I SOMMERSI E I SALVATI.
"Since then, at an uncertain hour,
That agony returns:
And till my ghastly tale is told
This heart within me burns".
S. T. Coleridge,
"The Rime of the Ancient Mariner",
v.v. 582-85.
PREFAZIONE.
Le prime notizie sui campi d'annientamento nazisti hanno cominciato a diffondersi
nell'anno cruciale 1942. Erano notizie vaghe, tuttavia fra loro concordi: delineavano
una strage di proporzioni così vaste, di una crudeltà così
spinta, di motivazioni così intricate, che il pubblico tendeva a rifiutarle
per la loro stessa enormità. E' significativo come questo rifiuto fosse
stato previsto con ampio anticipo dagli stessi colpevoli; molti sopravvissuti
(tra gli altri, Simon Wiesenthal nelle ultime pagine di "Gli assassini
sono fra noi", Garzanti, Milano 1970) ricordano che i militi delle S.S.
si divertivano ad ammonire cinicamente i prigionieri: «In qualunque modo
questa guerra finisca, la guerra contro di voi l'abbiamo vinta noi; nessuno
di voi rimarrà per portare testimonianza, ma se anche qualcuno scampasse,
il mondo non gli crederà. Forse ci saranno sospetti, discussioni, ricerche
di storici, ma non ci saranno certezze, perché noi distruggeremo le prove
insieme con voi. E quando anche qualche prova dovesse rimanere, e qualcuno di
voi sopravvivere, la gente dirà che i fatti che voi raccontate sono troppo
mostruosi per essere creduti: dirà che sono esagerazioni della propaganda
alleata, e crederà a noi, che negheremo tutto, e non a voi. La storia
dei Lager, saremo noi a dettarla».
Curiosamente, questo stesso pensiero («se anche raccontassimo, non saremmo
creduti») affiorava in forma di sogno notturno dalla disperazione dei
prigionieri. Quasi tutti i reduci, a voce o nelle loro memorie scritte, ricordano
un sogno che ricorreva spesso nelle notti di prigionia, vario nei particolari
ma unico nella sostanza: di essere tornati a casa, di raccontare con passione
e sollievo le loro sofferenze passate rivolgendosi ad una persona cara, e di
non essere creduti, anzi, neppure ascoltati. Nella forma più tipica (e
più crudele), l'interlocutore si voltava e se ne andava in silenzio.
E' questo un tema su cui ritorneremo, ma fin da adesso è importante sottolineare
come entrambe le parti, le vittime e gli oppressori, avessero viva la consapevolezza
dell'enormità, e quindi della non credibilità, di quanto avveniva
nei Lager: e, possiamo aggiungere qui, non solo nei Lager, ma nei ghetti, nelle
retrovie del fronte orientale, nelle stazioni di polizia, negli asili per i
minorati mentali.
Fortunatamente le cose non sono andate come le vittime temevano e come i nazisti
speravano. Anche la più perfetta delle organizzazioni presenta lacune,
e la Germania di Hitler, soprattutto negli ultimi mesi prima del crollo, era
lontana dall'essere una macchina perfetta. Molte delle prove materiali degli
stermini di massa furono soppresse, o si cercò più o meno abilmente
di sopprimerle: nell'autunno del 1944 i nazisti fecero saltare le camere a gas
e i crematori di Auschwitz, ma le rovine ci sono ancora, e a dispetto delle
contorsioni degli epigoni è difficile giustificarne la funzione ricorrendo
ad ipotesi fantasiose. Il ghetto di Varsavia, dopo la famosa insurrezione della
primavera del 1943, fu raso al suolo, ma la cura sovrumana di alcuni combattenti-storici
(storici di se stessi!) fece sì che, tra le macerie spesse molti metri,
o contrabbandata al di là del muro, altri storici ritrovassero la testimonianza
di come, giorno per giorno, quel ghetto sia vissuto e sia morto. Tutti gli archivi
dei Lager sono stati bruciati negli ultimi giorni di guerra, e questa è
stata veramente una perdita irrimediabile, tanto che ancora oggi si discute
se le vittime siano state quattro o sei od otto milioni: ma sempre di milioni
si parla. Prima che i nazisti facessero ricorso ai giganteschi crematori multipli,
gli innumerevoli cadaveri stessi delle vittime, uccise deliberatamente o consumate
dagli stenti e dalle malattie, potevano costituire una prova, e dovevano essere
fatti sparire in qualche modo. La prima soluzione, macabra al punto da fare
esitare a parlarne, era stata quella di accatastare semplicemente i corpi, centinaia
di migliaia di corpi, in grandi fosse comuni, il che fu fatto segnatamente a
Treblinka, in altri Lager minori, e nelle retrovie russe. Era una soluzione
provvisoria, presa con bestiale noncuranza quando le armate tedesche trionfavano
su tutti i fronti e la vittoria finale sembrava certa: "dopo" si sarebbe
visto che cosa fare, in ogni modo il vincitore è padrone anche della
verità, la può manipolare come gli pare, in qualche modo le fosse
comuni sarebbero state giustificate, o fatte sparire, o attribuite ai sovietici
(che del resto dimostrarono a Katyn di non essere molto da meno). Ma dopo la
svolta di Stalingrado ci fu un ripensamento: meglio cancellare subito tutto.
Gli stessi prigionieri furono costretti a disseppellire quei resti miserandi
ed a bruciarli su roghi all'aperto, come se un'operazione di queste proporzioni,
e così inconsueta, potesse passare totalmente inosservata.
I comandi S.S. ed i servizi di sicurezza posero poi la massima cura affinché
nessun testimone sopravvivesse. E' questo il senso (difficilmente se ne potrebbe
escogitare un altro) dei trasferimenti micidiali, ed apparentemente folli, con
cui si è chiusa la storia dei campi nazisti nei primi mesi del 1945:
i superstiti di Majdanek ad Auschwitz, quelli di Auschwitz a Buchenwald ed a
Mauthausen, quelli di Buchenwald a Bergen Belsen, le donne di Ravensbrück
verso Schwerin. Tutti insomma dovevano essere sottratti alla liberazione, rideportati
verso il cuore della Germania invasa da est e da ovest; non aveva importanza
che morissero per via, importava che non raccontassero. Infatti, dopo aver funzionato
come centri di terrore politico, poi come fabbriche della morte, e successivamente
(o contemporaneamente) come sterminato serbatoio di mano d'opera schiava sempre
rinnovata, i Lager erano diventati pericolosi per la Germania moribonda perché
contenevano il segreto dei Lager stessi, il massimo crimine nella storia dell'umanità.
L'esercito di larve che ancora vi vegetava era costituito da "Geheimnistrüger",
portatori di segreti, di cui era necessario liberarsi; distrutti ormai gli impianti
di sterminio, a loro volta eloquenti, si scelse la via di trasferirli verso
l'interno, nella speranza assurda di poterli ancora rinchiudere in Lager meno
minacciati dai fronti avanzanti, e di sfruttarne le ultime capacità lavorative,
e nell'altra speranza meno assurda che il tormento di quelle bibliche marce
ne riducesse il numero. Ed infatti il numero fu spaventosamente ridotto, ma
qualcuno ha pure avuto la fortuna e la forza di sopravvivere, ed è rimasto
per testimoniare.
E' meno noto e meno studiato il fatto che molti portatori di segreti si trovavano
anche dall'altra parte, dalla parte degli oppressori, benché molti sapessero
poco, e pochi sapessero tutto. Nessuno riuscirà mai a stabilire con precisione
quanti, nell'apparato nazista, "non potessero non sapere" delle spaventose
atrocità che venivano commesse; quanti sapessero qualcosa, ma fossero
in grado di fingere d'ignorare; quanti ancora avessero avuto la possibilità
di sapere tutto, ma abbiano scelto la via più prudente di tenere occhi
ed orecchi (e soprattutto la bocca) ben chiusi. Comunque sia, poiché
non si può supporre che la maggioranza dei tedeschi accettasse a cuor
leggero la strage, è certo che la mancata diffusione della verità
sui Lager costituisce una delle maggiori colpe collettive del popolo tedesco,
e la più aperta dimostrazione della viltà a cui il terrore hitleriano
lo aveva ridotto: una viltà entrata nel costume, e così profonda
da trattenere i mariti dal raccontare alle mogli, i genitori ai figli; senza
la quale, ai maggiori eccessi non si sarebbe giunti, e l'Europa ed il mondo
oggi sarebbero diversi.
Senza dubbio, coloro che conoscevano l'orribile verità per esserne (o
esserne stati) responsabili avevano forti ragioni per tacere; ma, in quanto
depositari del segreto, anche tacendo non avevano sempre la vita sicura. Lo
dimostra il caso di Stangl e degli altri macellai di Treblinka, che dopo l'insurrezione
e lo smantellamento di quel Lager furono trasferiti in una delle zone partigiane
più pericolose.
L'ignoranza voluta e la paura hanno fatto tacere anche molti potenziali testimoni
«civili» delle infamie dei Lager. Specialmente negli ultimi anni
di guerra, i Lager costituivano un sistema esteso, complesso, e profondamente
compenetrato con la vita quotidiana del paese; si è parlato con ragione
di «univers concentrationnaire», ma non era un universo chiuso.
Società industriali grandi e piccole, aziende agricole, fabbriche di
armamenti, traevano profitto dalla mano d'opera pressoché gratuita fornita
dai campi. Alcune sfruttavano i prigionieri senza pietà, accettando il
principio disumano (ed anche stupido) delle S.S., secondo cui un prigioniero
ne valeva un altro, e se moriva di fatica poteva essere immediatamente sostituito;
altre, poche, cercavano cautamente di alleviarne le pene. Altre industrie, o
magari le stesse, ricavavano profitti dalle forniture ai Lager medesimi: legname,
materiali per costruzione, il tessuto per l'uniforme a righe dei prigionieri,
i vegetali essiccati per la zuppa, eccetera. Gli stessi forni crematori multipli
erano stati progettati, costruiti, montati e collaudati da una ditta tedesca,
la Topf di Wiesbaden (era tuttora attiva fin verso il 1975: costruiva crematori
per uso civile, e non aveva ritenuto opportuno apportare mutamenti alla sua
ragione sociale). E' difficile pensare che il personale di queste imprese non
si rendesse conto del significato espresso dalla qualità o dalla quantità
delle merci e degli impianti che venivano commissionati dai comandi S.S. Lo
stesso discorso si può fare, ed è stato fatto, per quanto riguarda
la fornitura del veleno che fu impiegato nelle camere a gas di Auschwitz: il
prodotto, sostanzialmente acido cianidrico, era usato già da molti anni
per la disinfestazione delle stive, ma il brusco aumento delle ordinazioni a
partire dal 1942 non poteva passare inosservato. Doveva far nascere dubbi, e
certamente li fece nascere, ma essi furono soffocati dalla paura, dal desiderio
di guadagno, dalla cecità e stupidità volontaria a cui abbiamo
accennato, ed in alcuni casi (probabilmente pochi) dalla fanatica obbedienza
nazista.
E' naturale ed ovvio che il materiale più consistente per la ricostruzione
della verità sui campi sia costituito dalle memorie dei superstiti. Al
di là della pietà e dell'indignazione che suscitano, esse vanno
lette con occhio critico. Per una conoscenza dei Lager, i Lager stessi non erano
sempre un buon osservatorio: nelle condizioni disumane a cui erano assoggettati,
era raro che i prigionieri potessero acquisire una visione d'insieme del loro
universo. Poteva accadere, soprattutto per coloro che non capivano il tedesco,
che i prigionieri non sapessero neppure in quale punto d'Europa si trovasse
il Lager in cui stavano, ed in cui erano arrivati dopo un viaggio massacrante
e tortuoso in vagoni sigillati. Non conoscevano l'esistenza di altri Lager,
magari a pochi chilometri di distanza. Non sapevano per chi lavoravano. Non
comprendevano il significato di certi improvvisi mutamenti di condizione e dei
trasferimenti in massa. Circondato dalla morte, spesso il deportato non era
in grado di valutare la misura della strage che si svolgeva sotto i suoi occhi.
Il compagno che oggi aveva lavorato al suo fianco, domani non c'era più:
poteva essere nella baracca accanto, o cancellato dal mondo; non c'era modo
di saperlo. Si sentiva insomma dominato da un enorme edificio di violenza e
di minaccia, ma non poteva costruirsene una rappresentazione perché i
suoi occhi erano legati al suolo dal bisogno di tutti i minuti.
Da questa carenza sono state condizionate le testimonianze, verbali o scritte,
dei prigionieri «normali», dei non privilegiati, di quelli cioè
che costituivano il nerbo dei campi, e che sono scampati alla morte solo per
una combinazione di eventi improbabili. Erano maggioranza in Lager, ma esigua
minoranza tra i sopravvissuti: fra questi, sono molto più numerosi coloro
che in prigionia hanno fruito di un qualche privilegio. A distanza di anni,
si può oggi bene affermare che la storia dei Lager è stata scritta
quasi esclusivamente da chi, come io stesso, non ne ha scandagliato il fondo.
Chi lo ha fatto non è tornato, oppure la sua capacità di osservazione
era paralizzata dalla sofferenza e dall'incomprensione.
D'altra parte, i testimoni «privilegiati» disponevano di un osservatorio
certamente migliore, se non altro perché era situato più in alto,
e quindi dominava un orizzonte più esteso; però era anche falsato
in maggiore o minor misura dal privilegio medesimo. Il discorso sul privilegio
(non solo in Lager!) è delicato, e cercherò di svolgerlo più
oltre con la massima obiettività consentita: accennerò qui solo
al fatto che i privilegiati per eccellenza, coloro cioè che si sono acquistato
il privilegio asservendosi all'autorità del campo, non hanno testimoniato
affatto, per ovvi motivi, oppure hanno lasciato testimonianze lacunose o distorte
o totalmente false. I migliori storici dei Lager sono dunque emersi fra i pochissimi
che hanno avuto l'abilità e la fortuna di raggiungere un osservatorio
privilegiato senza piegarsi a compromessi, e la capacità di raccontare
quanto hanno visto, sofferto e fatto con l'umiltà del buon cronista,
ossia tenendo conto della complessità del fenomeno Lager, e della varietà
dei destini umani che vi si svolgevano. Era nella logica delle cose che questi
storici fossero quasi tutti prigionieri politici: e ciò perché
i Lager erano un fenomeno politico; perché i politici, molto più
degli ebrei e dei criminali (erano queste, come è noto, le tre categorie
principali di prigionieri), potevano disporre di uno sfondo culturale che consentiva
loro di interpretare i fatti a cui assistevano; perché, proprio in quanto
ex combattenti, o tuttora combattenti antifascisti, si rendevano conto che una
testimonianza era un atto di guerra contro il fascismo; perché avevano
più facile accesso ai dati statistici; ed infine, perché spesso,
oltre a rivestire in Lager cariche importanti, erano membri delle organizzazioni
segrete di difesa. Almeno negli ultimi anni, le loro condizioni di vita erano
tollerabili, tanto da permettere loro, ad esempio, di scrivere e conservare
appunti; cosa che per gli ebrei non era pensabile, e che i criminali non avevano
interesse a fare.
Per tutti i motivi accennati qui, la verità sui Lager è venuta
alla luce attraverso una strada lunga ed una porta stretta, e molti aspetti
dell'universo concentrazionario non sono ancora stati approfonditi. Sono trascorsi
ormai più di quarant'anni dalla liberazione dei Lager nazisti; questo
rispettabile intervallo ha portato, ai fini della chiarificazione, ad effetti
contrastanti, che cercherò di elencare.
C'è stata, in primo luogo, la decantazione, processo desiderabile e normale,
grazie al quale i fatti storici acquistano il loro chiaroscuro e la loro prospettiva
solo a qualche decennio dalla loro conclusione. Alla fine della seconda guerra
mondiale, i dati quantitativi sulle deportazioni e sui massacri nazisti, in
Lager ed altrove, non erano acquisiti, né era facile intenderne la portata
e la specificità. Solo da pochi anni si sta comprendendo che la strage
nazista è stata tremendamente «esemplare», e che, se altro
di peggio non avverrà nei prossimi anni, essa sarà ricordata come
il fatto centrale, come la macchia di questo secolo.
Per contro, il trascorrere del tempo sta provocando altri effetti storicamente
negativi. La maggior parte dei testimoni, di difesa e di accusa, sono ormai
scomparsi, e quelli che rimangono, e che ancora (superando i loro rimorsi, o
rispettivamente le loro ferite) acconsentono a testimoniare, dispongono di ricordi
sempre più sfuocati e stilizzati; spesso, a loro insaputa, influenzati
da notizie che essi hanno appreso più tardi, da letture o da racconti
altrui. In alcuni casi, naturalmente, la smemoratezza è simulata, ma
i molti anni trascorsi la rendono credibile, anche in giudizio: i «non
so» o «non sapevo», detti oggi da molti tedeschi, non scandalizzano
più, mentre scandalizzavano, o avrebbero dovuto scandalizzare, quando
i fatti erano recenti.
Di un'altra stilizzazione siamo responsabili noi stessi, noi reduci, o più
precisamente quelli fra noi che hanno accettato di vivere la loro condizione
di reduci nel modo più semplice e meno critico. Non è detto che
le cerimonie e le celebrazioni, i monumenti e le bandiere, siano sempre e dappertutto
da deplorare. Una certa dose di retorica è forse indispensabile affinché
il ricordo duri. Che i sepolcri, «l'urne de' forti», accendano gli
animi a egregie cose, o almeno conservino memoria delle imprese compiute, era
vero ai tempi del Foscolo ed è vero ancor oggi; ma bisogna stare in guardia
dalle semplificazioni eccessive. Ogni vittima è da piangere, ed ogni
reduce è da aiutare e commiserare, ma non tutti i loro comportamenti
sono da proporre ad esempio. L'interno dei Lager era un microcosmo intricato
e stratificato; la «zona grigia» di cui parlerò più
oltre, quella dei prigionieri che in qualche misura, magari a fin di bene, hanno
collaborato con l'autorità, non era sottile, anzi costituiva un fenomeno
di fondamentale importanza per lo storico, lo psicologo ed il sociologo. Non
c'è prigioniero che non lo ricordi, e che non ricordi il suo stupore
di allora: le prime minacce, i primi insulti, i primi colpi non venivano dalle
S.S., ma da altri prigionieri, da «colleghi», da quei misteriosi
personaggi che pure vestivano la stessa tunica a zebra che loro, i nuovi arrivati,
avevano appena indossata.
Questo libro intende contribuire a chiarire alcuni aspetti del fenomeno Lager
che ancora appaiono oscuri. Si propone anche un fine più ambizioso; vorrebbe
rispondere alla domanda più urgente, alla domanda che angoscia tutti
coloro che hanno avuto occasione di leggere i nostri racconti: quanto del mondo
concentrazionario è morto e non ritornerà più, come la
schiavitù ed il codice dei duelli? quanto è tornato o sta tornando?
che cosa può fare ognuno di noi, perché in questo mondo gravido
di minacce, almeno questa minaccia venga vanificata?
Non ho avuto intenzione, né sarei stato capace, di fare opera di storico,
cioè di esaminare esaustivamente le fonti. Mi sono limitato quasi esclusivamente
ai Lager nazionalsocialisti, perché solo di questi ho avuto esperienza
diretta: ne ho avuto anche una copiosa esperienza indiretta, attraverso i libri
letti, i racconti ascoltati, e gli incontri con i lettori dei miei primi due
libri. Inoltre, fino al momento in cui scrivo, e nonostante l'orrore di Hiroshima
e Nagasaki, la vergogna dei Gulag, l'inutile e sanguinosa campagna del Vietnam,
l'autogenocidio cambogiano, gli scomparsi in Argentina, e le molte guerre atroci
e stupide a cui abbiamo in seguito assistito, il sistema concentrazionario nazista
rimane tuttavia un "unicum", sia come mole sia come qualità.
In nessun altro luogo e tempo si è assistito ad un fenomeno cosi imprevisto
e così complesso: mai tante vite umane sono state spente in così
breve tempo, e con una così lucida combinazione di ingegno tecnologico,
di fanatismo e di crudeltà. Nessuno assolve i conquistadores spagnoli
dei massacri da loro perpetrati in America per tutto il sedicesimo secolo. Pare
che abbiano provocato la morte di almeno 60 milioni di indios; ma agivano in
proprio, senza o contro le direttive del loro governo; e diluirono i loro misfatti,
in verità assai poco «pianificati», su un arco di più
di cento anni; e furono aiutati dalle epidemie che involontariamente si portarono
dietro. Ed infine, non avevamo cercato di liberarcene, sentenziando che erano
«cose di altri tempi»?