STEREOTIPI.
Coloro che hanno sperimentato la prigionia (e, molto più in generale,
tutti gli individui che hanno attraversato esperienze severe) si dividono in
due categorie ben distinte, con rare sfumature intermedie: quelli che tacciono
e quelli che raccontano. Entrambi obbediscono a valide ragioni: tacciono coloro
che provano più profondamente quel disagio che per semplificare ho chiamato
«vergogna», coloro che non si sentono in pace con se stessi, o le
cui ferite ancora bruciano. Parlano, e spesso parlano molto, gli altri, obbedendo
a spinte diverse. Parlano perché, a vari livelli di consapevolezza, ravvisano
nella loro (anche se ormai lontana) prigionia il centro della loro vita, l'evento
che nel bene e nel male ha segnato la loro esistenza intiera. Parlano perché
sanno di essere testimoni di un processo di dimensione planetaria e secolare.
Parlano perché (recita un detto jiddisch) «è bello raccontare
i guai passati»; Francesca dice a Dante che non c'è «nessun
maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / nella miseria», ma
è vero anche l'inverso, come sa ogni reduce: è bello sedere al
caldo, davanti al cibo ed al vino, e ricordare a sé ed agli altri la
fatica, il freddo e la fame: così subito cede all'urgenza del raccontare,
davanti alla mensa imbandita, Ulisse alla corte del re dei Feaci. Parlano, magari
esagerando, da «soldati millantatori», descrivendo paura e coraggio,
astuzie, offese, sconfitte e qualche vittoria: così facendo, si differenziano
dagli «altri», consolidano la loro identità con l'appartenenza
ad una corporazione, e sentono accresciuto il loro prestigio.
Ma parlano, anzi (posso usare la prima persona plurale: io non appartengo ai
taciturni) parliamo, anche perché veniamo invitati a farlo. Ha scritto
anni fa Norberto Bobbio che i campi di annientamento nazisti sono stati «non
"uno degli" eventi, ma "l'"evento mostruoso, forse irripetibile,
della storia umana». Gli altri, gli ascoltatori, amici, figli, lettori,
od anche estranei, lo intuiscono, al di là della indignazione e della
commiserazione; capiscono l'unicità della nostra esperienza, o almeno
si sforzano di capirla. Perciò ci sollecitano a raccontare e ci pongono
domande, talvolta mettendoci in imbarazzo: non sempre è facile rispondere
a certi perché, non siamo storici né filosofi ma testimoni, e
del resto non è detto che la storia delle cose umane obbedisca a schemi
logici rigorosi. Non è detto che ogni svolta segua da un solo perché:
le semplificazioni sono buone solo per i testi scolastici, i perché possono
essere molti, confusi fra loro, o inconoscibili, se non addirittura inesistenti.
Nessuno storico o epistemologo ha ancora dimostrato che la storia umana sia
un processo deterministico.
Fra le domande che ci vengono poste ce n'è una che non manca mai; anzi,
a mano a mano che gli anni passano, essa viene formulata con sempre maggiore
insistenza, e con un sempre meno celato accento di accusa. Più che una
domanda singola, è una famiglia di domande. Perché non siete fuggiti?
Perché non vi siete ribellati? Perché non vi siete sottratti alla
cattura «prima»? Proprio per la loro immancabilità, e per
il loro crescere nel tempo, queste domande meritano attenzione.
Il primo commento a queste domande, e la loro prima interpretazione, sono ottimistici.
Vi sono paesi in cui la libertà non è mai stata conosciuta, perché
il bisogno che naturalmente l'uomo ne prova viene dopo altri ben più
urgenti bisogni: di resistere al freddo, alla fame, alle malattie, ai parassiti,
alle aggressioni animali e umane. Però, nei paesi in cui i bisogni elementari
sono soddisfatti, i giovani d'oggi sentono la libertà come un bene a
cui non si deve in alcun caso rinunciare: non si può farne a meno, è
un diritto naturale ed ovvio, e per di più gratuito, come la salute e
l'aria che si respira. I tempi e i luoghi in cui questo diritto congenito viene
negato sono sentiti come lontani, estranei, strani. Perciò, per loro,
l'idea della prigionia è concatenata all'idea della fuga o della rivolta.
La condizione del prigioniero è sentita come indebita, anormale: come
una malattia, insomma, che deve essere guarita con l'evasione o con la ribellione.
Del resto, il concetto dell'evasione come obbligo morale ha radici salde: secondo
i codici militari di molti paesi il prigioniero di guerra è tenuto a
liberarsi in qualsiasi modo, per riprendere il suo posto di combattente, e secondo
la Convenzione dell'Aia il tentativo di fuga non deve essere punito. Nella coscienza
comune, l'evasione lava ed estingue la vergogna della prigionia.
Sia detto di passata: nell'Unione Sovietica di Stalin la prassi, se non la legge,
era diversa ed assai più drastica; per il prigioniero di guerra sovietico
rimpatriato non c'era guarigione né redenzione, egli era considerato
irrimediabilmente colpevole, anche se era riuscito ad evadere ed a ricongiungersi
con l'armata combattente. Avrebbe dovuto morire anziché arrendersi, ed
inoltre, essendo stato (magari per poche ore) nelle mani del nemico, era automaticamente
sospetto di collusione con lui. Al loro incauto ritorno in patria, furono deportati
in Siberia, o uccisi, perfino molti militari che al fronte erano stati catturati
dai tedeschi, erano stati trascinati nei territori occupati, erano evasi e si
erano uniti alle bande partigiane operanti contro i tedeschi in Italia, in Francia
o nelle stesse retrovie russe. Anche nel Giappone in guerra il soldato che si
arrendeva era considerato con estremo disprezzo: di qui il trattamento durissimo
a cui furono sottoposti i militari alleati che caddero prigionieri nelle mani
dei giapponesi. Non erano solo nemici, erano anche nemici vili, degradati dall'essersi
arresi.
Ancora: il concetto dell'evasione come dovere morale e come conseguenza obbligata
della cattività è costantemente ribadito dalla letteratura romantica
(il Conte di Montecristo!) e popolare (si ricordi lo straordinario successo
delle memorie di "Papillon" [Mondadori, Milano 1974]). Nell'universo
del cinematografo, l'eroe ingiustamente (o magari giustamente) incarcerato è
sempre un personaggio positivo, tenta sempre la fuga, anche nelle circostanze
meno verosimili, e il tentativo è invariabilmente coronato da successo.
Fra i mille film sepolti dall'oblio, restano nella memoria "Io sono un
evaso" e "Uragano". Il prigioniero tipico è visto come
un uomo integro, nel pieno possesso del suo vigore fisico e morale, che, con
la forza che nasce dalla disperazione e con l'ingegno aguzzato dalla necessità,
si scaglia contro le barriere, le scavalca o le infrange.
Ora, questa immagine schematica della prigionia e dell'evasione assomiglia assai
poco alla situazione dei campi di concentramento. Intendendo questo termine
nel suo senso più vasto (includendo cioè, oltre ai campi di distruzione
dal nome universalmente noto anche i moltissimi campi per prigionieri e internati
militari), esistevano in Germania parecchi milioni di stranieri in condizione
di schiavitù, affaticati, disprezzati, sottoalimentati, mal vestiti e
mal curati, tagliati fuori dal contatto con la madrepatria. Non erano «prigionieri
tipici», non erano integri, erano anzi demoralizzati e svigoriti. Va fatta
eccezione per i prigionieri di guerra alleati (gli americani e gli appartenenti
al Commonwealth britannico), che ricevevano viveri e vestiario attraverso la
Croce Rossa internazionale, possedevano un buon allenamento militare, forti
motivazioni ed un saldo spirito di corpo, ed avevano conservato una gerarchia
interna abbastanza solida, esente dalla «zona grigia» di cui ho
parlato altrove; salvo poche eccezioni, potevano fidarsi l'uno dell'altro, ed
inoltre sapevano che, se fossero stati ripresi, sarebbero stati trattati secondo
le convenzioni internazionali. Fra di loro, in effetti, molte evasioni sono
state tentate, ed alcune condotte a termine con successo.
Per gli altri, per i paria dell'universo nazista (tra cui vanno compresi gli
zingari ed i prigionieri sovietici, militari e civili, che razzialmente erano
considerati di poco superiori agli ebrei), le cose stavano in modo diverso.
Per loro l'evasione era difficile ed estremamente pericolosa: erano indeboliti,
oltre che demoralizzati, dalla fame e dai maltrattamenti; erano e si sentivano
considerati di minor valore che bestie da soma. Avevano i capelli rasati, abiti
lerci subito riconoscibili, scarpe di legno che impedivano un passo rapido e
silenzioso. Se erano stranieri, non avevano conoscenze né rifugi possibili
nei dintorni; se erano tedeschi, sapevano di essere attentamente sorvegliati
e schedati dalla occhiuta polizia segreta, e che pochissimi loro connazionali
avrebbero rischiato la libertà o la vita per ospitarli.
Il caso particolare (ma numericamente imponente) degli ebrei era il più
tragico. Anche ammettendo che fossero riusciti a superare lo sbarramento di
filo spinato e la griglia elettrificata, a sfuggire alle pattuglie, alla sorveglianza
delle sentinelle armate di mitragliatrice nelle torrette di guardia, ai cani
addestrati alla caccia all'uomo: verso dove avrebbero potuto dirigersi? a chi
chiedere ospitalità? Erano fuori del mondo, uomini e donne d'aria. Non
avevano più una patria (erano stati privati della cittadinanza d'origine)
né una casa, sequestrata a favore dei cittadini a pieno titolo. Salvo
eccezioni, non avevano più famiglia, o se ancora viveva qualche loro
parente, non sapevano dove trovarlo, o dove scrivergli senza mettere la polizia
sulle sue tracce. La propaganda antisemita di Goebbels e di Streicher aveva
dato frutto: la maggior parte dei tedeschi, ed i giovani in specie, odiavano
gli ebrei, li disprezzavano e li consideravano nemici del popolo; gli altri,
con pochissime eroiche eccezioni, si astenevano da qualsiasi aiuto per paura
della Gestapo. Chi ospitava o anche solo aiutava un ebreo rischiava punizioni
terrificanti: ed a questo proposito è giusto ricordare che qualche migliaio
di ebrei sono sopravvissuti per tutto il periodo hitleriano, nascosti in Germania
ed in Polonia in conventi, in cantine, in solai, ad opera di cittadini coraggiosi,
misericordiosi, e soprattutto abbastanza intelligenti da conservare per anni
la più stretta discrezione.
Inoltre, in tutti i Lager la fuga anche di un solo prigioniero era considerata
una mancanza gravissima di tutto il personale di sorveglianza, a partire dai
prigionieri-funzionari fino al comandante del campo, che rischiava la destituzione.
Nella logica nazista, era un evento intollerabile: la fuga di uno schiavo, specie
se appartenente alle razze «di minor valore biologico», appariva
carica di valore simbolico, avrebbe rappresentato una vittoria di colui che
è sconfitto per definizione, una lacerazione del mito; ed anche, più
realisticamente, un danno obiettivo, perché ogni prigioniero aveva visto
cose che il mondo non avrebbe dovuto sapere. Di conseguenza, quando un prigioniero
mancava all'appello (cosa non rarissima: spesso si trattava di un semplice errore
di conteggio, o di un prigioniero svenuto per esaurimento) si scatenava l'apocalissi.
L'intero campo veniva messo in stato d'allarme; oltre alle S.S. addette alla
sorveglianza intervenivano pattuglie della Gestapo; Lager, cantieri, case coloniche,
abitazioni dei dintorni venivano perquisite. Ad arbitrio del comandante del
campo, venivano presi provvedimenti d'emergenza. I connazionali o gli amici
notori o i vicini di cuccetta dell'evaso erano interrogati sotto tortura e poi
uccisi; infatti, un'evasione era un'impresa difficile, ed era inverosimile che
il fuggitivo non avesse avuto complici o che nessuno si fosse accorto dei preparativi.
I suoi compagni di baracca, o a volte tutti i prigionieri del campo, venivano
fatti stare in piedi, nella piazza dell'appello, senza limiti di tempo, magari
per giorni, sotto la neve, la pioggia o il solleone, finché l'evaso non
fosse stato ritrovato, vivo o morto. Se era stato rintracciato e catturato vivo,
veniva punito invariabilmente con la morte mediante impiccagione pubblica, ma
questa era preceduta da un cerimoniale vario da volta a volta, sempre di ferocia
inaudita, in cui si scatenava la crudeltà fantasiosa delle S.S.
Ad illustrare quale impresa disperata fosse una fuga, ma non solo a questo scopo,
ricorderò qui l'impresa di Mala Zimetbaum; vorrei infatti che ne rimanesse
memoria. L'evasione di Mala dal Lager femminile di Auschwitz-Birkenau è
stata narrata da più persone, ma i particolari concordano. Mala era una
giovane ebrea polacca che era stata catturata in Belgio e che parlava correntemente
molte lingue, perciò a Birkenau fungeva da interprete e da portaordini,
e come tale godeva di una certa libertà di spostamento. Era generosa
e coraggiosa; aveva aiutato molte compagne, ed era amata da tutte. Nell'estate
del 1944 decise di evadere con Edek, un prigioniero politico polacco. Non volevano
soltanto riconquistarsi la libertà: intendevano documentare al mondo
il massacro quotidiano di Birkenau. Riuscirono a corrompere una S.S. ed a procurarsi
due uniformi. Uscirono travestiti e giunsero fino al confine slovacco; qui vennero
fermati dai doganieri, che sospettarono di trovarsi davanti a due disertori
e li consegnarono alla polizia. Vennero immediatamente riconosciuti e riportati
a Birkenau. Edek venne impiccato subito, ma non volle attendere che, secondo
l'accanito cerimoniale del luogo, venisse letta la sentenza: infilò il
capo nel cappio scorsoio e si lasciò cadere dallo sgabello.
Anche Mala aveva risoluto di morire la sua propria morte. Mentre in una cella
attendeva di essere interrogata, una compagna poté avvicinarla e le chiese
«Come va, Mala?» Rispose: «A me va sempre bene». Era
riuscita a nascondersi addosso una lametta da rasoio. Ai piedi della forca si
recise l'arteria di un polso. L'S.S. che fungeva da boia cercò di strapparle
la lama, e Mala, davanti a tutte le donne del campo, gli sbatté sul viso
la mano insanguinata. Subito accorsero altri militi, inferociti: una prigioniera,
un'ebrea, una donna, aveva osato sfidarli! La calpestarono a morte; spirò,
per sua fortuna, sul carro che la portava al crematorio.
Questa non era «violenza inutile». Era utile: serviva assai bene
a stroncare sul nascere ogni velleità di fuga; era normale che pensasse
alla fuga il prigioniero nuovo, inesperto di queste tecniche raffinate e collaudate;
era rarissimo che questo pensiero passasse per la mente degli anziani; infatti,
era comune che i preparativi di una evasione venissero denunciati dai componenti
della «zona grigia», o anche solo da terzi, timorosi delle rappresaglie
descritte.
Ricordo con un sorriso l'avventura che mi è accaduta parecchi anni fa
in una quinta elementare, in cui ero stato invitato a commentare i miei libri
ed a rispondere alle domande degli allievi. Un ragazzino dall'aria sveglia,
apparentemente il leader della classe, mi rivolse la domanda di rito: «Ma
lei perché non è scappato?» Io gli esposi in breve quanto
ho scritto qui; lui, poco convinto, mi chiese di tracciare sulla lavagna uno
schizzo del campo, indicando la collocazione delle torrette di guardia, delle
porte, dei reticolati e della centrale elettrica. Feci del mio meglio, sotto
trenta paia di occhi intenti. Il mio interlocutore studiò il disegno
per qualche istante, mi chiese qualche precisazione ulteriore, poi mi espose
il piano che aveva escogitato: qui, di notte, sgozzare la sentinella; poi, indossare
i suoi abiti; subito dopo, correre laggiù alla centrale e interrompere
la corrente elettrica, così i fari si sarebbero spenti e si sarebbe disattivato
il reticolato ad alta tensione; dopo me ne sarei potuto andare tranquillo. Aggiunse
seriamente. «Se le dovesse capitare un'altra volta, faccia come le ho
detto: vedrà che riesce».
Nei suoi limiti, mi pare che l'episodio illustri bene la spaccatura che esiste,
e che si va allargando di anno in anno, fra le cose com'erano «laggiù»
e le cose quali vengono rappresentate dalla immaginazione corrente, alimentata
da libri, film e miti approssimativi. Essa, fatalmente, slitta verso la semplificazione
e lo stereotipo; vorrei porre qui un argine contro questa deriva. In pari tempo,
vorrei però ricordare che non si tratta di un fenomeno ristretto alla
percezione del passato prossimo né delle tragedie storiche: è
assai più generale, fa parte di una nostra difficoltà o incapacità
di percepire le esperienze altrui, che è tanto più pronunciata
quanto più queste sono lontane dalle nostre nel tempo, nello spazio o
nella qualità. Tendiamo ad assimilarle a quelle «viciniori»,
come se la fame di Auschwitz fosse quella di chi ha saltato un pasto, o come
se la fuga da Treblinka fosse assimilabile alla fuga da Regina Coeli. E' compito
dello storico scavalcare questa spaccatura, che è tanto più ampia
quanto più tempo è trascorso dagli eventi studiati.
Con altrettanta frequenza, e con anche più aspro accento accusatorio,
ci viene chiesto: «Perché non vi siete ribellati?» Questa
domanda è quantitativamente diversa dalla precedente, ma di natura simile,
ed anch'essa si fonda su uno stereotipo. E' opportuno scindere la risposta in
due parti.
In primo luogo: non è vero che in nessun Lager abbiano avuto luogo rivolte.
Sono state più volte descritte, con abbondanza di particolari, le rivolte
di Treblinka, di Sobibór, di Birkenau; altre avvennero in campi minori.
Furono imprese di estrema audacia, degne del più profondo rispetto, ma
nessuna di esse si concluse con la vittoria, se per vittoria si intende la liberazione
del campo. Sarebbe stato insensato puntare su questo scopo: lo strapotere delle
truppe di guardia era tale da farlo fallire in pochi minuti, poiché gli
insorti erano praticamente disarmati. Il loro scopo effettivo era quello di
danneggiare o distruggere gli impianti di morte, e di consentire la fuga del
piccolo nucleo degli insorti, il che talvolta (ad esempio a Treblinka, anche
se solo in parte) riuscì. Ad una fuga di massa non si pensò mai:
sarebbe stata un'impresa folle. Quale senso, quale utilità avrebbe avuto
aprire le porte a migliaia di individui appena capaci di trascinarsi, e ad altri
che non avrebbero saputo dove, in terra nemica, andare a cercarsi un rifugio?
Insurrezioni comunque avvennero; furono preparate con intelligenza ed incredibile
coraggio da minoranze risolute e fisicamente ancora indenni. Costarono un prezzo
spaventoso in termini di vite umane e di sofferenze collettive inferte a titolo
di rappresaglia, ma valsero e valgono a mostrare che è falso affermare
che i prigionieri dei Lager tedeschi non abbiano mai tentato di ribellarsi.
Nelle intenzioni degli insorti, avrebbero dovuto condurre ad un altro risultato
più concreto: portare a conoscenza del mondo libero il terribile segreto
del massacro. In effetti i pochi a cui l'impresa riuscì, e che dopo altre
estenuanti peripezie poterono avere accesso agli organi d'informazione, parlarono:
ma, come ho accennato nell'introduzione, non furono quasi mai ascoltati né
creduti. Le verità scomode hanno un difficile cammino.
In secondo luogo: come il nesso prigionia-fuga, anche il nesso oppressione-ribellione
è uno stereotipo. Non intendo dire che non sia valido mai: dico che non
è valido sempre. La storia delle ribellioni, cioè delle rivolte
dal basso, dei «molti oppressi» contro i «pochi potenti»,
è vecchia come la storia dell'umanità ed altrettanto varia e tragica.
Ci sono state alcune poche ribellioni vittoriose, molte sono state sconfitte,
innumerevoli altre sono state soffocate ai loro esordi, tanto precocemente da
non aver lasciato traccia nelle cronache. Le variabili in gioco sono molte:
la forza numerica, militare ed ideale dei ribelli e rispettivamente dell'autorità
sfidata, le rispettive coesioni o spaccature interne, gli aiuti esterni agli
uni ed all'altra, l'abilità, il carisma o il demonismo dei capi, la fortuna.
Tuttavia, in ogni caso, si osserva che alla testa del movimento non figurano
mai gli individui più oppressi: di solito, anzi, le rivoluzioni sono
guidate da capi audaci e spregiudicati, che si gettano nella mischia per generosità
(o magari per ambizione) pur avendo la possibilità di vivere personalmente
una vita sicura e tranquilla, magari addirittura privilegiata. L'immagine tanto
spesso replicata nei monumenti, dello schiavo che spezza le sue pesanti catene,
è retorica: le sue catene vengono spezzate dai compagni i cui vincoli
sono più leggeri e più lenti.
Il fatto non può stupire. Un capo dev'essere efficiente: deve possedere
forza morale e fisica, e l'oppressione, se spinta oltre un certo livello molto
basso, deteriora l'una e l'altra. Per suscitare la collera e l'indignazione,
che sono i motori di tutte le vere rivolte (quelle dal basso, per intenderci:
non certo i "putsch" né le «rivolte di palazzo»),
occorre sì che l'oppressione esista, ma essa dev'essere di misura modesta,
o condotta con scarsa efficienza. L'oppressione nei Lager era di misura estrema,
ed era condotta con la nota, ed in altri campi encomiabile, efficienza tedesca.
Il prigioniero tipico, quello che costituiva il nerbo del campo, era al limite
dell'esaurimento: affamato, indebolito, coperto di piaghe (in specie ai piedi:
era un uomo «impedito», nel senso originario del termine. Non è
un dettaglio secondario!), e quindi profondamente avvilito. Era un uomo-straccio,
e con gli stracci, come già sapeva Marx, le rivoluzioni non si fanno
nel mondo reale, bensì solo in quello della retorica letteraria o cinematografica.
Tutte le rivoluzioni, quelle che hanno dirottato la storia del mondo e quelle
minuscole di cui ci occupiamo qui, sono state guidate da personaggi che conoscevano
bene l'oppressione, ma non sulla loro pelle. La rivolta di Birkenau, a cui ho
già accennato, fu scatenata dal Kommando Speciale addetto ai crematori:
erano uomini disperati ed esasperati, ma ben nutriti, vestiti e calzati. La
rivolta del ghetto di Varsavia fu un'impresa degna della più reverente
ammirazione, fu la prima «resistenza» europea, e l'unica condotta
senza la minima speranza di vittoria o di salute; ma fu opera di una élite
politica che, giustamente, si era riserbata alcuni fondamentali privilegi, allo
scopo di conservare la propria forza.
Vengo alla terza variante della domanda: perché non siete scappati «prima»?
Prima che le frontiere si chiudessero? Prima che la trappola scattasse? Anche
qui devo ricordare che molte persone minacciate dal nazismo e dal fascismo se
ne andarono «prima». Erano esuli propriamente politici, od anche
intellettuali mal visti dai due regimi: migliaia di nomi, molti oscuri, alcuni
illustri, quali Togliatti, Nenni, Saragat, Salvemini, Fermi, Emilio Segré,
la Meitner, Arnaldo Momigliano, Thomas e Heinrich Mann, Arnold e Stefan Zweig,
Brecht, e tanti altri; non tutti ritornarono, e fu un'emorragia che dissanguò
l'Europa, forse in modo irrimediabile. La loro emigrazione (in Inghilterra,
Stati Uniti, Sud-America, Unione Sovietica; ma anche in Belgio, Olanda, Francia,
dove la marea nazista li doveva raggiungere pochi anni dopo: erano, e siamo
tutti, ciechi al futuro) non fu una fuga né una diserzione, bensì
un naturale ricongiungersi con alleati potenziali o reali, in cittadelle da
cui riprendere la loro lotta o la loro attività creativa.
Tuttavia, è pur vero che in massima parte le famiglie minacciate (in
primo luogo gli ebrei) restarono in Italia ed in Germania. Domandarsi e domandare
il perché è ancora una volta il segno di una concezione stereotipa
ed anacronistica della storia; più semplicemente, di una diffusa ignoranza
e dimenticanza, che tende ad aumentare con l'allontanarsi dei fatti nel tempo.
L'Europa del 1930-1940 non era l'Europa odierna. Emigrare è doloroso
sempre; allora era anche più difficile e più costoso di quanto
non sia oggi. Per farlo, occorreva non solo molto denaro, ma anche una «testa
di ponte» nel paese di destinazione: parenti od amici disposti a dare
garanzie o anche ospitalità. Molti italiani, soprattutto contadini, avevano
emigrato nei decenni precedenti, ma erano stati spinti dalla miseria e dalla
fame, ed una testa di ponte l'avevano, o credevano di averla; spesso erano stati
invitati e bene accolti, perché localmente la mano d'opera scarseggiava;
comunque, anche per loro e per le loro famiglie lasciare la patria era stata
una decisione traumatica.
«Patria»: non sarà inutile soffermarsi sul termine. Si colloca
vistosamente fuori del linguaggio parlato: nessun italiano, se non per scherzo,
dirà mai «prendo il treno e ritorno in patria». E' di conio
recente, e non ha senso univoco; non ha equivalenti esatti in lingue diverse
dall'italiano, non compare, che io sappia, in nessuno dei nostri dialetti (e
questo è un segno della sua origine dotta e della sua intrinseca astrattezza),
né in Italia ha avuto sempre lo stesso significato. Infatti, a seconda
delle epoche, ha indicato entità geografiche di estensione diversa, dal
villaggio dove si è nati e (etimologicamente) dove hanno vissuto i nostri
padri, fino, dopo il Risorgimento, all'intera nazione. In altri paesi, equivale
press'a poco al focolare, o al luogo natio; in Francia (e talora anche fra noi)
il termine ha assunto una connotazione ad un tempo drammatica, polemica e retorica:
la "Patrie" è tale quando è minacciata o disconosciuta.
Per chi si sposta, il concetto di patria diventa doloroso ed insieme tende ad
impallidire; già il Pascoli, allontanatosi (non poi di molto) dalla sua
Romagna, «dolce paese», sospirava «io, la mia patria or è
dove si vive». Per Lucia Mondella, la patria si identificava visibilmente
con le «cime ineguali» dei suoi monti sorgenti dalle acque del lago
di Como. Per contro, in paesi ed in tempi di intensa mobilità, quali
sono oggi gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, di patria non si parla se non
in termini politico-burocratici: qual è il focolare, quale «la
terra dei padri» di quei cittadini in eterna trasferta? Molti di loro
non lo sanno né se ne preoccupano.
Ma l'Europa degli anni '30 era ben diversa. Già industrializzata, era
ancora profondamente contadina, o stanzialmente urbanizzata. L'«estero»,
per l'enorme maggioranza della popolazione, era uno scenario lontano e vago,
soprattutto per la classe media, meno assillata dal bisogno. Di fronte alla
minaccia hitleriana, la massima parte degli ebrei indigeni, in Italia, in Francia,
in Polonia, nella stessa Germania, preferì rimanere in quella che essi
sentivano come la loro «patria», con motivazioni ampiamente comuni,
e anche se con sfumature diverse da luogo a luogo.
Fu comune a tutti la difficoltà organizzativa dell'emigrazione. Erano
tempi di gravi tensioni internazionali: le frontiere europee, oggi quasi inesistenti,
erano praticamente chiuse, l'Inghilterra e le Americhe ammettevano quote di
immigrazione estremamente ridotte. Tuttavia, su questa difficoltà ne
prevaleva un'altra di natura interna, psicologica. Questo villaggio, o città,
o regione, o nazione, è il mio, ci sono nato, ci dormono i miei avi.
Ne parlo la lingua, ne ho adottato i costumi e la cultura; a questa cultura
ho forse anche contribuito. Ne ho pagato i tributi, ne ho osservato le leggi.
Ho combattuto le sue battaglie, senza curarmi se fossero giuste o ingiuste:
ho messo a rischio la mia vita per i suoi confini, alcuni miei amici o parenti
giacciono nei cimiteri di guerra, io stesso, in ossequio alla retorica corrente,
mi sono dichiarato disposto a morire per la patria. Non la voglio né
la posso lasciare: se morrò, morrò «in patria», sarà
il mio modo di morire «per la patria».
E' ovvio che questa morale, sedentaria e casalinga più che attivamente
patriottica, non avrebbe retto se l'ebraismo europeo avesse potuto antivedere
il futuro. Non che della strage mancassero i sintomi premonitori: fin dai suoi
primi libri e discorsi, Hitler aveva parlato chiaro, gli ebrei (non solo quelli
tedeschi) erano i parassiti dell'umanità, e dovevano essere eliminati
come si eliminano gli insetti nocivi. Ma, appunto, le deduzioni inquietanti
hanno vita difficile: fino all'estremo, fino alle incursioni dei dervisci nazisti
(e fascisti) di casa in casa, si trovò modo di disconoscere i segnali,
di ignorare il pericolo, di confezionare quelle verità di comodo di cui
ho parlato nelle prime pagine di questo libro.
Questo avvenne in misura maggiore in Germania che non in Italia. Gli ebrei tedeschi
erano quasi tutti borghesi ed erano tedeschi: come i loro quasi-compatrioti
«ariani» amavano la legge e l'ordine, e non solo non prevedevano,
ma erano organicamente incapaci di concepire un terrorismo di stato, anche quando
già lo avevano intorno a loro. C'è un famoso e densissimo verso
di Christian Morgenstern, bizzarro poeta bavarese (non ebreo, nonostante il
cognome), che cade qui in acconcio, anche se è stato scritto nel 1910,
nella Germania pulita proba e legalitaria descritta da J. K. Jerome in "Tre
uomini a zonzo". Un verso talmente tedesco e talmente pregnante che è
passato in proverbio, e che non può essere tradotto in italiano se non
attraverso una goffa perifrasi:
"Nicht sein kann, was nicht sein darf".
E' il sigillo di una poesiola emblematica: Palmström, un cittadino tedesco
ligio ad oltranza, viene investito da un'auto in una strada dove la circolazione
è vietata. Si rialza malconcio, e ci pensa su: se la circolazione è
vietata, i veicoli non possono circolare, "cioè" non circolano.
"Ergo", l'investimento non può essere avvenuto: è una
«realtà impossibile», una "Unmögliche Tatsache"
(è questo il titolo della poesia). Lui deve averlo soltanto sognato,
perché, appunto, «non possono esistere le cose di cui non è
moralmente lecita l'esistenza».
Bisogna guardarsi dal senno del poi e dagli stereotipi. Più in generale,
bisogna guardarsi dall'errore che consiste nel giudicare epoche e luoghi lontani
col metro che prevale nel qui e nell'oggi: errore tanto più difficile
da evitare quanto più è grande la distanza nello spazio e nel
tempo. E' questo il motivo per cui, a noi non specialisti, è così
ardua la comprensione dei testi biblici ed omerici, o anche dei classici greci
e latini. Molti europei di allora, e non solo europei, e non solo di allora,
si comportarono e si comportano come Palmström, negando l'esistenza delle
cose che non dovrebbero esistere. Secondo il senso comune, che Manzoni accortamente
distingueva dal «buon senso», l'uomo minacciato provvede, resiste
o fugge; ma molte minacce di allora, che oggi ci sembrano evidenti, a quel tempo
erano velate dall'incredulità voluta, dalla rimozione, dalle verità
consolatorie generosamente scambiate ed autocatalitiche.
Qui sorge la domanda d'obbligo: una controdomanda. Quanto sicuri viviamo noi,
uomini della fine del secolo e del millennio? e, più in particolare,
noi europei? Ci è stato detto, e non c'è motivo di dubitarne,
che per ogni essere umano del pianeta è accantonata una quantità
di esplosivo nucleare pari a tre o quattro tonnellate di tritolo; se se ne usasse
anche solo l'uno per cento, si avrebbero decine di milioni di morti subito,
e danni genetici spaventosi per tutta la specie umana, anzi, per tutta la vita
sulla terra, ad eccezione forse degli insetti. E' almeno probabile, inoltre,
che una terza guerra generalizzata, anche convenzionale, anche parziale, si
combatterebbe sul nostro territorio, fra l'Atlantico e gli Urali, fra il Mediterraneo
e l'Artico. La minaccia è diversa da quella degli anni '30: meno vicina
ma più vasta; legata, secondo alcuni, ad un demonismo della Storia, nuovo,
ancora indecifrabile, ma slegata (finora) dal demonismo umano. E' puntata contro
tutti, e quindi particolarmente «inutile».
Allora? Le paure di oggi sono meno o più fondate di quelle di allora?
Al futuro siamo ciechi, non meno dei nostri padri. Svizzeri e svedesi hanno
i rifugi antinucleari, ma che cosa troveranno quando usciranno all'aperto? C'è
la Polinesia, la Nuova Zelanda, la Terra del Fuoco, l'Antartide: forse resteranno
indenni. Avere passaporto e visti d'entrata è molto più facile
di allora: perché non partiamo, perché non lasciamo il nostro
paese, perché non fuggiamo «prima»?