Dalla stesura di questo libro sono passati più di tredici anni; non sono stati anni buoni. E' sufficiente leggere i bollettini di Amnesty International per rendersi conto che questo lasso di tempo per quanto riguarda le atrocità regge il confronto con le epoche peggiori di una storia che è tanto reale quanto contraria alla ragione. Talvolta si ha l'impressione che Hitler abbia conseguito un trionfo postumo. Invasioni, aggressioni, torture, distruzione dell'uomo nella sua essenza. I segnali non mancano. Cecoslovacchia 1968, Cile, evacuazione forzata di Pnom-Penh, i manicomi dell'Unione Sovietica, gli squadroni della morte in Brasile e Argentina, le strutture statali che si definiscono «socialiste» e che si smascherano da sole nel Terzo Mondo, Etiopia, Uganda. A che pro, a questo punto, il mio sforzo di riflessione sulla "conditio inhumana" delle vittime del Terzo Reich? Non è ormai inattuale? O non sarebbe quanto meno necessaria una rielaborazione del testo?
Nel rileggere quanto scrissi allora, scopro tuttavia che una rielaborazione altro non sarebbe che un trucco, un tributo giornalistico all'attualità, che non intendo ritrattare niente e ho poco da aggiungere. Non ho dubbi: tutte le atrocità di cui siamo stati testimoni non annullano il dato di fatto - che sino ad oggi mi è rimasto oscuro e, nonostante i diligenti studi di ordine storico, psicologico, sociologico, politico già apparsi e che ancora appariranno, in fondo impossibile da chiarire - che tra il 1933 e il 1945 nel popolo tedesco, un popolo di elevata intelligenza, forza produttiva e ricchezza culturale - nel popolo dei «poeti e pensatori» appunto! - si compì proprio ciò di cui parlo nelle mie riflessioni.
Tutti i tentativi di spiegazione - perlopiù monocausali - sono ridicolmente falliti. Affermare che quanto è simbolicamente riassunto nei nomi di Auschwitz o Treblinka ha le sue radici nella storia spirituale tedesca già a partire da Lutero, per passare attraverso Kleist e giungere sino alla «rivoluzione conservatrice» e infine a Heidegger, parlare quindi di un «carattere nazionale tedesco», è un'assurdità. Ancora meno lecito per comprendere i fatti in questione è parlare del «fascismo» come della forma più esasperata del «tardo capitalismo». Versailles, la crisi economica che con la sua miseria spinge il popolo verso il nazismo, sono pretesti puerili. I disoccupati, dopo il 1929, esistevano anche in altri paesi e in particolare negli Stati Uniti, che tuttavia non hanno generato un Hitler, bensì un Franklin Delano Roosevelt; e anche la Francia subì, dopo Sedan, la sua «pace ignominiosa» e anche qui vi sono stati, è vero, ideologi sciovinisti come Charles Maurras, ma soprattutto coloro che durante il processo Dreyfus seppero difendere la sostanza della repubblica contro il potere concentrato dalla casta militare. Nessun Quisling, nessun Mussert, nessun Degrelle, nessun Sir Oswald Mosley giunse al potere grazie al suo popolo; un popolo che, dal rettore di una venerabile università sino al povero diavolo di uno squallido quartiere metropolitano, non solo approvava ma era anzi esultante. Perché è vero, il popolo tedesco, incurante del risultato elettorale, esultò quando finalmente giunse la «giornata di Potsdam». Io c'ero. Nessun giovane politologo, per quanto brillante, mi venga a proporre le sue strampalate interpretazioni che appaiono altamente risibili a qualunque testimone oculare.
La storiografia coglie comunque solo singoli aspetti e fra tanti alberi non vede più la foresta, la foresta tedesca del Terzo Reich. In questo modo, tuttavia, è il concetto stesso di storia a risultare inservibile: mi ritorna in mente una frase di Claude Lévi-Strauss, il quale in "Il pensiero selvaggio" afferma che in ultima analisi tutti gli eventi storici si dissolvono in catene di processi puramente fisici e il termine storia non ha più un vero e proprio oggetto.
E poiché da un lato nulla può veramente spiegare l'eruzione in Germania del Male estremo, e d'altra parte questo Male nella sua logica interna totalitaria e nella sua maledetta razionalità è effettivamente (e nonostante il Cile, nonostante il Brasile, nonostante la bestiale evacuazione forzata di Pnom-Penh, nonostante l'uccisione di circa un milione di «comunisti» indonesiani dopo la caduta di Sukarno, nonostante i crimini di Stalin e i delitti dei colonnelli greci) del tutto peculiare e irriducibile, ci troviamo ancora tutti di fronte a un oscuro enigma. Di certo sappiamo che esso non si impose in un paese in via di sviluppo, non fu la diretta continuazione di un regime tirannico, come in Unione Sovietica, non si realizzò a partire dalla feroce lotta di una rivoluzione costretta a difendere la propria sostanza, come nella Francia di Robespierre. Avvenne in Germania. Scaturì per generazione spontanea, frutto contro natura del ventre che lo partorì. E tutti i tentativi di fornire una motivazione economica, tutte quelle indicazioni - tanto unidimensionali da indurre a disperazione - del fatto che il capitale industriale tedesco, temendo per i propri privilegi, finanziò Hitler, non dicono nulla al testimone oculare, così come non gli dicono nulla le raffinate speculazioni sulla dialettica dell'illuminismo.
Non ho cercato infatti tredici anni or sono, di fornire una spiegazione; e anche oggi non posso far altro che rendere testimonianza. Fra l'altro, né allora né oggi il mio interesse era rivolto al Terzo Reich. Ciò che mi interessava e ciò di cui sono qualificato a parlare sono le vittime del Terzo Reich. Non intendo edificare loro un monumento, perché essere vittime non è di per sé un onore. Ho inteso solo descrivere la loro condizione, che è immutabile. Per questo motivo ho lasciato com'era il testo, pubblicato per la prima volta nel 1966. Mi si consenta solo di aggiungere un'inezia per me fondamentale al capitolo su «Obbligo e impossibilità di essere ebreo»: l'ora lo esige.
Negli anni che dedicai alla stesura del presente volume in Germania non esisteva antisemitismo, o meglio, dove esisteva, non osava uscire allo scoperto. Il problema degli ebrei era stato messo a tacere e talvolta ci si rifugiava anzi in un fastidioso filosemitismo che creava imbarazzo nelle vittime oneste, e che per quelle meno oneste, la cui esistenza non deve essere sottaciuta, rappresentava una buona occasione per fare ottimi affari approfittando della coscienza sporchissima dei tedeschi. La situazione si è rovesciata. Un nuovo eppur vecchio antisemitismo alza sfacciatamente l'ignobile testa, senza suscitare scandalo; il che, sia detto fra parentesi, non avviene solo in Germania ma anche in gran parte delle nazioni europee, con alcune rare eccezioni, come i probi Paesi Bassi che qui vanno espressamente menzionate. Le vittime muoiono, ed è un bene, perché da molto tempo ormai sono in sovrannumero. Anche i boia crepano, per fortuna e conformemente alle leggi della morte biologica. Tuttavia in entrambi gli schieramenti nascono costantemente nuove generazioni, e fra queste, modellate dall'origine e dall'ambiente, torna ad aprirsi l'antico, insormontabile abisso. Il "tempo" un giorno lo chiuderà, ne sono certo. Ma non deve essere uno spirito di conciliazione malsano, distratto e profondamente errato ad accelerare sin d'ora il processo di maturazione. Al contrario, poiché si tratta di un abisso "morale", è auspicabile che per il momento rimanga sconfinato; anche questo è il senso della riedizione del mio scritto.
E' mia preoccupazione che la gioventù tedesca - quella culturalmente aperta, essenzialmente generosa e protesa verso l'Utopia, quella di "sinistra" dunque - non slitti improvvisamente verso coloro che sono i suoi e i miei nemici. Questi giovani parlano troppo avventatamente di «fascismo». E non si rendono conto che così facendo ingabbiano la realtà in uno schema ideologico non sufficientemente meditato. E' innegabile che la realtà della Repubblica Federale presenti numerose, vergognose ingiustizie - quali la legislazione conosciuta con il termine "Radikalenerlass" - necessiti di urgenti miglioramenti: ma non per questo essa è fascista.
La Repubblica Federale Tedesca è seriamente minacciata in quanto entità statale orientata ai princìpi della libertà così come lo sono in ogni istante tutte le democrazie: è questo il loro rischio, il loro pericolo, ma anche il loro vanto. Nessuno meglio di chi all'epoca dovette assistere al tramonto della libertà in Germania sa quanto sia necessario vigilare. Ma i testimoni dell'epoca sanno anche che la vigilanza non deve trasformarsi in un atteggiamento paranoico che in ultima analisi favorisce solo quanti, con le loro grosse mani da macellai vorrebbero soffocare le libertà democratiche. Se tuttavia oggi i giovani democratici di sinistra arrivano al punto di considerare il loro stato una compagine sociale più o meno fascista e più in generale fasciste, imperialiste, colonialiste tutte quelle che essi definiscono democrazie «formali» - fra queste in particolare il minuscolo stato di Israele, esposto a una tremenda minaccia! - e agiscono di conseguenza, allora chiunque sia stato testimone dell'orrore nazista ha il dovere di intervenire, a prescindere dai risultati che potrà ottenere. Io, che sono stato, e tuttora sono, vittima dei nazisti non posso tacere quando sotto lo stendardo dell'antisionismo osa far capolino il vecchio spregevole antisemitismo. L'impossibilità di essere ebreo si trasforma in obbligo a esserlo, e ad essere un ebreo che fa sentire la sua indignazione. Questo libro - che in maniera del tutto innaturale è allo stesso tempo inattuale e di grande attualità - sia quindi da un lato testimonianza di ciò che "sono stati il fascismo autentico" e il peculiare fenomeno "nazismo" e dall'altro un appello alla gioventù tedesca affinché torni in sé. L'antisemitismo ha un'infrastruttura profondamente ancorata nella psicologia collettiva e in ultima analisi riconducibile forse a sentimenti e risentimenti religiosi rimossi. E' risvegliabile in ogni momento: sono stato profondamente turbato, ma non veramente sorpreso, quando ho appreso che durante una manifestazione a favore dei palestinesi in una grande città tedesca non è stato condannato solo il flagello universale del «sionismo», ma che gli eccitati giovani antifascisti hanno scandito lo slogan «morte al popolo ebraico».
Ci siamo abituati. Abbiamo avuto modo di osservare come la parola si sia fatta carne e come la parola fattasi carne si sia tramutata, infine, in cadaveri ammucchiati. Ancora una volta si scherza col fuoco, quel fuoco che costrinse tanti a passare per il camino. Io do l'allarme. Non me lo sarei mai sognato, quando nel 1966 venne pubblicata la prima edizione del mio libro e come avversari avevo solo coloro che sono i miei avversari naturali: i nazisti vecchi e nuovi, gli irrazionalisti e i fascisti, la genia reazionaria che nel 1939 ha condotto il mondo alla morte. Che oggi debba oppormi ai miei amici naturali, alle giovani e ai giovani di sinistra, è un fatto che oltrepassa la sin troppo logorata «dialettica». E' una di quelle pessime farse della storia universale che ci fanno dubitare e in ultima analisi disperare del senso degli avvenimenti storici. I vecchi babbei dell'inestirpabile reazione fanno di Speer un autore da bestseller, i giovani entusiasti prescindono da tutto ciò che gli enciclopedisti francesi, e poi gli economisti inglesi fino agli intellettuali di sinistra tedeschi degli anni fra le due guerre hanno messo loro a disposizione quale eredità illuministica.
Illuminismo. E' questo il punto di partenza. Già più di dieci anni fa, e mi auguro anche oggi, queste riflessioni erano al servizio di un illuminismo che potremmo definire sia borghese sia socialista. In questo contesto, tuttavia, il concetto di illuminismo metodologicamente non va interpretato in senso stretto, poiché esso comprende, per come lo intendo io, non solo la mera deduzione logica e la verifica empirica, ma anche, e al di là di queste, la volontà e la capacità alla speculazione fenomenologica, all'empatia, all'accostarsi ai limiti della "ratio". Solo adempiendo alla legge dell'illuminismo e al contempo superandola, spiritualmente giungiamo in ambiti in cui la "raison" non conduce al mero ragionare. E' questo il motivo per cui, oggi come ieri, prendo sempre lo spunto dall'avvenimento concreto, senza tuttavia mai perdermi in esso, e assumendolo invece come costante punto di riferimento per riflessioni che vanno oltre il "raisonnement" e il gioco del ragionare, per giungere in ambiti di pensiero su cui grava e graverà un'incerta penombra che non si dissolverà, nonostante i miei sforzi di portare quella luce che sola può dare loro una proporzione. Tuttavia - e anche su questo punto vorrei insistere - illuminare non significa far luce in maniera definitiva. Non tutto mi era chiaro, quando redassi questo libriccino, non lo è nemmeno oggi e spero non lo sarà mai. Far luce in modo definitivo significherebbe infatti anche liquidare, archiviare i fatti per poterli allegare agli atti della storia. Il mio libro vuol essere un contributo affinché ciò non avvenga. Nulla si è ancora risolto, nessun conflitto si è composto, non vi è richiamo alla memoria che si sia trasformato in semplice ricordo. Quanto è avvenuto, è avvenuto. Ma il fatto "che" sia avvenuto non è facile da accettare. Io mi ribello: contro il mio passato, contro la storia, contro un presente che congela storicamente l'incomprensibile e così facendo lo falsa in maniera vergognosa. Le ferite non si sono rimarginate e ciò che nel 1964 era forse sul punto di guarire, torna ad aprirsi come una ferita infetta. Emozioni? E sia pure. Dove sta scritto che l'illuminismo deve essere privo di emozioni? Mi pare sia vero il contrario.
L illuminismo può assolvere al proprio ufficio solo se opera con passione.
Bruxelles, inverno 1976
J. A.