LA COLPA DI DIMENTICARE
di Paolo Flores d'Arcais.
E' nozione comune, dopo Freud, che l'uomo possieda una spinta a dimenticare,
non sapere, rimuovere, ogniqualvolta la conoscenza o il ricordo siano scomodi,
rischiosi, inquietanti. Si rimuove per difendersi, ma con ciò si rischia
anche, poiché il rifiuto della lucidità è promessa di nevrosi.
L'uomo contemporaneo coltiva la rimozione con grande impegno. E, da ultimo,
sembra deciso a spingersi oltre: a rivendicare la rimozione quale «diritto».
Questo, forse, il significato del voto con cui la maggioranza del popolo austriaco
ha eletto a presidente il signor Waldheim. Proprio "perché"
sospetto di trascorsi nazisti.
Il «diritto» a dimenticare, rimuovere, non dover portarsi dietro,
nel proprio vissuto quotidiano, la lucida consapevolezza di un passato scomodo,
è l'assurda scelta oggi prevalente non solo in Austria ma in gran parte
d'Europa. L'ultimo lavoro di Primo Levi, allora, deve intanto essere salutato
come possibile straordinario antidoto contro questa ricorrente pretesa a porre
fra parentesi il passato.
"I sommersi e i salvati" non è solo un saggio sull'universo
dei campi di concentramento. E' "anche" questo ma soprattutto, "attraverso"
questo, un saggio sull'immorale e diffusissima pulsione umana a manipolare la
memoria.
Qui, il ragionamento di Primo Levi si incontra pienamente con le tesi esposte
in proposito da Hannah Arendt, e non è certo un caso che anche la Arendt
abbia dedicato ai Lager e al totalitarismo gran parte della sua riflessione
etico-politica e che nel campo di concentramento veda, come Primo Levi, il fenomeno
assolutamente imprevisto e assolutamente centrale del nostro secolo.
Un lavoro contro la rimozione e per la verità, quello di Primo Levi,
abbiamo detto. E in primo luogo, contro le deformazioni che anche le vittime
possono realizzare nel necessario lavoro di mantenere memoria viva di un accaduto
talmente mostruoso da apparire fantastico.
Levi, perciò, offre un'autentica sociologia dell'universo concentrazionario,
attenta proprio alle zone «grigie», ai comportamenti ambigui, ai
compromessi, alle debolezze, che caratterizzano anche il mondo delle vittime.
Ma questa impietosa onestà intellettuale è accettabile solo e
perché Levi tiene rigorosamente ferma la insopprimibile e primaria distinzione
fra carnefice e vittima, contro le ricorrenti (e mai innocenti) tentazioni dell'estetismo
e di un sempre più diffuso «azzeramento» delle responsabilità
(in nome di un nuovo storicismo? o della esaltazione di una realtà socio-politica
priva di "impegno" e perciò anche di memoria?).
E' possibile, tuttavia, che questo straordinario libretto di Primo Levi, malgrado
il successo di vendite che già si profila, risulti alla fine un lavoro
«inutile». E' possibile, insomma, che la pretesa di non essere disturbati
da ricordi scomodi e da scomode responsabilità, abbia già vinto,
sia penetrata in profondità, abbia conquistato le giovani generazioni.
Sarebbe una tragedia, ma le tragedie talvolta avvengono.
Molti sintomi denunciano che la generale assoluzione è ormai la tentazione
maestra di troppi intellettuali, oltre che la pretesa della professione politica.
L'Europa vuole dimenticare di aver generato il fascismo, e il semplice rammentarlo
viene giudicato di cattivo gusto.
Pure, proprio questo è invece il tema decisivo per la nostra epoca: riconoscere
come il nostro mondo, la nostra epoca, mettano ciascuno di noi a confronto con
una "duplice" immagine di Occidente e una "duplice" immagine
di modernità. Come lo "scarto" fra le premesse di valore (che
poi erano anche «promesse») e la concreta realtà quotidiana
costituisca il tratto caratterizzante la condizione moderna, perfino assai più
della tecnica o del rendersi omogeneo delle culture su scala mondiale.
Riconoscere questo scarto nel suo luogo più tragico, indagarlo senza
concessioni ad alcuno (non alle vittime, ma tanto meno ai carnefici), comprenderne
i meccanismi, proporlo alla custodia di altri uomini, perché la memoria
impedisca (per quel po' che la cultura e l'impegno possono) che analoghe tragedie
si rinnovino: questa la grandezza, la necessità, di un libro dai toni
volutamente dimessi, colloquiali, «banali» se si vuole. Ma proprio
perché la banalità del male è all'origine della fuga dalle
responsabilità che consente al nazismo di trionfare, come spiegava, nei
suoi resoconti del processo Eichmann, Hannah Arendt e come conferma ciascuna
di queste bellissime pagine di Primo Levi.
«Il Messaggero», 21 giugno 1986.
QUANTO E' SCOMODO IL BUON SENSO
di Giovanni Roboni.
Non si potrebbe fare peggior torto all'ultimo libro di Primo Levi "I sommersi
e i salvati" che lodarlo d'ufficio in considerazione della gravità
dei temi che affronta, dell'indiscutibile nobiltà delle idee che esprime
e della quantità di sofferenza - sofferenza personale, personalmente
vissuta - depositata in esso. Tutte queste cose sono vere, naturalmente; ma
credo che non sia questo il punto. Non credo, voglio dire, che Levi abbia voluto
scrivere un libro nobile o edificante, né che sia stato mosso dal desiderio
o bisogno di raccontarci un'altra volta, a distanza di tanti anni, le sue vicende
terribili e paradossalmente «fortunate» (nel senso che a lui è
toccato in sorte di essere, appunto, uno dei pochi «salvati» di
fronte a milioni di «sommersi»).
I fatti sono noti, ed è appena il caso di richiamarli brevemente. Levi
è stato, giovanissimo, nei Lager nazisti; è stato a Auschwitz;
è, nel verso senso della parola, un sopravvissuto. E su questa esperienza
atroce, quasi non raccontabile, ha scritto e pubblicato (nel '47) un racconto,
"Se questo è un uomo", che è diventato presto un piccolo
classico e ha segnato l'inizio, necessario e al tempo stesso casuale, di una
più che decorosa carriera di scrittore. Una carriera nel corso della
quale Levi è tornato a volte su quei fatti, su quei ricordi, ma ha anche
dato l'impressione di volersi creare a poco a poco, legittimamente, un'immagine
diversa e autonoma di scrittore, l'immagine di un narratore e non più
di un memorialista.
Può darsi che "I sommersi e i salvati" nasca in qualche misura,
inconsciamente, proprio dal rimorso di aver allontanato i compiti e i limiti
del testimone, di essersi voluto scrittore anziché scriba. Ma la cosa
più importante, la cosa decisiva è, come ho già accennato,
un'altra, e cioè che con questo saggio o "pamphlet" Levi non
ha voluto darci un libro edificante, e nemmeno un libro «bello»,
ma un libro essenzialmente polemico e «irritante».
Se questo era, come personalmente credo, il suo proposito, penso che Levi ci
sia perfettamente riuscito. Bisogna pensare al contesto culturale, prima e più
che politico, nel quale il libro è maturato e oggettivamente si inserisce.
Da una parte, ci sono i tentativi di falsificare la storia e di organizzare
l'oblio. Nel primo capitolo del libro, Levi ricorda uno dei casi più
clamorosi: le dichiarazioni rilasciate nel '78 a un settimanale francese da
Louis Darquier de Pellepoix, ex funzionario del governo collaborazionista di
Vichy. Secondo Darquier (che, purtroppo, non è un pazzo isolato, ma l'esempio
estremo e grottesco di un atteggiamento mentale assai più diffuso di
quanto non si creda), i campi di sterminio nazisti, semplicemente, non sono
mai esistiti; sono un'invenzione propagandistica dei vincitori del conflitto
per screditare i vinti, e degli Ebrei per attirare l'attenzione su di sé
e per farsi «compiangere». Tutto inventato: statistiche, cataste
di cadaveri, camere a gas... Le foto scattate subito dopo la liberazione? Nient'altro
che fotomontaggi. E così via.
Dall'altra parte, c'è l'insidia, molto più sottile, dell'intellettualismo.
Anche qui, Levi non si perde in una casistica che sarebbe infinita; cita un
solo caso, davvero agghiacciante nella sua schematicità presuntuosa e
suggestiva. Molti ricorderanno il film di Liliana Cavani uscito nel '74 e intitolato
"Il portiere di notte". E' stato un successo di pubblico e, in parte,
anche di critica. Personalmente, mi parve detestabile; Levi, con molto "fair
play", lo definisce «bello e falso». Ma non è tanto
sul film (centrato sul rapporto erotico fra la reduce da un Lager e il suo ritrovato
aguzzino) che Levi concentra la sua stupefatta e indignata attenzione, quanto,
giustamente, sulla spavalda autointerpretazione fornitane dall'autrice: «Siamo
tutti vittime o assassini e accettiamo questi ruoli volontariamente. Solo Sade
e Dostoevskij l'hanno compreso bene...»
Volontariamente! E' come se in questo avverbio avvenissero micidiali equivoci
di un atteggiamento che non appartiene soltanto, come in questo caso, alla sottocultura,
ma anche, non di rado, alla cultura «vera». A essi Levi contrappone
la sacrosanta banalità del senso comune: «Non so, e mi interessa
poco sapere, se nel mio profondo si annidi un assassino, ma so che vittima incolpevole
sono stato e assassino no; so che gli assassini sono esistiti, non solo in Germania,
e ancora esistono, a riposo o in servizio, e che confonderli con le loro vittime
è una malattia morale o un vezzo estetistico o un sinistro segnale di
complicità ...»
Verrebbe voglia di applaudire; ma sono sicuro che Levi non lo gradirebbe. Levi
non vuole il nostro consenso, ma il nostro disagio; vuole, appunto, «irritarci»,
noi lettori che non abbiamo commesso, ma nemmeno subito, violenze e soprusi
come quelli che lui ha subiti, e che troppe volte abbiamo rinunciato a sapere
di più, a capire, a rivoltarci...
Spero che si sia intuito, a questo punto, in cosa consistano a mio avviso il
senso, l'importanza e la tempestività del libro. Consistono nel riproporci
la verità, la nuda, insuperabile oggettività dei fatti, e nell'innalzarla
come una barricata contro le tentazioni dell'oblìo e più ancora
contro il fascino insinuante, forse incontrollabile, in ogni caso troppe volte
incontrollato, dell'«interpretazione», del pensiero che interpreta
e non giudica. "I sommersi e i salvati" è, dalla prima all'ultima
pagina, una sfida alle sottigliezze dell'intelligenza in nome di un solido,
dolente senso comune; una sfida alle labirintiche delizie della complessità
in nome di una memoria elementare, opaca, faticosa; una sfida alle meraviglie
dell'irrazionale in nome di una razionalità rozzamente, eroicamente irriducibile...
In effetti, il punto di vista che Levi assume e ostenta è quello, ingrato
e mediocre, del reduce. Un reduce che non vuole condannare (o, perlomeno, non
vuole eseguire condanne), ma nemmeno vuole essere «assolto»; che
continua a interrogarsi, ostinato, su ciò che è stato fatto di
lui e di tanti come lui, e non accetta spiegazioni «brillanti»,
ma cerca (anche se sa che, il più delle volte, non esistono) spiegazioni
chiare, semplici, alla portata di tutti, compreso chi, come egli scrive con
ingenua ironia, «non si intende di inconscio e di profondo».
La questione non è davvero secondaria. Solo le spiegazioni del secondo
tipo sono infatti capaci di trasformarsi - una volta che si siano trovate, ma
anche già, si può sperare, per il fatto stesso che qualcuno si
sforzi di trovarle - in indicazioni e ammonimenti. Quello che è accaduto,
dice Levi, non potrà accadere mai più; ma altre cose possono accadere,
anzi sono accadute, anzi stanno accadendo, che gli «assomigliano»,
che replicano (in altri modi, con altre dimensioni) quel non replicabile errore.
E ricordare l'irripetibile, il mostruoso, riflettere su di esso, è probabilmente
l'unico modo per evitare che l'irripetibile si ripeta, che il mostruoso diventi,
da verità storica, una verità intima ed eterna con la quale convivere.
«L'Unità», 3 settembre 1986.
IL BUCO NERO DI AUSCHWITZ
di Primo Levi.
La polemica in corso in Germania fra chi tende a banalizzare la strage nazista
(Nolte, Hillgrüber) e chi ne sostiene l'unicità (Habermas e molti
altri) non può lasciare indifferenti. La tesi dei primi non è
nuova: stragi ci sono state in tutti i secoli, in specie agli inizi del nostro,
e soprattutto contro gli «avversari di classe» in Unione Sovietica,
quindi presso i confini germanici. Noi Tedeschi, nel corso della seconda guerra
mondiale, non abbiamo fatto che adeguarci a una prassi orrenda, ma ormai invalsa:
una prassi «asiatica», fatta di stragi, di deportazioni in massa,
di relegazioni spietate in regioni ostili, di torture, di separazioni delle
famiglie. La nostra unica innovazione è stata tecnologica: abbiamo inventato
le camere a gas. Sia detto di passata: è proprio questa innovazione quella
che è stata negata dalla scuola dei «revisionisti» seguaci
di Faurisson, quindi le due tesi si completano a vicenda in un sistema d'interpretazione
della storia che non può non allarmare.
Ora, i Sovietici non possono essere assolti. La strage dei Kulaki prima, e poi
gli immondi processi e le innumerevoli e crudeli azioni contro veri o presunti
nemici del popolo sono fatti gravissimi, che hanno portato a quell'isolamento
dell'Unione Sovietica che con varie sfumature (e con la forzata parentesi della
guerra) dura tuttora. Ma nessun sistema giuridico assolve un assassino perché
esistono altri assassini nella casa di fronte. Inoltre, è fuori discussione
che si trattava di fatti interni all'Unione Sovietica a cui nessuno, dal di
fuori, avrebbe potuto opporre difese, se non per mezzo di una guerra generalizzata.
I nuovi revisionisti tedeschi tendono insomma a presentare le stragi hitleriane
come una difesa preventiva contro una invasione «asiatica». La tesi
mi sembra estremamente fragile. E' ampiamente da dimostrare che i Russi intendessero
invadere la Germania; anzi la temevano, come ha dimostrato l'affrettato accordo
Ribbentrop-Molotov; e la temevano, giustamente, come ha dimostrato la successiva,
improvvisa aggressione tedesca del 1941. Inoltre, non si vede come le stragi
«politiche» operate da Stalin potessero trovare la loro immagine
speculare nella strage hitleriana del popolo ebreo, quando è ben noto
che, prima della salita di Hitler al potere, gli Ebrei tedeschi erano profondamente
Tedeschi, intimamente integrati nel Paese, considerati come nemici solo da Hitler
stesso e dai pochi fanatici che inizialmente lo seguirono. L'identificazione
dell'ebraismo col bolscevismo, idea fissa di Hitler, non aveva alcuna base obiettiva,
specialmente in Germania, dove notoriamente la maggior parte degli Ebrei apparteneva
alla classe borghese.
Che «il Gulag fu prima di Auschwitz» è vero; ma non si può
dimenticare che gli scopi dei due inferni non erano gli stessi. Il primo era
un massacro fra uguali; non si basava su un primato razziale; non divideva l'umanità
in superuomini e sottouomini; il secondo si fondava su un'ideologia impregnata
di razzismo. Se avesse prevalso, ci troveremmo oggi in un mondo spaccato in
due, «noi» i signori da una parte, tutti gli altri al loro servizio
o sterminati perché razzialmente inferiori. Questo disprezzo della fondamentale
uguaglianza di diritti fra tutti gli esseri umani trapelava da una folla di
particolari simbolici, a partire dai tatuaggi di Auschwitz fino all'uso, appunto
nelle camere a gas, del veleno originariamente prodotto per disinfestare le
stive invase dai topi. L'empio sfruttamento dei cadaveri e delle loro ceneri
resta appannaggio unico della Germania hitleriana, e, a tutt'oggi, a dispetto
di chi vuole sfumarne i contorni, ne costituisce l'emblema.
E' bensì vero che nel Gulag la mortalità era paurosamente alta,
ma non era per così dire un sottoprodotto, tollerato con cinica indifferenza:
lo scopo primario, barbarico quanto si vuole, aveva una sua razionalità,
consisteva nella reinvenzione di un'economia schiavistica destinata alla «edificazione
socialista». Neppure dalle pagine di Solzenicyn, frementi di ben giustificato
furore, trapela niente di simile a Treblinka e a Chelmno, che non fornivano
lavoro, non erano campi di concentramento, ma «buchi neri» destinati
a uomini, donne e bambini colpevoli solo di essere Ebrei, in cui si scendeva
dai treni solo per entrare nelle camere a gas, e da cui nessuno è uscito
vivo. I Sovietici invasori in Germania dopo il martirio del loro Paese (ricordate,
fra i cento dettagli, l'assedio spietato di Leningrado?) erano assetati di vendetta
e si macchiarono di colpe gravi, ma non c'erano fra loro gli "Einsatzkommandos",
incaricati di mitragliare la popolazione civile e di seppellirla in sterminate
fosse comuni scavate spesso dalle stesse vittime; né del resto avevano
mai progettato l'annientamento del popolo tedesco, contro cui pure nutrivano
allora un giustificato sentimento di rappresaglia.
Nessuno ha mai attestato che nei Gulag si svolgessero «selezioni»
come quelle, più volte descritte, dei Lager tedeschi, in cui con un'occhiata
di fronte e di schiena i medici (medici!) S.S. decidevano chi potesse ancora
lavorare e chi dovesse andare alla camera a gas. E non vedo come questa «innovazione»
possa essere considerata marginale e attenuata da un «soltanto».
Non erano una imitazione «asiatica», erano bene europee, il gas
veniva prodotto da illustri industrie chimiche tedesche; e a fabbriche tedesche
andavano i capelli delle donne massacrate; e alle banche tedesche l'oro dei
denti estratti dai cadaveri. Tutto questo è specificamente tedesco, e
nessun Tedesco lo dovrebbe dimenticare; né dovrebbe dimenticare che nella
Germania nazista, e solo in quella, sono stati condotti a una morte atroce anche
i bambini e i moribondi, in nome di un radicalismo astratto e feroce che non
ha uguali nei tempi moderni.
Nell'ambigua polemica in corso non ha alcuna rilevanza che gli Alleati portino
una grave porzione di colpa. E' vero che nessuno Stato democratico ha offerto
asilo agli Ebrei minacciati o espulsi. E' vero che gli Americani rifiutarono
di bombardare le linee ferroviarie che conducevano ad Auschwitz (mentre bombardarono
abbondantemente la zona industriale contigua) ed è anche vero che l'omissione
di soccorso da parte alleata fu dovuta a ragioni sordide, e cioè al timore
di dovere ospitare, e mantenere, milioni di profughi o sopravvissuti. Ma di
una vera complicità non si può parlare, e resta abissale la differenza
morale e giuridica tra chi fa e chi lascia fare.
Se la Germania d'oggi tiene al posto che le spetta fra le nazioni europee, non
può e non deve sbiancare il suo passato.
«La Stampa», 22 gennaio 1987.
GUERRA E' SEMPRE
di Cesare Cases.
Se sia l'esperienza del chimico che quella del testimone dei Lager si attuano
entro l'orizzonte dello sforzo di capire, questo vien meno nella "Tregua",
che anche in tal senso costituisce una pausa di rilassamento nell'opera autobiografica.
La babele continua, la vita è sempre dominata dal caos e dall'irrazionalità,
ma di un altro tipo, dovuto alla disorganizzazione e non all'eccesso di organizzazione.
Il sistema di Auschwitz aveva colpito Levi tra l'altro per la sua antieconomicità,
che urtava il suo spirito razionalistico; dato (e naturalmente non concesso)
lo scopo di spremere al massimo una vita umana considerata inferiore finché
poteva rendere qualcosa, e poi trasformarla in cenere, i metodi scelti sembravano
inidonei, c'era l'impiego di un'enorme quantità di «violenza inutile»
(cui è dedicato un apposito capitolo nei "Sommersi e i salvati")
ed è sintomatico che l'esercito di schiavi cui apparteneva Levi non sia
servito a fare uscire neanche un grammo di gomma sintetica dalle officine Buna,
come egli ripete in più occasioni. E ricorda (1) come le donne di Ravensbrück
fossero costrette, prima di essere assegnate a una determinata squadra di lavoro,
a passare le giornate spostando la sabbia in cerchio, di modo che alla fine
si tornasse allo stato iniziale. L'ordine coatto creava il caos, sia oggettivamente,
sia nell'animo delle vittime, il cui disagio, rifiutando l'inadeguata parola
«nevrosi», egli non sa definire altrimenti che come «un'angoscia
atavica, quella di cui si sente l'eco nel secondo versetto della Genesi: l'angoscia
inscritta in ognuno del 'tòhu vavòhu', dell'universo deserto e
vuoto, schiacciato sotto lo spirito di Dio, ma da cui lo spirito dell'uomo è
assente: non ancora nato o già spento» (2). Solo la penna di questo
scrittore alieno da pensamenti religiosi e filosofici può trasformare
la parola biblica nella descrizione non libresca di una «condizione esistenziale».
Il caos in cui Levi viene ora a trovarsi ha poco in comune con il «tòhu
vavòhu» del campo: è il prodotto della disorganizzazione
sovietica, per cui si arriva non si sa dove, si parte verso non si sa dove,
non si giunge mai alla mèta per via diretta e la mèta stessa non
è una mèta ma un luogo fuori del mondo dove si resta per mesi
e donde si parte quando meno ce lo si aspetta. Per i Russi e lo spirito anarchico
e nomadico che traspare dai loro comportamenti, Levi ha una simpatia sostanziale,
e fa piacere dopo tanta insistenza esclusiva sui Gulag - la cui ombra talvolta
si proietta anche qui - trovare pagine in cui Levi ravvisa, «in ciascuno
di quei visi rudi e aperti, i buoni soldati dell'Armata Rossa, gli uomini valenti
della Russia vecchia e nuova, miti in pace e atroci in guerra, forti di una
disciplina interiore nata dalla concordia, dall'amore reciproco e dall'amore
di patria; una disciplina più forte, appunto perché interiore,
della disciplina meccanica e servile dei Tedeschi» sicché «era
agevole intendere, vivendo fra loro, perché quella, e non questa, avesse
da ultimo prevalso» (3). Levi insisterà sempre su questa differenza,
sia pure idealizzandola un po', e si rifiuterà di equiparare i Gulag,
dove la morte era solo un «sottoprodotto», ai campi di sterminio
dove essa era lo scopo principale del processo industriale. La babele sotto
il segno russo è quindi variopinta e contraddittoria, ma tutto sommato
inoffensiva e spesso allegra: un'ottima fonte di riflessioni per un uomo così
curioso dell'umana natura. Il problema della difficoltà di comunicare
esiste più che mai ma viene per lo più superato con disinvoltura
e sfoggio di arti mimetiche, senza la terribile angoscia che questo problema
comportava nel Lager, tutt'al più con imprevisti dovuti al carattere
russo. Un soldato tenta di insegnare a Levi il russo e insoddisfatto dei risultati
si lancia contro di lui con la baionetta, ma alla sua paura ride e gli dice
la parola russa per baionetta. Oppure il marinaio che racconta gesticolando
le sue imprese belliche e si riscalda tanto da mettere in pericolo l'incolumità
dei presenti (4). O il delizioso capitolo in cui Primo e Cesare in piena notte
raggiungono un villaggio per comprare un pollastro e per l'ostacolo della lingua
ci riescono solo quando Primo si decide a tracciare per terra l'immagine di
una gallina (5).
In questa atmosfera in cui ciascuno è al minimo una macchietta, prosperano
le grosse personalità nel bene e nel male, o più spesso al di
là del bene e del male: il ragionier Rovi, innamorato del potere; il
medico Gottlieb; il Moro di Verona, vecchio e cupo bestemmiatore; Cesare, che
porta in giro la mentalità e le astuzie del ghetto romano; infine il
Greco, Mordo Nahum, tetro e infallibile rappresentante della volontà
di sopravvivere, e molti altri. Questa galleria di personaggi a tutto tondo
e l'aneddotica che ne risulta hanno fatto spesso parlare di romanzo picaresco,
in parte a buon diritto. Tuttavia la differenza essenziale è che nel
romanzo picaresco l'io narrante è anche il protagonista, mentre Primo
è piuttosto spettatore. Pronto a intervenire nelle imprese anche più
folli ogni volta che ci vuole perseveranza e spirito d'iniziativa individuale
(come nella ricerca della gallinella o «curizetta»), la sua etica
borghese lo rende impermeabile alle esaltazioni collettive e gli fa rifiutare
con sdegno le «creature bianche e rosee» di cui il Greco si era
improvvisato magnaccia e che gli offre per amicizia (6). Assiste alle storie
«de haulte graisse» e le racconta, ma non le vive. Del resto l'espressione
rabelaisiana salta fuori a proposito del rimpatrio di Cesare, che Levi rimanda
ad altra occasione, quando Cesare gliene darà il permesso (7) . E la
storia viene puntualmente raccontata più tardi (8) e non è poi
tanto «de haulte graisse», anzi è velata dall'ombra del fallimento,
dall'onta del truffatore truffato.
La funzione di spettatore che Levi assume nelle storie «de haulte graisse»
non è infatti fondata solo sul suo individualismo e moralismo, ma altresì
sulla sua incapacità di lasciarsi andare al presente, come Cesare o altri
personaggi; alla consapevolezza che si tratta appunto di una tregua e che la
vergogna del passato era inestinguibile. "La tregua" comincia con
la pagina indimenticabile dell'ingresso nel campo dei quattro soldati russi,
«oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava
le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo», stato
d'animo simile alla certezza dei prigionieri della «natura insanabile
dell'offesa» (9). E come motto il libro ha la poesia "Alzarsi"
(10) in cui il vecchio sogno del Lager di tornare e raccontare, interrotto dall'ordine
di alzarsi, si trasforma nell'incubo di tornare alla stessa situazione, incubo
poi raccontato analiticamente nella stupenda pagina che chiude il libro (11),
in cui esso appare come la lenta decostruzione dell'ambiente familiare ritrovato
nel caos del Lager. D'altra parte questa è solo la cornice del libro,
che nell'insieme è sereno se pur non partecipe; una tregua, sì,
ma anche una vacanza in cui l'autore è liberato dall'orrore del Lager
e non è ancora ripreso dalla tristezza del dovere quotidiano che nonostante
la gioia del rimpatrio lo opprimerà ogni lunedì (si veda la poesia
così intitolata) (12). Tra il lavoro forzato e il lavoro accettato e
convinto, ma faticoso e rischioso, Levi si concede una pausa in cui non è
più necessaria la tensione morale che ha segnato tutta la sua vita.
Per il momento, nonostante i sogni angosciosi, crede almeno di sapere che la
guerra è finita. E il Greco, nel suo spietato realismo, a disingannarlo,
affermando «memorabilmente»: «Guerra è sempre»
(13). Entrambi erano stati in Lager: «io lo avevo percepito come un mostruoso
stravolgimento, una anomalia laida della mia storia e della storia del mondo;
lui, come una triste conferma di cose notorie» (14). Questa saggezza è
sospetta, è quella di un commerciante discendente di commercianti, e
per la classe mercantile Levi, artigiano della chimica e poi della penna, cresciuto
nell'avversione per gli strani riti del fondaco del nonno, non ha simpatia,
il loro non gli sembra vero lavoro. «E' un mestiere che tende a distruggere
l'anima immortale; ci sono stati filosofi cortigiani, filosofi pulitori di lenti,
perfino filosofi ingegneri e strateghi, ma nessun filosofo, che io sappia, era
grossista o bottegaio» (15). Certo in Mordo Nahum il commerciante sfuma
ancora nell'avventuriero, nel filibustiere e nel contrabbandiere, e quindi egli
può derogare alla norma ed essere filosofo, anzi un filosofo così
persuasivo nel suo cinismo che da allora Levi oscillerà sempre tra la
sua verità e la propria. Gli sviluppi del dopoguerra, peraltro, avevano
profondamente modificato gli orizzonti entro i quali era nata la millenaria
verità di Nahum, in modo di cui il Greco non poteva avere un'idea. Sarà
con queste nuove prospettive che Levi dovrà fare i conti. Per dirla con
Pier Vincenzo Mengaldo (16), egli «restò sempre diviso tra due
interpretazioni della follia nazista: come episodio orribile, sì, ma
circoscritto e concluso, della storia moderna, o invece come risultato conseguente
delle tendenze del mondo contemporaneo, tra sviluppo vertiginoso della tecnica
e vocazione totalitaria del potere, e su questa forcella continuò a interrogarsi
sino all'ultimo». Il suo fondamentale ottimismo lo spingeva nella prima
direzione, la sua lucidità nella seconda, e lo scienziato poteva fornire
buoni argomenti per entrambe le tesi. Recensiva con preoccupazione "Il
destino della terra di Jonathan Schell" (17) terminando l'articolo con
la constatazione che «non siamo una specie stupida», come documentano
le scoperte scientifiche, e quindi riusciremo a far pervenire ai potenti la
voce della ragione. E poco dopo: «l'avvenire dell'umanità è
incerto [...] e la qualità della vita peggiora; eppure io credo che quanto
si va scoprendo sull'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo sia sufficiente
ad assolvere questa fine di secolo e di millennio» (18). L'ambiguità
della scienza, che lavora sia per il bene che per il male, egli pensava di chiarirla
proponendo una specie di giuramento ippocratico per gli scienziati affinché
non si prestino a diventare «apprendisti stregoni». Ma non poneva
né voleva porre in questione la scienza in quanto tale. Approvava la
scelta di Peter Hagelstein, «padre» dello scudo stellare, che aveva
abbandonato queste ricerche per occuparsi di applicazioni mediche dei laser,
ma disapprovava quella di Martin Ryle, esperto di radar passato alla radioastronomia,
che credeva innocua mentre serve alla missilistica, e allora aveva lanciato
il messaggio radicale «stop science now». Se gli obbedissimo e abbandonassimo
la ricerca di base, secondo Levi «tradiremmo la nostra natura e la nostra
nobiltà di fuscelli pensanti, e la specie umana non avrebbe più
motivo di esistere» (19). Ma è proprio così? Non c'è
altro modo di pensare al di fuori della scienza moderna? I suoi personaggi popolani,
veri o fittizi, erano più radicali, meno ottimisti: «... il mondo
è fuori quadro, - proclamava nel suo caratteristico stile il montatore
Faussone, che voleva tutto ben squadrato (20), - anche se adesso andiamo sulla
luna, ed è sempre stato fuori quadro, e non lo raddrizza nessuno [...]»
E Lorenzo, il muratore italiano che ad Auschwitz aveva aiutato lui e tanti altri,
dopo il ritorno si lascia andare e muore. «Il mondo lo aveva visto, non
gli piaceva, lo sentiva andare in rovina; vivere non gli interessava più»
(21).
Sembra che un giorno anche Primo Levi sia arrivato a questa conclusione.
Introduzione alle "Opere" di Primo Levi, Einaudi, Torino 1987-1990, primo vol., p.p. XXVI-XXXI.
NOTE.
1 - Confer p. 97.
2 - Confer p. 66.
3 - Levi, "Se questo è un uomo". "La tregua", Einaudi,
Torino 1990, p. 195.
4 - "La tregua" cit., p.p. 280-81.
5 - "La tregua" cit., p.p. 253 segg.
6 - "La tregua" cit., p. 251.
7 - "La tregua" cit., p. 314.
8 - "Lilìt e altri racconti", in P. Levi, "Opere",
Einaudi, Torino 1987-1990, vol. 3, p. 423 segg.
9 - "La tregua" cit., p.p. 158-59.
10 - "Ad ora incerta", in 13 Levi, Opere, Einaudi, Torino 1987-1990,
vol. 2, p. 530.
11 - "La tregua" cit., p.p. 323-25.
12 - "Ad ora incerta" cit., p. 531.
13 - "La tregua" cit., p. 189.
14 - Ibid.
15 - "Il sistema periodico", in P. Levi, "Opere", Einaudi,
Torino 1987-1990, vol. 1, p. 586.
16 - Nel suo articolo commemorativo per il «Corriere del Ticino»
del 18 aprile 1987.
17 - "L'altrui mestiere", in P Levi, "Opere", Einaudi, Torino
1987-1990, vol. 3, p. 750.
18 - "L'altrui mestiere" cit., p. 752.
19 - "Racconti e saggi", in P. Levi, "Opere", Einaudi, Torino
1987-1990, vol. 3, p. 977.
20 - P. Levi, "La chiave a stella", Einaudi, Torino 1991, p. 45.
21 - "Lilìt" cit., p. 436.