LA MEMORIA DELL'OFFESA.
La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace. E' questa una
verità logora, nota non solo agli psicologi, ma anche a chiunque abbia
posto attenzione al comportamento di chi lo circonda, o al suo stesso comportamento.
I ricordi che giacciono in noi non sono incisi sulla pietra; non solo tendono
a cancellarsi con gli anni, ma spesso si modificano, o addirittura si accrescono,
incorporando lineamenti estranei. Lo sanno bene i magistrati: non avviene quasi
mai che due testimoni oculari dello stesso fatto lo descrivano allo stesso modo
e con le stesse parole, anche se il fatto è recente, e se nessuno dei
due ha un interesse personale a deformarlo. Questa scarsa affidabilità
dei nostri ricordi sarà spiegata in modo soddisfacente solo quando sapremo
in quale linguaggio, in quale alfabeto essi sono scritti, su quale materiale,
con quale penna: a tutt'oggi, è questa una meta da cui siamo lontani.
Si conoscono alcuni meccanismi che falsificano la memoria in condizioni particolari:
i traumi, non solo quelli cerebrali; l'interferenza da parte di altri ricordi
«concorrenziali»; stati abnormi della coscienza; repressioni; rimozioni.
Tuttavia, anche in condizioni normali è all'opera una lenta degradazione,
un offuscamento dei contorni, un oblio per così dire fisiologico, a cui
pochi ricordi resistono. E' probabile che si possa riconoscere qui una delle
grandi forze della natura, quella stessa che degrada l'ordine in disordine,
la giovinezza in vecchiaia, e spegne la vita nella morte. E' certo che l'esercizio
(in questo caso, la frequente rievocazione) mantiene il ricordo fresco e vivo,
allo stesso modo come si mantiene efficiente un muscolo che viene spesso esercitato;
ma è anche vero che un ricordo troppo spesso evocato, ed espresso in
forma di racconto, tende a fissarsi in uno stereotipo, in una forma collaudata
dall'esperienza, cristallizzata, perfezionata, adorna, che si installa al posto
del ricordo greggio e cresce a sue spese.
Intendo esaminare qui i ricordi di esperienze estreme, di offese subite o inflitte.
In questo caso sono all'opera tutti o quasi i fattori che possono obliterare
o deformare la registrazione mnemonica: il ricordo di un trauma, patito o inflitto,
è esso stesso traumatico, perché richiamarlo duole o almeno disturba:
chi è stato ferito tende a rimuovere il ricordo per non rinnovare il
dolore; chi ha ferito ricaccia il ricordo nel profondo, per liberarsene, per
alleggerire il suo senso di colpa.
Qui, come in altri fenomeni, ci troviamo davanti ad una paradossale analogia
tra vittima ed oppressore, e ci preme essere chiari: i due sono nella stessa
trappola, ma è l'oppressore, e solo lui, che l'ha approntata e che l'ha
fatta scattare, e se ne soffre, è giusto che ne soffra; ed è iniquo
che ne soffra la vittima, come invece ne soffre, anche a distanza di decenni.
Ancora una volta si deve constatare, con lutto, che l'offesa è insanabile:
si protrae nel tempo, e le Erinni, a cui bisogna pur credere, non travagliano
solo il tormentatore (se pure lo travagliano, aiutate o no dalla punizione umana),
ma perpetuano l'opera di questo negando la pace al tormentato. Non si leggono
senza spavento le parole lasciate scritte da Jean Améry, il filosofo
austriaco torturato dalla Gestapo perché attivo nella resistenza belga,
e poi deportato ad Auschwitz perché ebreo:
"Chi è stato torturato rimane torturato. Chi ha subito il tormento non potrà più ambientarsi nel mondo, l'abominio dell'annullamento non si estingue mai. La fiducia nell'umanità, già incrinata dal primo schiaffo sul viso, demolita poi dalla tortura, non si riacquista più".
La tortura è stata per lui una interminabile morte: Améry, di
cui riparlerò al capitolo sesto, si è ucciso nel 1978.
Non vogliamo confusioni, freudismi spiccioli, morbosità, indulgenze.
L'oppressore resta tale, e così la vittima: non sono intercambiabili,
il primo è da punire e da esecrare (ma, se possibile, da capire), la
seconda è da compiangere e da aiutare; ma entrambi, davanti all'indecenza
del fatto che è stato irrevocabilmente commesso, hanno bisogno di rifugio
e di difesa, e ne vanno istintivamente in cerca. Non tutti, ma i più;
e spesso per tutta la loro vita.
Disponiamo ormai di numerose confessioni, deposizioni, ammissioni da parte degli
oppressori (non parlo solo dei nazionalsocialisti tedeschi, ma di tutti coloro
che commettono delitti orrendi e multipli per obbedienza ad una disciplina):
alcune rilasciate in giudizio, altre nel corso di interviste, altre ancora contenute
in libri o memoriali. A mio parere, sono documenti di estrema importanza. In
generale, interessano poco le descrizioni delle cose viste e degli atti compiuti:
esse coincidono ampiamente con quanto è stato raccontato dalle vittime;
assai raramente vengono contestate, sono passate in giudicato e fanno ormai
parte della Storia. Spesso vengono date per note. Sono molto più importanti
le motivazioni e le giustificazioni: perché lo hai fatto? Ti rendevi
conto di commettere un delitto?
Le risposte a queste due domande, o ad altre analoghe, sono molto simili fra
loro, indipendentemente dalla personalità dell'interrogato, sia egli
un professionista ambizioso ed intelligente come Speer, o un gelido fanatico
come Eichmann, o un funzionario di vista corta come Stangl di Treblinka e Höss
di Auschwitz, o un bruto ottuso come Boger e Kaduk inventori di torture. Espresse
con formulazioni diverse, e con maggiore o minor protervia a seconda del livello
mentale e culturale di chi parla, esse vengono a dire tutte sostanzialmente
le stesse cose: l'ho fatto perché mi è stato comandato; altri
(i miei superiori) hanno commesso azioni peggiori delle mie; data l'educazione
che ho ricevuta, e l'ambiente in cui sono vissuto, non potevo fare altro; se
non l'avessi fatto, l'avrebbe fatto con maggiore durezza un altro al mio posto.
Per chi legge queste giustificazioni, il primo moto è di ribrezzo: costoro
mentono, non possono credere di essere creduti, non possono non vedere lo squilibrio
fra le loro scuse e la mole di dolore e di morte che essi hanno provocata. Mentono
sapendo di mentire: sono in mala fede.
Ora, chiunque abbia sufficiente esperienza delle cose umane sa che la distinzione
(l'opposizione, direbbe un linguista) buona fede/ mala fede è ottimistica
ed illuministica, e lo è tanto più, ed a molto maggior ragione,
se applicata a uomini come quelli appena nominati. Presuppone una chiarezza
mentale che è di pochi, e che anche questi pochi perdono immediatamente
quando, per qualsiasi motivo, la realtà passata o presente provoca in
loro ansia o disagio. In queste condizioni c'è bensì chi mente
consapevolmente falsificando a freddo la realtà stessa, ma sono più
numerosi coloro che salpano le ancore, si allontanano, momentaneamente o per
sempre, dai ricordi genuini, e si fabbricano una realtà di comodo. Il
passato è loro di peso; provano ripugnanza per le cose fatte o subite,
e tendono a sostituirle con altre. La sostituzione può incominciare in
piena consapevolezza, con uno scenario inventato, mendace, restaurato, ma meno
penoso di quello reale; ripetendone la descrizione, ad altri ma anche a se stessi,
la distinzione fra vero e falso perde progressivamente i suoi contorni, e l'uomo
finisce col credere pienamente al racconto che ha fatto così spesso e
che ancora continua a fare, limandone e ritoccandone qua e là i dettagli
meno credibili, o fra loro incongruenti, o incompatibili con il quadro degli
eventi acquisiti: la mala fede iniziale è diventata buona fede. Il silenzioso
trapasso dalla menzogna all'autoinganno è utile: chi mente in buona fede
mente meglio, recita meglio la sua parte, viene creduto più facilmente
dal giudice, dallo storico, dal lettore, dalla moglie, dai figli.
Più si allontanano gli eventi, più si accresce e si perfeziona
la costruzione della verità di comodo. Credo che solo attraverso questo
meccanismo mentale si possano interpretare, ad esempio, le dichiarazioni fatte
all'«Express» nel 1978 da Louis Darquier de Pellepoix, già
commissario addetto alle questioni ebraiche presso il governo di Vichy intorno
al 1942, e come tale responsabile in proprio della deportazione di 70 mila ebrei.
Darquier nega tutto: le foto dei cumuli di cadaveri sono montaggi; le statistiche
dei milioni di morti sono state fabbricate dagli ebrei, sempre avidi di pubblicità,
di commiserazione e di indennizzi; le deportazioni ci saranno magari anche state
(gli sarebbe stato difficile contestarle: la sua firma compare in calce a troppe
lettere che dànno disposizioni per le deportazioni stesse, anche di bambini),
ma lui non sapeva verso dove e con quale esito; ad Auschwitz le camere a gas
c'erano sì, ma servivano solo per uccidere i pidocchi, e del resto (si
noti la coerenza!) sono state costruite a scopo di propaganda dopo la fine della
guerra. Non intendo giustificare quest'uomo vile e sciocco, e mi offende sapere
che ha vissuto a lungo indisturbato in Spagna, ma mi pare di poter ravvisare
in lui il caso tipico di chi, avvezzo a mentire pubblicamente, finisce col mentire
anche in privato, anche a se stesso, e coll'edificarsi una verità confortevole
che gli consente di vivere in pace. Tenere distinte la buona e la mala fede
è costoso: richiede una profonda sincerità con se stesso, esige
uno sforzo continuo, intellettuale e morale. Come si può pretendere questo
sforzo da uomini come Darquier?
Se si leggono le dichiarazioni fatte da Eichmann durante il processo di Gerusalemme,
e di Rudolf Höss (il penultimo comandante di Auschwitz, l'inventore delle
camere ad acido cianidrico) nella sua autobiografia, vi si riconosce un processo
di elaborazione del passato, più sottile di quello ora accennato. In
sostanza, questi due si sono difesi nel modo classico dei gregari nazisti, o
meglio di tutti i gregari: siamo stati educati all'obbedienza assoluta, alla
gerarchia, al nazionalismo; siamo stati imbevuti di slogan, ubriacati di cerimonie
e manifestazioni; ci hanno insegnato che la sola giustizia era ciò che
giovava al nostro popolo, e la sola verità erano le parole del Capo.
Che cosa volete da noi? Come potete pensare di pretendere da noi, a cose fatte,
un comportamento diverso da quello che è stato il nostro, e di tutti
quelli che erano come noi? Siamo stati diligenti esecutori, e per la nostra
diligenza siamo stati lodati e promossi. Le decisioni non sono state nostre,
perché il regime in cui siamo cresciuti non ci concedeva decisioni autonome:
altri hanno deciso per noi, e non poteva avvenire altrimenti, perché
eravamo stati amputati della capacità di decidere. Non solo decidere
ci era stato vietato, ma ne eravamo diventati incapaci. Perciò non siamo
responsabili e non possiamo essere puniti.
Anche se proiettata sullo sfondo dei camini di Birkenau, questa argomentazione
non può essere presa come frutto di pura impudenza. La pressione che
un moderno Stato totalitario può esercitare sull'individuo è paurosa.
Le sue armi sono sostanzialmente tre: la propaganda diretta, o camuffata da
educazione, da istruzione, da cultura popolare; lo sbarramento opposto al pluralismo
delle informazioni; il terrore. Tuttavia, non è lecito ammettere che
questa pressione sia irresistibile, tanto meno nel breve termine dei dodici
anni del Terzo Reich: nelle affermazioni e nelle discolpe di uomini dalle gravissime
responsabilità, quali erano Höss e Eichmann, è palese l'esagerazione,
ed ancor più la manomissione del ricordo. Entrambi erano nati ed erano
stati educati molto prima che il Reich diventasse veramente «totalitario»,
e la loro adesione era stata una scelta, dettata più da opportunismo
che da entusiasmo. La rielaborazione del loro passato è stata opera posteriore,
lenta e (probabilmente) non metodica. Domandarsi se sia stata fatta in buona
o in mala fede è ingenuo. Anche loro, così forti di fronte al
dolore altrui, quando il destino li ha messi davanti ai giudici, davanti alla
morte che hanno meritato, si sono costruiti un passato di comodo ed hanno finito
per credervi: in special modo Höss, che non era un uomo sottile. Quale
appare dal suo scritto, era anzi un personaggio talmente poco propenso all'autocontrollo
ed all'introspezione che non si accorge di confermare il suo grossolano antisemitismo
nell'atto stesso in cui lo rinnega e lo nega, e da non rendersi conto di quanto
appaia viscido il suo autoritratto di buon funzionario, padre e marito.
A commento di queste ricostruzioni del passato (ma non solo di queste: è
un'osservazione che vale per tutte le memorie), si deve notare che la distorsione
dei fatti è spesso limitata dall'obiettività dei fatti stessi,
intorno ai quali esistono testimonianze di terzi, documenti, «corpi del
reato», contesti storicamente acquisiti. E' generalmente difficile negare
di aver commesso una data azione, o che questa azione sia stata commessa; è
invece facilissimo alterare le motivazioni che ci hanno condotto ad un'azione,
e le passioni che in noi hanno accompagnato l'azione stessa. Questa è
materia estremamente fluida, soggetta a deformarsi sotto forze anche molto deboli;
alle domande «perché lo hai fatto?», o «cosa pensavi
facendolo?», non esistono risposte attendibili, perché gli stati
d'animo sono labili per natura, e ancora più labile è la loro
memoria.
Come caso limite della deformazione del ricordo di una colpa commessa, c'è
la sua soppressione. Anche qui il confine tra buona e mala fede può essere
vago; dietro i «non so» e i «non ricordo» che si sentono
nei tribunali c'è talvolta il preciso proposito di mentire, ma altre
volte si tratta di una menzogna fossilizzata, irrigidita in una formula. Il
memore ha voluto diventare immemore e ci è riuscito: a furia di negarne
l'esistenza, ha espulso da sé il ricordo nocivo come si espelle un'escrezione
o un parassita. Gli avvocati difensori sanno bene che il vuoto di memoria, o
la verità putativa, che essi suggeriscono ai loro difesi, tendono a diventare
dimenticanze e verità effettive. Non occorre sconfinare nella patologia
mentale per trovare esemplari umani le cui affermazioni ci lasciano perplessi:
sono certamente false, ma non riusciamo a distinguere se il soggetto sa o non
sa di mentire. Supponendo per assurdo che il mentitore diventi per un istante
veridico, lui stesso non saprebbe rispondere al dilemma; nell'atto in cui mente
è un attore totalmente fuso col suo personaggio, non è più
discernibile da lui. Ne è un esempio vistoso, nei giorni in cui scrivo,
il comportamento in tribunale del turco Alì Agca, l'attentatore di Giovanni
Paolo Secondo.
Il modo migliore per difendersi dall'invasione di memorie pesanti è impedirne
l'ingesso, stendere una barriera sanitaria lungo il confine. E più facile
vietare l'ingresso a un ricordo che liberarsene dopo che è stato registrato.
A questo, in sostanza, servivano molti degli artifizi escogitati dai comandi
nazisti per proteggere le coscienze degli addetti ai lavori sporchi, e per assicurarsi
i loro servizi, sgradevoli anche per gli scherani più induriti. Agli
"Einsatzkommandos", che nelle retrovie del fronte russo mitragliavano
i civili sull'orlo delle fosse comuni che le vittime stesse erano costrette
a scavare, veniva distribuito alcool a volontà, in modo che il massacro
venisse velato dall'ubriachezza. I ben noti eufemismi («soluzione finale»,
«trattamento speciale», lo stesso termine «Einsatzkommando»
appena citato, che significa letteralmente «Unità di pronto impiego»,
ma mascherava una realtà spaventosa) non servivano solo ad illudere le
vittime ed a prevenirne le reazioni di difesa: valevano anche, nei limiti del
possibile, ad impedire che l'opinione pubblica, e gli stessi reparti delle forze
armate non direttamente implicati, venissero a conoscenza di quanto stava accadendo
in tutti i territori occupati dal Terzo Reich.
Del resto, l'intera storia del breve «Reich Millenario» può
essere riletta come guerra contro la memoria, falsificazione orwelliana della
memoria, falsificazione della realtà, negazione della realtà,
fino alla fuga definitiva dalla realtà medesima. Tutte le biografie di
Hitler, discordi sull'interpretazione da darsi alla vita di quest'uomo così
difficile da classificare, concordano sulla fuga dalla realtà che ha
segnato i suoi ultimi anni, soprattutto a partire dal primo inverno russo. Aveva
proibito e negato ai suoi sudditi l'accesso alla verità, inquinando la
loro morale e la loro memoria; ma, in misura via via crescente fino alla paranoia
del Bunker, aveva sbarrato la via della verità anche a se stesso. Come
tutti i giocatori d'azzardo, si era costruito intorno uno scenario intessuto
di menzogne superstiziose, in cui aveva finito col credere con la stessa fede
fanatica che pretendeva da ogni tedesco. Il suo crollo non è stato soltanto
una salvazione per il genere umano, ma anche una dimostrazione del prezzo che
si paga quando si manomette la verità.
Anche nel campo ben più vasto delle vittime si osserva una deriva della
memoria, ma qui, evidentemente, manca il dolo. Chi riceve un'ingiustizia o un'offesa
non ha bisogno di elaborare bugie per discolparsi di una colpa che non ha (anche
se, per un paradossale meccanismo di cui diremo, può avvenire che ne
provi vergogna); ma questo non esclude che anche i suoi ricordi possano essere
alterati. E' stato notato, ad esempio, che molti reduci da guerre o da altre
esperienze complesse e traumatiche tendono a filtrare inconsapevolmente i loro
ricordi: rievocandoli fra loro, o raccontandoli a terzi, preferiscono soffermarsi
sulle tregue, sui momenti di respiro, sugli intermezzi grotteschi o strani o
distesi, e sorvolare sugli episodi più dolorosi. Questi ultimi non vengono
richiamati volentieri dal serbatoio della memoria, e perciò tendono ad
annebbiarsi col tempo, a perdere i loro contorni. E' psicologicamente credibile
il comportamento del Conte Ugolino, che prova ritegno nel raccontare a Dante
la sua morte tremenda, e si induce a farlo non per accondiscendenza, ma solo
per vendetta postuma contro il suo eterno nemico. Quando diciamo «non
lo dimenticherò mai» riferendoci a qualche evento che ci ha feriti
profondamente, ma che non ha lasciato in noi o intorno a noi una traccia materiale
o un'assenza permanente, siamo avventati: anche nella vita «civile»,
dimentichiamo volentieri i particolari di una malattia grave da cui siamo guariti,
o di un'operazione chirurgica riuscita bene.
A scopo di difesa, la realtà può essere distorta non solo nel
ricordo, ma nell'atto stesso in cui si verifica. Per tutto l'anno della mia
prigionia ad Auschwitz, ho avuto come amico fraterno Alberto D.: era un giovane
robusto e coraggioso, chiaroveggente più della media, e perciò
assai critico nei confronti dei molti che si fabbricavano, e si somministravano
a vicenda, illusioni consolatorie («la guerra finirà fra due settimane»,
«non ci saranno più selezioni», «gli inglesi sono sbarcati
in Grecia», «i partigiani polacchi stanno per liberare il campo»,
e così via: erano voci che correvano quasi ogni giorno, puntualmente
smentite dalla realtà). Alberto era stato deportato insieme col padre
quarantacinquenne. Nell'imminenza della grande selezione dell'ottobre 1944,
Alberto ed io avevamo commentato il fatto con spavento, collera impotente, ribellione,
rassegnazione, ma senza cercare rifugio nelle verità di conforto. Venne
la selezione, il «vecchio» padre di Alberto fu scelto per il gas,
ed Alberto cambiò, nel giro di poche ore. Aveva sentito voci che gli
sembravano degne di fede: i russi erano vicini, i tedeschi non avrebbero più
osato persistere nella strage, quella non era una selezione come le altre, non
era per le camere a gas, era stata fatta per scegliere i prigionieri indeboliti
ma recuperabili, come suo padre, appunto, che era molto stanco ma non ammalato;
anzi, lui sapeva perfino dove li avrebbero mandati, a Jaworzno, non lontano,
in un campo speciale per convalescenti adatti soltanto per lavori leggeri.
Naturalmente il padre non fu più visto, ed Alberto stesso scomparve durante
la marcia di evacuazione del campo, nel gennaio 1945. Stranamente, senza sapere
del comportamento di Alberto, anche i suoi parenti che erano rimasti nascosti
in Italia sfuggendo alla cattura, si sono condotti come lui, rifiutando una
verità insopportabile e costruendosene un'altra. Appena rimpatriato,
ritenni doveroso andare subito alla città di Alberto, per riferire alla
madre ed al fratello quanto sapevo. Fui accolto con cortesia affettuosa, ma
appena ebbi cominciato il mio racconto la madre mi pregò di smettere:
lei sapeva già tutto, almeno per quanto riguardava Alberto, ed era inutile
che io le ripetessi le solite storie di orrore. Lei sapeva che il figlio, lui
solo, era riuscito ad allontanarsi dalla colonna senza che le S.S. gli sparassero,
si era nascosto nella foresta ed era in salvo nelle mani dei russi; non aveva
ancora potuto mandare notizie, ma presto lo avrebbe fatto, lei ne era sicura;
ed ora, che per favore io cambiassi argomento, e le raccontassi come io stesso
ero sopravvissuto. Un anno dopo mi trovai per caso a passare per quella città,
e visitai di nuovo la famiglia. La verità era leggermente cambiata: Alberto
era in una clinica sovietica, stava bene, ma aveva perso la memoria, non ricordava
più nemmeno il suo nome; però era in via di miglioramento e sarebbe
ritornato presto, lei lo sapeva da fonte sicura.
Alberto non è mai ritornato. Sono passati più di quarant'anni;
non ho più avuto il coraggio di ripresentarmi, e di contrapporre la mia
verità dolorosa alla «verità» consolatoria che, aiutandosi
l'uno con l'altro, i parenti di Alberto si erano costruita.
Un'apologia è d'obbligo. Questo stesso libro è intriso di memoria:
per di più, di una memoria lontana. Attinge dunque ad una fonte sospetta,
e deve essere difeso contro se stesso. Ecco: contiene più considerazioni
che ricordi, si sofferma più volentieri sullo stato delle cose qual è
oggi che non sulla cronaca retroattiva. Inoltre, i dati che contiene sono fortemente
sostanziati dall'imponente letteratura che sul tema dell'uomo sommerso (o «salvato»)
si è andata formando, anche con la collaborazione, volontaria o no, dei
colpevoli di allora; ed in questo corpus le concordanze sono abbondanti, le
discordanze trascurabili. Quanto ai miei ricordi personali, ed ai pochi aneddoti
inediti che ho citati e citerò, li ho vagliati tutti con diligenza: il
tempo li ha un po' scoloriti, ma sono in buona consonanza con lo sfondo, e mi
sembrano indenni dalle derive che ho descritte.