Quando nel corso di una conversazione sono coinvolto in un plurale - ossia quando il mio interlocutore dice «noi ebrei...» - avverto non di rado un disagio che non definirei tormentoso, ma che certo ha radici profonde. Ho cercato a lungo, e non senza fatica, di venire a capo di questo penoso disagio psichico. E' pensabile che io, l'ex prigioniero di Auschwitz, al quale non sono invero mancate le occasioni per riconoscere ciò che è, che deve essere, è pensabile che io ancora non voglia essere ebreo, come decenni or sono, quando indossavo i pantaloni alla zuava in pelle con i calzettoni bianchi e allo specchio osservavo inquieto la mia immagine per capire se fosse quella di un prestante giovinetto tedesco? No, certo. La stoltezza del travestimento, seppur realizzato con abiti che non mi erano estranei, risale a molto tempo addietro. Accetto di non essere stato un giovinetto tedesco e di non essere un adulto tedesco. La maschera è ormai in soffitta, a prescindere dal fatto che mi si confacesse o meno. Se oggi, non appena un ebreo con legittima naturalezza mi inserisce nella sua comunità, affiora il disagio, non è perché io non voglio essere ebreo: ma solo perché non posso esserlo. E ciò nonostante debbo esserlo. E' un dovere al quale non solo mi sottometto, ma che esplicitamente rivendico come parte della mia persona. Sono l'obbligo e l'impossibilità di essere ebreo che mi procurano un oscuro tormento. Di questo obbligo, di questa impossibilità, di questa tribolazione, di questa incapacità dovrei qui di seguito parlare e posso solo vagamente sperare che l'elemento individuale sia sufficientemente esemplare da riguardare anche coloro che ebrei non sono e non devono essere.
In primo luogo l'impossibilità. Se essere ebrei significa condividere con altri ebrei la confessione religiosa, essere partecipi della tradizione culturale e familiare ebraica, sostenere un ideale nazionale ebraico, allora la mia posizione è disperata. Non credo nel Dio di Israele. Conosco molto poco la cultura ebraica. Mi rivedo, ragazzo, attraversare il villaggio innevato per andare alla messa di Natale; non mi vedo nella sinagoga. Risento mia madre appellarsi a Gesù, Maria e Giuseppe, quando in casa avveniva qualche piccolo incidente; non ricordo alcuna invocazione al Dio degli ebrei. La foto di mio padre - che non ho quasi conosciuto poiché rimase là dove il suo imperatore gli aveva comandato di andare e la sua patria riteneva potesse stare al sicuro - non mi mostrava un ebreo barbuto e saggio, ma un cacciatore delle Alpi tirolese, con l'uniforme della prima guerra. Avevo diciannove anni quando appresi che esisteva una lingua yiddish, sebbene d'altra parte sapessi benissimo che la mia famiglia, che a livello religioso ed etnico aveva conosciuto numerosi incroci, dai vicini era considerata ebrea e nessuno in casa mia si sognava di negare o celare l'incontrovertibile. Ero ebreo, allo stesso modo in cui uno dei miei compagni di scuola era figlio di un ristoratore fallito: quando il ragazzo era solo con sé stesso, il tracollo economico della famiglia per lui poteva forse non avere alcuna importanza; quando si mescolava a noi si arroccava al pari nostro, in un astioso imbarazzo.
Se essere ebreo è dunque sinonimo di patrimonio culturale, di vincolo religioso, allora non ero, né mai sarò, ebreo. Si potrebbe certo controbattere che un patrimonio lo si può conquistare, che un vincolo lo si può costruire e che quindi essere ebreo potrebbe essere il risultato di una libera scelta. Chi mai potrebbe impedirmi di imparare la lingua ebraica, di leggere testi di storia e storie ebraiche, di partecipare, anche senza fede, al rituale ebraico che è al contempo religioso e nazionale? Ben provvisto delle dovute nozioni culturali ebraiche, dai profeti a Martin Buber, potrei emigrare in Israele e farmi chiamare Yohanan. Mi si assicura che ho la libertà di scegliere di essere ebreo e che in essa consiste il mio onore strettamente personale e generalmente umano.
Ma è proprio vero che godo di questa libertà? Non credo. Yohanan, l'orgoglioso titolare di una nuova identità liberamente scelta, grazie alla presupposta approfondita conoscenza dello chassidismo, il 24 dicembre davvero non penserebbe più a un albero di Natale adornato con noci dorate? Il probo israeliano che parla correntemente l'ebraico potrebbe cancellare del tutto il giovinetto con i calzettoni bianchi che esagera nell'uso del dialetto locale? Ho l'impressione che il cambiamento di identità - stimolante gioco nella letteratura moderna, ma nel mio caso una sfida di fronte alla quale, non essendovi soluzioni intermedie, nella propria totalità umana si prevale o si soccombe - sarebbe destinato a fallire. E' possibile riagganciarsi a una tradizione che si è perduta. Il problema è che non è possibile inventarsela. Dato che non ero ebreo, non lo sono; e dato che non lo sono, non potrò mai esserlo. Yohanan, provato sul monte Carmelo e ghermito dai ricordi delle valli alpine e del "Glcklerlaufen" (2), sarebbe ancora meno autentico di quanto allora non lo fosse il giovinetto coi calzettoni. La dialettica della realizzazione di sé stessi, dell'essere ciò che si è, diventando ciò che si deve e vuole essere, è per me bloccata. Perché l'essere qualcosa, non come essenza metafisica, ma come semplice appropriazione di ciò che si è originariamente sperimentato, risulta inevitabilmente prioritario. Ciascuno deve essere ciò che fu nelle prime stratificazioni della sua vita, per quanto possano successivamente essere state ricoperte. Nessuno può diventare ciò che vanamente ricercherebbe nei suoi ricordi.
Non mi è dunque consentito essere ebreo. Sono allora destinato - poiché devo esserlo e questo obbligo mi preclude i cammini lungo i quali potrei essere altro da ebreo - a non trovarmi mai? Devo quindi accettare questa condizione, rimanere senza storia, come ombra dell'universalmente astratto - che non esiste - e rifugiarmi nella vacua formula che sarei appunto un essere umano? Un momento, un momento di pazienza. Poiché esiste l'obbligo - e quanto è imperioso! - si potrà forse annullare anche l'impossibilità. Si avrà ben il diritto di vivere senza nascondersi, come facevo nella clandestinità, e senza rifugiarsi nell'astratto. Un essere umano? Certo, chi affermerebbe il contrario? Il fatto è che esseri umani si diventa solo quando si è tedeschi, francesi, cristiani, membri di una qualunque comunità sociale definibile. Io devo essere e sarò ebreo, con o senza religione, all'interno o all'esterno della tradizione, chiamandomi Jean, Hans o Yohanan. "Perché" devo esserlo è l'argomento delle nostre riflessioni.
Il punto di partenza non fu quando i compagni di scuola mi dissero: in fondo siete ebrei. E non fu nemmeno la rissa sulla scalinata dell'università, quando per la prima volta, ben prima dell'avvento di Hitler, il pugno di un nazista mi fece saltare un dente. Siamo ebrei, e allora? risposi al mio compagno. Oggi a me domani a te, andate al diavolo, pensai dopo la rissa, mostrando con un certo orgoglio, quasi si fosse trattato di un'interessante ferita da duello, che mi mancava un dente.
L'inizio fu solo nel 1935 quando, in un caffè di Vienna, sfogliando un giornale iniziai a studiare le leggi di Norimberga appena emanate laggiù, in Germania. Mi bastò scorrerle per rendermi conto che riguardavano anche me. La società, che si riconosceva nello stato tedesco nazionalsocialista, che il mondo a sua volta accettava come legittimo rappresentante del popolo tedesco, mi aveva formalmente e senza mezzi termini, trasformato in ebreo; o meglio aveva dato una dimensione inedita alla mia coscienza di essere ebreo, che senza gravi conseguenze era esistita anche in passato.
Non si trattava di una dimensione immediatamente sondabile. Dopo aver letto le leggi di Norimberga non ero più ebreo di quanto non fossi stato mezz'ora prima. I tratti del mio volto non erano più mediterraneo-semitici di prima, la mia sfera associativa non si era magicamente colmata di riferimenti ebraici, l'albero di Natale non si era per incanto trasformato in un candelabro a sette bracci. Se la condanna pronunciata nei miei confronti dalla società aveva un senso tangibile, questo era che da quel momento in poi avrei dovuto considerarmi in balìa della morte. La morte. Certo, presto o tardi ci raggiunge tutti. Ma l'ebreo che da quel momento ero - per legge e decisione della società - le era stato saldamente promesso nel bel mezzo della vita, i suoi giorni erano una sorta di grazia provvisoria, revocabile in qualunque momento. Nel fare oggi queste mie riflessioni non credo di illecitamente collocare a ritroso, già al 1935, Auschwitz e la soluzione finale. Sono anzi certo che quell'anno, nell'istante in cui lessi la legge udii effettivamente la minaccia di morte, anzi la condanna a morte; non era del resto necessaria una particolare sensibilità storica. Quante volte avevo sentito esprimere l'infausta speranza che l'ebreo finalmente morisse, affinché la Germania potesse risorgere? "Juda verrecke!" [crepa giudeo!]: era qualcosa di ben diverso dal tono quasi allegro di "aristocrat, à la lanterne!" Non si trattava - anche non tenendo conto, o non sapendo, che storicamente si ricollegava agli innumerevoli pogrom del passato - di gazzara rivoluzionaria, ma della ben ponderata volontà di un popolo, condensata in uno slogan, in un grido di guerra! In quei giorni in una rivista illustrata tedesca avevo visto la fotografia di una manifestazione del Soccorso invernale in una città renana, in cui in primo piano davanti all'albero di Natale illuminato, risaltava uno striscione con la scritta: «Keiner soll hungern, keiner soll frieren, aber die Juden sollen krepieren...» [Nessuno deve aver fame, nessuno deve tremare dal freddo, ma gli ebrei devono crepare...] E solo tre anni più tardi, il giorno dell'annessione dell'Austria al "Grossdeutsches Reich", alla radio udii Joseph Goebbels latrare che non era il caso di fare tante storie perché a Vienna qualche ebreo si toglieva la vita.
Da quel momento in poi, essere ebreo per me significò essere un morto in licenza, un morituro, che solo per caso ancora non era dove secondo la legge avrebbe dovuto essere, e questo stato d'animo, con molte varianti, con diversi gradi d'intensità, si è conservato sino ad oggi. Nella minaccia di morte che per la prima volta avvertii con tutta evidenza leggendo le leggi di Norimberga, era implicita anche quella che abitualmente viene definita la sistematica «privazione della dignità» degli ebrei da parte dei nazisti. Detto altrimenti, nell'essere privati della dignità si esprimeva la minaccia di morte. Per anni lo avevamo letto e sentito quotidianamente: eravamo pigri, malvagi, brutti, capaci solo di misfatti, astuti solo nell'imbrogliare il prossimo. Eravamo incapaci di creare uno stato, e tuttavia non adatti a integrarci nei popoli ospiti. Con la loro semplice presenza i nostri corpi pelosi, grassi e dalle gambe storte, lordavano le piscine, addirittura le panchine nei parchi. I nostri volti orrendi, alterati e corrotti dalle orecchie a sventola e dai nasi adunchi suscitavano ribrezzo nel prossimo, nel concittadino di ieri. Non eravamo degni di amore e dunque nemmeno di vivere. Toglierci noi stessi di mezzo era il nostro unico diritto, il nostro unico dovere.
Nelle sue "Riflessioni sulla questione ebraica", Jean-Paul Sartre a proposito della privazione della dignità, della quale sono convinto che ben prima di Auschwitz fosse sinonimo di minaccia di morte, ha avanzato già nel 1946 alcune ipotesi tuttora valide. Affermò che non esisteva alcun «problema ebraico», ma solo un problema dell'antisemitismo: dall'antisemita l'ebreo sarebbe stato costretto in una condizione in cui si sarebbe fatto imporre l'immagine che di lui si faceva il nemico. Entrambe le considerazioni mi paiono indiscutibili. Solo che Sartre nel suo breve saggio fenomenologico non poteva descrivere tutta la annientante pressione dell'antisemitismo che aveva spinto l'ebreo sino a quel punto, a prescindere dal fatto che il grande scrittore probabilmente non la comprese in tutta la sua irrefrenabile violenza. L'ebreo - e qui Sartre, senza formulare giudizi, parla dell'ebreo «non autentico», ossia di quello che ha accettato il mito dell'«uomo universale» - mentre fugge il destino degli ebrei si sottomette al potere dell'oppressore. A sua giustificazione bisogna tuttavia aggiungere che negli anni del Terzo Reich egli si trovava con le spalle al muro, e che anche questo gli era nemico. Non vi era via d'uscita. Non dimentichiamo che non furono solo i nazisti radicali, controllati dal partito, a negarci la dignità di essere amati e quindi di vivere. La Germania intera, ma cosa dico, il mondo intero, diede il suo consenso all'impresa, sebbene qua e là affiorasse qualche superficiale rincrescimento.
E' necessario ricordarlo: quando nel secondo dopoguerra una marea di profughi proveniente dai diversi paesi a governo comunista si riversò in occidente, gli stati di quello che viene definito il mondo libero, rivaleggiarono nella loro disponibilità ad accoglierli e soccorrerli, sebbene solo una sparuta minoranza fra loro nei rispettivi paesi d'origine dovesse davvero temere per la propria vita. Noi invece, anche quando ogni persona ragionevole avrebbe dovuto rendersi conto cosa ci attendesse nel Reich, non ci voleva nessuno. Fu quindi una conseguenza necessaria che gli ebrei, autentici o meno, al sicuro nell'illusione di Dio e di una prospettiva nazionale o invece assimilati, non trovassero in sé le energie per opporsi quando il nemico li marchiò con l'immagine dello "Strmer" streicheriano. Questa debolezza non aveva, beninteso, molto in comune con il classico odio per sé stessi degli ebrei, tipico di un ebraismo che negli anni precedenti l'avvento del nazismo era disposto all'assimilazione e anzi fortemente la reclamava. Gli ebrei che odiavano sé stessi ritenevano di non poter realizzare la loro speranza di essere tedeschi, e perciò si disprezzavano. Non avevano voluto farsi carico della loro esistenza di non tedeschi, ma nessuno li aveva costretti a negarsi in quanto ebrei. Quando invece tra il 1933 e il 1945 proprio le teste più attente e oneste fra gli ebrei, autentici o meno, momentaneamente capitolarono di fronte a Streicher, si trattò di un'abdicazione diversa, non più di ordine morale ma social-filosofica. Il mondo, si saranno forse detti, ci considera in un certo modo, pigri, brutti, inutili, malvagi; che senso ha, di fronte a un tale accordo universale, contraddire ancora e ribadire che non lo "siamo"? L'arrendersi degli ebrei all'immagine che lo "Strmer" dava di loro, altro non era che l'accettazione di una realtà sociale: appellarsi in questa situazione a una diversa valutazione di sé, doveva in certi momenti apparire come una pretesa ridicola o folle.
Bisogna tuttavia esserci stati per poter dire la propria. Se penso alla realtà sociale del muro di rifiuto che ovunque si ergeva innanzi a noi, mi viene in mente la mia permanenza ad Auschwitz-Monowitz. Nel campo stesso, ma anche fra i cosiddetti operai liberi, sul lavoro esisteva, imposta a tutti dai nazisti, una rigida gerarchia etnica. Un "Reichsdeutscher" [tedesco del Reich] valeva di più di un "Volksdeutscher" [tedesco etnico]. Un belga fiammingo era superiore a un belga vallone. Un ucraino proveniente dal "Generalgouvernement" [governatorato generale] era messo meglio del suo compatriota polacco. L'operaio dell'Europa orientale godeva di minor credito di quello italiano. Più in basso di tutti, sui gradini inferiori della scala si trovavano i prigionieri dei Lager, fra i quali gli ebrei a loro volta erano al livello più basso. Anche il più depravato criminale non ebreo era collocato ben sopra di noi. I polacchi, che si trattasse di autentici combattenti per la libertà, finiti nel campo dopo l'infelice insurrezione di Varsavia, o di piccoli borsaioli, ci odiavano unanimemente. Lo stesso dicasi dei semianalfabeti operai bielorussi. O dei francesi. Ricordo ancora la discussione fra un operaio libero francese e un ebreo francese, prigioniero del campo. «Je suis Franais», disse il prigioniero. «Franais, toi? Mais, tu es juif, mon ami», ribatté realisticamente e senza rancore il suo connazionale che aveva, in una mescolanza di paura e indifferenza, appresa la lezione dei signori dell'Europa. Ripeto: il mondo era d'accordo con il posto assegnatoci dai tedeschi, il piccolo mondo del campo e quello grande fuori, che solo in rari ed eroici casi individuali protestava, quando a Vienna, a Berlino, ad Amsterdam, a Parigi o a Bruxelles nottetempo venivano a prelevarci nelle nostre case.
Al processo di privazione della dignità messo in atto nei confronti degli ebrei, che ebbe inizio con le leggi di Norimberga e condusse direttamente a Treblinka, corrispose da parte nostra, da parte mia, un simmetrico processo di riconquista della dignità. Un processo che ancora non si è concluso. Queste mie riflessioni siano testimonianza dello sforzo da me compiuto nel tentativo di comprenderne le varie fasi e del provvisorio risultato cui sono pervenuto; al lettore rivolgo la preghiera di volermi accompagnare per un tratto. E' un percorso breve ma difficile, ricco di ostacoli e insidie. Perché, in fin dei conti, cosa significa la dignità che mi fu negata per la prima volta nel 1935, di cui fui ufficialmente privato sino al 1945, che forse ancora oggi non mi si vuole riconoscere e che per questo motivo devo essere io a conquistare? Che cos'è in ultima analisi la dignità?
Possiamo azzardare una definizione ribaltando l'identificazione tra privazione della dignità e minaccia di morte proposta più sopra. Se era corretto il ragionamento per cui la privazione della dignità altro non sarebbe che una potenziale privazione della vita, allora la dignità dovrebbe essere il diritto alla vita. Se era inoltre corretto quanto ho asserito, e cioè che la concessione e la privazione della dignità sono atti di consenso sociale, sentenze quindi, contro le quali non è possibile fare appello alla «coscienza di sé», tanto che sarebbe insensato, nei confronti di una comunità sociale che ci priva della dignità, argomentare che invece noi senza alcun dubbio ci «sentiamo» degni: se tutto ciò era esatto ogni sforzo per riconquistare la dignità sarebbe stato, e tuttora sarebbe, privo di valore. Essere privati della dignità, e cioè vivere sotto minaccia di morte, sarebbe un destino ineluttabile. Fortunatamente le cose non stanno esattamente nei termini in cui li vuole questa logica. E' certamente vero: la dignità, che si tratti della dignità di un incarico pubblico, o della dignità professionale o più genericamente della dignità del cittadino, può essere concessa solo dalla società e la rivendicazione avanzata esclusivamente nella sfera interiore individuale («Io sono un essere umano e in quanto tale ho la mia dignità, per quanto possiate dire o fare!») è puro gioco intellettuale o illusione. Tuttavia, assumendo su di sé il proprio destino e al contempo ribellandosi ad esso, l'essere umano privato della sua dignità, minacciato di morte può - e in questo punto spezziamo la logica della condanna definitiva - convincere la società della sua dignità.
Il primo atto da compiere è accettare totalmente, in quanto realtà data, il verdetto emesso dalla società. Quando nel 1935 lessi le leggi di Norimberga e mi resi conto non solo che mi riguardavano ma che erano l'espressione giuridica istituzionalizzata del verdetto che la società tedesca aveva già pronunciato nel suo "verrecke!", avrei potuto darmi spiritualmente alla fuga, attivare i meccanismi di difesa, e così facendo perdere il mio processo di riabilitazione. Avrei potuto dirmi: bene, bene, questa è quindi la volontà dello stato nazionalsocialista, del "pays légal" della Germania; esso non ha tuttavia nulla a che vedere con la Germania autentica, con il "pays réel", che non ha nessuna intenzione di bandirmi. Oppure avrei potuto argomentare che era solo la Germania, un paese che purtroppo stava sprofondando nella follia sanguinaria, a trattarmi assurdamente da autentico sottouomo, mentre per mia fortuna tutto lo sterminato mondo esterno, in cui vivono inglesi, francesi, americani, russi, era immune dalla paranoia collettiva che flagellava la Germania. O infine, rinunciando all'illusione sia di un "pays réel" tedesco sia di un mondo immunizzato contro la follia tedesca, avrei potuto autoconvincermi che qualunque cosa si fosse detta sul mio conto non era comunque vera. Io sono vero soltanto per come io stesso mi vedo e mi comprendo nel mio spazio interiore; io sono ciò che sono per me e in me, nient'altro.
Non voglio negare che talvolta cedetti a simile tentazione. Posso però testimoniare che imparai infine a resisterle e che già allora, nel 1935, avvertii oscuramente la necessità di convincere della mia dignità questo mondo che non rompeva con sdegnata unanimità tutti i rapporti con il Terzo Reich. Compresi, sia pure indistintamente, che avrei dovuto accettare il verdetto in quanto tale, ma che avrei potuto costringere il mondo a rivederlo. Accettai il verdetto del mondo, decidendo al contempo di superarlo nella ribellione.
La ribellione, certo, ecco un'altra parola tonante. Potrebbe indurre qualcuno a pensare che io sia stato un eroe o che voglia spacciarmi per tale. Ero tutt'altro che un eroe. Quando, dapprima a Vienna, poi a Bruxelles, m'imbattevo nelle piccole Volkswagen grigie targate POL, la paura mi paralizzava. Quando il Kapo alzava il braccio per colpirmi, non ero saldo come una roccia, mi abbassavo. Nondimeno ho cercato di avviare il processo per la riconquista della mia dignità e questo, al di là della mia sopravvivenza fisica, mi ha fornito una ridottissima possibilità di superare anche moralmente l'orrore. Non sono molti i punti a mio favore, ma quei pochi voglio registrarli. Ho preso su di me il fatto di essere ebreo, sebbene esistessero alcune possibilità di trovare un accordo. Ho accettato di schierarmi a fianco di un movimento di resistenza le cui concrete prospettive politiche erano molto limitate. E infine riappresi anche ciò che io e i miei simili avevamo spesso dimenticato e che contava più della capacità di resistenza morale: la capacità di ribattere il colpo.
Ricordo il Kapo Juszek, un criminale polacco di terrificante vigoria. Ad Auschwitz per una inezia una volta mi colpì sul volto: era abituato a trattare così tutti gli ebrei del suo Kommando. In quell'istante, lo avvertii con acuta lucidità, toccava a me fare un ulteriore passo sulla via del mio lungo processo di appello contro la società. Ribellandomi apertamente, a mia volta colpii al volto il Kapo Juszek: la mia dignità si era espressa nel pugno stampato sulla sua mascella, e il fatto che alla fine fui io, fisicamente molto più debole, a soccombere e a prenderle di santa ragione, non ebbe più alcuna importanza. Percosso e dolorante, ero però soddisfatto di me stesso. Non tuttavia per il coraggio e l'onore, ma solo perché avevo ben compreso che nella vita vi sono situazioni in cui il nostro corpo è tutto il nostro Io e tutto il nostro destino. Ero il mio corpo e null'altro: nella fame, nel colpo che subii, nel colpo che diedi. Il mio corpo, sfinito e incrostato di sporcizia rappresentava la mia miseria. Il mio corpo, nel momento in cui si tendeva per sferrare il colpo, era la mia dignità fisica e metafisica. La violenza fisica, in situazioni simili alla mia, è l'unico mezzo che consenta di ristabilire un equilibrio in una personalità che ha perso il suo centro. Nel colpo io ero me stesso: lo ero per me e per l'avversario. Allora, quando realizzai a livello sociale la mia dignità sferrando un pugno al volto di un essere umano, anticipai quanto successivamente, sviluppato a livello teorico, lessi nel libro di Frantz Fanon, "I dannati della terra", un'analisi del comportamento dei popoli coloniali. Essere ebreo significava da un lato accettare come universale la condanna a morte pronunciata dal mondo, condanna di fronte alla quale la fuga nell'interiorità sarebbe stata solo vergogna, e dall'altro ribellarsi fisicamente alla stessa. Divenni essere umano non facendo interiormente appello alla mia essenza umana astratta, ma ritrovandomi e realizzandomi completamente nella dimensione dell'ebreo che si ribellava nella concreta realtà sociale.
Il processo, dicevo, proseguì e tuttora prosegue. Al momento per me non è né vinto, né perso. Vi fu, dopo il crollo del Reich nazionalsocialista un breve momento della storia, in cui potei ritenere che tutto fosse radicalmente mutato. Per breve tempo allora potei cullarmi nell'illusione che la mia dignità fosse stata pienamente ristabilita, grazie alla mia, sia pure modesta, attività nella resistenza, grazie all'eroica insurrezione del ghetto di Varsavia, in particolare però grazie al disprezzo che il mondo manifestava a coloro che mi avevano privato della dignità. Potevo ritenere che la privazione della dignità da noi subita, fosse stata un errore della storia, un'aberrazione, una malattia collettiva del mondo, dalla quale il mondo stesso era guarito nel momento in cui a Reims i generali tedeschi avevano firmato la capitolazione nelle mani di Eisenhower. Dovetti ben presto ricredermi. In Polonia e in Ucraina vi furono - erano appena state scoperte le fosse comuni di ebrei - disordini antisemitici. In Francia la piccola borghesia, tanto facilmente suggestionabile, si era lasciata contagiare dagli occupanti. Quando i sopravvissuti e gli esuli facevano ritorno e chiedevano di riavere le loro vecchie case, accadeva che semplici massaie, in una strana mescolanza di soddisfazione e delusione, dicessero: «Tiens, ils reviennent, on ne les a tout de mme pas "tous" tué.» Persino in paesi in cui in passato l'antisemitismo non era praticamente esistito, come in Olanda, improvvisamente affiorò, relitto della propaganda tedesca, un «problema ebraico», pur non essendovi quasi ebrei. L'Inghilterra cercava di impedire che gli ebrei sfuggiti ai campi e alle prigioni, immigrassero in Palestina, allora suo mandato. In breve tempo dovetti riconoscere che poco era mutato, che continuavo a essere un condannato a morte cui era stata sospesa la pena, sebbene il potenziale boia adesso si muovesse con una certa prudenza, o addirittura protestasse a viva voce la propria disapprovazione per l'accaduto.
Compresi la realtà. Ma avrebbe forse dovuto indurmi a, come si suol dire, occuparmi dell'antisemitismo? Nient'affatto. L'antisemitismo e la questione ebraica in quanto fenomeni storici, socialmente determinati, spirituali, non mi riguardavano e non mi riguardano. Sono in tutto e per tutto problema degli antisemiti, sono la loro vergogna o la loro malattia. Erano gli antisemiti a dover superare il proprio atteggiamento, non io. Farei il loro sporco gioco se volessi esaminare quanta parte ebbero i fattori religiosi, economici e di altro tipo nelle persecuzioni degli ebrei. Se mi facessi carico di simili analisi, non farei che accettare l'inganno intellettuale della cosiddetta oggettività storica, secondo la quale gli assassinati sono colpevoli quanto, se non addirittura più, degli assassini. Mi è stata inferta una ferita. Ho il dovere di disinfettarla e di fasciarla, non di riflettere sul perché l'aguzzino abbia alzato la mazza, non di comprendere i suoi motivi e di arrivare quasi a discolparlo.
Gli antisemiti non mi interessavano, dovevo venire a capo solo della mia esistenza. Il che era di per sé abbastanza difficile. Talune occasioni che mi si erano presentate negli anni di guerra erano ormai svanite. Tra il 1945 e il 1947 non avrei certo potuto appuntarmi una stella gialla senza sentirmi ridicolo o esaltato. Né vi era la possibilità di colpire al volto il nemico, perché non era più immediatamente riconoscibile. La riconquista della dignità - urgente quanto negli anni della guerra e del nazionalsocialismo, ma infinitamente più difficile in un'ingannevole atmosfera di pace - era ancora al contempo necessità e desiderio. Con maggiore chiarezza rispetto ai giorni in cui la ribellione fisica era comunque possibile dovetti tuttavia riconoscere che mi trovavo di fronte a un obbligo e a un'impossibilità.
A questo punto mi vedo costretto a soffermarmi qualche istante, e a differenziarmi da tutti quegli ebrei che hanno descritto esperienze diverse dalla mia. Nel suo libro "La condition réflexive de l'homme juif", il filosofo francese Robert Misrahi ha scritto: «La catastrofe nazista in futuro sarà il punto di riferimento assoluto e radicale per ogni ebreo.» Non ho motivo di mettere in dubbio questa asserzione, e tuttavia sono convinto che non ogni coscienza ebraica sia all'altezza di questa correlazione. Gli anni 1933-45 possono costituire un punto di riferimento solo per coloro che hanno alle spalle un destino simile al mio. Non lo dico con orgoglio, sia chiaro. Sarebbe oltremodo ridicolo rivendicare orgogliosamente qualcosa che non si è fatto, ma solo subìto. E' piuttosto con un senso di vergogna che faccio valere e comprendere il mio triste privilegio: è vero che la catastrofe come punto di riferimento esistenziale vale per tutti gli ebrei, tuttavia solo noi, le vittime, siamo in grado di spiritualmente rivivere e anticipare quell'avvenimento catastrofico. Non sia impedito agli altri di immedesimarsi. Riflettano su un destino che ieri avrebbe potuto e domani potrà essere il loro. I loro sforzi spirituali godranno del nostro rispetto, ma sarà un rispetto minato da scetticismo, e nel corso del dialogo ben presto ammutoliremo e tra noi e noi diremo: coraggio, brava gente, datevi da fare quanto volete, ma discorrerete sempre come un cieco può discorrere del colore.
Chiudo la parentesi. Sono tornato solo con me stesso e con qualche intimo compagno. Mi ritrovo negli anni del dopoguerra, quando non si poteva più reagire con atti di violenza a qualcosa che non si faceva conoscere chiaramente. Ancora una volta mi confronto con l'obbligo e l'impossibilità.
Questa impossibilità non vale per tutti, è evidente. Fra gli ebrei del nostro tempo, che si tratti di operai di Kiev, di uomini d'affari di Brooklyn, di contadini del Negev, vi sono molti uomini e donne il cui essere ebrei è sempre stato, e tuttora è, un fatto positivo. Parlano yiddish o ebraico. Santificano il sabbath, interpretano il Talmud, i giovani soldati salutano militarmente la bandiera bianco-celeste con la stella di Davide. In senso religioso, nazionale o - di fronte all'immagine del nonno con i boccoli sulle tempie - magari solo individuale e pietoso, sono "ebrei" in quanto membri di una comunità. Forse si potrebbe aprire una breve parentesi e chiedersi con il sociologo Georges Friedmann se saranno tali anche i loro discendenti o se non si stia invece avviando la fine del popolo ebraico, sia nel paese mediterraneo, dove già oggi l'israeliano sostituisce l'ebreo, che nella diaspora, dove in ultima analisi potrebbe avvenire il processo di amalgama totale degli ebrei non tanto con i popoli ospiti, che a loro volta stanno smarrendo il loro carattere nazionale, quanto con l'unità più vasta del mondo tecnico-industriale.
Non cerco risposta a questo interrogativo. L'esistenza o la scomparsa del popolo ebraico in quanto comunità etnico-religiosa non turba il mio animo. Nelle mie considerazioni non c'è spazio per gli ebrei che sono tali perché una tradizione offre loro riparo. Posso parlare solo per me stesso: e forse, seppure con prudenza, per quei milioni di contemporanei sui quali l'essere ebrei calò all'improvviso, al pari di un cataclisma, e che debbono farvi fronte senza dio, senza storia, senza speranze di ordine messianico-nazionale. Per loro, per me, essere ebrei significa sentire in sé il pondo della tragedia di ieri. Sul mio avambraccio sinistro ho tatuato il numero di Auschwitz; si legge più in fretta del Pentateuco o del Talmud, eppure è più esaustivo. E' anche più vincolante come espressione tipica dell'esistenza ebraica. Se a me stesso e al mondo, compresi gli ebrei religiosi o di tendenze nazionali che non mi annoverano fra i loro, dico: io sono ebreo, mi riferisco alle realtà e potenzialità sintetizzate del numero di Auschwitz.
Nei due decenni successivi alla mia liberazione, ho faticosamente compreso che la determinazione positiva della propria esistenza è di secondaria importanza. Che sia ebreo chi dagli altri è considerato tale, lo ha già detto Sartre, e Max Frisch in "Andorra" lo ha successivamente rappresentato a livello drammaturgico. E' una considerazione che condivido; mi sia però concessa un'integrazione. Infatti anche quando gli altri non mi determinano in quanto ebreo come accadde a quel povero diavolo in "Andorra", che farebbe volentieri il falegname e che gli altri vogliono obbligare a fare il commerciante - io sono comunque ebreo per il semplice fatto che l'ambiente non mi stabilisce espressamente come non-ebreo. Essere qualcosa può voler dire che "non" si è qualcos'altro. In quanto non-non-ebreo sono ebreo, devo esserlo e devo volerlo essere. Devo accettarlo e ribadirlo nella mia esistenza quotidiana, dicendo la mia quando dal verduraio si fanno battute sugli ebrei, rivolgendomi per radio a degli sconosciuti, scrivendo articoli per una rivista.
Essere ebrei non significa tuttavia solo portare in sé una catastrofe avvenuta ieri e che non si può escludere per il domani: essere ebrei è, oltre che compito, "paura". Ogni mattina, alzandomi, scorgo sul mio braccio il numero di Auschwitz; è un fatto che tocca i più profondi grovigli della mia esistenza, che scuote l'esistenza stessa. Ogni giorno rivivo all'incirca la sensazione che provai quando dalla polizia ricevetti il primo pugno in faccia. Ogni giorno torno a perdere la fiducia nel mondo. L'ebreo non determinabile positivamente, l'ebreo della catastrofe, come indubbiamente possiamo chiamarlo, deve arrangiarsi senza fiducia nel mondo. La vicina saluta gentilmente, "Bonjour monsieur"; "Bonjour madame" saluto a mia volta scappellandomi. Madame e monsieur tuttavia sono separati da distanze astronomiche, perché ieri fu una madame ad abbassare lo sguardo quando un monsieur venne arrestato, e un monsieur osservava una madame attraverso le inferiate del cellulare, come si osserva un angelo di pietra generato da un cielo chiaro e duro, eternamente precluso agli ebrei. Leggo un avviso pubblico in cui "la population" è invitata a fare una certa cosa, a disporre per tempo i secchi dell'immondizia o a esporre le bandiere per la festa nazionale. "La population". Un altro di questi regni extraterrestri, che a me è precluso quanto il castello di Kafka, perché "la population" ieri ebbe molta paura a nascondermi ed è ancora da vedere se domani, nel caso dovessi bussare, dimostrerebbe maggiore coraggio.
Dalla catastrofe sono passati vent'anni. Anni carichi di onori per quelli come noi. Premi Nobel a profusione. Vi sono stati presidenti del consiglio francesi di nome René Mayer, Pierre Mendès-France; un delegato americano dell'ONU, tale Goldberg, è impegnato nel più onorevole patriottismo anticomunista di stampo americano. Non mi fido di questa pace. Dichiarazioni dei diritti dell'uomo, costituzioni democratiche, il mondo libero, la libera stampa. Niente può cullarmi nuovamente nel sonno di sicurezza, dal quale mi svegliai nel 1935. Essendo ebreo, attraverso il mondo come un individuo afflitto da uno di quei mali che non procurano troppe sofferenze, ma che hanno esito certamente letale. Non ha sempre sofferto di questa malattia. Quando sbuccia la cipolla alla ricerca del suo Io, al pari di Peer Gynt, non trova il Male. Primo giorno di scuola, primo amore, prime poesie: queste cose non c'entravano. Adesso però è un malato, prima ancora e più profondamente di essere sarto, contabile o poeta. Così anch'io sono proprio ciò che non sono prima di ogni altra cosa, perché non lo ero, prima di diventarlo: un ebreo. La morte alla quale il malato non potrà sfuggire, è per me la minaccia "Bonjour madame, bonjour monsieur", così si salutano. Ma la donna non può prendere, e non prenderà su di sé l'infermità del vicino, per soffrirne lei stessa sino alla morte. Così restano estranei.
Privo di fiducia nel mondo, come ebreo mi sento estraneo e solo nell'ambiente in cui vivo e non mi resta che adattarmi a questa estraneità. Devo accettare l'estraneità come elemento proprio della mia personalità, insistere su di essa come su una proprietà inalienabile. Ancora, e ogni giorno di nuovo, mi trovo nella solitudine. Non sono riuscito a trascinare gli assassini di ieri e i potenziali aggressori di domani nella verità morale dei loro misfatti, perché il mondo nella sua totalità non mi ha aiutato nel mio intento. Così sono solo, come allora sotto tortura. Coloro che mi circondano non mi si presentano come avversi, come accadeva per gli aguzzini. Sono esseri umani a me contigui, non turbati dalla mia presenza e dalla minaccia che ovunque mi segue. Li incrocio e li saluto senza rancore. Non possono essere loro il mio punto di riferimento, ma solo un'ebraicità non determinabile in senso positivo: è questo il mio fardello e il mio sostegno.
Il legame fra me e il mondo - alla cui mai revocata sentenza di morte riconosco realtà sociale - si esprime nella polemica. Non volete ascoltare? Ascoltate. Non volete sapere dove la vostra indifferenza può condurci in ogni istante? Io ve lo dico. Quanto è accaduto non vi riguarda perché non sapevate o eravate troppo giovani o addirittura non ancora nati? Avreste dovuto aprire gli occhi, la vostra gioventù non è un salvacondotto e rompete con vostro padre.
Devo ripropormi l'interrogativo cui avevo brevemente accennato nella mia analisi dei risentimenti: sono forse psicologicamente disturbato, soffro magari di un male incurabile, di una forma di isteria? La domanda è puramente retorica. La risposta l'ho trovata da molto tempo ed è assai concisa. Il mio tormento non è provocato da una nevrosi, bensì da una realtà su cui ho attentamente riflettuto. Non erano allucinazioni isteriche né il "verrecke!", né i commenti della gente, secondo la quale se non vi fosse stato qualche fondato sospetto, gli ebrei non sarebbero stati trattati con tanta durezza. «Se li arrestano qualcosa devono aver combinato», disse una sana operaia socialdemocratica a Vienna. «Che crudeltà quello che stanno facendo agli ebrei, mais enfin...», ragionava a Bruxelles un tale animato da spirito umanitario e patriottico. Ne devo per forza dedurre che non sono e non ero disturbato, e che la nevrosi va attribuita agli avvenimenti storici. I folli sono gli altri, e io mi aggiro smarrito fra loro, come un savio che nel corso di una visita in una clinica psichiatrica improvvisamente perda di vista medici e infermieri. Essendo immediatamente eseguibile, la sentenza pronunciata contro di me dai folli risulta pienamente vincolante, e la mia chiarezza di spirito invece del tutto priva di rilevanza.
Le mie riflessioni volgono al termine. Dopo aver chiarito come mi muovo nel mondo, è forse giunto il momento di spiegare in quali rapporti sono con quelli della mia stirpe, gli ebrei. Ma siamo veramente imparentati? Gli esiti cui può giungere uno studioso delle razze in merito a questo o quel mio tratto somatico ebraico, possono avere una qualche importanza se mi vengo a trovare nel bel mezzo di una massa che - dàgli, dàgli addosso! - pratica la caccia agli ebrei. E' privo di significato quando sono solo con me stesso o fra ebrei. Ho un naso da ebreo? Potrebbe rivelarsi una calamità nel momento in cui - dàgli addosso! - iniziasse la caccia. Ma non stabilisce alcun nesso con alcun altro naso da ebreo del mondo. L'aspetto esteriore da ebreo che forse, non so, mi è proprio, è un problema che riguarda gli altri, e diviene anche il mio solo nel rapporto oggettivo che essi stabiliscono con me. Se anche sembrassi uscito dal libro di Johann von Leer "Juden sehen dich an", il fatto non avrebbe per me alcuna realtà soggettiva e fra me e i miei simili ebrei determinerebbe forse una identità di destino ma non una comunanza positiva. Non resta quindi che il rapporto spirituale, o meglio il rapporto percepito al livello di coscienza, fra ebrei, ebraismo e me.
Ho già anticipato che si tratta di un non-rapporto. Con gli ebrei in quanto ebrei non condivido quasi nulla: non la lingua, non la tradizione culturale, non i ricordi d'infanzia. Nel Vorarlberg, in Austria, viveva un tale, proprietario di un ristorante e di una macelleria, del quale mi raccontavano che parlava correntemente l'ebraico. Era il mio bisnonno. Non l'ho mai conosciuto e deve essere morto quasi cent'anni fa. Prima della catastrofe il mio interesse per l'ebraismo e gli ebrei era a tal punto limitato che oggi non saprei dire nel modo più assoluto chi dei conoscenti di allora fosse ebreo e chi no. Risulterebbe vano ogni tentativo di ritrovare nella storia ebraica la mia storia, nella cultura ebraica un mio patrimonio, nel folclore ebraico le mie personali reminiscenze. L'ambiente in cui mi sono mosso negli anni in cui si scopre il proprio io non era ebraico e questo non lo si può annullare. In ogni caso l'inutilità della ricerca di un me stesso ebraico non impedisce che mi senta solidale con tutti gli ebrei minacciati di questo mondo.
Apprendo dal giornale che a Mosca sarebbe stata scoperta una panetteria illegale per la produzione del pane azzimo ebraico e che il panettiere sarebbe stato arrestato. Come genere alimentare, ai tradizionali mazzot degli ebrei tutto sommato preferisco le fette di segale. Tuttavia il modo di procedere delle autorità sovietiche mi turba, anzi mi indigna. Negli Stati Uniti un qualche country-club, a quanto pare non accetta soci ebrei. In nessun caso vorrei far parte di questa squallida associazione, tuttavia mi schiero a fianco degli ebrei che chiedono di potersi iscrivere. Che un qualche uomo di stato arabo pretenda di cancellare Israele dalla carta geografica mi colpisce profondamente, sebbene non abbia mai visitato lo stato di Israele e non abbia la minima inclinazione ad andarci a vivere. La solidarietà con tutti gli ebrei minacciati nella loro libertà, nella parità di diritti o addirittura nella loro esistenza fisica è "anche" ma "non solo" una reazione all'antisemitismo, che secondo Sartre non è un'opinione, ma la predisposizione e la disponibilità al crimine del genocidio: essa è parte della mia persona ed è un'arma nella lotta per riconquistare la dignità. Solo quando, pur senza essere ebreo nel senso di una determinazione positiva, sarò ebreo nella coscienza e nell'accettazione del verdetto universale emesso contro gli ebrei e infine sarò parte attiva nel processo d'appello storico, solo allora potrò pronunciare la parola libertà.
La solidarietà di fronte alla minaccia è tutto ciò che mi lega ai miei contemporanei ebrei, ai credenti come ai non credenti, a quelli di tendenze nazionali come a quelli favorevoli all'assimilazione. Per loro significa poco o nulla. Per me e per la mia continuità tuttavia significa molto, forse più della mia comprensione dei libri di Proust, della mia fedeltà ai racconti di Schnitzler, del mio amore per il paesaggio fiammingo. Senza Proust e Schnitzler e i pioppi piegati dai venti del Mare del Nord, sarei più povero di quanto non sia, ma sarei pur sempre un uomo. Senza il sentimento di affinità con i minacciati sarei un esule dalla realtà che rinuncia a sé stesso.
Sottolineo la parola realtà, perché in ultima analisi è questa che conta per me. L'antisemitismo che mi ha generato come ebreo potrà anche essere una follia; non è questo il punto. Follia o meno, è infatti comunque un fatto storico e sociale: ad Auschwitz ci sono stato veramente e non nell'immaginazione di Himmler. E solo una totale cecità sociale e storica potrebbe negare che è ancora reale. Lo è nei paesi in cui ebbe origine, in Austria e Germania, dove i criminali nazisti sono assolti o condannati a pene irrisorie, che finiscono per scontare in minima parte. E' realtà in Inghilterra e negli Stati Uniti dove gli ebrei anche se tollerati, non sarebbero certo pianti se un giorno dovessero scomparire. E' realtà negli stati arabi, sotto forma di antisionismo nazionale. E' realtà, e quanto gravida di conseguenze, nella sfera spirituale della Chiesa cattolica; la complessità e la mancanza di chiarezza che durante il Concilio hanno caratterizzato le consultazioni in merito alla cosiddetta Dichiarazione sugli ebrei hanno provocato un doloroso senso di vergogna, nonostante il comportamento dignitoso di non pochi esponenti dell'alto clero.
E' possibile, ma date le circostanze nient'affatto scontato, che nelle fabbriche di morte dei nazisti si sia svolto l'ultimo atto del grande dramma storico della persecuzione degli ebrei. Io ritengo che la drammaturgia dell'antisemitismo sopravviva ancora. Non si può escludere la possibilità di un nuovo genocidio degli ebrei. Cosa accadrebbe se i paesi arabi, attualmente riforniti di armi sia dai paesi orientali che da quelli occidentali, infliggessero una definitiva sconfitta militare al piccolo Stato di Israele? Cosa significherebbe non solo per i negri, ma anche per gli ebrei, un'America sotto dittatura militare fascista? Quale sarebbe stato il destino degli ebrei in Francia, nel paese europeo in cui attualmente la loro percentuale è più alta, se all'inizio in questo decennio avesse trionfato non de Gaulle ma l'O.A.S.?
Con una certa riluttanza, in uno studio di un giovanissimo ebreo olandese leggo la seguente definizione dell'ebreo: «L'ebreo può essere descritto come una persona che rispetto ai suoi concittadini che non hanno mai subito persecuzioni è maggiormente dominata dall'angoscia, dalla diffidenza, dallo scontento.» La definizione, apparentemente corretta, è errata perché priva di una aggiunta indispensabile, che potrebbe essere la seguente: «... perché per validi motivi in ogni istante egli si aspetta una nuova catastrofe». Tutto ruota intorno alla consapevolezza del cataclisma passato e ai legittimi timori di un cataclisma futuro. Io che li ho in me entrambi - e il secondo pesa doppio perché al primo sono sopravvissuto per caso - non sono «traumatizzato», ed esisto invece in pieno rapporto spirituale e psichico con la realtà. La coscienza del mio essere ebreo nella catastrofe non è un'ideologia. E' paragonabile alla coscienza di classe che Marx cercava di svelare ai proletari del diciannovesimo secolo. Con la mia esistenza io sperimento e rischiaro una realtà storica della mia epoca, e poiché l'ho vissuta più profondamente della maggior parte di quelli della mia stirpe, sono anche in grado di rischiararla meglio. Il merito e l'intelligenza non c'entrano, è un semplice caso del destino.
Sarebbe tutto più facile da sopportare se la mia affezione per gli altri ebrei non si esaurisse in solidarietà ribellistica, se l'obbligo non urtasse sempre contro l'impossibilità. Lo so sin troppo bene. Ero seduto accanto a un amico ebreo durante una esecuzione di "Un sopravvissuto di Varsavia" di Arnold Schnberg: quando il coro, accompagnato dai tromboni, intonò "Shemà Israel", egli si fece pallidissimo, e il sudore gli imperlò la fronte. Il mio cuore non batté più in fretta, ma io mi sentii più misero del mio compagno, rimasto sconvolto dalla preghiera ebraica accompagnata dai suoni dei tromboni. Non riesco, pensai successivamente, a essere ebreo nella commozione, solo nell'angoscia e nella rabbia, quando l'angoscia, per conquistare dignità, si trasforma in rabbia. L'«ascolta Israele» non mi riguarda. Dal mio intimo vorrebbe rabbiosamente prorompere solo un «ascolta mondo». Lo esige il numero a sei cifre sul mio avambraccio. Lo esige il senso di catastrofe che domina la mia esistenza.
Mi sono sovente chiesto se sia umanamente possibile vivere nella costante tensione tra angoscia e rabbia. Al lettore di queste riflessioni, l'autore, nella sua amarezza, se non nella sua sete di vendetta, potrà essere parso un mostro. Forse una simile valutazione ha in sé una traccia, ma appunto solo una traccia, di verità. Chi tenta di essere ebreo in modo simile al mio e nelle condizioni a me imposte, chi, illuminando la propria esistenza determinata dalla catastrofe, spera di condensare in sé e di dar forma alla realtà della cosiddetta questione ebraica, ha smarrito l'ingenuità. Le sue parole non sono un balsamo. Solo a fatica compie il gesto generoso. Non ne consegue che l'angoscia e la rabbia lo condannino necessariamente a una minore rettitudine rispetto ai suoi contemporanei eticamente ispirati. Può avere degli amici, e li ha persino fra gli appartenenti a quei popoli che lo hanno esposto per sempre all'altalena di angoscia e rabbia. Al pari degli indenni, e con sensibilità non inferiore, è in grado di leggere libri, di ascoltare musica. Se si tratta di questioni morali si mostrerà probabilmente più sensibile a ogni forma d'ingiustizia che non il suo prossimo. Le fotografie di poliziotti sudafricani che bastonano la gente o di sceriffi americani che scatenano i loro cani ringhiosi contro esponenti neri dei movimenti per i diritti civili, senza dubbio susciteranno la sua profonda indignazione. Non perché mi fu tanto arduo divenire uomo ho smarrito la mia umanità.
Dalle persone fra le quali trascorro le mie giornate, null'altro infine mi distingue se non un'inquietudine che avverto in misura ora più ora meno intensa. Si tratta tuttavia di un'inquietudine "sociale", non metafisica. Non l'essere mi tormenta, o il nulla o Dio o l'assenza di Dio, solo la società: essa, solo essa, infatti ha provocato l'alterazione esistenziale dell'equilibrio alla quale cerco di contrapporre un portamento eretto. Essa, e solo essa mi ha privato della fiducia nel mondo. Il tormento metafisico è una preoccupazione raffinata di primaria importanza. Riguarda coloro che hanno sempre saputo chi e cosa sono, perché lo sono, e che potranno essere tali anche in futuro. Non riguarda me: e non è per questo che mi sento povero di fronte a loro.
Nel mio costante sforzo di scandagliare la condizione di fondo dell'essere vittima, nell'impatto tra obbligo e impossibilità di essere ebreo, credo di avere sperimentato che le pretese e le rivendicazioni estreme che siamo costretti ad affrontare sono di natura fisica e sociale. So bene che queste esperienze mi hanno reso inabile e alle speculazioni profonde e a quelle elevate. Che possano avermi fornito migliori strumenti per comprendere la realtà, è infine mia speranza.