LETTERE DI TEDESCHI.
"Se questo è un uomo" è un libro di dimensioni modeste,
ma, come un animale nomade, ormai da quarant'anni si lascia dietro una traccia
lunga e intricata. Era stato pubblicato una prima volta nel 1947, in 2500 copie,
che furono bene accolte dalla critica ma smerciate solo in parte: le 600 copie
residue, riposte a Firenze in un magazzino di invenduti, vi annegarono nell'alluvione
dell'autunno 1966. Dopo dieci anni di «morte apparente», ritornò
alla vita quando lo accettò l'editore Einaudi, nel 1957. Mi sono spesso
posto una domanda futile: che cosa sarebbe successo se il libro avesse avuto
subito una buona diffusione? Forse niente di particolare: è probabile
che avrei continuato la mia faticosa vita di chimico che diventava scrittore
alla domenica (e neanche tutte le domeniche); o forse invece mi sarei lasciato
abbagliare ed avrei, chissà con quale fortuna, issato le bandiere dello
scrittore in grandezza naturale. La questione, come dicevo, è oziosa:
il mestiere di ricostruire il passato ipotetico, il cosa-sarebbe-successo-se,
è altrettanto screditato quanto quello di antivedere l'avvenire.
Malgrado questa falsa partenza, il libro ha camminato. E' stato tradotto in
otto o nove lingue, adattato per la radio e per il teatro in Italia ed all'estero,
commentato in innumerevoli scuole. Del suo itinerario, una tappa è stata
per me d'importanza fondamentale: quella della sua traduzione in tedesco e della
sua pubblicazione in Germania Federale. Quando, verso il 1959, seppi che un
editore tedesco (la Fischer Bücherei) aveva acquistato i diritti per la
traduzione, mi sentii invadere da un'emozione violenta e nuova, quella di aver
vinto una battaglia. Ecco, avevo scritto quelle pagine senza pensare ad un destinatario
specifico; per me, quelle erano cose che avevo dentro, che mi invadevano e che
dovevo mettere fuori: dirle, anzi, gridarle sui tetti; ma chi grida sui tetti
si indirizza a tutti e a nessuno, chiama nel deserto. All'annuncio di quel contratto,
tutto era cambiato e mi era diventato chiaro: il libro lo avevo scritto sì
in italiano, per gli italiani, per i figli, per chi non sapeva, per chi non
voleva sapere, per chi non era ancora nato, per chi, volentieri o no, aveva
acconsentito all'offesa; ma i suoi destinatari veri, quelli contro cui il libro
si puntava come un'arma, erano loro, i tedeschi. Ora l'arma era carica.
Si ricordi, da Auschwitz erano passati solo quindici anni: i tedeschi che mi
avrebbero letto erano «quelli», non i loro eredi. Da soverchiatori,
o da spettatori indifferenti, sarebbero diventati lettori: li avrei costretti,
legati davanti ad uno specchio. Era venuta l'ora di fare i conti, di abbassare
le carte sul tavolo. Soprattutto, l'ora del colloquio. La vendetta non mi interessava;
ero stato intimamente soddisfatto dalla (simbolica, incompleta, tendenziosa)
sacra rappresentazione di Norimberga, ma mi stava bene così, che alle
giustissime impiccagioni pensassero gli altri, i professionisti. A me spettava
capire, capirli. Non il manipolo dei grandi colpevoli, ma loro, il popolo, quelli
che avevo visti da vicino, quelli tra cui erano stati reclutati i militi delle
S.S., ed anche quegli altri, quelli che avevano creduto, che non credendo avevano
taciuto, che non avevano avuto il gracile coraggio di guardarci negli occhi,
di gettarci un pezzo di pane, di mormorare una parola umana.
Ricordo molto bene quel tempo e quel clima, e credo di poter giudicare i tedeschi
di allora senza pregiudizi e senza collera. Quasi tutti, ma non tutti, erano
stati sordi, ciechi e muti: una massa di «invalidi» intorno a un
nocciolo di feroci. Quasi tutti, ma non tutti, erano stati vili. Proprio qui,
e con refrigerio, e per dimostrare quanto mi siano lontani i giudizi globali,
vorrei raccontare un episodio: è stato eccezionale, ma è pure
avvenuto.
Nel novembre del 1944 eravamo al lavoro, ad Auschwitz; io, con due compagni,
ero nel laboratorio chimico che ho descritto a suo luogo. Suonò l'allarme
aereo, e subito dopo si videro i bombardieri: erano centinaia, si prospettava
una incursione mostruosa. C'erano nel cantiere alcuni grandi bunker, ma erano
per i tedeschi, a noi erano vietati. Per noi dovevano bastare i terreni incolti,
ormai già coperti di neve, compresi entro la recinzione. Tutti, prigionieri
e civili, ci precipitammo per le scale verso le rispettive destinazioni, ma
il capo del laboratorio, un tecnico tedesco, trattenne noi "Häftlinge"-chimici:
«Voi tre venite con me». Stupiti, lo seguimmo di corsa verso il
bunker, ma sulla soglia stava un guardiano armato, con la svastica sul bracciale.
Gli disse: «Lei entra; gli altri, fuori dai piedi». Il capo rispose:
«Sono con me: o tutti o nessuno», e cercò di forzare il passaggio;
ne seguì un pugilato. Certo avrebbe avuto la meglio il guardiano, che
era robusto, ma per fortuna di tutti suonò il cessato allarme: l'incursione
non era per noi, gli aerei avevano proseguito verso nord. Se (un altro se! ma
come resistere al fascino dei sentieri che si biforcano?), se i tedeschi anomali,
capaci di questo modesto coraggio, fossero stati più numerosi, la storia
di allora e la geografia di oggi sarebbero diverse.
Non mi fidavo dell'editore tedesco. Gli scrissi una lettera quasi insolente:
lo diffidavo dal togliere o cambiare una sola parola del testo, e lo impegnavo
a mandarmi il manoscritto della traduzione a fascicoli, capitolo per capitolo,
a mano a mano che il lavoro procedeva; volevo controllarne la fedeltà,
non solo lessicale ma intima. Insieme col primo capitolo, che trovai tradotto
assai bene, mi giunse uno scritto del traduttore, in italiano perfetto. L'editore
gli aveva mostrato la mia lettera: non avevo niente da temere, né dall'editore
né tanto meno da lui. Si presentava: aveva la mia età precisa,
aveva studiato per parecchi anni in Italia, oltre che traduttore era un italianista,
studioso del Goldoni. Anche lui era un tedesco anomalo. Era stato chiamato sotto
le armi, ma il nazismo gli ripugnava; nel 1941 aveva simulato una malattia,
era stato ricoverato in ospedale, ed aveva ottenuto di trascorrere la convalescenza
putativa studiando letteratura italiana presso l'Università di Padova.
Era poi stato dichiarato rivedibile, a Padova era rimasto, e vi era venuto a
contatto coi gruppi antifascisti di Concetto Marchesi, di Meneghetti e di Pighin.
Nel settembre 1943 era venuto l'armistizio italiano, ed i tedeschi, in due giorni,
avevano occupato militarmente l'Italia del nord. Il mio traduttore si era aggregato
«naturalmente» ai partigiani padovani delle formazioni Giustizia
e Libertà, che combattevano nei Colli Euganei contro i fascisti di Salò
e contro i suoi compatrioti. Non aveva avuto dubbi, si sentiva più italiano
che tedesco, partigiano e non nazista, tuttavia sapeva che cosa rischiava: fatiche,
pericoli, sospetti e disagi; se catturato dai tedeschi (ed infatti era stato
informato che le S.S. erano sulle sue tracce), una morte atroce; inoltre, nel
suo paese, la qualifica di disertore e forse anche di traditore.
A guerra finita si stabilì a Berlino, che a quel tempo non era tagliata
in due dal muro, ma sottostava ad un complicatissimo regime di condominio dei
«Quattro Grandi» di allora (Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran
Bretagna, Francia). Dopo la sua avventura partigiana in Italia, era un perfetto
bilingue: parlava l'italiano senza traccia di accento straniero. Accettò
traduzioni: Goldoni in primo luogo, perché lo amava e perché conosceva
bene i dialetti veneti; per lo stesso motivo, il Ruzante di Agnolo Beolco, fino
allora sconosciuto in Germania; ma anche autori italiani moderni, Collodi, Gadda,
D'Arrigo, Pirandello. Non era un lavoro ben pagato, o per meglio dire, lui era
troppo scrupoloso, e quindi troppo lento, perché la sua giornata di lavoro
risultasse giustamente retribuita; tuttavia non si risolse mai ad impiegarsi
presso una casa editrice. Per due motivi: amava l'indipendenza, ed inoltre,
sottilmente, per vie traverse, i suoi trascorsi politici pesavano su di lui.
Nessuno glielo disse mai in parole aperte, ma un disertore, anche nella Germania
superdemocratica di Bonn, anche nella Berlino quadripartita, era «persona
non grata».
Tradurre "Se questo è un uomo" lo entusiasmava: il libro gli
era consono, confermava, sostanziava per contrasto il suo amore per la libertà
e la giustizia; tradurlo era un modo per continuare la sua lotta temeraria e
solitaria contro il suo paese traviato. A quel tempo eravamo tutti e due troppo
occupati per viaggiare, e nacque fra noi uno scambio di lettere frenetico. Eravamo
entrambi perfezionisti: lui, per abito professionale; io perché, quantunque
avessi trovato un alleato, ed un alleato valente, temevo che il mio testo sbiadisse,
perdesse pregnanza. Era la prima volta che incappavo nell'avventura sempre scottante,
mai gratuita, dell'essere tradotti, del vedere il proprio pensiero manomesso,
rifratto, la propria parola passata al vaglio, trasformata, o mal intesa, o
magari potenziata da qualche insperata risorsa della lingua d'arrivo.
Fin dalle prime puntate potei constatare che in realtà i miei sospetti
«politici» erano infondati: il mio partner era nemico dei nazi quanto
me, la sua indignazione non era minore della mia. Rimanevano però i sospetti
linguistici. Come ho accennato nel capitolo dedicato alla comunicazione, il
tedesco di cui il mio testo aveva bisogno, soprattutto nei dialoghi e nelle
citazioni, era molto più rozzo del suo. Lui, uomo di lettere e di raffinata
educazione, conosceva bensì il tedesco delle caserme (qualche mese di
servizio militare lo aveva pur fatto), ma ignorava forzatamente il gergo degradato,
spesso satanicamente ironico, dei campi di concentramento. Ogni nostra lettera
conteneva una lista di proposte e di controproposte, ed a volte su un singolo
termine si accendeva una discussione accanita, quale ad esempio quella che ho
descritto qui a pagina 79. Lo schema era generale: io gli indicavo una tesi,
quella che mi suggeriva la memoria acustica a cui ho accennato a suo luogo;
lui mi opponeva l'antitesi, «questo non è buon tedesco, i lettori
d'oggi non lo capirebbero»; io obiettavo che «laggiù si diceva
proprio così»; si arrivava infine alla sintesi, cioè al
compromesso. L'esperienza mi ha poi insegnato che traduzione e compromesso sono
sinonimi, ma a quel tempo io ero premuto da uno scrupolo di superrealismo; volevo
che in quel libro, ed in specie proprio nella sua veste tedesca, niente andasse
perduto di quelle asprezze, di quelle violenze fatte al linguaggio, che del
resto mi ero sforzato del mio meglio di riprodurre nell'originale italiano.
In certo modo, non si trattava di una traduzione ma piuttosto di un restauro:
la sua era, o io volevo che fosse, una "restitutio in pristinum",
una retroversione alla lingua in cui le cose erano avvenute ed a cui esse competevano.
Doveva essere, più che un libro, un nastro di magnetofono.
Il traduttore capì presto e bene, e ne risultò una traduzione
eccellente sotto ogni aspetto: della sua fedeltà potevo giudicare io
stesso, il suo livello stilistico fu lodato in seguito da tutti i recensori.
Sorse la questione della prefazione: l'editore Fischer mi chiese di scriverne
una io stesso; io esitai, poi rifiutai. Provavo un ritegno confuso, una ripugnanza,
un blocco emotivo che strozzava il flusso delle idee e dello scrivere. Mi si
chiedeva, insomma, di far seguire al libro, cioè alla testimonianza,
un appello diretto al popolo tedesco, cioè una perorazione, un sermone.
Avrei dovuto alzare il tono, salire sul podio; da teste farmi giudice, predicatore;
esporre teorie ed interpretazioni della storia; dividere i pii dagli empi; dalla
terza persona passare alla seconda. Tutti questi erano compiti che mi sorpassavano,
compiti che volentieri avrei devoluto ad altri, forse agli stessi lettori, tedeschi
e non.
Scrissi all'editore che non mi sentivo in grado di stendere una prefazione che
non snaturasse il libro, e gli proposi una soluzione indiretta: di premettere
al testo, in sede di introduzione, un brano della lettera che nel maggio 1960,
alla fine della nostra laboriosa collaborazione, avevo scritta al traduttore
per ringraziarlo della sua opera. Lo riproduco qui:
"... E così abbiamo finito: ne sono contento, e soddisfatto del
risultato, e grato a Lei, ed insieme un po' triste. Capisce, è il solo
libro che io abbia scritto, e adesso che abbiamo finito di trapiantarlo in tedesco
mi sento come un padre il cui figlio sia diventato maggiorenne, e se ne va,
e non si può più occuparsi di lui.
Ma non è solo questo. Lei forse si sarà accorto che per me il
Lager, e l'avere scritto del Lager, è stato una importante avventura,
che mi ha modificato profondamente, mi ha dato maturità ed una ragione
di vita. Forse è presunzione: ma ecco, oggi io, il prigioniero numero
174 517, per mezzo Suo posso parlare ai tedeschi, rammentare loro quello che
hanno fatto, e dire loro «sono vivo, e vorrei capirvi per giudicarvi».
Io non credo che la vita dell'uomo abbia necessariamente uno scopo definito;
ma se penso alla mia vita, ed agli scopi che finora mi sono prefissi, uno solo
ne riconosco ben preciso e cosciente, ed è proprio questo, di portare
testimonianza, di fare udire la mia voce al popolo tedesco, di «rispondere»
al Kapo che si è pulito la mano sulla mia spalla, al dottor Pannwitz,
a quelli che impiccarono l'Ultimo [si tratta di personaggi di "Se questo
è un uomo"], ed ai loro eredi.
Sono sicuro che Lei non mi ha frainteso. Non ho mai nutrito odio nei riguardi
del popolo tedesco, e se lo avessi nutrito ne sarei guarito ora, dopo aver conosciuto
Lei. Non comprendo, non sopporto che si giudichi un uomo non per quello che
è ma per il gruppo a cui gli accade di appartenere (...)
Ma non posso dire di capire i tedeschi: ora, qualcosa che non si può
capire costituisce un vuoto doloroso, una puntura, uno stimolo permanente che
chiede di essere soddisfatto. Spero che questo libro avrà qualche eco
in Germania: non solo per ambizione, ma anche perché la natura di questa
eco mi permetterà forse di capire meglio i tedeschi, di placare questo
stimolo".
L'editore accettò la mia proposta, a cui il traduttore aveva aderito con entusiasmo; perciò questa pagina costituisce l'introduzione di tutte le edizioni tedesche di "Se questo è un uomo": anzi, viene letta come parte integrante del testo. Me ne sono accorto appunto dalla «natura» della eco a cui si accenna nelle ultime righe.
Essa si materializza in una quarantina di lettere, che mi sono state scritte
da lettori tedeschi negli anni 1961-1964: a cavallo cioè della crisi
che condusse alla costruzione di quel Muro che tuttora spacca in due Berlino,
e che costituisce uno dei punti di più forte attrito nel mondo d'oggi:
l'unico, insieme con lo Stretto di Behring, in cui americani e russi si fronteggino
direttamente. Tutte queste lettere rispecchiano una lettura attenta del libro,
ma tutte rispondono, o tentano di rispondere, o negano che esista una risposta,
alla domanda implicita nell'ultimo periodo della mia lettera, se cioè
"sia possibile capire i tedeschi". Altre lettere mi sono pervenute
alla spicciolata negli anni seguenti, in coincidenza con le ristampe del libro,
ma sono tanto più scialbe quanto più sono recenti: chi scrive
sono ormai i figli ed i nipoti, il trauma non è più il loro, non
è vissuto in prima persona. Esprimono vaga solidarietà, ignoranza
e distacco. Per loro, quel passato è veramente un passato, un sentito
dire. Non sono tedesco-specifici: salvo eccezioni, i loro scritti si potrebbero
confondere con quelli che continuo a ricevere dai loro coetanei italiani, perciò
non ne terrò conto in questa rassegna.
Le prime lettere, quelle che contano, sono quasi tutte di giovani (che si dichiarano
tali, o che tali risultano dal testo) ad eccezione di una, che mi è stata
mandata nel 1962 dal Dottor T. H. di Amburgo, e che riporto per prima perché
ho fretta di liberarmene. Ne traduco i passi salienti, rispettandone la goffaggine:
"Egregio Dott. Levi,
il Suo libro è il primo fra i racconti di superstiti di Auschwitz che
sia venuto a nostra conoscenza. Ha commosso profondamente mia moglie e me. Ora,
poiché Ella, dopo tutti gli orrori che ha vissuto, si rivolge ancora
una volta al popolo tedesco «per capire», «per destare una
eco», io oso tentare una risposta. Ma non sarà che una eco; «capire»
simili cose non può nessuno! (...)
... da un uomo che non è con Dio, tutto è da temere: egli non
ha freno, non ha ritegni! E gli si addice allora l'altra parola di Genesi 8.21:
«Poiché il senno del cuore umano è malvagio fin dalla giovinezza»,
modernamente spiegata e dimostrata dalle tremende scoperte della psicoanalisi
di Freud nel campo dell'inconscio, a Lei certamente note. In ogni tempo è
avvenuto «che il Diavolo si scatenasse», senza ritegno, senza senso:
persecuzioni di ebrei e di cristiani, sterminio di popoli interi in Sud America,
degli indiani nel Nord America, dei Goti in Italia sotto Narsete, orrende persecuzioni
e massacri nel corso delle rivoluzioni francese e russa. Chi potrà «capire»tutto
questo?
Ella però aspetta certo una risposta specifica alla domanda, perché
Hitler giunse al potere, e perché noi in seguito non abbiamo scosso il
suo giogo. Ora, nel 1933 (...) tutti i partiti moderati sparirono, e non rimase
che la scelta fra Hitler e Stalin, Nazionalsocialisti e Comunisti, di forze
circa uguali. I comunisti li conoscevamo per le varie grandi rivolte avvenute
dopo la Prima Guerra. Hitler ci appariva sospetto, è vero, ma decisamente
come il minor male. Che tutte le sue belle parole fossero menzogna e tradimento,
all'inizio non ce ne accorgemmo. In politica estera, aveva un successo dopo
l'altro; tutti gli stati mantenevano con lui relazioni diplomatiche, il Papa
per primo conchiuse un concordato. Chi poteva sospettare che noi stavamo cavalcando
(sic) un criminale e un traditore? E comunque, nessuna colpa si può certo
attribuire ai traditi: solo il traditore è colpevole.
Ed ora la questione più difficile, il suo insensato odio contro gli ebrei:
ebbene, quest'odio non è mai stato popolare. La Germania contava a buon
diritto come il paese più amichevole verso gli ebrei nel mondo intero.
Mai, a quanto io so ed ho letto, durante tutto il periodo hitleriano fino alla
sua fine, mai si è saputo di un solo caso di spontaneo oltraggio od aggressione
ai danni di un ebreo. Sempre soltanto (pericolosissimi) tentativi di aiuto.
Vengo ora alla seconda questione. Ribellarsi in uno stato totalitario non è
possibile. Il mondo intero, a suo tempo, non ha potuto portare aiuto agli ungheresi.
(...) Tanto meno potemmo [resistere] noi da soli. Non va dimenticato che, oltre
a tutte le lotte per la resistenza, solo nel giorno 20 luglio 1944 migliaia
e migliaia di ufficiali furono giustiziati. Non si trattava già di «una
piccola cricca», come disse poi Hitler.
Caro Dottor Levi (così mi permetto di chiamarLa, perché chi ha
letto il Suo libro non può che averLa caro), non ho scuse, non ho spiegazioni.
La colpa grava pesantemente sul mio povero popolo tradito e sviato. Si rallegri
della vita che Le è stata ridonata, della pace e della Sua bella Patria
che anch'io conosco. Anche nel mio scaffale stanno Dante e Boccaccio.
Suo dev.mo T. H."
A questa lettera, probabilmente all'insaputa del marito, Frau H. aveva aggiunto le seguenti laconiche righe, che pure traduco letteralmente:
"Quando un popolo riconosce troppo tardi di essere diventato un prigioniero del diavolo, ne seguono alcune alterazioni psichiche.
1) Viene sollecitato quanto di male è negli uomini. Ne sono il risultato
i Pannwitz, e i Kapos che si nettano la mano sulla spalla degli inermi.
2) Ne risulta, per contro, anche la resistenza attiva contro l'ingiustizia,
che sacrificò se stessa e la sua famiglia (sic) al martirio, ma senza
successo visibile.
3) Rimane la gran massa di coloro che, per salvare la propria vita, tacciono
ed abbandonano il fratello in pericolo.
Questo noi riconosciamo come colpa nostra davanti a Dio ed agli uomini".
Ho spesso ripensato a questi strani coniugi. Lui mi sembra un esemplare tipico
della gran massa della borghesia tedesca: un nazista non fanatico ma opportunista,
pentitosi quando era opportuno pentirsi, stupido quanto basta per credere di
farmi credere alla sua versione semplificata della storia recente, e per osare
il ricorso alla rappresaglia retroattiva di Narsete e dei Goti. Lei, un po'
meno ipocrita del marito, ma più bigotta.
Ho risposto con una lunga lettera, forse la sola iraconda che io abbia mai scritto.
Che nessuna Chiesa ha indulgenza per chi segue il Diavolo, né ammette
a giustificazione l'attribuire al Diavolo le proprie colpe. Che di colpe ed
errori si deve rispondere in proprio, altrimenti ogni traccia di civiltà
sparirebbe dalla faccia della terra, come infatti era sparita nel Terzo Reich.
Che i suoi dati elettorali erano buoni per un bambino: nelle elezioni politiche
del novembre 1932, le ultime tenutesi liberamente, i nazisti avevano bensì
ottenuto 196 seggi al Reichstag, ma accanto ai comunisti, con 100 seggi, i socialdemocratici,
che non erano certo degli estremisti, ed anzi, da Stalin erano detestati, ne
avevano avuti 121. Che, soprattutto, nel mio scaffale, accanto a Dante e Boccaccio,
tengo il "Mein Kampf", la «Mia battaglia» scritta da Adolf
Hitler molti anni prima di arrivare al potere. Quell'uomo funesto non era un
traditore. Era un fanatico coerente, dalle idee estremamente chiare: non le
cambiò né le nascose mai. Chi aveva votato per lui aveva certamente
votato per le sue idee. Nulla manca, in quel libro: il sangue e il suolo, lo
spazio vitale, l'ebreo come eterno nemico, i tedeschi che impersonano «la
più alta umanità sulla terra», gli altri paesi considerati
apertamente come strumenti per il dominio tedesco. Non sono «belle parole»;
forse Hitler ne disse anche altre, ma queste non le smentì mai.
Quanto ai resistenti tedeschi, onore a loro, ma veramente i congiurati del 20
luglio 1944 si erano messi in azione un po' troppo tardi. Scrissi infine:
"La Sua affermazione più audace è quella che riguarda l'impopolarità
dell'antisemitismo in Germania. Era il fondamento del verbo nazista, fin dai
suoi inizi: era di natura mistica, gli ebrei non potevano essere «il popolo
eletto da Dio» dal momento che tali erano i tedeschi. Non c'è pagina
né discorso di Hitler in cui l'odio contro gli ebrei non venga ribadito
fino all'ossessione. Non era marginale al nazismo: ne era il centro ideologico.
E allora: come poteva il popolo «più amichevole verso gli ebrei»
votare il partito, ed osannare l'uomo, che definivano gli ebrei i primi nemici
della Germania, e obiettivo primo della loro politica «strozzare l'idra
giudaica»?
Quanto agli oltraggi ed alle aggressioni spontanee, la Sua stessa frase è
oltraggiosa. Davanti ai milioni di morti, mi pare ozioso e odioso discutere
se si sia o no trattato di persecuzioni spontanee: del resto, i tedeschi hanno
poca inclinazione per la spontaneità, Ma Le posso ricordare che nessuno
obbligava gli industriali tedeschi ad assumere schiavi affamati se non il loro
profitto; che nessuno costrinse la ditta Topf (oggi fiorente in Wiesbaden) a
costruire gli enormi crematori multipli dei Lager; che forse alle S.S. veniva
ordinato di uccidere gli ebrei, ma l'arruolamento nelle S.S. era volontario;
che io stesso ho trovato a Katowice, dopo la liberazione, pacchi e pacchi di
moduli in cui si autorizzavano i capifamiglia tedeschi a prelevare gratis abiti
e scarpe per adulti e "per bambini" dai magazzini di Auschwitz; nessuno
si domandava da dove venissero tante scarpe per bambini? E non ha mai sentito
parlare di una certa Notte dei Cristalli? o pensa che ogni singolo delitto commesso
quella notte fosse stato imposto per forza di legge?
Che tentativi di aiuto ci siano stati, lo so, e so che erano pericolosi; così
pure, essendo vissuto in Italia, so «che ribellarsi in uno stato totalitario
è impossibile»; ma so che esistono mille modi, molto meno pericolosi,
di manifestare la propria solidarietà con l'oppresso, che questi furono
frequenti in Italia, anche dopo l'occupazione tedesca, e che nella Germania
di Hitler essi vennero messi in atto troppo di rado".
Le altre lettere sono molto diverse: delineano un mondo migliore. Devo però
ricordare che, anche con la miglior volontà di assolvere, non si possono
considerare un «campione rappresentativo» del popolo tedesco di
allora. In primo luogo, quel mio libro è stato pubblicato in qualche
decina di migliaia di copie, e letto quindi forse dall'uno per mille dei cittadini
della Repubblica Federale: pochi lo avranno comprato per caso, gli altri perché
erano in qualche modo predisposti alla collisione coi fatti, sensibilizzati,
permeabili. Di questi lettori, solo una quarantina, come ho accennato, si sono
decisi a scrivermi.
In quarant'anni di esercizio, mi sono ormai familiarizzato con questo personaggio
singolare, il lettore che scrive all'autore. Può appartenere a due costellazioni
ben distinte, una gradita, l'altra incresciosa; i casi intermedi sono rari.
I primi dànno gioia e insegnano. Hanno letto il libro con attenzione,
spesso più di una volta; l'hanno amato e capito, a volte meglio dell'autore
stesso; se ne dichiarano arricchiti; espongono con nitidezza il loro giudizio,
a volte le loro critiche; ringraziano lo scrittore per la sua opera; spesso
lo esonerano esplicitamente da una risposta. I secondi dànno noia e fanno
perdere tempo. Si esibiscono; ostentano meriti; spesso hanno manoscritti nel
cassetto, e lasciano trapelare l'intento di arrampicarsi sul libro e sull'autore
come fa l'edera sui tronchi; od anche, sono bambini o adolescenti che scrivono
per bravata, per scommessa, per conquistare un autografo. I miei quaranta corrispondenti
tedeschi, a cui dedico con riconoscenza queste pagine, appartengono tutti (salvo
il signor T. H. già citato, che è un caso a sé) alla prima
costellazione.
L. I. è bibliotecaria in Vestfalia; confessa di aver avuto la tentazione violenta di chiudere il libro a metà lettura «per sottrarsi alle immagini che vi sono evocate», ma di essersi subito vergognata per questo impulso egoistico e vile. Scrive:
"Nella prefazione, Lei esprime il desiderio di capire noi tedeschi. Lei deve credere quando Le diciamo che noi stessi non sappiamo concepire noi stessi né quanto abbiamo fatto. Siamo colpevoli. Io sono nata nel 1922, sono cresciuta in Alta Slesia, non lontano da Auschwitz, ma a quel tempo, in verità, non ho saputo nulla (La prego, non consideri questa affermazione come una comoda scusa, ma come un dato di fatto) delle cose atroci che si stavano commettendo, addirittura a pochi chilometri da noi. Eppure, almeno fino allo scoppiare della guerra, mi è accaduto di incontrare qua e là persone con la stella ebraica, ed io non le ho accolte in casa, non le ho ospitate come avrei fatto con altri, non sono intervenuta in loro favore. La mia colpa è questa. Posso adattarmi a questa mia terribile leggerezza, viltà ed egoismo solo contando sulla remissione cristiana".
Dice inoltre di far parte di «Aktion Sühnezeichen» («Azione
espiatoria»), una associazione evangelica di giovani che trascorrono le
vacanze all'estero, a ricostruire le città più gravemente danneggiate
dalla guerra tedesca (lei è stata a Coventry). Non dice nulla dei suoi
genitori, ed è un sintomo: o sapevano, e non parlarono con lei; o non
sapevano, ed allora non avevano parlato con loro quelli che certamente «laggiù»
sapevano, i ferrovieri delle tradotte, i magazzinieri, le migliaia di lavoratori
tedeschi delle fabbriche e delle miniere in cui faticavano a morte gli operai-schiavi,
chiunque insomma non si coprisse gli occhi con la mano. Lo ripeto: la colpa
vera, collettiva, generale, di quasi tutti i tedeschi di allora, è stata
quella di non aver avuto il coraggio di parlare.
M. S., di Francoforte, non dice nulla di sé e cerca cautamente distinzioni
e giustificazioni: anche questo è un sintomo.
"... Ella scrive di non capire i tedeschi (...) Come tedesco, sensibile
all'orrore ed alla vergogna, e che sarà consapevole fino alla fine dei
suoi giorni che l'orrore stesso ha avuto luogo per mano di uomini del suo paese,
mi sento chiamato in causa dalle Sue parole, e desidero rispondere.
Neppure io capisco uomini come quel Kapo che si pulì la mano sulla Sua
spalla, come Pannwitz, come Eichmann, e come tutti gli altri che eseguirono
ordini disumani senza rendersi conto che non si può eludere la propria
responsabilità nascondendosi dietro quella degli altri. Che in Germania
ci siano stati tanti esecutori materiali di un sistema criminoso, e che tutto
questo abbia potuto avvenire proprio grazie al grande numero delle persone a
ciò disposte, di tutto questo chi, in quanto tedesco, potrebbe non provare
afflizione?
Ma sono costoro «i tedeschi»? ed è lecito, comunque, parlare
come di una entità unitaria «dei tedeschi», o «degli
inglesi», o «degli italiani», o «degli ebrei»?
Ella ha citato delle eccezioni ai tedeschi che Lei non capisce (...): La ringrazio
per queste Sue parole, ma La prego di ricordare che innumerevoli tedeschi hanno
sofferto e sono morti nella lotta contro l'iniquità (…)
Vorrei con tutto il cuore che molti dei miei connazionali leggessero il Suo
libro, affinché noi tedeschi non diventiamo pigri ed indifferenti, ma
anzi, rimanga desta in noi la consapevolezza di quanto in basso possa cadere
l'uomo che si fa tormentatore del suo simile. Se così avverrà,
il Suo libro potrà contribuire a che tutto questo non si ripeta".
A M. S. ho risposto con perplessità: con la stessa perplessità, del resto, che ho provato nel rispondere a tutti questi cortesi e civili interlocutori, membri del popolo che ha sterminato il mio (e molti altri). Si tratta, in sostanza, dello stesso imbarazzo dei cani studiati dai neurologi, condizionati a reagire in un modo al cerchio ed in un altro al quadrato, quando il quadrato si arrotondava e cominciava ad assomigliare a un cerchio: i cani si bloccavano o davano segni di nevrosi. Gli ho scritto, fra l'altro:
"Sono d'accordo con Lei: è pericoloso, è illecito, parlare
dei «tedeschi», o di qualsiasi altro popolo, come di un'entità
unitaria, non differenziata, e accomunare tutti i singoli in un giudizio. Eppure
non mi sento di negare che uno spirito di ogni popolo esiste (altrimenti, non
sarebbe un popolo); una Deutschtum, una italianità, una hispanidad: sono
somme di tradizioni, abitudini, storia, lingua, cultura. Chi non sente in sé
questo spirito, che è nazionale nel miglior senso della parola, non solo
non appartiene per intero al suo popolo, ma neppure è inserito nella
civiltà umana. Perciò, mentre ritengo insensato il sillogismo
«tutti gli italiani sono passionali; tu sei italiano; perciò tu
lo sei», credo invece lecito, entro certi limiti, attendersi dagli italiani
nel loro complesso, o dai tedeschi, eccetera, un determinato comportamento collettivo
a preferenza di un altro. Vi saranno certamente eccezioni individuali, ma una
previsione prudente, probabilistica, a mio parere è possibile (...)
... Sarò sincero con Lei: nella generazione che ha superato i 45 anni,
quanti sono i tedeschi veramente consapevoli di quanto è avvenuto in
Europa nel nome della Germania? A giudicare dall'esito sconcertante di alcuni
processi, temo siano pochi: insieme con voci accorate e pietose, ne odo altre
discordi, stridule, troppo fiere della potenza e ricchezza della Germania d'oggi".
I. J., di Stoccarda, è una assistente sociale. Mi dice:
"Che Lei abbia potuto far sì che dai Suoi scritti non trapeli un
odio irremissibile contro noi tedeschi, è veramente un miracolo, e ci
deve indurre a vergogna. Di questo La vorrei ringraziare. Ci sono purtroppo
fra noi ancora molti che rifiutano di credere che noi tedeschi abbiamo realmente
commesso tali disumani orrori contro il popolo ebreo. Naturalmente, questo rifiuto
scaturisce da molti motivi diversi, magari anche solo dal fatto che l'intelletto
del cittadino medio non accetta di ritenere possibile una malvagità così
profonda tra noi, «cristiani occidentali».
E' bene che il Suo libro sia stato pubblicato qui, e possa così portare
luce a molti giovani. Potrà anche essere messo nelle mani di alcuni anziani,
forse; ma per fare questo, nella nostra «Germania dormiente», occorre
un certo coraggio civile".
Le ho risposto:
"... che io non provi odio verso i tedeschi, stupisce molti, e non dovrebbe. In realtà, io comprendo l'odio, ma unicamente «ad personam.». Se fossi un giudice, pur reprimendo l'odio che dovessi sentire in me, non esiterei ad infliggere le pene più gravi, o anche la morte, ai molti colpevoli che ancora oggi vivono indisturbati in terra tedesca, o in altri paesi di sospetta ospitalità; ma avrei orrore se un solo innocente dovesse essere punito per una colpa non commessa".
W. A., medico, scrive dal Württemberg:
"Per noi tedeschi, che portiamo il grave peso del nostro passato, e (Dio lo sa!) del nostro avvenire, il Suo libro è più di un racconto commovente: è un aiuto. E' un orientamento, per il quale La ringrazio. Nulla posso dire a nostra discolpa; né credo che la colpa ("questa" colpa!) sia facile ad estinguersi (...) Per quanto io cerchi di staccarmi dal malo spirito del passato, rimango pur sempre un membro di questo popolo, che io amo, e che nel corso dei secoli ha partorito in ugual misura opere di nobile pace ed altre piene di pericolo demoniaco. In questo convergere di tutti i tempi della nostra storia, io sono cosciente di trovarmi implicato nella grandezza e nella colpa del mio popolo. Sto perciò davanti a Lei come un complice di chi fece violenza al Suo destino ed al destino del Suo popolo".
W. G. è nato nel 1935 a Brema; è storico e sociologo, militante nel partito socialdemocratico:
"... alla fine della guerra ero ancora un bambino; non mi posso addossare alcuna parte di colpa per i delitti spaventosi commessi dai tedeschi; eppure ne provo vergogna. Odio i criminali che fecero soffrire Lei ed i Suoi compagni, e odio i loro complici, molti dei quali sono ancora in vita. Lei scrive di non saper comprendere i tedeschi. Se intende alludere ai carnefici ed ai loro aiutanti, allora anch'io non riesco a comprenderli: ma spero che avrò la forza di combatterli, se si presentassero di nuovo alla ribalta della storia. Ho parlato di «vergogna»: intendevo esprimere questo sentimento, che quanto a quel tempo è stato perpetrato per mano tedesca, non avrebbe mai dovuto avvenire, né mai avrebbe dovuto essere approvato da altri tedeschi".
Con H. L., bavarese, studentessa, le cose si sono complicate. Mi ha scritto
una prima volta nel 1962; la sua lettera era singolarmente viva, sciolta dalla
tetraggine plumbea che caratterizza quasi tutte le altre, anche le meglio intenzionate.
Riteneva che io mi aspettassi «una eco» soprattutto dalle persone
importanti, ufficiali, non da una ragazza, ma «si sente chiamata in causa,
come erede e complice». E' soddisfatta dell'educazione che riceve a scuola,
e di quanto le è stato insegnato sulla storia recente del suo paese,
ma non è sicura «che un giorno la mancanza di misura che è
propria ai tedeschi non prorompa nuovamente, sotto altra veste e diretta ad
altri scopi». Deplora che i suoi coetanei rifiutino la politica «come
qualcosa di sporco». E' insorta in modo «violento ed incomposto»
contro un prete che sparlava degli ebrei, e contro la sua insegnante di russo,
una russa, che attribuiva agli ebrei la colpa della rivoluzione di ottobre,
e considerava la strage hitleriana come una giusta punizione. In quei momenti,
ha provato «una indicibile vergogna di appartenere al più barbarico
dei popoli». «Pure al di fuori di ogni misticismo o superstizione»,
è convinta «che noi tedeschi non sfuggiremo alla giusta punizione
per quanto abbiamo commesso». Si sente in qualche modo autorizzata, anzi
tenuta, ad affermare «che noi, figli di una generazione carica di colpa,
ne siamo pienamente consapevoli, e cercheremo di alleviare gli orrori e i dolori
di ieri per evitare che si ripetano domani».
Poiché mi è sembrata una interlocutrice intelligente, spregiudicata
e «nuova», le ho scritto chiedendole notizie più precise
sulla situazione della Germania di allora (era l'epoca di Adenauer); quanto
al suo timore di una «giusta punizione» collettiva, ho cercato di
convincerla che una punizione, se è collettiva, non può essere
giusta, e viceversa. Mi ha spedito a volta di corriere una cartolina, in cui
mi diceva che le mie domande richiedevano un certo lavoro di ricerca; avessi
pazienza, mi avrebbe risposto in modo esauriente appena possibile.
Venti giorni dopo ho ricevuto un sua lettera di 23 facciate: una tesi di laurea,
insomma, compilata grazie ad un frenetico lavoro di interviste fatte di persona,
per telefono e per lettera. Anche questa brava ragazza, seppure a fin di bene,
era dunque propensa alla "Masslosigkeit", alla mancanza di misura
da lei stessa denunciata, ma si scusava, con comica sincerità: «avevo
poco tempo, perciò molte cose che avrei potuto dire più in breve
sono rimaste com'erano». Non essendo io "masslos", mi limito
a riassumere, ed a citare i passi che mi sembrano più significativi.
"... amo il paese dove sono cresciuta, adoro mia madre, ma non riesco a provare simpatia per il tedesco in quanto particolare tipo umano: forse perché mi appare ancora troppo segnato da quelle qualità che nel recente passato si sono manifestate con tanto vigore, ma forse anche perché detesto in esso me stessa, riconoscendomi a lui simile come essenza".
Ad una mia domanda sulla scuola, risponde (con documenti) che l'intero corpo insegnante era stato a suo tempo passato al setaccio della «denazificazione», voluta dagli alleati, ma condotta in modo dilettantesco ed ampiamente sabotata; né avrebbe potuto essere altrimenti: si sarebbe dovuto mettere al bando un'intera generazione. Nelle scuole la storia recente viene insegnata, ma si parla poco di politica; il passato nazista affiora qua e là, in toni vari: pochi docenti se ne gloriano, pochi lo nascondono, pochissimi se ne dichiarano immuni. Un giovane insegnante le ha dichiarato:
"Gli allievi si interessano molto a questo periodo, ma passano subito all'opposizione se si parla loro di una colpa collettiva della Germania. Molti anzi affermano di averne abbastanza dei «mea culpa» della stampa e dei loro insegnanti".
H. L. commenta:
"... proprio dalla resistenza dei ragazzi contro il «mea culpa» si può riconoscere che per loro il problema del Terzo Reich è tuttora altrettanto irrisolto, irritante e tipicamente tedesco, quanto per tutti coloro che lo hanno vissuto prima di loro. Solo quando questa emotività sarà cessata sarà possibile ragionare in modo obiettivo".
Altrove, parlando della sua stessa esperienza, H. L. scrive (assai plausibilmente):
"I professori non evitavano i problemi; al contrario, dimostravano, documentandoli con giornali dell'epoca, i metodi di propaganda dei nazisti. Raccontavano come, da giovani, avevano seguito il nuovo movimento senza critiche e con entusiasmo: delle adunate giovanili, delle organizzazioni sportive eccetera. Noi studenti li attaccavamo vivacemente, a torto, come oggi penso: come si può accusarli di aver capito la situazione, e previsto l'avvenire, peggio degli adulti? E noi, al loro posto, avremmo smascherato meglio di loro i metodi satanici con cui Hitler conquistò la gioventù per la sua guerra?"
Si noti: la giustificazione è la stessa addotta dal dottor T. H. di
Amburgo, e del resto nessun testimone del tempo ha negato a Hitler una veramente
demoniaca virtù di persuasore, la stessa che lo favoriva nei suoi contatti
politici. La si può accettare dai giovani, che comprensibilmente cercano
di discolpare l'intera generazione dei loro padri; non dagli anziani compromessi,
e falsamente penitenti, che cercano di circoscrivere la colpa ad un uomo solo.
H. L. mi ha mandato molte altre lettere, suscitando in me reazioni bìfide.
Mi ha descritto suo padre, un musicista irrequieto, timido e sensibile, morto
quando lei era bambina: in me cercava un padre? Oscillava fra la serietà
documentaria e la fantasia infantile. Mi ha mandato un caleidoscopio, ed insieme
mi ha scritto:
"Anche di Lei mi sono costruita una immagine ben definita: è Lei, sfuggito ad un destino terribile (perdoni il mio ardire), che si aggira per il nostro paese, ancora straniero, come in un brutto sogno. E penso che dovrei cucirLe un vestito come quello che indossano gli eroi nelle leggende, che La protegga contro tutti i pericoli del mondo".
Non mi ravvisavo in questa immagine, ma non gliel'ho scritto. Le ho risposto che questi abiti non si possono regalare: ognuno deve tesserli e cucirli per se stesso. H. L. mi ha spedito i due romanzi di Heinrich Mann del ciclo "Enrico Quarto", che purtroppo non ho mai trovato tempo di leggere; io le ho fatto avere la traduzione tedesca di "La tregua", che era comparsa nel frattempo. Nel dicembre 1964, da Berlino dove si era trasferita, mi ha mandato un paio di gemelli da polsino d'oro, che aveva fatti fare da una sua amica orefice. Non ho avuto cuore di restituirglielì; l'ho ringraziata, ma l'ho pregata di non mandarmi altro. Spero sinceramente di non avere offesa questa persona intimamente gentile; spero che abbia compreso il motivo della mia difesa. Da allora non ho più avuto sue notizie.
Ho lasciato per ultimo lo scambio di lettere con la signora Hety S. di Wiesbaden,
mia coetanea, perché costituìsce un episodio a sé stante,
sia come qualità, sia come quantità. Da sola, la mia cartella
«H.S.» è più voluminosa di quella in cui conservo
tutte le altre «lettere di tedeschi». La nostra corrispondenza si
protrae per sedici anni, dall'ottobre 1966 al novembre 1982. Contiene, oltre
ad una cinquantina di sue lettere (spesso di quattro o più facciate)
con le mie risposte, anche le veline di almeno altrettante lettere da lei scritte
ai suoi figli, ad amici, ad altri scrittori, a editori, ad enti locali, a giornali
o riviste, e di cui ha ritenuto importante mandarmi copia; inoltre, ritagli
di giornali e recensioni di libri. Alcune delle sue lettere sono «circolari»:
mezza pagina è in fotocopia, uguale per vari corrispondenti, il resto,
bianco, è riempito a mano con le notizie o le domande più personali.
La signora Hety mi scriveva in tedesco e non conosceva l'italiano; le ho risposto
inizialmente in francese, poi mi sono reso conto che capiva con difficoltà
e per molto tempo le ho scritto in inglese. Più tardi, col suo divertito
consenso, le ho scritto nel mio tedesco incerto, in duplice copia; lei me ne
restituiva una, con le sue correzioni «ragionate». Ci siamo incontrati
solo due volte: a casa sua, durante un mio frettoloso viaggio d'affari in Germania,
ed a Torino, durante una sua vacanza altrettanto frettolosa. Non sono stati
incontri importanti: le lettere contano molto di più.
Anche la sua prima lettera traeva spunto dalla questione del «capire»,
ma aveva un piglio energico e risentito che la distingueva da tutte le altre.
Il mio libro le era stato donato da un amico comune, lo storico Hermann Langbein,
molto tardi, quando già la prima edizione era esaurita. Come assessore
alla Cultura presso un Governo regionale, lei stava cercando di farlo ristampare
subito, e mi scriveva:
"A capire «i tedeschi», di sicuro Lei non ci riuscirà mai: non ci riusciamo neppure noi, poiché a quel tempo sono successe cose che mai, a nessun prezzo, avrebbero dovuto succedere. Ne è seguito che per molti fra noi parole come «Germania» e «Patria» hanno perduto per sempre il significato che un tempo avevano: il concetto di «patria» per noi si è estinto (...) Ciò che assolutamente non ci è lecito, è dimenticare. Per questo sono importanti per la nuova generazione i libri come il Suo, che descrivono in modo così umano l'inumano (...) Forse Lei non si rende conto appieno di quante cose uno scrittore può implicitamente esprimere su se stesso - e pertanto sull'Uomo in generale. Proprio questo conferisce peso e valore ad ogni capitolo del Suo libro. Più che tutto, mi hanno sconvolto le Sue pagine sul laboratorio della Buna: era dunque questo il modo in cui voi prigionieri vedevate noi liberi!"
Poco oltre, racconta di un prigioniero russo che in autunno le portava il carbone
in cantina. Parlargli era proibito: lei gli infilava in tasca cibo e sigarette,
e lui, per ringraziare, gridava: «Heil Hitler!» Non le era proibito
invece (che labirinto di gerarchie e di divieti differenziali doveva essere
la Germania di allora! anche le «lettere di tedeschi», e le sue
in specie, dicono più di quanto non paia) parlare con una giovane operaia
«volontaria» francese: lei la prelevava dal suo campo, se la portava
a casa, la conduceva perfino a qualche concerto. La ragazza, in campo, non poteva
lavarsi bene, e aveva i pidocchi. Hety non osava dirglielo, provava disagio,
e si vergognava del suo disagio.
A questa sua prima lettera ho risposto che il mio libro aveva bensì destato
risonanza in Germania, ma proprio fra i tedeschi che avevano meno bisogno di
leggerlo: mi avevano scritto lettere di pentimento gli innocenti, non i colpevoli.
Questi, come è comprensibile, tacevano.
Nelle sue lettere successive, a poco a poco, nel suo modo indiretto, Hety (la
chiamerò così per semplicità, sebbene al «tu»
non siamo mai arrivati) mi ha fornito un ritratto di se stessa. Suo padre, pedagogista
di professione, era un attivista socialdemocratico fin dal 1919; nel '33, l'anno
in cui Hitler salì al potere, perse subito l'impiego, si susseguirono
perquisizioni e difficoltà economiche, la famiglia si dovette trasferire
in un alloggio più piccolo. Nel '35 Hety fu espulsa dal liceo perché
aveva rifiutato di entrare nell'organizzazione giovanile hitleriana. Sposò
nel '38 un ingegnere della I.G. Farben (di qui il suo interesse per «il
laboratorio di Buna»!) da cui ebbe subito due figli. Dopo l'attentato
a Hitler del 20 luglio 1944, suo padre fu deportato a Dachau, ed il matrimonio
entrò in crisi perché il marito, pur non essendo iscritto al partito,
non tollerava che Hety mettesse in pericolo se stessa, lui e i figli per «fare
quello che andava fatto», cioè per portare ogni settimana un po'
di cibo ai cancelli del campo in cui il padre era prigioniero:
"... a lui sembrava che i nostri sforzi fossero assolutamente insensati. Tenemmo una volta un consiglio di famiglia per vedere se ci fossero possibilità di dare un aiuto a mio padre, e se sì quali; ma lui disse soltanto: «Mettetevi il cuore in pace: non lo vedrete più»".
Invece, a guerra finita il padre tornò, ma era ridotto ad uno spettro (morì pochi anni dopo). Hety, assai legata a lui, si sentì in dovere di proseguire l'attività nel rinnovato partito socialdemocratico; il marito non era d'accordo, vi fu una lite, e lui chiese ed ottenne il divorzio. La sua seconda moglie era una profuga dalla Prussia Orientale che, per via dei due figli, mantenne discreti rapporti con Hety. Le disse una volta, a proposito del padre, di Dachau e dei Lager:
"Non avertene a male se io non sopporto di leggere o di ascoltare queste tue cose. Quando abbiamo dovuto scappare, è stato tremendo; e la cosa peggiore è stata che abbiamo dovuto prendere la strada per cui erano stati evacuati prima i prigionieri di Auschwitz. La via era fra due siepi di morti. Vorrei dimenticare quelle immagini e non posso: continuo a sognarle".
Il padre era appena ritornato quando Thomas Mann, alla radio, parlò di Auschwitz, del gas e dei crematori.
"Ascoltammo tutti con turbamento e tacemmo a lungo. Papà andava su e giù, taciturno, imbronciato, finché io gli chiesi: «Ma ti pare possibile, che si avveleni la gente col gas, la si bruci, che si utilizzino i loro capelli, la pelle, i denti?» E lui, che pure veniva da Dachau, rispose: «No, non è pensabile. Un Thomas Mann non dovrebbe dar fede a questi orrori». Eppure era tutto vero: poche settimane dopo ne abbiamo avuto le prove e ce ne siamo convinti".
In un'altra sua lunga lettera mi aveva descritto la loro vita nella «emigrazione interna»:
"Mia madre aveva una carissima amica ebrea. Era vedova e viveva sola, i figli erano emigrati, ma lei non si risolveva a lasciare la Germania. Anche noi eravamo dei perseguitati, ma «politici»: per noi era diverso, ed abbiamo avuto fortuna nonostante i molti pericoli. Non dimenticherò la sera in cui quella donna venne da noi, al buio, per dirci: «Vi prego, non venite più a cercarmi, e scusatemi se io non vengo da voi. Capite, vi metterei in pericolo...» Naturalmente abbiamo continuato a visitarla, finché non fu deportata a Theresienstadt. Non l'abbiamo più rivista, e per lei non abbiamo «fatto» niente: che cosa avremmo potuto fare? Eppure il pensiero che non si potesse fare nulla ci tormenta ancora: La prego, cerchi di comprendere".
Mi ha raccontato di aver assistito nel 1967 al processo per l'Eutanasia. Uno degli imputati, un medico, aveva dichiarato in giudizio che gli era stato ordinato di iniettare personalmente il veleno ai malati mentali, e che lui aveva rifiutato per coscienza professionale; per contro, manovrare il rubinetto del gas gli era sembrato poco gradevole, ma insomma tollerabile. Tornata a casa, Hety trova la donna delle pulizie, una vedova di guerra, intenta al suo lavoro, e il figlio che sta cucinando. Tutti e tre si siedono a tavola, e lei racconta al figlio quanto ha visto e sentito al processo. Ad un tratto,
"... la donna ha posato la forchetta ed è intervenuta aggressivamente: «A cosa servono tutti questi processi che fanno adesso? Cosa potevano farci, i nostri poveri soldati, se gli davano quegli ordini? Quando mio marito è venuto in licenza dalla Polonia, mi ha raccontato: 'Non abbiamo fatto quasi niente altro che fucilare ebrei: sempre fucilare ebrei. A furia di sparare, il braccio mi faceva male'. Ma che cosa poteva fare, se gli avevano dato quegli ordini?» (...) L'ho licenziata, reprimendo la tentazione di congratularmi con lei per il suo povero marito caduto in guerra... Ecco, vede, qui in Germania viviamo ancor oggi in mezzo a persone di questo genere".
Hety ha lavorato per molti anni presso il Ministero della Cultura del Land
Hessen (Assia): era una funzionaria diligente ma irruente, autrice di recensioni
polemiche, organizzatrice «appassionata» di convegni ed incontri
con i giovani, altrettanto appassionata alle vittorie e sconfitte del suo partito.
Dopo il pensionamento, avvenuto nel 1978, la sua vita culturale si è
ancora arricchita: mi ha scritto di viaggi, di letture, di stages linguistici.
Soprattutto, e per tutta la sua vita, è stata avida, addirittura famelica,
di incontri umani: quello, duraturo e fecondo, con me, è stato solo uno
dei tanti. «Il mio destino mi spinge verso gli uomini con un destino»,
mi ha scritto una volta: ma non era il destino a spingerla, era una vocazione.
Li cercava, li trovava, li metteva in contatto fra loro, curiosissima dei loro
incontri o scontri. E' stata lei a dare a me l'indirizzo di Jean Améry
e il mio a lui, ma ad una condizione: che entrambi le mandassimo le veline delle
lettere che ci saremmo scambiate (lo abbiamo fatto). Ha avuto una parte importante
anche nel rimettermi sulle tracce di quel dottor Müller, chimico ad Auschwitz,
e poi mio fornitore di prodotti chimici e penitente, di cui ho parlato nel capitolo
"Vanadio" del "Sistema periodico": era stato collega del
suo ex marito. Anche del «dossier Müller» ha chiesto, a buon
diritto, le veline; ha poi scritto lettere intelligenti a lui su di me ed a
me su di lui, incrociando doverosamente le «copie per conoscenza».
In una sola occasione abbiamo (o almeno, io ho) percepito una divergenza. Nel
1966 era stato rilasciato Albert Speer dal carcere interalleato di Spandau.
Come è noto, era stato l'«architetto di corte» di Hitler,
ma nel 1943 era stato nominato ministro dell'industria di guerra; in quanto
tale, era in buona parte responsabile dell'organizzazione delle fabbriche in
cui "noi" morivamo di fatica e di fame. A Norimberga era stato il
solo fra gli imputati a dichiararsi colpevole, anche per le cose che non aveva
saputo; anzi, appunto per non aver voluto saperle. Fu condannato a vent'anni
di reclusione, che impiegò a scrivere le sue memorie carcerarie, pubblicate
in Germania nel 1975. Hety dapprima esitò, poi le lesse, e ne fu profondamente
turbata. Chiese a Speer un colloquio, che durò due ore; gli lasciò
il libro di Langbein su Auschwitz ed una copia di "Se questo è un
uomo", dicendogli che era tenuto a leggerli. Lui le diede una copia dei
suoi "Diari di Spandau" (Mondadori, Milano 1976) perché Hety
me la spedisse.
Ho ricevuto e letto questi diari, che portano il segno di una mente coltivata
e lucida e di un ravvedimento che sembra sincero (ma un uomo intelligente sa
simulare). Speer ne traspare come un personaggio shakespeariano, dalle ambizioni
sconfinate, tali da accecarlo e da infettarlo, ma non un barbaro né un
vile né un servo. Di questa lettura avrei fatto volentieri a meno, perché
per me giudicare è doloroso; in specie uno Speer, un uomo non semplice,
e un colpevole che aveva pagato. Scrissi a Hety, con una traccia di irritazione:
«Che cosa l'ha spinta da Speer? La curiosità? Un senso del dovere?
Una 'missione'»?
Mi rispose:
"Spero che Lei abbia preso il dono di quel libro nel suo senso giusto. Giusta è anche la Sua domanda. Volevo vederlo in faccia: vedere com'è fatto un uomo che si è lasciato plagiare da Hitler, e che è diventato una sua creatura. Dice, ed io gli credo, che per lui la strage di Auschwitz è un trauma. E' ossessionato dalla domanda di come lui abbia potuto «non voler vedere né sapere», insomma rimuovere tutto. Non mi pare che cerchi giustificazioni; anche lui vorrebbe capire quanto, anche per lui, capire è impossibile. Mi è parso un uomo che non falsifica, che lotta lealmente, e si tormenta sul suo passato. Per me, è diventato «una chiave»: è un personaggio simbolico, il simbolo del traviamento tedesco. Ha letto con estrema pena il libro di Langbein, e mi ha promesso di leggere anche il Suo. La terrò informato sulle sue reazioni".
Queste reazioni, con mio sollievo, non sono mai venute: se avessi dovuto (come è usanza fra persone civili) rispondere ad una lettera di Albert Speer, avrei avuto qualche problema. Nel 1978, scusandosi con me per la disapprovazione che aveva fiutato nelle mie lettere, Hety ha visitato Speer una seconda volta, e ne è tornata delusa. Lo ha trovato senile, egocentrico, tronfio, e stupidamente fiero dei suo passato di architetto faraonico. Dopo di allora, la sostanza delle nostre lettere si è andata spostando verso temi più allarmanti perché più attuali: l'affare Moro, la fuga di Kappler, la morte simultanea dei terroristi della banda Baader-Meinhof nel supercarcere di Stammheim. Lei tendeva a credere alla tesi ufficiale del suicidio; io dubitavo. Speer è morto nel 1981, e Hety, improvvisamente, nel 1983.
La nostra amicizia, quasi esclusivamente epistolare, è stata lunga e
fruttuosa, spesso allegra; strana, se penso all'enorme differenza fra i nostri
itinerari umani ed alla lontananza geografica e linguistica, meno strana se
riconosco che è stata lei, fra tutti i miei lettori tedeschi, la sola
«con le carte in regola», e quindi non invischiata in sensi di colpa;
e che la sua curiosità è stata ed è la mia, e si è
arrovellata sugli stessi temi che ho discussi in questo libro.