Sappiamo molto dei disturbi che colpiscono i lavoratori impegnati nelle più recenti attività al computer, ma siamo all'oscuro delle malattie professionali che colpiscono i detenuti. Neppure quando adottiamo definizioni critiche quali "sofferenza legale" siamo in grado di riconoscerne i tratti specifici o di descriverla con dati di fatto.
Esiste ed è quantificabile la nocività del carcere? Victor Serge è tra i pochi che abbia analizzato l'universo della detenzione come meccanismo che implicitamente produce malattia: una sorta di "malattia del tempo".
Nella sua personale esperienza:
«Il problema del tempo è fondamentale. Qui nulla permette di distinguere un'ora dall'altra. Una volta trascorse, le ore svaniscono nel nulla; il minuto presente si può dilatare all'infinità. Ma il tempo non esiste! E' una logica da pazzi? Forse. So che esiste una profonda verità in tutto questo. So anche che un detenuto, già dopo la prima ora di carcere, è una persona mentalmente squilibrata».
E' difficile reperire testimonianze così chiare ed esplicite, né è facile «convincere» i detenuti o gli ex-detenuti a riconoscere gli effetti del carcere su di loro o a descriverli. Questo singolare pudore pare dovuto innanzi tutto al regime di "autocontrollo del disagio" cui il carcere inevitabilmente sottopone. I detenuti finiscono per attuare una meticolosa vigilanza sulle proprie reazioni che impedisce il pieno abbandono, fisico e psichico, di sé all'istituzione. Nelle parole di Alessandra, la reclusione impone un repertorio di tecniche di sopravvivenza e un esercizio consapevole e incessante delle medesime:
«Sono terrorizzata dal tempo; non faccio nulla di vero perché ho paura che finisca. Faccio cose piccole, programmate in modo carcerario su me stessa. Il carcere diventa la coercizione che esercitiamo su noi stessi per sfuggire al carcere».
Una seconda ragione che può spiegare il "pudore" di cui si è detto, sembra legata, oltre all'orgoglio di mostrarsi indistruttibili, alla stessa economia dei rapporti tra detenuti e tra questi ultimi e l'esterno. Vincenzo si è spiegato in questo modo:
«Quando non ce la fai più non devi darlo a vedere, altrimenti anche gli altri compagni ti evitano: una persona depressa non serve a nessuno, anzi, una persona disperata può diffondere una specie di contagio che terrorizza chi le sta intorno. Il fatto è che neanche a se stessi si può ammettere di stare male, perché si ha paura di perdere il controllo, di non essere in grado di reggere il malessere. E' una specie di congiura del silenzio nella quale vengono coinvolte anche le persone che si incontrano al colloquio: nessuno deve dire o far notare di star male, né vedere o far notare che l'altro sta male».
I detenuti più disposti a raccontare il proprio caso e ad ammettere disagi e malesseri prodotti dal carcere su di loro sono quelli che attribuiscono alla propria vicenda personale delle caratteristiche emblematiche, riconducibili a una condizione comune. Non sono necessariamente animati da astratta coscienza politica o da principi di natura ideologica, ma sono indotti da particolari circostanze, a respingere il rapporto individuale che li lega all'istituzione, che li identifica nella specifica pena irrogata ai loro danni, che li ricatta nelle modalità di esecuzione della pena stessa.
In altre parole, per i più disponibili a «raccontarsi», la pena non si presenta come terreno di negoziazione, ma come campo di denuncia. Questa circostanza può verificarsi in condizioni di scarsa flessibilità del regime carcerario, vale a dire qualora il trattamento assuma carattere indifferenziato.
Esiste un noto precedente al tipo di indagine da noi condotta che fa da riprova a quanto affermato. Si tratta del lavoro di Stanley Cohen e Laurie Taylor, concepito sul finire degli anni '60, quando i due ricercatori, in qualità di insegnanti, ebbero accesso al carcere di Durham. Le contingenze che favorirono il lavoro di Cohen e Taylor si possono individuare: nella recente istituzione di regimi disciplinari e di custodia «speciali» e nel ricorso legalizzato e di routine a misure punitive quali l'isolamento. Con il netto peggioramento delle condizioni di detenzione che andava interessando tutti i reclusi di Durham, classificato come istituto di massima sicurezza, gli spazi di negoziazione vennero notevolmente limitati. La ricerca poté tradursi in atto di denuncia, maturato dopo un lungo confronto fra detenuti e ricercatori:
«Avevamo esordito prendendo le distanze dalle modalità della sociologia formale e favorendo discussioni non programmate e non pilotate. Venimmo però criticati per il modo in cui erano stati condotti gli studi sul carcere fino ad allora. Gli effetti concreti che la detenzione produce sul piano psicologico erano stati puntualmente ignorati, mentre il carcere era sempre stato oggetto di studio in quanto micro-sistema sociale e relativamente ai ruoli che ne costituiscono la comunità interna».
Rimanevano insomma da studiare le trasformazioni della psiche cui sono sottoposti gli individui in cattività; valutare quali affinità vi fossero tra gli effetti prodotti dalla detenzione e gli effetti rilevabili in altre situazioni ambientali cosiddette estreme.
PROMISCUITA' O SOLITUDINE?
Victor Serge paragona l'impatto provocato da quella «situazione ambientale estrema» che è il carcere allo shock provato da un maratoneta che venga improvvisamente immobilizzato. Allo stesso modo Antonio, che ha trascorso quattro anni in carcere, afferma di aver provato un ovvio iniziale disorientamento, cui ha fatto seguito la sensazione che il suo stesso sistema percettivo si andasse improvvisamente modificando. Gli oggetti e i pensieri si presentavano in dimensioni esagerate, mai avvertite prima. Il minimo contrattempo si ingigantiva e si autoalimentava di suggestioni fino a diventare un'ossessione.
Serge individua tre tipi di ossessioni che dominano i detenuti fin dal primo momento in cui viene loro sottratta la libertà: preoccupazione ininterrotta per il proprio «caso»; eccessiva apprensione per i propri familiari; ossessioni di natura sessuale.
In un colloquio molto significativo, Paolo ci ha descritto l'itinerario di una ossessione del primo tipo che è in lui lentamente maturata. Oggi è agli arresti domiciliari e solo dopo mesi dall'uscita dal carcere è stato in grado di ricostruire le tappe del suo pensiero e a dare alla passata emozionalità il nome di ossessione. Il primo periodo di detenzione è stato dedicato a ricostruire le diverse fasi che hanno scandito la sua esistenza fino agli eventi che lo hanno condotto all'ultimo arresto. In un secondo periodo ha cominciato ad esaminare l'episodio specifico che lo ha visto protagonista e a rivivere l'intera dinamica dell'azione compiuta e delle relazioni tessute con i compagni nell'azione medesima. Ha riflettuto a lungo sulle circostanze che avrebbero potuto evitare l'arresto, immergendosi in sofisticati calcoli probabilistici. Infine si è convinto di essere stato tradito da qualcuno e ne ha cercato le prove in presunti messaggi di intesa, verbali e scritti, che i compagni si sarebbero scambiati in questa o quella occasione. La stesura di una memoria segreta, redatta allo scopo di illustrare le modalità del complotto che si andava compiendo ai suoi danni, ha occupato l'ultima intensissima fase di detenzione. Ha rifiutato ripetutamente gli arresti domiciliari in quanto si sentiva in pericolo: chi lo aveva fatto arrestare, forse, intendeva proteggerlo da altri che volevano eliminarlo.
Quest'ultimo è forse un episodio estremo, che presenta però non poche analogie con situazioni psicologiche comunemente riscontrabili tra i detenuti. Molti riconoscono, tra le ragioni del disagio, la riduzione o il crollo della «tolleranza verso le tensioni», che nell'esperienza di Vincenzo viene così illustrato:
«Vedi, si diventa talmente sensibili che basta una piccolezza per sentirti in ansia: una banale discussione con un altro detenuto o uno sguardo da parte di un agente. In queste circostanze, la cella diventa una specie di salvezza contro il caos. Questo però vale solo nel caso si possa disporre di una cella singola, altrimenti la tensione e il caos continuano ininterrottamente. Per conto mio la convivenza obbligata e chiusa può essere una forma di tortura più snervante della solitudine: chi parla in continuazione, chi si agita e strepita, chi vuole la radio o la televisione sempre accese. Questo continuo caos ti disabitua alla concentrazione, a pensare, ti fa perdere le facoltà intellettive. Del resto, il tutto è anche molto contraddittorio perché da un altro punto di vista è meglio proprio disabituarsi alla concentrazione e l'ideale è proprio non pensare, altrimenti, se percepisci fino in fondo la condizione nella quale ti trovi, puoi anche impazzire».
Promiscuità o solitudine? Anche per Francesco la cella individuale è stata inizialmente una liberazione, ma poi, ha confessato, le angosce, le cadute di umore, gli stati di depressione che si alternavano alla rabbia, lo hanno spinto a desiderare una cella meno comoda, «a rimpiangere il casino, magari lo scazzo con le guardie».
In una prigione come «Le Nuove» di Torino, ad esempio, sembra di essere al mercato di Porta Palazzo, ognuno si arrangia come può, i «mobili» sono fatti con le cassette e i cartoni: si inventano sistemi di riscaldamento supplementari, i viveri vengono accatastati dappertutto. Non c'è spazio, si vive in quattro in una cella che è stretta per due, ma come ricorda Francesco, il tempo passa. Gli agenti non danno fastidio: vivi e lascia vivere. Quando è arrivato al nuovo istituto delle Vallette, ha davvero trovato il vuoto, l'angoscia dello spazio murato che non sapeva come riempire.
«A quel punto persino il contatto con le guardie diventava desiderabile. Se non altro per avere la sensazione che esista ancora una controparte, per accertarsi di non essere stato sepolto vivo. Ecco, arrivi e pensi: mi hanno murato e hanno buttato via la chiave».
Certo, la cella individuale può essere percepita come una specie di territorio invalicabile, una tana che offre intimità, custodisce segreti. Ma in questa tana può irrompere in qualsiasi momento l'istituzione, per frugarla, buttarla all'aria, in un certo senso violarla. Da una opposta visuale, Gianni ci ha elencato i "comfort" che offre una cella per due persone. E' come vivere perennemente in un corridoio. Se uno cammina l'altro sta in branda; si mangia gomito a gomito; si dorme come in un'astronave. La convivenza forzata determina nevrosi, manie, suscettibilità e attriti snervanti. La vita reclusa diviene una sorta di recitazione continua: attenzione a non offendere l'altro, essere sempre all'altezza della situazione, non rendere visibili i rancori che si rimuginano e la tensione che si accumula. Gianni ha notato che:
«Le persone che si adattano meglio sono, da una parte, quelle estroverse, che non patiscono la presenza di altri, che anzi sono talmente abituati alla promiscuità che dieci minuti di silenzio li ucciderebbero. Per questi, radio e televisione vanno tenuti perennemente accese. D'altro canto, riescono ad adattarsi coloro che sanno concentrarsi, isolandosi dal mondo. Vivere la galera è un'arte, un'arte difficile: io non credo di averla imparata».
Si è ipotizzato da più parti un salto tecnico ulteriore del carcere elettronico; qualcuno ha celebrato l'avvento della "guardia-robot". I rapporti «umani», fisici diretti, sembrano sempre più relegati in un vecchio arsenale da museo. Il carcere del futuro, come la sala operatoria, svolgerà le sue funzioni in un brusio sommesso e asettico? Chi ha vissuto in carcere ritiene questo scenario non molto probabile. Molti, d'altro canto, registrano in maniera negativa anche le più modeste innovazioni osservate negli anni recenti. Riccardo, maturato attraverso una lunga militanza politica, ritiene sì che la galera debba essere impersonale: quale caratteristica «personale», umana, potrebbe mai avere? E però: tutto questo aprire e chiudere automatico, questo osservare con le telecamere, questa onnipresenza della tecnologia, alla fine rende insicuri, folli. E' ovvio, dice, in galera si è sempre dei numeri tra uomini, ma nella galera elettronica si è numeri controllati da macchine numeriche.
«Credo che il carcere, anni fa, avesse ancora un suo rituale, così almeno lo raccontano i vecchi. Uno mi ha detto, ad esempio: adesso abbiamo il cesso, il termosifone, il campo da pallone, ma ti giuro che vent'anni fa a San Vittore stavo meglio. Certo, c'era il bugliolo ma con tutto il suo tanfo, gli urli e le schifezze, l'ambiente era diverso, più umano. Oggi in alcune carceri modello si ha l'impressione di essere già morti, di essere all'obitorio».
IL LINGUAGGIO DEGLI ORGANI.
La conclusione cui si perviene istintivamente parlando con detenuti ed ex-detenuti, ascoltando le loro storie di galera, è che la reclusione crea debilitazioni in gran parte propiziate da «complessi di inferiorità», da uno stato innaturale dell'individuo, impotente e immobile nei confronti dell'ambiente. Lo "spazio, il "tempo" e la "comunicazione bloccata" sono i tre spigoli forti del «recinto». Per neutralizzare immaginariamente la barriera che lo separa dalla libertà, il prigioniero può mettere in campo dei comportamenti di compensazione istintiva, può servirsi di un particolare linguaggio del corpo. Oppure può far ricorso a una serie di valori culturalmente sedimentati, che derivano dal proprio gruppo etnico e sociale di appartenenza. Gli aspetti che più colpiscono gli osservatori e gli ascoltatori esterni sono legati a certe cristallizzazioni dei gesti, delle parole, dei movimenti. E' come se il detenuto, giorno dopo giorno, anno dopo anno, disegnasse una copia in miniatura del quotidiano, attraverso comportamenti e regole del vivere sociale rigide e maniacali; comportamenti e regole che altrove si diluiscono nei grandi spazi e nei tempi dilatati. C'è nella vita reclusa un'esasperazione dei significati impliciti (attribuiti ai gesti, alle parole, agli sguardi, persino agli oggetti più comuni) che colpisce, in seguito alla scarcerazione, persino chi li ha vissuti direttamente.
Così Filippo, che ha subito una pena di oltre tre anni suddivisa in due periodi diversi:
«La prima volta non ho notato subito la presenza di questo codice, un codice degli sguardi, degli atteggiamenti, dei gesti. Forse perché ero entrato in un periodo di lotte sociali e il carcere, bene o male, era influenzato da quello che succedeva fuori. Dopo però, quando sono tornato dentro per scontare il residuo di condanna, ho notato la differenza. E' stata una rivelazione improvvisa. Ho capito veramente che cosa sono il carcere e i carcerati: è stata una doccia fredda».
Filippo ha avuto l'impressione che qualcuno guidasse i loro gesti, come un regista nascosto. Nessuno li obbligava a comportarsi in un certo modo, a cedere il passo a certi personaggi, a dare la mano o a non darla a certi altri, a fermarsi o a non fermarsi di fronte a una certa cella, a ridere di uno o a «portare rispetto» per un altro. Eppure tutti si attenevano a quelle regole. Infrangerle poteva significare presentarsi come un tipo dubbio, o comunque come un ingenuo senza esperienza. In ogni modo un tipo da evitare, o qualche volta da punire.
Sarà un paradosso, ma le regole dell'esclusione, dell'emarginazione, sono molto più evidenti e rigorose in un ambiente in cui tutti sono degli esclusi e degli emarginati. In una situazione del genere si finisce per adeguarsi alle norme della maggioranza, pena l'esclusione anche dal gruppo degli esclusi.
Nel loro recente libro Giuliano Naria e Rosella Simone così scrivono:
«Il carcere è una città murata, violenta, semplicemente crudele. Gli eventi che vi accadono, i sentimenti e le emozioni che vi si esprimono, le paure e le speranze, gli odi e gli amori sono identici a quelli di qualsiasi altra città. Ma qui tutto assume uno strano contorno, si carica di un senso denso, a strati sovrapposti. Devi contendere i centimetri, gli spicchi di luce e di sole, e, attraverso di essi, la vita. Per essere solo devi scavarti dentro, nel punto più profondo, nel luogo sicuro, un rifugio. Per proteggere i sentimenti devi continuamente frugarti, forzarli, violentarli. L'imprevedibile ti piomba addosso vestendo l'insegna del noto, dell'assuefatto. Ne ricerchi i segni premonitori nel consueto, nel minuto particolare».
E' facile capire quanti espedienti di autorepressione imponga il rituale ai reclusi. Ma perché questa minuziosità ossessionante di norme? La spiegazione immediata può risultare persino banale: ricreare una solidarietà interna, uno spirito di gruppo. Gli internati devono in qualche modo reagire e identificarsi con codici interni, settari, contro l'invadenza della custodia e contro i codici che l'istituzione rappresenta. Non si tratta soltanto di una reazione conflittuale, di resistenza, ma soprattutto di una risposta compensativa, che funge da sollievo allo stimolo doloroso della reclusione.
Alberto, che riesce a guardare con distacco la «sub-cultura» carceraria alla quale dichiara pure di appartenere, considera che l'ordine interno debba essere visto come una specie di autogestione. Rispettare le norme interne vuol dire sentirsi parte della comunità e, allo stesso tempo, poter contare su una forza collettiva che aiuta a non soccombere.
«E' vero, a volte sembra tutto un gioco: le guardie da una parte, i detenuti dall'altra. Ma questo gioco ti fa sentire forte, ti fa sentire che puoi contare su qualcuno, che sei un essere umano in grado di difenderti e in grado di essere difeso dagli amici».
Chi è escluso dalla «comunità» dei detenuti viene implicitamente consegnato nelle braccia dell'istituzione, che può infierire su di lui; oppure viene collocato in un territorio vuoto, di autoisolamento insopportabile. L'individuo recluso ha bisogno di consenso e solidarietà nettamente maggiori rispetto all'individuo libero. Alberto esprime questo concetto in parole semplici: in carcere non ci sono vie di mezzo, o sei un infame o sei un bravo ragazzo. Ricercare l'approvazione degli altri diventa vitale.
Sono queste estremizzazioni a rendere necessari i rituali, che nel carcere implicano una sorta di adesione dell'individuo, del suo corpo, all'ambiente. Rituali che fungono da compensazione agli handicap psicologici e fisici indotti dal carcere stesso. Come spiegare altrimenti quell'ambiguo significato di iniziazione che il carcere ricopre presso i gruppi sociali che ne sono destinatari? Molta letteratura popolare, molte «canzoni di strada» sono piene di questa «apologia» della sofferenza carceraria. Alberto continua:
«Guai a dire che dentro si sta bene. Si soffre e basta. E' un luogo comune, fa parte del rituale. Anche quando la galera è una pacchia, non bisogna dirlo, altrimenti crolla tutta l'idea che il detenuto paga, paga con la propria sofferenza le scelte che ha fatto».
Il rituale facilita l'adattamento, limitando i guasti, che sono invece più visibili in chi il carcere lo rifiuta «biologicamente» o lo combatte. Se non è iniziazione, per molti è semplice mortificazione:
«Pensa a tutta quella gente "perbene" che è stata distrutta, spezzata, da una fotografia di giornale. Pensa a quegli uomini politici o a quei finanzieri che hanno veramente avuto un crollo, un infarto, solo perché sono stati ammanettati di fronte a tutti. L'umiliazione non è pena, è più della pena. Non a caso la gente, almeno in certi ambienti, non racconta facilmente di essere stata in carcere. Raccontare agli altri che si è stati nudi, indifesi, è la mortificazione della mortificazione. Qualcuno si è ammazzato per questa "cosa da nulla"».
LA MUTILAZIONE.
Il carcere fa male, genera delle menomazioni, degli handicap, di conseguenza dei disturbi e infine delle malattie psico-somatiche. Ma come avviene questo percorso e perché? Francesco, condannato per rapina, ha spiegato così il suo comportamento e le sue sensazioni, all'indomani dell'arresto:
«Era la prima volta che entravo in galera e quello che mi ha subito colpito è stato il fatto di sentirmi mutilato. Non avevo più le braccia né le gambe. Non potevo far niente. Le cose che mi servivano erano distanti chilometri. Dovevo sempre chiedere, domandare a un altro: allo spesino alla guardia, a un lavorante. Non ero più autosufficiente. Per ogni cosa dovevo fare la "domandina": è come sentirsi paralitico».
La "domandina" rappresenta in carcere l'emblema più grottesco e irritante dei labirinti burocratici; il carcere è anche questo: sorta di ufficio pubblico che punisce con la lentezza dei suoi «servizi» e obbliga l'utente alla completa paralisi. Francesco trovava insopportabile questa sua mutilazione:
«Diventavo nervoso, aggressivo, mi stava per venire il ballo di san Vito. Alzavo la voce, suonavo il campanello, chiamavo la guardia, insultavo i lavoranti. Mi sembrava che tutti quelli che non erano chiusi fossero responsabili della mia immobilità».
L'impatto con l'immobilità, con la restrizione dello spazio, è senza dubbio fonte di shock almeno nei primi mesi; ma anche dopo aver superato, con relativo adattamento, questa sgradevole mutilazione che limita gli atti e l'azione personali, il detenuto continua a vivere in una condizione fisica artificiale. Le sue relazioni spaziali sono costrette, predeterminate; al movimento si sostituisce il moto. L'interazione tra corpo e mente non può che subire modificazioni negative. Il detenuto ne è consapevole e odia questa sua dipendenza, questa umiliante regressione, e d'altro canto, per sopravvivere, deve usare proprio quei «servizi» che sono parte integrante della sua reclusione, della sua menomazione fisica.
Nell'impossibilità di reagire e di sfuggire sia alla condizione di stress permanente, sia agli stimoli negativi che essa induce, i detenuti possono adottare due comportamenti fondamentali: aggressivo o depressivo. L'atteggiamento aggressivo può essere davvero controproducente, in quanto penalizzato dall'istituzione e poco adatto alla convivenza con gli altri reclusi. Quello depressivo può invece trasformarsi in rassegnata acquiescenza, con una superficiale ritrovata serenità. Ma entrambi questi stati, di aggressività e di depressione, che spesso si alternano con mutamenti repentini, non sono essi stessi funzione della sofferenza legale? E il loro manifestarsi sarà indolore per l'equilibrio psicofisico del detenuto?
Alessandra, detenuta per pochi mesi in carcerazione preventiva, ha raccontato di aver trascorso i primi tempi di reclusione passando da un comportamento estremo all'altro. Prima, aggressiva e conflittuale, ha cercato in ogni modo di lottare per spezzare l'isolamento della comunicazione, per mantenere un rapporto vivo con l'esterno. Poi, dopo un trasferimento punitivo con conseguente isolamento totale, ha iniziato lo sciopero della fame ad oltranza, interrotto solo col ricovero in ospedale. «Allora per reagire ho dovuto far ricorso all'ultimo mezzo che mi rimaneva: lo sciopero della fame. Reagivo anche così, sottraendo il mio corpo al regime della prigione... Alla fine ero diventata tranquilla, rassegnata. O cambiava qualcosa, oppure che accadesse pure quello che doveva accadere».
Eccesso di sofferenza o razionale spirito di adattamento? Si potrebbe pensare che la reazione ad oltranza, il tentativo velleitario di spezzare i vincoli della prigione, possa generare un surplus di sofferenza. E all'apparenza, coloro che si adeguano più in fretta e facilmente al regime carcerario accusano disturbi meno evidenti. E' possibile tuttavia che la sofferenza interiorizzata non faccia altro che scavare disturbi meno tangibili, che si presentano come una sorta di normalità della anormalità. Ci può essere insomma una patologia piatta della prigione che, in un certo senso, sfugge persino ai comportamenti individuali, perché investe tutti: «aggressivi» e «rassegnati». Patologia che si sostanzia nell'ansia di sottrarre il proprio corpo e la propria mente all'istituzione. E' questo lo scopo primo, l'oggetto della lotta quotidiana, che il detenuto conduce nevroticamente per l'equilibrio e la sopravvivenza.
Controllare le proprie facoltà intellettive o rinunciarvi del tutto tramite un costante stordimento? Molti detenuti si consumano in questa contraddizione, nutrendola di un'angoscia di fondo: l'universo carcerario viene valutato nella sua aperta deterrenza fisica. Viene avvertita un'atmosfera che promette violenza, una minaccia costante che l'istituzione possa infierire sul loro corpo fuori da ogni controllo legale. Al carcere, in quanto tale, viene insomma riconosciuto il diritto di provocare menomazione, anche se l'esercizio di questo diritto risulta visibile solo in situazioni di emergenza. Ma il terrore, legato alla possibilità che ogni situazione possa venire definita «di emergenza», si prolunga in ogni fase della detenzione come se questa, periodicamente, si alimentasse di un tributo simile al sacrificio umano.
Il meccanismo di questa ossessionante deterrenza viene descritto mirabilmente da Octave Mirabeau ne "Il Giardino dei Supplizi". Il suono di una campana dai tocchi bassi e sordi annuncia che un detenuto «immeritevole» sta per essere giustiziato o, semplicemente, che sulle sue carni qualcuno si accinge a dar pieno regime alle macchine di tortura. Ma anche in mancanza di una vittima, e senza che abbia realmente luogo il supplizio, la campana suona ugualmente di tanto in tanto, lasciando i detenuti nel dubbio se gli strumenti di afflizione siano davvero in opera o se vengano soltanto sinistramente evocati.
IL MARCHIO FISICO DELL'ISTITUZIONE.
Giuliano, che ha trascorso dieci anni in prigione, è convinto che la deterrenza sia destinata a rimanere per molto tempo l'asse portante del sistema penitenziario.
«La paura fisica, le botte, sì, la violenza, sono l'aspetto principale della detenzione. Se ci fai caso tutti i coatti, tutti coloro che hanno trascorso un periodo medio-lungo in galera, portano i segni delle guardie, il marchio dell'istituzione sui loro corpi. Arti spezzati, denti rotti, facce sfigurate. Il pestaggio è lo strumento del potere interno, è il suo mezzo di controllo più evidente. Ti possono ammazzare e nessuno ti paga. Sì, anche adesso certi detenuti sono alla mercé della violenza fisica».
Giuliano afferma che troppo spesso la violenza psichica, la tortura dell'isolamento, mettono in secondo piano l'aggressione, l'inabilitazione fisica. Il manganello chimico, insomma, non elimina o sostituisce quello di legno, ma ne è complementare. Né a volte è possibile tracciare delle differenze nette. Se per giorni e giorni ti buttano dell'acqua fredda in cella, magari d'inverno, come la consideriamo: tortura fisica o psichica? Secondo Giuliano la psichiatrizzazione, la medicalizzazione, il «male oscuro» indotto dalla pena, senza dubbio esistono, ma sarebbero subordinati "sempre" alla violenza, che è il primo comandamento carcerario. Si può non condividere una simile interpretazione, e tuttavia gli aspetti fisici, brutali, della detenzione trovano un ampio riscontro nei fatti.
«Primo giorno di carcere ai "topi" di San Vittore. Nella notte la squadretta massacra uno. Non so perché. Qui c'è Agrippino: è storpio a un piede, lo stomaco a pezzetti per una scarica di pallottole beccate durante una tentata evasione. Anche Renato è storpio. E così altri. E' proprio una legge non scritta, ma perciò più fedelmente applicata. Chiunque tenti l'evasione o faccia casino, gli si spacca un piede, una mano, un braccio, i denti. Quanti girano con la dentiera».
Molti detenuti sentono il bisogno fisico di picchiare e di essere picchiati. Di scontrarsi direttamente con l'istituzione. Per sentirsi ancora uomini, soggetti, e non numeri. Lo scontro, la violenza, si presentano come mezzi di autoaffermazione e di verifica della propria identità: molti detenuti ce lo hanno confermato. Nino, ad esempio, ci ha fatto notare che a volte chi viene picchiato sembra essere fiero di aver tollerato le botte con virilità, da «vero uomo». Per altro verso, in un ambiente saturo di violenza (anche se ufficialmente la violenza stessa viene sanzionata) le manifestazioni fisiche sono state per lungo tempo tollerate e, al contempo, sdrammatizzate, minimizzate. La violenza, insomma, può fungere da strumento di regolazione interna degli equilibri, da mezzo di autogestione.
Andrea ha trascorso un anno e mezzo in un istituto molto moderno: ha visto detenuti pestarsi tra loro, ha conosciuto compagni di braccio che hanno più volte tentato il suicidio, ha assistito a episodi di automutilazione.
«A volte si tratta di problemi personali, e allora la comunità dei detenuti non è molto tenera con l'autolesionista. Al massimo dice: sono fatti suoi! E' difficile trovare solidarietà tra i reclusi su questo piano. Non so, forse la violenza contro se stessi, pur essendo ancora molto diffusa, viene considerata più che un gesto di ribellione, una manifestazione di debolezza. Una confessione di impotenza. E come tale è disprezzata. Se invece la violenza si rivolge contro altri detenuti, colpevoli di sgarri o infamie, viene ritenuta positiva. Quanto alle reazioni contro le guardie (per la verità molto rare), c'è una certa tolleranza, in alcuni casi ammirazione. Ma pochi solidarizzano. Anche questa viene vista come una questione privata, da regolarsi fra interessati».
Andrea sostiene che, all'interno del recinto, la violenza è non soltanto una manifestazione normale, ma indispensabile, per affermare il principio della ragione: la ragione del più forte. In certi casi si ha la sensazione che la custodia sia lì per difendere i detenuti da se stessi. La direzione, specie nelle carceri piccole, negli istituti cosiddetti modello, teme di più le beghe tra detenuti che non le rivolte. O forse vive accompagnata dall'incubo che regolamenti di conti e vendette possano fare esplodere proteste e ribellioni. E' un fatto comunque che la violenza in sé non preoccupa nessuno.
«Piuttosto la violenza diventa un problema rispetto all'esterno, all'opinione pubblica o alla direzione nazionale delle carceri. Se due detenuti si pestano a sangue e nessuno li vede, la cosa finisce lì. I lividi o le ferite sono liquidate in quattro parole: sono caduto per le scale, sono scivolato nella doccia...».
La violenza è in tutti e in nessuno; oggi però l'istituzione, dopo il varo dell'ultima riforma, ha trasformato le vecchie regole consuetudinarie in un codice formalizzato che investe soprattutto i rapporti tra custodia e detenuti. Il rapporto è parte integrante della nuova deterrenza «nonviolenta»: a volte basta un epiteto contro una guardia, o un gesto di nervosismo che sfocia nel danneggiamento della cella, per impedire al recluso di usufruire del permesso o di altri benefici. Per molti la repressione nonviolenta è peggiore delle botte o dei modi duri di un tempo.
«Se ci si scontrava con una guardia, tutto poteva anche finire con uno scambio di minacce o, nei casi più gravi, con un "santantonio". Ma c'era comunque la possibilità di recuperare. Adesso i rapporti negativi sono macchie che restano per anni sul fascicolo del detenuto. Lo accompagnano ovunque e bisogna rigare dritto, sempre, per non essere messi sul libro nero».
AMMALARSI DI GALERA.
Deterrenza fisica e deterrenza nonviolenta si affiancano a un costante ricatto: i detenuti sono consapevoli di potersi «ammalare di galera». Alla vulnerabilità oggettiva si aggiunge una perpetua vulnerabilità di suggestione. E' questo un monito che, anche nel carcere contemporaneo impone delle regole di autocontrollo, insieme a delle norme di tutela del corpo che facciano da argine al conseguente decadimento psichico. Leonardo così si è espresso:
«Occorre reprimersi, evitare di pensare, evitare di vedere, fare del male a se stessi anziché sfogarsi con gli altri. Sono queste forme di autorepressione che, secondo me, inducono malattie psichiche e fisiche. Dicevo che occorre persino evitare di vedere. Parlo delle mura stesse del carcere: per me erano un'ossessione, preferivo non vederle, altrimenti mi sentivo impotente e codardo per non tentare in qualche modo di saltarle».
E' difficile collegare queste necessità di autorepressione all'insorgere di stati generali di disagio fisico o all'emergere di specifici disturbi. Lo studioso Paolo Pancheri, a questo proposito, è tra i pochi ad aver documento come ogni stimolazione emozionale abnorme abbia effetti sensibili sul sistema endocrino e immunitario. Nelle sue argomentazioni, la reazione psicofisica ha una sua «memoria emozionale» che dipende dall'età, dalla cultura, dal patrimonio individuale e, ovviamente, dalle condizioni ambientali in cui si trova il soggetto. Se ne può dedurre che condizioni di disagio ed emozionalità intense, ridondanza di stimoli e stati di stress producono effetti nocivi e patogeni.
Il pericolo di menomazione, forse non avvertito nitidamente da ognuno, spinge tuttavia ogni recluso ad adottare forme di difesa, per così dire, volontaristiche, che in molti casi prendono la forma di semplici esercizi di «assenteismo psicologico». Così ha raccontato Francesco:
«Molti miei compagni vivevano in uno stato di stordimento costante. Uno stordimento un po' indotto dal carcere, un po' cercato da tutti i detenuti come forma di autodifesa, di fuga. Un mio amico mi diceva che a volte si sorprendeva lui stesso del suo comportamento. Si era accorto, ad esempio, che al mattino passava oltre un'ora davanti allo specchio a lavarsi i denti, che ne passava 12 o 13 a guardare la televisione. Ma uno degli anestetizzanti maggiormente usati è il sonno. Per me, ad esempio, il momento di andare a dormire era una vera e propria liberazione e lo aspettavo come un piacevole appuntamento quotidiano. Come dire: dopo una giornata di non esistenza, ecco che anch'io, durante la notte, posso vivere come tutti gli altri. Ho pensato spesso in quelle condizioni, al sonno e al sogno come vita e mi sono chiesto quali movimenti, quali gesti e quali strane conversazioni avrebbero potuto registrare delle telecamere appostate in cella».
Si può ipotizzare una sottile consapevolezza da parte della direzione riguardo alla funzione liberatrice del sonno. Francesco ha infatti osservato come la sveglia al mattino sia, di regola, brusca e traumatica. Nella sua opinione tale cinismo è deliberato:
«E' finita la tregua, non ti illudere, sei ancora qua, tra mura e sbarre».
Viene alla mente il "Sigismondo" di Calderon de la Barca al quale, rinchiuso da sempre nella torre, viene concessa un'incursione nel mondo libero sotto l'effetto di un narcotico. Dopo simile esperienza, non sarà in grado di distinguere se la vita in libertà sia un sogno o la reclusione nella torre un incubo.
Esiste oltre al sonno, un'altra pratica anestetizzante che è difficile quantificare da noi, ma che pare diffusissima in Francia. Michel, che abbiamo incontrato nel centro di trattamento post-carcerario di Nanterre, e che ha scontato 18 anni di pena, ci ha raccontato che:
«Quasi tutti i detenuti tiravano avanti a psicofarmaci. E la direzione certamente non li scoraggia. Io, per esempio, ho cominciato con piccole dosi di tranquillante e sono arrivato, poi, a centinaia di gocce. Tenere i detenuti sotto psicofarmaci, significa garantire la tranquillità ai sorveglianti. Passa di tutto: tyralene, qualud, tavor...».
Questo tipo di trattamento non viene richiesto in modo esplicito dal detenuto. Ma come ha spiegato Michel, succede che non ti senti bene, vai dallo psichiatra, e lui aumenta la dose tutte le settimane, fino a quando arrivi a quattro, cinque bottigliette di medicinali al giorno. E' una sorta di camicia di forza che il detenuto si mette da solo. Quando poi sarà irrecuperabile, verrà mandato all'ospedale psichiatrico.
«Almeno tre quarti della popolazione penale ha questi problemi, perché naturalmente il detenuto cerca di dimenticare lo stato in cui si trova e quindi cerca di dormire, di non pensare. Per l'amministrazione va bene così: se bussi allo sportellino ti portano subito la medicina, così non dai fastidio. Per loro il problema nasce semmai quando uno smette di prendere le medicine».
Nel racconto di Michel il trattamento con psicofarmaci è talmente comune che basta un normale comportamento reattivo, o istintivo, per darvi corso. All'ingresso in carcere, nessuno si rassegna all'improvvisa immobilità: chi cerca di parlare con l'avvocato, vuole incontrare degli amici; chi chiede continui colloqui, insomma «si agita»; chi vuole avere più spazio e più possibilità di movimento: vuole uscire. Il detenuto comincia a diventare un caso di interesse medico e, poco dopo, un caso di interesse psichiatrico.
Quest'ultima testimonianza mette in luce un aspetto della coercizione carceraria nonviolenta che è stato finora poco analizzato. Tranne in casi eccezionali (detenuti speciali, detenuti cavie), la «camicia di forza chimica» non sembrava così diffusa nelle prigioni occidentali. Se davvero la «psichiatrizzazione» dei detenuti è destinata a diffondersi, possiamo interpretare questa tendenza nei due modi che vengono più immediati alla mente. La composizione attuale dei detenuti giustifica, anzi necessita di un trattamento generalizzato a base di psicofarmaci, per le sue caratteristiche di «debolezza» sociale e di scarsa identità «sub-culturale». Ma in questo caso i detenuti sono delinquenti o malati mentali? Oppure possiamo interpretare il «manganello farmacologico» come parte integrante di quell'autogestione della pena cui tende, inevitabilmente, il carcere immateriale.
Ma è concepibile una pena deterrente, una pena punitiva, che al contempo renda insensibile, anestetizzato, il proprio oggetto? D'altra parte se la pena ha una componente rieducativa, risocializzante, perché ridurre il reo a una «pianta», a un «legume», a un farmacodipendente incapace di attivarsi, una volta libero, nel mondo «civile» e di orientarsi nel labirinto delle sue norme? Non è forse il trattamento farmacologico un surplus di sofferenza, una causa supplementare di handicap, presentato per altro verso sotto forma di sollievo dalla sofferenza?
La tranquillità della custodia sembra essere la vera «missione» del carcere, a costo di trasformare le amministrazioni in spregiudicati trafficanti di droghe.
Le droghe pesanti, cocaina ed eroina, fungono a loro volta da «sollievo chimico» per i detenuti che, magari, in libertà non si erano mai incontrati con queste sostanze. La ricerca di un anestetizzante produce, anche nelle nostre carceri, una moltiplicazione dei tossicodipendenti tra gli extra-legali tradizionalmente estranei al consumo e allo smercio di droghe. Il paradosso vuole che, una volta demolito il tabù legato agli effetti della sostanza, crolli lentamente anche il tabù connesso all'uso commerciale della sostanza stessa. Insomma, il carcere è luogo di spaccio di droghe «legali» e, allo stesso tempo, è scuola di avviamento allo spaccio di quelle «illegali».
LA COGNIZIONE DEL DOLORE.
Alcuni dei nostri intervistati descrivono circostanze simili a quelle che troviamo in diverse pagine suggestive di Eugene Sue. Ne "I misteri di Parigi", il protagonista impone a se stesso un crescente abbrutimento morale e fisico, vuoi per emendare inconsciamente la colpa, vuoi per segnalare ai suoi aguzzini la rinuncia alla propria fisicità e, indirettamente, alla ribellione. Un segnale di avvenuta riconciliazione, tramite il degrado di sé, con la legge e l'ordine. Ettore ci ha spiegato:
«Molti miei compagni di detenzione si sentivano male, senza saper identificare un preciso disturbo. Ma si sentivano, in realtà, vulnerabili e attaccabili in qualsiasi momento, e allora esasperavano il loro stato di malessere, chiedevano in continuazione di essere visitati da un medico. Si convincevano di essere malati, e magari riuscivano davvero ad ammalarsi. Ma soprattutto volevano convincere l'amministrazione e le guardie, in modo da non essere maltrattati psicologicamente e fisicamente. Come dire: guardate come sono ridotto; non infierite ancora di più. E' un po' un comportamento come quello dei lupi che si legge nei libri: quando il più debole riconosce la propria inferiorità fisica e psicologica, avvicina il collo alle zanne dell'avversario che viene così indotto a risparmiarlo».
Le condizioni di estrema vulnerabilità imposte dal carcere preparano un declino fisico generale che può seguire processi di tipo cumulativo non facili da interrompere. E' il caso di chi, nel negare la propria fisicità, finisce per respingere anche la spontanea routine che riproduce le energie e il corpo. Mario ha ricordato:
«Il fatto di sentirsi male e allo stesso tempo la consapevolezza che quel male ti viene prodotto dal carcere ti rende ancora più instabile e vulnerabile. Nel mio caso, ad esempio, lo stato generale di tensione nervosa ha avuto come effetto permanente quello di dammi nausea e assoluta inappetenza. E' ovvio poi che lo stato generale di salute, in questo modo, peggiorava ancora di più. Quando sono uscito dal carcere ho avuto bisogno di un periodo piuttosto lungo per «riabituarmi a mangiare», per provare gusto nel cibo, avvertire di nuovo sensazioni di appagamento fisico».
Chi arriva in carcere con piccoli disturbi, con i quali in condizioni normali riesce a convivere, spesso vedrà i propri mali amplificarsi in misura intollerabile. Vittorio, ad esempio, in un trascorso periodo di detenzione durato due anni, aveva cominciato a soffrire di dolori reumatici. Durante i successivi anni di libertà, adottando piccole attenzioni e cure elementari, era riuscito a controllare il male, finché: «una volta riarrestato, il mio male si è subito riacutizzato. Sarà anche un fatto psicologico, ma vedi, quando sei buttato lì in una cella e rimani improvvisamente solo, hai la sensazione di essere in balia di eventi incontrollabili, di essere nelle mani dell'amministrazione e degli agenti di custodia. Ti senti indifeso e arrivi a pensare che se loro vogliono possono farti "scomparire", "suicidare", oppure semplicemente possono "nasconderti" in un carcere o in una cella in modo che anche le persone che ti seguono di più perdano ogni traccia di te. Quando ti senti così indifeso psicologicamente è facile che crollino anche le difese fisiche e che cominci ad avvertire dei veri e propri disturbi».
Il decorso del male segue, non sorprendentemente, le euforie e le depressioni legate alla sua vicenda carceraria e giudiziaria. I periodi di maggior malessere corrispondono ai momenti di incertezza sull'evoluzione del suo caso o alle fasi di maggior rigore nel trattamento carcerario subito. Al regime di isolamento, ad esempio, consegue puntualmente un riacutizzarsi del male nel quadro di quel processo cumulativo di cui si è detto:
«Il dolore era tale che non riuscivo a far ginnastica, che come sai è essenziale in carcere per percepire la propria fisicità e per mantenere autocontrollo. Naturalmente si creava un circolo vizioso per cui, non potendo fare ginnastica, i blocchi fisici e i dolori aumentavano. Sarà strano, ma non appena sono stato tolto dall'isolamento, i dolori si sono attenuati; quindi ho potuto riprendere a fare esercizi fisici e, di conseguenza, attutire il male».
In un paio di occasioni gli erano state offerte delle plausibili prospettive di ottenere il beneficio della libertà condizionata, tanto da convincerlo che la sua detenzione stesse per volgere al termine:
«Quando il giudice ha respinto la richiesta di libertà, la mia condizione fisica è improvvisamente precipitata: non riuscivo neanche più ad alzarmi dal letto» .
Giovanni avvertiva analoghi intensissimi dolori alle spalle e alla spina dorsale. Uscito dal carcere, si è precipitato da un medico di fiducia, il quale gli ha assicurato che non era visibile alcuna lesione alla colonna vertebrale, ma: «ha notato come una inspiegabile contrattura alle fasce muscolari. A suo avviso i dolori erano provocati da questi blocchi fisici che lui attribuiva a fatti di origine nervosa o addirittura a tratti del carattere. Insomma, l'accumularsi di nervosismo e l'impossibilità di scaricare tensione erano secondo lui collegate ai disturbi fisici che avvertivo. Lui, non essendo al corrente della mia recente condizione di detenuto, attribuiva tutto questo al tipo di attività lavorativa o al tipo di vita familiare che conducevo, e quindi mi ha consigliato di evitare le situazioni stressanti e conflittuali. A sua opinione, il mio carattere poco aggressivo, infatti, mi spingeva a interiorizzare le tensioni e, come diceva lui "a metterle pericolosamente in circuito nel sistema nervoso"».
IL RUMORE DEL SILENZIO.
Uno dei pilastri del carcere immateriale è, si è detto, il blocco della comunicazione. Così come lo spazio fisico si avvolge su se stesso, la comunicazione, il flusso di messaggi (interni, dall'interno verso l'esterno e viceversa) si avvita a spirale e si introflette. Fino all'afasia, al vuoto; al nulla di un «silenzio troppo rumoroso».
Tra le componenti, i vettori fondamentali, di questa non-comunicazione, possiamo annoverare: il denaro, il sesso, l'altro, l'io. Questi elementi diventano luoghi obbligati e sclerotizzati, poli obbligatori, in un discorso involuto e concentrazionario. Chi parla e chi ascolta? Chi parla a chi e di che cosa?
L'altro diventa un mondo ritualizzato, mitizzato e, in un certo senso, esasperato da dicotomie e giudizi estremi, irreversibili. La dialettica scompare, la dialettica finisce là dove inizia il muro di cinta. L'altro è amico o nemico; compagno, infame o poliziotto; moglie, amante, madre, figlio o traditore; o nessuno. Non ci sono sfumature: è un dialogo per antitesi assolute: un non-dialogo. Anche l'"io" sembra obbedire a questa sfaccettatura che lo rende iperreale, marcato e spigoloso, tanto più ostentato quanto meno discusso. Ma perché e come può accadere tutto questo?
Alberto ci ha detto:
«Sei in una gabbia, in una scatola di cemento; ti accorgi dopo un po' che le parole pesano. Hanno molta più importanza che all'esterno: è come se corrispondessero a dei gesti. Una parola significa uno schiaffo, un'altra significa una carezza. Impari a pesare quello che dici, come lo dici. E' un mondo chiuso dove si parla per frasi fatte».
Nessuno dice quello che pensa, pochi pensano quello che dicono. Si tratta di reazioni automatiche, di difesa, o si tratta di codici che designano dei rapporti elementari? Il fatto è che c'è poco spazio, e bastano poche parole per riempirlo tutto, per renderlo irrespirabile.
«Quando hai raccontato un po' della tua vita e hai ascoltato gli altri, è tutto finito, non hai più niente da dirti. Si guarda la televisione fino al mattino».
La s/comunicazione, la comunicazione fondata su binari prestabiliti, permette al carcere di entrare nel prigioniero, di autoregolamentarlo. Se si potesse ridere, gridare, «dissacrare» quell'atmosfera grigia, tesa, artificiale, forse il carcere crollerebbe da sé. Ma sono in primo luogo quelli dentro che non riescono, non possono ridere: se ciò avvenisse, gli equilibri muterebbero, la pena non sarebbe più tale.
Giuseppe, che ha trascorso tre anni in un carcere giudiziario, ci ha parlato con ironia di tutti quegli «uomini di rispetto» nei quali si è imbattuto:
«Hanno un comportamento tutto loro, un loro codice con gesti e frasi obbligatorie. Si prendono molto sul serio: rispetto di qua, rispetto di là».
Ma a forza di camminare nello stesso cortile, vivere nella stessa cella, ripetere gli stessi discorsi sul processo, la libertà, la famiglia, l'estensione della comunicazione finisce per perdersi: la varietà e il senso del linguaggio si riducono a pochi messaggi chiave. In carcere si parla con cento parole: che comunicazione si può praticare con un simile vocabolario?
Certo il detenuto può accedere alle notizie divulgate dalla stampa, a quelle che passano sullo schermo del televisore, ma i fatti vissuti, gli avvenimenti? E sarà poi vero quello che dicono giornali e televisione? Viene in mente la burla radiofonica di Orson Welles che dai microfoni lancia la notizia di un'invasione di extraterrestri. La gente è chiusa in casa, fuori c'è nebbia e piove. La radio descrive feroci esseri verdi; ma chi è in grado di controllare quello che davvero sta succedendo? Non può che scoppiare il panico. Daniele, quattro anni di carcere per rapina, ci ha raccontato degli episodi analoghi:
«Sì, senti le notizie alla televisione, ma è come se non ti riguardassero, non hai nessun riferimento; come se provenissero da un altro mondo che non vedi e non sei in grado di controllare. Ma anche con il notiziario di "radio-carcere" succede la stessa cosa. Arriva la notizia che al piano di sopra tizio si è svenato, oppure che il giorno dopo faranno una perquisizione alle cinque del mattino. Tu che fai? Non puoi controllare le voci. Stai chiuso in cella e ti rodi, non dormi, dai i numeri».
Si potrebbe obiettare, come più o meno ha suggerito Victor Hugo, che in carcere si trova se stessi, perché si è in condizioni ideali di solitudine e di meditazione. Alfredo, ex-detenuto che ha divorato letture di ogni tipo nei sei anni di reclusione, ci ha parlato della sua passione per la meditazione orientale, per il misticismo indiano. Ironicamente ci ha chiarito le difficoltà incontrate nel comunicare, attraverso il pensiero, con l'esterno, anche per via di quell'inquinamento acustico che è tipico del carcere. Come fare a concentrarsi tra rumori, urla, risa, brandelli di conversazione?
«Il tintinnio delle chiavi, quel rumore così caratteristico, era diventato un'ossessione. Era il simbolo della schiavitù. Potevi chiudere gli occhi e tapparti le orecchie. Quel rumore continuavi a sentirlo».
Un altro fattore che lo distraeva dalla meditazione, riportandolo alla realtà, era l'odore della galera. Sì, quell'odore insopportabile. Non è un caso, sottolinea Alfredo, che tutti in carcere usino fiumi di profumo, guardie e detenuti. E lavino per terra e disinfettino i muri: ma non c'è niente da fare:
«Hai presente l'odore delle bestie in gabbia? Al mattino presto, al momento della conta, quando si aprono i blindati, ti arriva in faccia quel fetore di chiuso, di sofferenza notturna. Ti colpisce come uno schiaffo».
E il denaro, il sesso, che ruolo hanno in questo quadro di non-comunicazione? Il denaro ha certamente un suo valore che viene conservato intatto, anche se può essere surrogato da altre merci: sigarette, francobolli, vino, droga. Il denaro non può essere tabù, anzi, tutti pretendono di averne fatto e di averne tanto da parte. Altrimenti perché si troverebbero in galera?
Quanto al sesso, e secondo le testimonianze che abbiamo raccolto, non pare se ne parli molto, tranne forse tra i più giovani. L'omosessualità, al contrario di quanto comunemente si crede, è il più delle volte tabù, irrisa come manifestazione di debolezza.
L'IMPOSSIBILE OGGETTO DEL DESIDERIO.
Nell'elencare le menomazioni e le sofferenze prodotte dal carcere, è fin troppo ovvio pensare a quelle di tipo sessuale. Alcuni la considerano la vera tortura, la punizione in sé. Eppure è raro che il desiderio sessuale da parte dei detenuti, venga dichiarato in maniera urgente e aperta. Si teme forse, curiosamente, che il «diritto al sesso» si presenti come una rivendicazione degli aspetti frivoli della propria esistenza. All'osservatore esterno, al contrario, lo status di detenuto fa immediatamente pensare alla deprivazione dello scambio affettivo e sessuale e, non di rado, richiama alla mente pratiche torbide e sfrenate. Associamo comunemente ad ogni situazione di «clausura» non solo quei tratti disumani della privazione sessuale, ma anche quei toni esasperati, ossessivi di risposta alla privazione stessa.
Molta letteratura e cinematografia raffigurano la sessualità dei reclusi come estrema, quando non brutale, confinante con la sopraffazione, subdolamente perversa. Il detenuto affetto da priapismo? Alla costante ricerca di oggetti di consumo sessuale?
Siamo convinti del contrario: il carcere non induce una libido compulsiva e incontrollabile. Non bisogna pensare a uno stato perenne di eccitazione se i detenuti sembrano ossessionati dalla ricerca di "partner" più o meno consenzienti, o se consumano grandi quantità di suoi surrogati «osceni». Né credere all'immagine del detenuto sessualmente iperattivo se le celle sono tappezzate di nudità non propriamente erotiche, ma ginecologiche; e se il consumo di pornografia è ostentato e quasi obbligatorio. Crediamo che la mancanza di stimoli faccia temere la perdita completa della propria dimensione sessuale, la quale viene così sollecitata senza sosta, in maniera macchinosa, tramite artifici plateali. Il ricorso ad immagini «estreme» costituisce un tentativo disperato per rievocare, attraverso toni smisurati, quelle sensazioni che in carcere si stanno addormentando. Chi è in libertà può elaborare un proprio immaginario erotico e controllarlo, facendolo se non altro interagire con l'esperienza vissuta, il ricordo intimo e la proiezione di questo nell'esperienza da ripetere. Ai detenuti si impone una sollecitazione forte che colmi il vuoto degli stimoli, che scongiuri lo smarrimento totale di ogni desiderio.
Ma come mai le rivendicazioni del diritto all'affettività e al sesso sono così rare negli istituti di pena? Forse perché il carcere è talmente odiato che si teme persino di migliorarlo: sarebbe mostruoso se si cercasse di renderlo più umano. In questo modo possiamo anche leggere un episodio relativamente recente. Qualche anno addietro, un folto gruppo di detenuti di San Vittore aveva avviato forse la prima battaglia per l'affettività nelle carceri italiane. Ebbene, la lotta venne etichettata, da severi militanti, come la «battaglia per le tendine rosa alle sbarre», e i suoi protagonisti come vezzosi individui da disprezzare.
Nadia e Vincenzo, che in una lettera pubblica hanno chiesto di potersi incontrare malgrado il giudizio di pericolosità che li riguarda, esprimono in proposito alcune interessanti osservazioni:
«Si può arrivar a vedere come una debolezza il nostro atteggiamento: affermare l'importanza dei propri sentimenti significa in realtà fare una scelta individuale, oppure rischiare di finire nel ridicolo, oppure ancora andare incontro ingenuamente alle inevitabili vessazioni supplementari che il carcere riserva ad ogni pensiero messo a nudo».
Nadia e Vincenzo lottano perché ci sia una zona franca per i rapporti tra gli individui: anche in carcere. Chiedono di essere puniti con la privazione della libertà senza che si pretenda di salvarli o purificarli. Non ci si chieda se sono stati recuperati o rieducati, si conceda loro un diritto. Né, come nel carcere «riformato», ci si ostini ad inscrivere anche l'affettività e il sesso tra i benefici e i premi riservati ai meritevoli.
«In questo modo anche il rapporto tra i sessi viene a far parte delle politiche lealizzatrici delle coscienze, diventa premio o tortura bianca per la conversione».
Col predominio dei principi premiali, insomma, la nuova legislazione carceraria ha reso il rapporto uomo-donna un semplice oggetto di «politica delle coscienze»: il rapporto non potrà più
«essere considerato come un momento interno alla comunicazione amorosa. Ora servirà a fondare uno Stato etico che nelle sua prassi per la conservazione vuole... purificarlo! Non ci danno le licenze per uscire dal carcere? Va bene, ci lascino stare insieme per il tempo di una licenza... in carcere, o in condizioni tali da non doverci chiedere se vogliamo fuggire o no o cosa pensiamo di questo o quell'argomento politico».