COMUNICARE.
Il termine «incomunicabilità», così di moda negli
anni '70, non mi è mai piaciuto; in primo luogo perché è
un mostro linguistico, in secondo per ragioni più personali.
Nel mondo normale odierno, quello che per convenzione e per contrasto abbiamo
volta a volta chiamato «civile» e «libero», non capita
quasi mai di urtare contro una barriera linguistica totale: di trovarsi davanti
ad un essere umano con cui dobbiamo assolutamente stabilire una comunicazione,
pena la vita, e di non riuscirci. Ne ha dato un esempio famoso, ma incompleto,
Antonioni in "Deserto rosso", nell'episodio in cui la protagonista
incontra nella notte un marinaio turco che non sa una parola di alcuna lingua
salvo la sua, e tenta invano di farsi capire. Incompleto, perché da entrambe
le parti, anche da quella del marinaio, la volontà di comunicare esiste:
o almeno, manca la volontà di rifiutare il contatto.
Secondo una teoria in voga in quegli anni, e che a me pare frivola ed irritante,
l'«incomunicabilità» sarebbe un ingrediente immancabile,
una condanna a vita inserita nella condizione umana, ed in specie nel modo di
vivere della società industriale: siamo monadi, incapaci di messaggi
reciproci, o capaci solo di messaggi monchi, falsi in partenza, fraintesi all'arrivo.
Il discorso è fittizio, puro rumore, velo dipinto che copre il silenzio
esistenziale; ohimé, siamo soli, anche se (o specialmente se) viviamo
in coppia. Mi pare che questa lamentazione proceda da pigrizia mentale e la
denunci; certamente la incoraggia, in un pericoloso circolo vizioso. Salvo casi
di incapacità patologica, comunicare si può e si deve: è
un modo utile e facile di contribuire alla pace altrui e propria, perché
il silenzio, l'assenza di segnali, è a sua volta un segnale, ma ambiguo,
e l'ambiguità genera inquietudine e sospetto. Negare che comunicare si
può è falso: si può sempre. Rifiutare di comunicare è
colpa; per la comunicazione, ed in specie per quella sua forma altamente evoluta
e nobile che è il linguaggio, siamo biologicamente e socialmente predisposti.
Tutte le razze umane parlano; nessuna specie non-umana sa parlare.
Anche sotto l'aspetto della comunicazione, anzi, della mancata comunicazione,
l'esperienza di noi reduci è peculiare. E' un nostro fastidioso vezzo
intervenire quando qualcuno (i figli!) parla di freddo, di fame o di fatica.
Che cosa ne sapete, voi? Avreste dovuto provare le nostre. Per ragioni di buon
gusto e di buon vicinato, noi cerchiamo in generale di resistere alla tentazione
di questi interventi da miles gloriosus; la quale, tuttavia, per me diventa
imperiosa appunto quando sento parlare di comunicazione mancata o impossibile.
«Avreste dovuto provare la nostra». Non è confrontabile con
quella del turista che va in Finlandia o in Giappone, e trova interlocutori
alloglotti ma professionalmente (od anche spontaneamente) gentili e ben intenzionati,
che si sforzano di capirlo e di essergli d'aiuto: oltre tutto, chi è
che in qualsiasi angolo del mondo non mastica un po' d'inglese? E le richieste
dei turisti sono poche, sempre le stesse: quindi le aporie sono rare, e il quasi-non-capirsi
può addirittura essere divertente come un gioco.
E' certamente più drammatico il caso dell'emigrante, italiano in America
cento anni fa, turco o marocchino o pachistano in Germania o in Svezia oggi.
Qui non è più una breve esplorazione senza imprevisti, condotta
lungo le piste ben collaudate delle agenzie di viaggio: è un trapianto,
forse definitivo; è un inserimento in un lavoro che oggi è raramente
elementare, ed in cui la comprensione della parola, pronunciata o scritta, è
necessaria; comporta rapporti umani indispensabili con i vicini di casa, i bottegai,
i colleghi, i superiori: sul lavoro, in strada, al bar, con gente straniera,
di costumi diversi, spesso ostile. Ma i correttivi non mancano, la stessa società
capitalistica è intelligente quanto basta per capire che qui il suo profitto
coincide ampiamente con il rendimento del «lavoratore ospite», e
quindi con il suo benessere e il suo inserimento. Gli si concede di portarsi
dietro la famiglia, cioè un pezzo di patria; gli si trova, bene o male,
un alloggio; può (talvolta deve) frequentare scuole di lingua. Il sordomuto
sbarcato dal treno viene aiutato, forse senza amore, non senza efficienza, e
in breve riacquista la parola.
Noi abbiamo vissuto l'incomunicabilità in modo più radicale. Mi
riferisco in specie ai deportati italiani, jugoslavi e greci; in misura minore
ai francesi, fra cui molti erano d'origine polacca o tedesca, ed alcuni, essendo
alsaziani, capivano bene il tedesco; ed a molti ungheresi che venivano dalla
campagna. Per noi italiani, l'urto contro la barriera linguistica è avvenuto
drammaticamente già prima della deportazione, ancora in Italia, al momento
in cui i funzionari della Pubblica Sicurezza italiana ci hanno ceduti con visibile
riluttanza alle S.S., che nel febbraio 1944 si erano arrogata la gestione del
campo di smistamento di Fòssoli presso Modena. Ci siamo accorti subito,
fin dai primi contatti con gli uomini sprezzanti dalle mostrine nere, che il
sapere o no il tedesco era uno spartiacque. Con chi li capiva, e rispondeva
in modo articolato, si instaurava una parvenza di rapporto umano. Con chi non
li capiva, i neri reagivano in un modo che ci stupì e spaventò:
l'ordine, che era stato pronunciato con la voce tranquilla di chi sa che verrà
obbedito, veniva ripetuto identico con voce alta e rabbiosa, poi urlato a squarciagola,
come si farebbe con un sordo, o meglio con un animale domestico, più
sensibile al tono che al contenuto del messaggio.
Se qualcuno esitava (esitavano tutti, perché non capivano ed erano terrorizzati)
arrivavano i colpi, ed era evidente che si trattava di una variante dello stesso
linguaggio: l'uso della parola per comunicare il pensiero, questo meccanismo
necessario e sufficiente affinché l'uomo sia uomo, era caduto in disuso.
Era un segnale: per quegli altri, uomini non eravamo più: con noi, come
con le vacche o i muli, non c'era una differenza sostanziale tra l'urlo e il
pugno. Perché un cavallo corra o si fermi, svolti, tiri o smetta di tirare,
non occorre venire a patti con lui o dargli spiegazioni dettagliate; basta un
dizionario costituito da una dozzina di segni variamente assortiti ma univoci,
non importa se acustici o tattili o visivi: trazione delle briglie, punture
degli speroni, urla, gesti, schiocchi di frusta, strombettii delle labbra, pacche
sulla schiena, vanno tutti ugualmente bene. Parlargli sarebbe un'azione sciocca,
come parlare da soli, o un patetismo ridicolo: tanto, che cosa capirebbe? Racconta
Marsalek, nel suo libro "Mauthausen" (La Pietra, Milano 1977) che
in questo Lager, ancora più mistilingue di Auschwitz, il nerbo di gomma
si chiamava «der Dolmetscher», l'interprete: quello che si faceva
capire da tutti.
Infatti, l'uomo incolto (e i tedeschi di Hitler, e le S.S. in specie, erano
paurosamente incolti: non erano stati «coltivati», o erano stati
coltivati male) non sa distinguere nettamente fra chi non capisce la sua lingua
e chi non capisce "tout court". Ai giovani nazisti era stato martellato
in testa che esisteva al mondo una sola civiltà, quella tedesca; tutte
le altre, presenti o passate, erano accettabili solo in quanto contenessero
in sé qualche elemento germanico. Perciò, chi non capiva né
parlava il tedesco era per definizione un barbaro; se si ostinava a cercare
di esprimersi nella sua lingua, anzi, nella sua non-lingua, bisognava farlo
tacere a botte e rimetterlo al suo posto, a tirare, portare e spingere, poiché
non era un "Mensch", un essere umano. Mi torna alla memoria un episodio
eloquente. Nel cantiere, il Kapo novellino di una squadra costituita in prevalenza
di italiani, francesi e greci non s'era accorto che alle sue spalle si era avvicinato
uno dei più temuti sorveglianti delle S.S. Si volse di scatto, si mise
sull'attenti tutto smarrito, ed enunciò la "Meldung" prescritta:
«Kommando 83, quarantadue uomini». Nel suo turbamento, aveva proprio
detto «zweiundvierzig Mann», «uomini». Il milite lo
corresse in tono burbero e paterno: non si dice così, si dice «zweiundvierzig
Häftlinge», quarantadue prigionieri. Era un Kapo giovane, e perciò
perdonabile, ma doveva imparare il mestiere, le convenienze sociali e le distanze
gerarchiche.
Questo «non essere parlati a» aveva effetti rapidi e devastanti.
A chi non ti parla, o ti si indirizza con urli che ti sembrano inarticolati,
non osi rivolgere la parola. Se hai la fortuna di trovare accanto a te qualcuno
con cui hai una lingua comune, buon per te, potrai scambiare le tue impressioni,
consigliarti con lui, sfogarti; se non trovi nessuno, la lingua ti si secca
in pochi giorni, e con la lingua il pensiero.
Inoltre, sul piano dell'immediato, non capisci gli ordini ed i divieti, non
decifri le prescrizioni, alcune futili e derisorie, altre fondamentali. Ti trovi
insomma nel vuoto, e comprendi a tue spese che la comunicazione genera l'informazione,
e che senza informazione non si vive. La maggior parte dei prigionieri che non
conoscevano il tedesco, quindi quasi tutti gli italiani, sono morti nei primi
dieci-quindici giorni dal loro arrivo: a prima vista, per fame, freddo, fatica,
malattia; ad un esame più attento, per insufficienza d'informazione.
Se avessero potuto comunicare con i compagni più anziani, avrebbero potuto
orientarsi meglio: imparare prima a procurarsi abiti, scarpe, cibo illegale;
a scansare il lavoro più duro, e gli incontri spesso mortali con le S.S.;
a gestire senza errori fatali le inevitabili malattie. Non intendo dire che
non sarebbero morti, ma avrebbero vissuto più a lungo, ed avrebbero avuto
maggiori possibilità di riguadagnare il terreno perduto.
Nella memoria di tutti noi superstiti, e scarsamente poliglotti, i primi giorni
di Lager sono rimasti impressi nella forma di un film sfuocato e frenetico,
pieno di fracasso e di furia e privo di significato: un tramestio di personaggi
senza nome né volto annegati in un continuo assordante rumore di fondo,
su cui tuttavia la parola umana non affiorava. Un film in grigio e nero, sonoro
ma non parlato.
Ho notato, su me stesso e su altri reduci, un effetto curioso di questo vuoto
e bisogno di comunicazione. A distanza di quarant'anni, ricordiamo ancora, in
forma puramente acustica, parole e frasi pronunciate intorno a noi in lingue
che non conoscevamo né abbiamo imparato dopo: per me, ad esempio, in
polacco o in ungherese. Ancora oggi io ricordo come si enunciava in polacco
non il mio numero di matricola, ma quello del prigioniero che mi precedeva nel
ruolino di una certa baracca: un groviglio di suoni che terminava armoniosamente,
come le indecifrabili contine dei bambini, in qualcosa come «stergìsci
stèri» (oggi so che queste due parole vogliono dire «quarantaquattro»).
Infatti, in quella baracca erano polacchi il distributore della zuppa e la maggior
parte dei prigionieri, e il polacco era la lingua ufficiale; quando si veniva
chiamati, bisognava stare pronti con la gamella tesa per non perdere il turno,
e perciò, per non essere colti di sorpresa, era bene scattare quando
era chiamato il compagno col numero di matricola immediatamente precedente.
Quello «stergìsci stèri» funzionava anzi come il campanello
che condizionava i cani di Pavlov: provocava una subitanea secrezione di saliva.
Queste voci straniere si erano incise nelle nostre memorie come su un nastro
magnetico vuoto, bianco; allo stesso modo, uno stomaco affamato assimila rapidamente
anche un cibo indigesto. Non ci ha aiutati a ricordarle il loro senso, perché
per noi non ne avevano; eppure, molto più tardi, le abbiamo recitate
a persone che le potevano comprendere, e un senso, tenue e banale, lo avevano:
erano imprecazioni, bestemmie, o frasette quotidiane spesso ripetute, come «che
ora è?», o «non posso camminare», o «lasciami
in pace». Erano frammenti strappati all'indistinto: frutto di uno sforzo
inutile ed inconscio di ritagliare un senso entro l'insensato. Erano anche l'equivalente
mentale del nostro bisogno corporeo di nutrimento, che ci spingeva a cercare
le bucce di patate nei dintorni delle cucine: poco più del niente, meglio
del niente. Anche il cervello sottoalimentato soffre di una sua fame specifica.
O forse, questa memoria inutile e paradossa aveva un altro significato e un
altro scopo: era una inconsapevole preparazione per il «dopo», per
una improbabile sopravvivenza, in cui ogni brandello di esperienza sarebbe diventato
un tassello di un vasto mosaico.
Ho raccontato nelle prime pagine di "La tregua" un caso estremo di
comunicazione necessaria e mancata: quello del bambino Hurbinek, di tre anni,
forse nato clandestinamente in Lager, a cui nessuno aveva insegnato a parlare,
e che di parlare provava un bisogno intenso, espresso da tutto il suo povero
corpo. Anche sotto questo aspetto, il Lager era un laboratorio crudele in cui
era dato assistere a situazioni e comportamenti mai visti né prima, né
dopo, né altrove.
Avevo imparato qualche parola di tedesco pochi anni prima, quando ero ancora
studente, al solo scopo di intendere i testi di chimica e di fisica: non certo
per trasmettere attivamente il mio pensiero né per comprendere il linguaggio
parlato. Erano gli anni delle leggi razziali fasciste, ed un mio incontro con
un tedesco, o un viaggio in Germania, sembravano eventi ben. poco probabili.
Scaraventato ad Auschwitz, nonostante lo smarrimento iniziale (anzi, forse proprio
grazie a quello) ho capito abbastanza presto che il mio scarsissimo "Wortschatz"
era diventato un fattore di sopravvivenza essenziale. "Wortschatz"
significa «patrimonio lessicale», ma alla lettera «tesoro
di parole»; mai termine è stato altrettanto appropriato. Sapere
il tedesco era la vita: bastava che mi guardassi intorno. I compagni italiani
che non lo capivano, cioè quasi tutti salvo qualche triestino, stavano
annegando ad uno ad uno nel mare tempestoso del non-capire: non intendevano
gli ordini, ricevevano schiaffi e calci senza comprenderne il perché.
Nell'etica rudimentale del campo, era previsto che un colpo venisse in qualche
modo giustificato, per facilitare lo stabilirsi dell'arco trasgressione-punizione-ravvedimento;
quindi, spesso il Kapo o i suoi vice accompagnavano il pugno con un grugnito:
«Sai perché?», a cui seguiva una sommaria «comunicazione
di reato». Ma per i nuovi sordomuti questo cerimoniale era inutile. Si
rifugiavano istintivamente negli angoli per avere le spalle coperte: l'aggressione
poteva venire da tutte le direzioni. Si guardavano intorno con occhi smarriti,
come animali presi in trappola, e tali in effetti erano diventati.
Per molti italiani è stato vitale l'aiuto dei compagni francesi e spagnoli,
le cui lingue erano meno «straniere» del tedesco. Ad Auschwitz non
c'erano spagnoli, mentre i francesi (più precisamente: i deportati dalla
Francia o dal Belgio) erano molti, nel 1944 forse il 10% del totale. Alcuni
erano alsaziani, oppure erano ebrei tedeschi e polacchi che nel decennio precedente
avevano cercato in Francia un rifugio che si era rivelato una trappola: tutti
questi conoscevano bene o male il tedesco o il jiddisch. Gli altri, i francesi
metropolitani, proletari o borghesi o intellettuali, avevano subìto uno
o due anni prima una selezione analoga alla nostra: quelli che non capivano
erano usciti di scena. I rimasti, quasi tutti «métèques»,
a suo tempo accolti in Francia piuttosto male, si erano presa una triste rivincita.
Erano i nostri interpreti naturali: traducevano per noi i comandi e gli avvertimenti
fondamentali della giornata, «alzarsi», «adunata», «in
fila per il pane», «chi ha le scarpe rotte?», «per tre»,
«per cinque», eccetera.
Certo non bastava. Io supplicai uno di loro, un alsaziano, di tenermi un corso
privato ed accelerato, distribuito in brevi lezioni somministrate sottovoce,
fra il momento del coprifuoco e quello in cui cedevamo al sonno; lezioni da
compensarsi con pane, altra moneta non c'era. Lui accettò, e credo che
mai pane fu meglio speso. Mi spiegò che cosa significavano i ruggiti
dei Kapos e delle S.S., i motti insulsi o ironici scritti in gotico sulle capriate
della baracca, che cosa significavano i colori dei triangoli che portavamo al
petto sopra il numero di matricola. Così mi accorsi che il tedesco del
Lager, scheletrico, urlato, costellato di oscenità e di imprecazioni,
aveva soltanto una vaga parentela col linguaggio preciso e austero dei miei
testi di chimica, e col tedesco melodioso e raffinato delle poesie di Heine
che mi recitava Clara, una mia compagna di studi.
Non mi rendevo conto, e me ne resi conto solo molto più tardi, che il
tedesco del Lager era una lingua a sé stante: per dirla appunto in tedesco,
era "orts- und zeitgebunden", legata al luogo ed al tempo. Era una
variante, particolarmente imbarbarita, di quella che un filologo ebreo tedesco,
Klemperer, aveva battezzata "Lingua Tertii Imperii", la lingua del
Terzo Reich, proponendone anzi l'acrostico "L.T.I." in analogia ironica
con i cento altri (N.S.D.A.P., S.S., S.A., S.D., K.Z., R.K.P.A., W.V.H.A., R.S.H.A.,
B.D.M. ...) cari alla Germania di allora.
Sulla L.T.I., e sul suo equivalente italiano, si è già scritto
molto, anche da parte di linguisti. E' ovvia l'osservazione che, là dove
si fa violenza all'uomo, la si fa anche al linguaggio; ed in Italia non abbiamo
dimenticato le sciocche campagne fasciste contro i dialetti, contro i «barbarismi»,
contro i toponimi valdostani, valsusini, altoatesini, contro il «lei,
servile e straniero». In Germania le cose stavano altrimenti: già
da secoli la lingua tedesca aveva mostrato una spontanea avversione per le parole
di origine non-germanica, per cui gli scienziati tedeschi si erano affannati
a ribattezzare la bronchite in «aria-tubi-infiammazione», il duodeno
in «dodici-dita-intestino» e l'acido piruvico in «brucia-uva-acido»;
perciò, sotto questo aspetto, al nazismo che voleva purificare tutto
restava ben poco da purificare. La L.T.I. differiva dal tedesco di Goethe soprattutto
per certi spostamenti semantici e per l'abuso di alcuni termini: ad esempio,
gli aggettivi "völkisch" («nazionale, popolare»),
che era diventato onnipresente e carico di albagia nazionalistica, e "fanatisch",
la cui connotazione da negativa si era fatta positiva. Ma nell'arcipelago dei
Lager tedeschi si era delineato un linguaggio settoriale, un gergo, il «Lagerjargon»,
suddiviso in sottogerghi specifici di ogni Lager, e strettamente imparentato
con il vecchio tedesco delle caserme prussiane e con il nuovo tedesco delle
S.S. Non è strano che esso risulti parallelo al gergo dei campi di lavoro
sovietici, vari termini del quale sono citati da Solzenicyn: ognuno di questi
trova il suo esatto riscontro nel Lagerjargon. La traduzione in tedesco dell'"Arcipelago
Gulag" (Mondadori, Milano 1975) non deve aver presentato molte difficoltà:
o se sì, non terminologiche.
Era comune a tutti i Lager il termine "Muselmann", «mussulmano»,
attribuito al prigioniero irreversibilmente esausto, estenuato, prossimo alla
morte. Se ne sono proposte due spiegazioni, entrambe poco convincenti: il fatalismo,
e le fasciature alla testa che potevano simulare un turbante. Esso è
rispecchiato esattamente, anche nella sua cinica ironia, dal termine russo "dochodjaga",
letteralmente «arrivato alla fine», «concluso». Nel
Lager di Ravensbrück (l'unico esclusivamente femminile) lo stesso concetto
veniva espresso, mi dice Lidia Rolfi, con i due sostantivi speculari "Schmutzsück"
e "Schmuckstück", rispettivamente «immondizia» e
«gioiello», quasi omofoni, l'uno parodia dell'altro. Le italiane
non ne capivano il senso raggelante, ed unificando i due termini pronunciavano
«smistig». Anche "Prominent" è termine comune a
tutti i sottogerghi. Dei «prominenti», i prigionieri che avevano
fatto carriera, ho parlato diffusamente in "Se questo è un uomo";
essendo una componente indispensabile nella sociologia dei campi, esistevano
anche in quelli sovietici, dove (l'ho ricordato nel terzo capitolo) erano detti
"pridurki".
Ad Auschwitz «mangiare» si rendeva con "fressen", verbo
che in buon tedesco si applica soltanto agli animali. Per «vàttene»
si usava l'espressione "bau' ab", imperativo del verbo "abhauen";
questo, in buona lingua, significa «tagliare, mozzare», ma nel gergo
del Lager equivaleva a «andare all'inferno, levarsi di torno». Mi
è accaduto una volta di usare in buona fede questa espressione ("Jetzt
hauen wir ab") poco dopo la fine della guerra, per prendere congedo da
alcuni educati funzionari della Bayer dopo un colloquio d'affari. Era come se
avessi detto «ora ci togliamo dai piedi». Mi guardarono stupiti:
il termine apparteneva ad un registro linguistico diverso da quello in cui si
era svolta la conversazione precedente, e non viene certo insegnato nei corsi
scolastici di «lingua straniera». Spiegai loro che non avevo imparato
il tedesco a scuola, bensì in un Lager di nome Auschwitz; ne nacque un
certo imbarazzo, ma, essendo io in veste di compratore, continuarono a trattarmi
con cortesia. Mi sono reso conto in seguito che anche la mia pronuncia è
rozza, ma deliberatamente non ho cercato di ingentilirla; per lo stesso motivo
non mi sono mai fatto asportare il tatuaggio dal braccio sinistro.
Il Lagerjargon, come è naturale, era fortemente influenzato da altre
lingue che venivano parlate nel Lager e nei dintorni: dal polacco, dal jiddisch,
dal dialetto slesiano, più tardi dall'ungherese. Dal frastuono di fondo
dei miei primi giorni di prigionia emersero subito, con insistenza, quattro
o cinque espressioni che tedesche non erano: dovevano indicare, pensai, qualche
oggetto od azione basilare, come lavoro, acqua, pane. Mi si erano incise nella
memoria, nel curioso modo meccanico che ho descritto prima. Solo molto più
tardi un amico polacco mi ha spiegato, malvolentieri, che volevano dire semplicemente
«colera», «sangue di cane», «tuono», «figlio
di puttana» e «fottuto»; i tre primi in funzione di interiezione.
Il jiddisch era di fatto la seconda lingua del campo (sostituita più
tardi dall'ungherese). Non solo non la capivo, ma sapevo solo vagamente della
sua esistenza, in base a qualche citazione o storiella sentita da mio padre
che per qualche anno aveva lavorato in Ungheria. Gli ebrei polacchi, russi,
ungheresi erano stupiti che noi italiani non lo parlassimo: eravamo degli ebrei
sospetti, da non fidarsene; oltre ad essere, naturalmente, dei «badoghlio»
per le S.S.e dei «mussolini» per i francesi, per i greci e per i
prigionieri politici. Anche a prescindere dai problemi di comunicazione, non
era comodo essere ebrei italiani. Come ormai è noto dopo il meritato
successo dei libri dei fratelli Singer e di tanti altri, il jiddisch è
sostanzialmente un antico dialetto tedesco, diverso dal tedesco moderno come
lessico e come pronuncia. Mi dava più angoscia del polacco, che non capivo
affatto, perché «avrei dovuto capirlo». Lo ascoltavo con
attenzione tesa: spesso mi era difficile capire se una frase rivolta a me, o
pronunciata vicino a me, era tedesca o jiddisch o ibrida: infatti, alcuni ebrei
polacchi bene intenzionati si sforzavano di tedeschizzare il loro jiddisch più
che potevano, affinché io li comprendessi.
Del jiddisch respirato nell'aria, ho ritrovato una traccia singolare in "Se
questo è un uomo". Nel capitolo Kraus è riportato un dialogo:
Gounan, ebreo francese di origine polacca, si rivolge all'ungherese Kraus con
la frase «Langsam, du blöder Einer, langsam, verstanden?»,
che vale, tradotta parola per parola, «Piano, tu stupido uno, piano, capito?»
Suonava un po' strana, ma mi pareva proprio di averla sentita così (erano
memorie recenti: scrivevo nel 1946), e l'ho trascritta tale e quale. Il traduttore
tedesco non è rimasto convinto: dovevo aver sentito o ricordato male.
Dopo una lunga discussione epistolare, mi ha proposto di ritoccare l'espressione,
che a lui non sembrava accettabile. Infatti, nella traduzione poi pubblicata
essa suona: «Langsam, du blöder Heini,...», dove Heini è
il diminutivo di Heinrich, Enrico. Ma di recente, in un bel libro sulla storia
e struttura del jiddisch ("Mame Loshen", di J. Geipel, Journeyman,
London 1982) ho trovato che è tipica di questa lingua la forma «Khamòyer
du eyner!», «Asino tu uno!» La memoria meccanica aveva funzionato
correttamente.
Della comunicazione mancata o scarsa non soffrivano tutti in ugual misura.
Il non soffrirne, l'accettare l'eclissi della parola, era un sintomo infausto:
segnalava l'approssimarsi dell'indifferenza definitiva. Alcuni pochi, solitari
per natura, o assuefatti all'isolamento già nella loro vita «civile»,
non davano segno di patirne; ma la maggior parte dei prigionieri che avevano
superato la fase critica dell'iniziazione cercavano di difendersi, ciascuno
a suo modo: chi mendicando brandelli d'informazione, chi propalando senza discernimento
notizie trionfali o disastrose, vere o false o inventate, chi aguzzando occhi
ed orecchi a cogliere ed a cercare di interpretare tutti i segni offerti dagli
uomini, dalla terra e dal cielo. Ma alla scarsa comunicazione interna si sommava
la scarsa comunicazione col mondo esterno. In alcuni Lager l'isolamento era
totale; il mio, Monowitz-Auschwitz, sotto questo aspetto poteva considerarsi
privilegiato. Arrivavano, quasi ogni settimana, prigionieri «nuovi»
da tutti i paesi dell'Europa occupata, e portavano notizie recenti, spesso come
testimoni oculari; a dispetto dei divieti, e del pericolo di essere denunciati
alla Gestapo, nell'enorme cantiere parlavamo con operai polacchi e tedeschi,
a volte perfino con prigionieri di guerra inglesi; trovavamo nei bidoni delle
immondizie giornali vecchi di qualche giorno, e li leggevamo avidamente. Un
mio compagno di lavoro intraprendente, bilingue in quanto alsaziano, e giornalista
di professione, si vantava addirittura di essersi abbonato al «Völkischer
Beobachter», il più autorevole quotidiano della Germania di allora:
che cosa c'era di più semplice? Aveva pregato un operaio tedesco, fidato,
di abbonarsi, ed aveva rilevato l'abbonamento cedendogli un dente d'oro. Ogni
mattina, nella lunga attesa dell'appello, ci radunava intorno a sé e
ci faceva un accurato riassunto delle notizie del giorno.
Il 7 giugno 1944 vedemmo andare al lavoro i prigionieri inglesi, e c'era in
loro qualcosa di diverso: marciavano bene inquadrati, impettiti, sorridenti,
marziali, con un passo talmente alacre che la sentinella tedesca che li scortava,
un territoriale non più giovane, stentava a tenergli dietro. Ci salutarono
col segno V della vittoria. Sapemmo il giorno dopo che da una loro radio clandestina
avevano appreso la notizia dello sbarco alleato in Normandia, e fu un gran giorno
anche per noi: la libertà sembrava a portata di mano. Ma nella maggior
parte dei campi le cose stavano assai peggio. I nuovi arrivati provenivano da
altri Lager o da ghetti a loro volta tagliati fuori dal mondo, e quindi portavano
solo le orrende notizie locali. Non si lavorava, come noi, a contatto con lavoratori
liberi di dieci o dodici paesi diversi, ma in aziende agricole, o in piccole
officine, o in cave di pietra o sabbia, o addirittura in miniera: e nei Lager-miniera
le condizioni erano le stesse che conducevano a morte gli schiavi di guerra
dei romani e gli indios asserviti dagli spagnoli; talmente mortifere che nessuno
è ritornato per descriverle. Le notizie «dal mondo», come
si diceva, arrivavano saltuarie e vaghe. Ci si sentiva dimenticati, come i condannati
che venivano lasciati morire nelle "oubliettes" del medioevo.
Agli ebrei, nemici per antonomasia, impuri, seminatori di impurezza, distruttori
del mondo, era vietata la comunicazione più preziosa, quella col paese
d'origine e con la famiglia: chi ha provato l'esilio, in una qualsiasi delle
sue tante forme, sa quanto si soffra quando questo nervo viene reciso. Ne nasce
una mortale impressione di abbandono, ed anche un ingiusto risentimento: perché
non mi scrivono, perché non mi aiutano, loro che sono liberi? Abbiamo
avuto modo di capire bene, allora, che del grande continente della libertà
la libertà di comunicare è una provincia importante. Come avviene
per la salute, solo chi la perde si accorge di quanto valga. Ma non se ne soffre
solo a livello individuale: nei paesi e nelle epoche in cui la comunicazione
è impedita, appassiscono presto tutte le altre libertà; muore
per inedia la discussione, dilaga l'ignoranza delle opinioni altrui, trionfano
le opinioni imposte; ne è un esempio noto la folle genetica predicata
in Urss da Lissenko, che, in mancanza di discussioni (i suoi contraddittori
vennero esiliati in Siberia), compromise i raccolti per vent'anni. L'intolleranza
tende a censurare, e la censura accresce l'ignoranza della ragione altrui e
quindi l'intolleranza stessa: è un circolo vizioso rigido, difficile
da spezzare.
L'ora settimanale in cui i nostri compagni «politici» ricevevano
la posta da casa era per noi la più sconsolata, quella in cui sentivamo
tutto il peso dell'essere altri, estraniati, tagliati fuori dal nostro paese,
anzi, dal genere umano. Era l'ora in cui sentivamo il tatuaggio bruciare come
una ferita, e ci invadeva come una frana di fango la certezza che nessuno di
noi sarebbe tornato. Del resto, se anche ci fosse stato concesso di scrivere
una lettera, a chi l'avremmo indirizzata? Le famiglie degli ebrei d'Europa erano
sommerse o disperse o distrutte.
A me (l'ho raccontato in "Lilìt" [Einaudi, Torino 1981]) è
toccata la rarissima fortuna di poter scambiare alcune lettere con la mia famiglia.
Ne sono debitore a due persone fra loro molto diverse: un muratore anziano quasi
analfabeta, e una giovane donna coraggiosa, Bianca Guidetti Serra, che adesso
è un noto avvocato. So che è stato questo uno dei fattori che
mi hanno concesso di sopravvivere; ma, come ho detto prima, ognuno di noi superstiti
è per più versi un'eccezione; cosa che noi stessi, per esorcizzare
il passato, tendiamo a dimenticare.