profondo cinismo che pervade la prigione".
Una constatazione di carattere più generale è suggerita da due studiosi dello stesso tipo di istituzioni totali:
"In un certo senso il sistema sociale degli internati può essere visto come un sistema che provvede un modo di vita tendente a rendere l'internato incapace di evitare gli effetti psicologici distruttivi dell'interiorizzazione e della conversione del rifiuto sociale in rifiuto di sè.
In effetti, ciò permette all'internato di rifiutare coloro che l'hanno rifiutato, più che rifiutare se stesso"".
18. In un certo senso la società di mercato è una non-società perchè l'economico, lasciato a se stesso, tende a negare radicalmente il sociale in quanto tale. La comunità prigioniera diventa sistema sociale proprio resistendo allo staff che dirige l'istituzione totale così come nella società è la resistenza sociale alle leggi dell'economia a far sopravvivere la società nei suoi aspetti di comunità umana. Certo la comunità prigioniera vive una socialità dall'autonomia ambigua, come si è visto nella prima parte di questo lavoro. L'illegalismo è una ribellione limitata, utile proprio perchè è ambiguo il fine dell'istituzione totale la quale "prevede" il fallimento del proprio fine dichiarato a favore di quello occulto, fabbricando cioè "criminali" là dove c'erano soltanto delle persone che avevano compiuto un atto definito crimine. E il modo in cui viene fabbricata la presunta "ontologia del crimine" è singolare dato che favorisce nel detenuto un rifiuto del mondo esterno all'istituzione: il "cinismo" ricordato dall'obiettore di coscienza citato da Goffman è l'unico vero punto in cui il prigioniero si riconcilia profondamente (anche se involontariamente) con l'economia; e si verifica quando dice: "non devo più nulla a nessuno, visti gli anni che mi hanno fatto pagare!". Per questo, come dicevo più sopra, la pena è un dono mancato. La pena non è un pagamento reale, ma viene vissuta da chi la subisce come un pagamento che ci assolve da ogni debito. Sono certo, anche se non potrei dimostrarlo se non con esempi di carattere interpersonale, che una società non punitiva capace tuttavia di individuare gli autori di eventi sgradevoli per delle vittime, vincolerebbe l'autore a un maggior grado di autoresponsabilizzazione, a entrare insomma nel sistema del dono, alla sua fortissima logica morale. La non punizione fa sentire "in debito", "costringe" l'autore dell'offesa a interpretare egli stesso il conflitto che ha portato all'evento sgradevole, e al tempo stesso questo "processo" avverrà all'interno della propria libertà. Il circuito del dono rompe l'opposizione obbligo-libertà; è una cultura che sfugge ai canoni di quella mercantile, smonta i suoi significati tanto da apparirvi come illogica e che, pure, a quest'ultima resiste da millenni.
19. Diversamente dai liberi cittadini, la cui morale comune deve ancora e sempre onorare (almeno apparentemente) l'atteggiamento disinteressato nei rapporti personali, il carcerato si sentirà formalmente obbligato di far sopravvivere il sistema del dono solo più nella comunità reclusa, tanto che è soprattutto questo sistema a contraddistinguere la vita tra i prigionieri. Non a caso il tradimento è considerato il peggior delitto e la casistica dei comportamenti considerati "infami" è molto più ampia che nel mondo degli "altri". Il recluso cioè "non deve" più nulla agli "altri", al mondo che lo rifiuta. L'ipocrisia che il mercato ha creato intorno alla "morale comune" qui si rompe dando luogo a una dualità: la pena crea la schizofrenia di una doppia morale.
20. La dialettica del debito pagato con la pena, creando criminali, funziona però solo entro certi limiti numerici determinati dalla storia fin qui conosciuta del modo di produzione industriale. Tutto va in crisi se rischiano di dover esserci più prigioni che luoghi di lavoro. Ed è quello che rischia di succedere. Uno studio del ministero della Giustizia americano dell'agosto 1995 prevede che "tra qualche anno gli Stati Uniti potrebbero avere più cittadini condannati che studenti universitari" (Il manifesto, 11/8/95).
C'è sempre una società invisibile costituita sul dono e sul non ricorso alla pena a far da fondamento - per quanto sfruttato e misconosciuto - alla società visibile, prigioniera dell'economia e della giustizia penale.
Ma l'economia di mercato ha conquistato ormai il pianeta realizzando, dice Latouche, "l'occidentalizzazione del mondo". Egli ritiene che sia ormai improprio parlare di Terzo Mondo; al suo posto c'è qualcosa di peggio: una serie di "quarti mondi" disseminati non solo nel Terzo Mondo ma anche in Occidente.
I nuovi poveri creati dal carattere strutturale della disoccupazione tecnologica ammontano già in Europa ad almeno 30 milioni di persone (destinate ad aumentare), mentre sull'intero pianeta è stata creata una condizione di miseria mai vista nella storia dell'umanità che tende a colpire i due terzi di essa.
21. Al punto di vista economico-utilitarista questa umanità immiserita che ancora sopravvive dovrebbe apparire un mistero. Come fa ad andare avanti nonostante le povere cifre fornite sul prodotto interno lordo di questo o quel paese africano, nonostante l'arretratezza delle sue tecnologie? E' evidente che antiche e nuove tradizioni resistono, creano scambi di servizi e beni tra le persone al di fuori di una logica di mercato. I nuovi poveri devono imparare l'arte d'aggiustarsi. E questa possibilità gli sarà in parte lasciata dai governanti e da vari potentati economici, pena una catastrofe sociale totale visto che è economicamente impossibile disseminare il territorio di carceri di 10-15 piani. L'esercito di riserva sta diventando una massa di esseri inutili per il modo di produzione industriale.
Gli economisti provano infatti a correggere l'utilitarismo integrale che li ha finora guidati. Provano a definire il vasto terreno dell'autoorganizzazione sociale per la sussistenza come "terzo settore" che si affianca al mercato e allo stato. E' una definizione economica per una realtà che, di per sè, è economica solo in via secondaria; perciò questa definizione tende, di fatto, a negare autonomia e potenzialità alternativa alla socialità umana onde continuare ad asservirla agli altri due settori. Chi critica l'economia preferisce perciò descrivere questa realtà come "informale" (Latouche). Nella logica economica invece, le energie sorte dalla solidarietà dovrebbero tappare i buchi lasciati dalla smobilitazione dello Stato sociale sul versante della provvidenza onde favorire l'accumulazione del capitale. Con forti appelli per la valorizzazione dell'attività non profit si sono espressi l'ex presidente della Fiat Giovanni Agnelli, l'ex governatore della Banca d'Italia Carlo Azeglio Ciampi e quello attuale Antonio Fazio. Quest'ultimo, ricorda Marco Revelli, "ha dato alle stampe un agile libretto in cui Razionalità economica e solidarietà sono tra loro affiancate come valori complementari, in cui la seconda è chiamata a porre rimedio e a esercitare controllo sui limiti della prima".
22. In effetti, in tutto il mondo occidentale l'espandersi in questi ultimi anni del terzo settore è avvenuto a opera del volontariato ed è stato un freno contro la catastrofe prodotta dalla terza rivoluzione industriale con la crisi dello Stato sociale. Catastrofe i cui termini sono così espressi nell'alternativa presentata da Rifkin:
"finanziare il rafforzamento delle forze di polizia e costruire nuove carceri per imprigionare la sempre più vasta classe criminale [generata dai processi di sfaldamento sociale e di anomia], o finanziare forme alternative di lavoro nel Terzo settore".
In realtà, l'alternativa posta da Rifkin, pur essendo corretta in termini generali, pecca di semplicità e ottimismo. E' infatti possibile assistere a un potenziamento del Terzo settore e, contemporaneamente, a un potenziamento del sistema penale che a sua volta produrrà criminalità! E' quello che in Italia abbiamo visto in quest'ultimo quindicennio.
Il sistema penale ha cercato ed è in parte riuscito a usare il volontariato come personale per la gestione delle pene alternative anzichè per un'alternativa alla pena. Non basterà limitarsi a incoraggiare la nascita di nuove forme d'economia per avere meno classe criminale; bisognerà liberarsi della cultura della pena perchè l'esistenza di una classe criminale non è una questione economica, ripetiamolo, ma una questione socio-culturale con dei risvolti economici.
La mancata elaborazione di una cultura oltre la pena contribuisce anzi a svilire l'informale riducendo il risorto sistema del dono in carità, rapporto non più reciproco ma unilaterale in un senso preciso: dall'alto verso il basso; rapporto che non sfugge alla logica mercantile, ma che anzi la rafforza distruggendo ogni legame sociale con l'unilateralità del proprio movimento. E il criminale è spesso una persona che rifiuta la carità perchè essa trasforma persino la dignità in merce, perchè essa non conosce reciprocità dello scambio.
Vediamo dunque che proprio il mantenimento della giustizia penale, la sua accresciuta presenza negli ultimi anni attraverso la politica delle "emergenze" ha lo scopo di controllare-utilizzare il Terzo settore perchè rimanga nei limiti della funzionalità al mercato. Così, è molto ingenuo ritenere che lo sviluppo del Terzo settore porti di per sè a una diminuzione della criminalità, a un'economia "alternativa" e più in generale a una società più libera. E' un'ingenuità economicista. L'alternativa sociale proposta da Rifkin avrà un senso solo se accompagnata da una politica oltre la pena, da una critica pratica alla filosofia delle cosiddette emergenze.
23. Di per sè, la crescita del Terzo settore indica soltanto un progressivo superamento del mondo salariale. La dipendenza salariale era indubbiamente uno dei più potenti vincoli alla cultura del mercato per i subalterni. Ma nel mondo post-salariale sarà proprio l'invadenza del potere giudiziario a costruire quei nuovi espliciti ricatti che salario e Stato-provvidenza non possono più dare nel loro carattere implicito; il centralismo giudiziario tende a occupare violentemente il posto che fu del vecchio "moderato" centralismo istituzionale dello Stato-nazione, continuando ad atomizzare socialmente le persone perchè continuino a ragionare e ad agire da individui isolati che vedano solo nel mercato la loro libertà. I lavoratori autonomi e professionalmente capaci (dotati di sapere e di saper fare) creati dalla produzione post-salariale sono una minoranza privilegiata e al tempo stesso vivono una precarietà economica ed esistenziale che li fa dipendere dal mercato grazie ad una legislazione abnorme, creando perciò sovente in loro interessi da piccoli imprenditori piuttosto che una nuova dignità del lavoratore espressa in attività alternative alle alienanti finalità del modo di produzione industriale. Resta dunque diffusa in molti di loro una cultura da Uomo Economico, ancora indifferente all'esistenza delle pene, incapace di cogliere il nesso esistente tra prigione e lavoro alienato, spesso anzi sempre più forcaiola nei suoi esasperati particolarismi.
La critica abolizionista del diritto penale è perciò, contro ogni illusione economicista, difesa dell'ambiente socio-culturale dalla cui disgregazione nascono puntualmente mercato, mercificazione globale e criminalità.
D'altronde il volontariato resta comunque una positiva risposta spontanea ad una crisi sociale, la molla che dà impulso allo sviluppo del Terzo settore, quali che siano poi gli interessi trasversali che alienano quest'ultimo. Ciò che si fa per volontà, non lo si fa per mestiere; e, a parte i casi di volontariato presunto, qui ritorna indubbiamente il dono al posto del mercato, mettendo in discussione realtà costruite dalla divisione del lavoro, rendendo possibili aiuti reciproci tra le persone altrimenti impossibili.
24. Ora, questo fenomeno si è puntualmente verificato nella storia ogni volta che vi sia stata un'acuta crisi sociale; e si noterà che abolizionismo e spirito del dono hanno in comune una critica del diritto, il primo perchè contro la pena, il secondo perchè "al di là" dei diritti, come si vede bene nel seguente esempio di Godbout:
"Il figlio, di fronte alla sua porzione di torta, dice alla madre: "La prendo, è la mia porzione, ne ho il diritto, mi spetta". La madre risponde: "Hai ragione, ne hai il diritto. Ti chiedo soltanto di dividere la tua porzione con il tuo amico che è appena arrivato. Lo farai se vuoi, perchè hai il diritto di tenerla tutta per te". In questo esempio si vede emergere la differenza tra l'apprendistato dei diritti e l'apprendistato del dono...".
C'è una cultura antica e sotterranea che rispunta in ogni crisi sociale, sempre repressa eppure mai sopita, che prova a ridare all'umanità questo apprendistato al di là dei diritti. Nulla è stato più prezioso delle sue stesse sconfitte: dietro a ogni sconfitta c'è una resistenza, e ogni resistenza ha ritardato la distruzione, ha impedito la distruzione totale, ha difeso uomini e donne in carne e ossa, ha mantenuto vive la memoria e la parziale realtà di una vera comunità umana.
Godbout nota che "al centro della sfera domestica si trova la donna. In ogni tempo ella è stata un simbolo del dono. Nella mitologia greca, la prima donna si chiama Pandora, che significa "colei che dona tutto"". Il dono si è rifugiato tra le donne perchè, come già si è accennato, tutte le attività domestiche, conviviali ecc. sono state sessuate al femminile e condannate alla subalternità in una dinamica storica che ha sempre visto uniti strettamente misoginia e spirito mercantile. Il mondo del rapporto sociale vero e proprio coincide perciò con un "principio femminile" inteso non su una base biologica ma su una base culturale - inevitabilmente ribelle, dato che è stato costantemente represso. Perciò possiamo così riassumere la sua storia:
"Amazzoni e baccanti ribelli nella crisi del medioevo greco, animatrici e martiri delle comunità gnostiche, streghe delle "congreghe" in espansione dal Quattordicesimo Secolo, sono tutti soggetti che contrappongono valori libertari a valori gerarchici, inserendosi nella crisi della civiltà dei palazzi micenei, in quella dell'impero romano e poi della Chiesa medievale, apprendendo dall'esperienza, rapportandosi ai valori del tempo, ma sempre proponendo una cultura definita dai tratti essenziali dell'erotismo non represso e del rapporto di convivenza e non di dominio con la natura" (Galli).
25. Questo movimento sociale ribelle, composto da donne e uomini, pur assumendo forme diverse nella storia, ha ricordato ogni volta il sistema del dono, ha resistito concretamente contro tutto ciò che, mattone su mattone, è diventato infine penitenziario: subcastrazione sessuale, gerarchizzazione esasperata delle relazioni umane, sbarre e cemento che sostituiscono interamente la natura. Ad ogni libertà del dono scomparsa è corrisposta una nuova forma di pena che sommandosi alla precedente - ogni tappa una nuova pietra - è diventata via via la moderna prigione, perfetto contraltare della disgregazione sociale e culturale del mondo attuale. I "nuovi" movimenti sociali (ecologici, antinucleari, femministi...), come quelli "vecchi" (movimento operaio), il volontariato e l'abolizionismo non possono non compiere il percorso a ritroso segnato dalla storia che porta alla reclusione; diventando memoria vivente di quell'altra cultura devono destrutturare, mattone su mattone, le tappe di questa costruzione punitiva se vogliono uscire ciascuno dal proprio particolarismo. L'abolizionista deve scoprire la socialità alternativa al mercato, il movimento sociale vecchio o nuovo deve scoprire la critica radicale al concetto di pena. I due tipi d'azione, sociale e abolizionista, dovranno integrarsi a vicenda, recuperando in una politica comune un altro modo di pensare che è sempre stato la storia sotterranea del mondo occidentale, scoprendo che dall'altra parte il binomio mercato-pena è sempre stato indissolubile e che solo cogliendo tale unità e il suo nocciolo misogino si uscirà dall'esistente. E il miglior esempio che oggi abbiamo del modo di pensare prodotto da tale unità si ha quando una persona sessualmente castrata da anni è ormai portata a dire: "contano solo i soldi, tutto il resto sono balle: illusioni e tradimenti". Nel caso del "pentito" si va oltre: è egli stesso che disgrega un ambiente per farlo diventare merce.
26. La mancata critica abolizionista della pena vanifica grandemente la portata dei movimenti che vogliono un cambiamento sociale. Con questo oblio essi lasciano in parte rientrare dalla finestra tutto ciò che credono di cacciare dalla porta: la distruzione della natura, il sessismo misogino, la gerarchia, il mercato senza confini e desocializzante. La dimenticanza di questo punto nel programma dei vari movimenti ha una sola spiegazione: nasconde il bisogno d'autorità - proveniente dal basso e non solo dall'alto - di un'umanità malata, disabituata a una pratica della libertà grazie agli effetti perversi indotti dalla repressione dell'attrazione naturale fra uomini e donne che si subisce già nell'educazione dell'infanzia; bisogno che diventa mostruoso monumento a se stesso con le prigioni e le istituzioni totali in genere. Quanto all'aver fatto diventare non solo la libertà personale ma anche l'amore oggetto di premio con le nuove politiche penitenziarie, siamo qui al sacrilegio, non trovo altre parole per definire un fatto simile.
La pratica delle libertà non può essere rimandata a un secondo tempo, a dopo il cambiamento sociale. In tal modo ogni mutamento politico, anche quello apparentemente più radicale, si rivela un falso movimento. Alla soglia della libertà devono giungere degli esseri umani già auto-educati alla libertà, socialmente responsabili, e non degli individui risentiti, a quel punto bisognosi soltanto di una nuova forma d'autorità perchè resi incapaci di guardare in se stessi. In ciò è consistito il limite di tutte le esperienze rivoluzionarie. E questa capacità introspettiva del pensiero rimanda a sua volta a una socialità autonoma quale fu quando probabilmente tutte quelle attività fuori mercato racchiuse nel "principio femminile" ebbero ben altro spazio nella cultura comune di un tempo ormai lontanissimo, prima dei cinque o seimila anni di questa civiltà.
Eppure questo tempo lontano è ancora vivo nella memoria. Per guardare in se stessi infatti, ancora oggi sappiamo che bisogna andare oltre se stessi, e questo non è possibile se non si scoprono anzitutto gli altri. (L'autoesiliato russo Alessandro Herzen, nell'Ottocento, diceva perciò provocatoriamente: "Il giorno che gli uomini volessero salvare se stessi piuttosto che il mondo, liberare se stessi piuttosto che l'umanità, quanto farebbero in realtà per la salvezza del mondo e la liberazione dell'uomo!"). Ma oggi noi vediamo il riformatore economico promettere libertà per quando vi sarà una società diversa; vi sono "ecologisti" che vogliono intanto in galera gli inquinatori, "femministe" che vogliono intanto pene più severe per i molestatori sessuali, "rivoluzionari" che vogliono intanto prigioni per i "fascisti" eccetera. La pena dunque potrebbe smettere di esserci solo quando fossimo tutti perfetti... secondo il punto di vista di questo o di quello: peccato che sia proprio la pena a fabbricare in gran parte questa o quella non perfezione umana. La teoria del secondo tempo della libertà per il mutamento sociale, perciò, quali che siano le complicate giustificazioni di volta in volta adotte, ha sempre al suo centro la salvaguardia del sistema penale: perchè esso parte dal vuoto introspettivo e perciò riguarda, a priori, solo l'Altro; perchè la teoria della colpa è il cuore dello Stato incosciente.
In quello stesso movimento ricostruttore di socialità e riportatore del dono che è il volontariato, spesso manca la critica della pena, anche qui rimandata a un secondo tempo la cui scadenza non può non esser misteriosa.
Così si ricrea un movimento autoritario - unilaterale, dall'alto verso il basso - ritenendo di dover prima trasformare gli altri e non contemporaneamente se stessi, anzitutto se stessi.
Eppure basterebbe poco per cambiare strada. Il rapporto sociale è già di per sè un'alternativa alla pena. La pena non è altro che il suo sostituto più radicale, quando l'occultamento di una disgregazione sociale deve diventare totalmente alternativo al dono di cui la merce è diventata il simulacro. Questo "poco" è un altro sguardo, cioè una rivoluzione culturale possibile qui e oggi per rendere utili persino le sconfitte, preziose le resistenze, non impossibili i successi nel lungo processo dell'autoeducazione alla libertà.
***
27. In Italia non esiste ancora un movimento abolizionista anche se per fortuna cominciano ad esserci alcuni abolizionisti. Proviamo a vedere quali difficoltà incontrerà un tale movimento anche solo ad affermarsi per un dibattito nel paese delle mille emergenze.
Prima di tutto un tale movimento non è un programma di politica immediata ma un diverso approccio alla realtà: perciò deve scontrarsi con l'immaginario comune.
Concretamente, sul piano minimo e più immediato, si può dire che vanno in senso abolizionista solo quelle misure che:
1) riducano le pene attualmente esistenti e aboliscano l'ergastolo;
2) si oppongano a un aumento del numero dei detenuti e delle carceri;
3) favoriscano automatismi, cioè dei meccanismi oggettivi (fondati sulla quantità di pena scontata) per la concessione di quei benefici oggi previsti come premi;
4) considerino gli affetti e la sessualità un diritto e non un beneficio.
Non bisogna invece farsi illusioni sul resto, su tutti quei dibattiti animati dai riformatori sulle cosiddette misure alternative. Riassumiamo infatti quanto è stato detto fin qui:
Nell'ultimo quindicennio, in tutta Europa, negli Stati Uniti e anche nell'ex Unione Sovietica (a parte la parentesi dell'89) si è assistito a una spettacolare espansione del carcere. Aumentano sia i detenuti che le lunghe pene, peggiorano le condizioni di vita. Le presunte misure alternative sono state subito utilizzate come delle aggiunte alla pena detentiva, allargando il sistema penale, allungando le pene, colpendo inoltre la libertà di pensiero con la creazione di meccanismi inquisitoriali che non sono più di competenza solo dei giudici ma hanno cooptato un variegato panorama di figure sociali: psicologi, assistenti sociali, pseudo-volontari, sacerdoti, giornalisti, politici, ecc. La legge penitenziaria è diventata un non dichiarato quarto grado di giudizio, un nuovo processo quotidiano e della stessa vita quotidiana che inizia dopo la definitiva conferma della condanna della Corte di Cassazione (terzo grado). Quanto a quelle figlie del proibizionismo italiano che sono le comunità di recupero dei tossicomani, sono delle prigioni mascherate fondate sul "pentitismo". Come se tutto questo non bastasse, oggi, in Italia, per accelerare i processi, si propone paradossalmente un ulteriore aumento del potere burocratico (del pubblico ministero come al solito) stabilendo l'istituto del "patteggiamento" della pena: incoraggiando la confessione, chi ha soldi e buoni avvocati può ottenere forti sconti. Risarcimenti e lavoro non sono qui il sostituto della pena detentiva, ma posti in alternativa a essa e solo qualora si accetti di essere rei confessi. Insomma, le vie d'uscita si sono rivelate tutte un nuovo labirinto.
L'ultimo quindicennio dimostra più che mai che il sistema penale fabbrica delinquenza ed emarginazione, queste essendo la principale giustificazione per l'esistenza di un'autorità statale sulla vita di tutti. Lo Stato si fonda sulla punizione; la punizione si giustifica con la teoria della prevenzione generale: il presunto potere dissuasivo della punizione difenderebbe i cittadini. Ogni cittadino perbene è quindi la presunta o potenziale vittima del reo.
Ma in quest'ultimo quindicennio sorgono altre due novità che possono favorire la comprensione del grande bluff, e cioè che lo Stato fabbrica esso stesso ciò da cui in realtà non ti difende:
1. Pur rimanendo classista nelle sue forme, la punizione comincia a lambire penalmente strati sociali privilegiati finora puniti solo civilmente e amministrativamente. Naturalmente, questi strati tendono a ristabilire un rigido doppio diritto (impunità per loro, severità per i poveri), ma è sempre più difficile ristabilirlo via via che la società diventa "complessa". Ci vorrebbe un "multi-diritto", ma allora il diritto perderebbe la sua forma astratta, forma che è la sua sostanza... Si vedano a questo proposito le contraddizioni spesso singolari di un movimento politico come Forza Italia e del suo leader Berlusconi: si protesta per esempio contro uno "stato di polizia" ma si critica chi vuol ridiscutere i poteri dei Carabinieri.
2. Lo Stato sociale è in crisi perchè diventano sempre più costose le sue funzioni, dall'assistenza medica alla punizione carceraria, a causa di una specializzazione e moltiplicazione dei ruoli sociali favorite dallo sviluppo tecnologico. Favorendo lo sviluppo della divisione sociale del lavoro in rivoli sempre più artificiosi, la tecnologia espropria il singolo individuo di capacità e autonomia e in questo senso potenzia il ruolo dello Stato quale sostituto dell'autoorganizzazione umana; ma al tempo stesso tutto ciò diventa controproduttivo. Occuparsi dell'aids di Tizio o di come punire il criminale Caio diventa il "pretesto" per mantenere una miriade di esperti e controllori inseriti in strutture sempre più labirintiche e costose. Per l'aids ci vogliono tanti di quei miliardi, all'interno di questa concezione ipertecnologica della medicina, che bisogna escludere a priori tutti i poveri (l'intero Terzo Mondo, ad esempio) da ogni possibilità di cura. E, naturalmente, anche il carcere è diventato costosissimo. C'è chi dice che "per" (cioè "su") ogni recluso ci vogliano 600.000 lire di spesa al giorno, mentre un operaio guadagna mediamente 1.400.000 lire al mese! Così un sacerdote torinese si è piazzato un giorno davanti al carcere delle Vallette con un simbolico cappio al collo per protestare contro l'ennesimo suicidio di un tossicodipendente in cella, e dicendo: "Sei mesi di prigione per il furto di un'autoradio, alla società costano 108 milioni. Assurdo" (La Stampa, 13/10/96).
Non so se la cifra indicata dal sacerdote sia esatta, ma non si può forse anche dire che la società paga 108 milioni proprio per spingere quel giovane al suicidio? La spesa, assurda dal punto di vista economico, è servita tuttavia, nel lungo processo storico accennato in queste pagine, a costruire interessi e mestieri in un'infinita catena di ruoli deresponsabilizzanti nell'amministrazione della sofferenza e della morte. Lo spreco economico è un risparmio psicologico che permette di dire: "non l'abbiamo ucciso noi, si è ammazzato da solo", "è morto di malattia" eccetera.
Le vie d'uscita dall'assurdità economica sono perciò teoricamente due: si può ritornare alle esecuzioni sommarie visibili (per strada, come già consentono parzialmente alcune leggi d'ordine pubblico; in sbrigative pubbliche sentenze come vorrebbe il governatore dello stato di New York ecc.); oppure si può cominciare a ragionare in termini abolizionisti, in questo caso scontrandosi con gli interessi materiali, morali e simbolici nascosti e sedimentati dietro a quei 108 milioni per sei mesi di prigione.
Nei due casi, il vero problema non è economico... E l'abolizionismo, perciò, proprio per questo non sarà un preciso programma di politica immediata ma una cultura che sappia ogni volta favorire, sul piano concreto, ogni spostamento d'attenzione dal reo alla vittima (Christie, Mathiesen). Solo così sarà possibile individuare nel lavoro il sostituto del carcere e non più l'umiliante alternativa posta accanto ad esso per chi confessa in taluni casi, com'è oggi. Impegnato in un lavoro socialmente utile, il ladro d'autoradio avrebbe meno bisogno di rubare e potrebbe risarcire la società del valore dell'autoradio grazie all'esistenza di un fondo per le vittime delle aggressioni e per la creazione di lavori socialmente utili. Ma questo fondo diventerebbe un'assicurazione sulla vita per tutti i cittadini aggrediti e dunque possiamo già immaginare le obiezioni delle assicurazioni private al riguardo... Il semplice risarcimento di un'autoradio a una vittima reale sposta, anzi minaccia di sconquassare, un'intera montagna: presuppone il progressivo passaggio della società dalla punizione alla solidarietà, dalla pena alla compassione, dalla merce al dono, dall'obbedienza alla libertà, dall'unilateralità maschilista all'unità dei princìpi maschile e femminile...
Nel vittimismo contrapposto ad ogni seria "vittimologia", la vittima è una figura tanto esaltata dalla retorica punitiva, quanto ignorata nella sostanza. E' la figura astratta con cui deve identificarsi il buon cittadino e non più la vittima reale. E così la vittima finisce per essere il presunto cittadino produttivo minacciato dal cosiddetto individuo improduttivo. Tutti i valori impliciti che portano alla necessità di ignorare la vittima reale trovano allora il loro perno in due teorie: la pena come sistema di prevenzione generale e la teoria che definisce la produttività.
Il paradosso della pena come prevenzione generale è il seguente (Mathiesen): la minaccia della punizione è un'idea ritenuta valida (ed elaborata) da chi non ricorre al reato contro chi vi ricorrerà, nonostante la minaccia. Costui infatti non si trova nella condizione dei più, ma in una situazione problematica tale da dar luogo all'azione definita criminale. La minaccia della punizione sostituisce l'analisi di una situazione, è la condizione per un dialogo fra sordi, un modo storico di definire chi è asociale. Oggi l'asociale, il diverso, il potenziale criminale è il non-produttivo.
28. Ma c'è da chiedersi rispetto a che cosa si è produttivi o no.
Chi va a far la spesa, chi trasforma in cibo un prodotto acquistato non è considerato produttivo. Lo è invece chi, in cambio della propria prestazione, ottiene un salario con il quale poter acquistare ciò che verrà usato e consumato. Si è considerati produttivi rispetto al valore di scambio e non rispetto al valore d'uso. Il produttivo di oggi è in realtà il mediatore tra il vero produttore (di valori d'uso) e chi ne trae profitto. Chi sfrutta il prossimo o produce armi o veleni chimici può sentirsi a posto con la sua coscienza ignorando il contributo dato dai marginali alla riproduzione delle condizioni immediate della vita, spesso maggiore del suo, lui che magari la distrugge, producendo sì, a sua volta, ma rispetto al profitto. Il pregiudizio produttivista contro il marginale e la teoria della prevenzione si alimentano a vicenda: perchè è proprio elaborando un trattamento contro l'altro, il marginale, che posso definire positivamente me stesso, non aver bisogno di riflettere su quel che faccio...
L'aspetto tragico è che questo meccanismo ha finito indirettamente per inquinare anche i movimenti di liberazione sociale, ingabbiando in qualche modo anche oppressi ed emarginati. Ed è questa la difficoltà maggiore per la battaglia abolizionista: la critica dell'esistente è un ovvio punto di partenza, ma qui si tratta di dover anzitutto diventare coscienza critica dei movimenti che vogliono una società migliore.
29. Il sindacalismo, la sinistra in generale, l'ecologismo, persino buona parte del femminismo si sono finora presentati soprattutto come movimenti per ottenere dei diritti, dei nuovi diritti, e non per andare al di là del diritto.
Di fatto, ogni movimento tende così a difendere un suo ideale di socialità ed è perciò come se confidasse che non vi sarà più bisogno di reprimere il diverso, l'asociale solo quando questo ideale si sarà realizzato, perchè allora non vi saranno più le stesse condizioni e perciò non vi saranno più dei diversi, ma intanto... intanto si crea una zona di silenzio, di fatalismo, di imbarazzo verso quello che bisogna fare dei diversi oggi.
L'errore grave che si crea in questa zona d'ombra è di ignorare che non tutto il male vien per nuocere: momenti di asocialità vi saranno sempre, anche nella più liberata delle società. A meno di non negare quella legge di natura che è il mutamento, bisognerà riconoscere che ci sarà sempre un'asocialità, magari molto diversa nelle sue forme da quella di oggi, a indicarci i limiti della nostra socialità, un limite nostro quindi, che dovremo comprendere per migliorare l'esistente. Così come d'altronde ogni follia rivela il limite della nostra ragione.
Da questo mancato riconoscimento deriva l'agire lungo la linea del diritto che farà diventare il movimento liberante simil-produttivista e vittimista. I nuovi diritti da rivendicare diventano cioè un'aspirazione ad allargare il numero dei reati, criticando il doppio diritto creato dal privilegio invece di "dereatizzare" il conflitto. Alla fine di questa strada il movimento di liberazione si è fatto giudice e si è ridotto a costituzione di potere. L'idea del cambiamento in cui si cade è di credere che il prossimo sia da liberare invece di mettere ognuno in condizione di autoliberarsi. Si è cristallizzata la propria idea, finendo per cercare di imporla invece di confrontarla costantemente con l'evoluzione della realtà. Il presunto liberatore si sostituisce al cambiamento invece di esserne il cosciente partecipe, si muove sempre di più contro e non per qualcosa.
Mettere in discussione qui ed ora questa dinamica di elusione del confronto con la diversità, essere quindi abolizionisti, può contribuire a eliminare l'apparente eterna maledizione subita/voluta da tutti i movimenti che finora hanno voluto migliorare il presente. L'abolizionismo toglie alibi, mette ognuno davanti a se stesso, alla sua resistenza a uscire dalla logica punitiva.