GLI STEREOTIPI DELLA PERSECUZIONE.
Mi occuperò soltanto delle persecuzioni collettive o con risonanze collettive. Per persecuzioni collettive intendo le violenze commesse direttamente da folle omicide, come il massacro degli Ebrei durante la peste nera. Per persecuzioni con risonanze collettive intendo violenze come la caccia alle streghe, legali nelle loro forme, ma generalmente incoraggiate da un'opinione pubblica sovraeccitata. La distinzione non è comunque essenziale. Nei terrori politici, come quello della Rivoluzione francese in particolare, ritroviamo spesso sia l'uno sia l'altro tipo. Le persecuzioni che ci interessano si svolgono di preferenza durante periodi di crisi che comportano l'indebolimento delle istituzioni normali e favoriscono la formazione di "folle", cioè di assembramenti popolari spontanei, suscettibili di sostituirsi interamente a istituzioni indebolite o di esercitare su queste una pressione decisiva.
Le circostanze che favoriscono questi fenomeni non sono sempre le stesse. A volte si tratta di cause esterne come le epidemie o ancora una estrema siccità oppure un'inondazione, che provocano una carestia. A volte si tratta di cause interne, discordie politiche oppure conflitti religiosi. Fortunatamente la determinazione delle cause reali non è necessaria, per noi. Quali che siano in effetti le loro vere cause, le crisi che scatenano le grandi persecuzioni collettive sono sempre vissute più o meno nello stesso modo da quelli che le subiscono. L'impressione più viva è invariabilmente quella di una radicale rovina del sociale stesso, la fine delle regole e delle «differenze» che definiscono gli ordini culturali. Le descrizioni si somigliano tutte. Possono venire dai più grandi scrittori, per esempio, nel caso della peste, da Tucidide e da Sofocle fino al testo di Antonin Artaud, passando per Lucrezio, Boccaccio, Shakespeare, De Foe, Thomas Mann e molti altri ancora. Possono venire da individui senza pretese letterarie, e non differiscono mai di molto. Fatto non sorprendente poiché queste descrizioni dicono e ridicono instancabilmente la perdita di ogni differenza; si tratta dell'indifferenziazione del culturale stesso e di tutte le confusioni che ne risultano. Ecco, per esempio, quello che scrive il monaco portoghese Fco de Santa Maria nel 1697:
«Dal momento in cui divampa in un regno o in una repubblica questo fuoco violento e impetuoso, si vedono i magistrati frastornati, le popolazioni spaventate, il governo politico disarticolato. La giustizia non viene più rispettata; le attività si fermano; le famiglie perdono la loro coesione, e le strade la loro animazione. Tutto è ridotto in uno stato di estrema confusione. Tutto è rovina. Poiché tutto è colpito e sconvolto dal peso e dalla grandezza di una calamità così orrenda. Le persone, senza distinzione di condizione o di ricchezza, affogano in una tristezza mortale... Quelli che ieri seppellivano oggi sono seppelliti... Si nega qualsiasi pietà agli amici perché ogni forma di pietà è pericolosa...
«Dato che tutte le leggi dell'amore e della natura giacciono sommerse o dimenticate tra gli orrori di una confusione così grande, i bambini vengono all'improvviso separati dai genitori, le mogli dai mariti, i fratelli o gli amici tra di loro... Gli uomini perdono il loro coraggio naturale e, non sapendo più quale consiglio seguire, vagano disperati simili a ciechi che inciampano a ogni passo sulla loro paura e sulle loro contraddizioni» (1).
Il crollo delle istituzioni cancella o comprime le differenze gerarchiche e funzionali, conferendo a ogni cosa un aspetto insieme monotono e mostruoso. In una società non in crisi, l'impressione della differenza è suscitata allo stesso tempo sia dalla diversità del reale, sia da un sistema di scambi che "differenzia", e quindi dissimula, gli elementi di reciprocità che esso necessariamente comporta, pena la possibilità di non costituire più un sistema di scambi, cioè una cultura. Gli scambi matrimoniali, per esempio, o perfino lo scambio dei beni di consumo, non sono molto visibili in quanto scambi. Quando la società va verso la rovina, invece, le scadenze si ravvicinano, una reciprocità più rapida si instaura non soltanto negli scambi positivi, che non sussistono più se non nella stretta misura dell'indispensabile (nella forma del baratto, per esempio), ma anche negli scambi ostili o 'negativi', che tendono a moltiplicarsi. La reciprocità, che diventa visibile accorciandosi, per così dire, non è quella dei buoni comportamenti, ma dei cattivi, è la reciprocità degli insulti, dei colpi, della vendetta e dei sintomi nevrotici. Proprio per questo le culture tradizionali non vogliono saperne di questa reciprocità troppo immediata.
Anche se oppone gli uomini tra loro, questa reciprocità cattiva rende i comportamenti uniformi ed è all'origine di una predominanza dello "stesso", sempre un po' paradossale perché essenzialmente conflittuale e solipsistica. L'esperienza dell'indifferenziazione corrisponde dunque a qualcosa di reale sul piano dei rapporti umani, ma non per questo è meno mitica. Gli uomini, ed è quello che succede ancora una volta nella nostra epoca, tendono a proiettarla sull'universo intero e ad assolutizzarla.
Il testo che ho appena citato mette bene in evidenza questo processo di uniformazione tramite reciprocità: «Quelli che ieri seppellivano oggi sono seppelliti... Si nega qualsiasi pietà agli amici perché ogni forma di pietà è pericolosa...», «... i bambini vengono all'improvviso separati dai genitori, le mogli dai mariti, i fratelli o gli amici tra di loro...». L'identità dei comportamenti causa il sentimento di una confusione e di una indifferenziazione universali: «Le persone, senza distinzione di condizione o di ricchezza, affogano in una tristezza mortale...», «Tutto è ridotto in uno stato di estrema confusione».
L'esperienza delle grandi crisi sociali non è molto intaccata dalla diversità delle cause reali. Ne risulta una grande uniformità nelle descrizioni che si basano sull'uniformità stessa. Guillaume de Machaut non fa eccezione. Vede nel ripiegamento egoista dell'individuo su se stesso e nel gioco di rappresaglie che determina, cioè nelle sue conseguenze paradossalmente reciproche, una delle cause principali della peste. Si può dunque parlare di uno stereotipo della crisi e bisogna vedervi, logicamente e cronologicamente, il primo stereotipo della persecuzione. E' il culturale che in qualche maniera si eclissa, indifferenziandosi. Una volta compreso questo, si afferra meglio la coerenza del meccanismo persecutorio e il tipo di logica che collega tra di loro tutti gli stereotipi di cui esso si compone.
Di fronte all'eclissi del culturale gli uomini si sentono impotenti; l'immensità del disastro li sconcerta, ma non viene loro in mente di interessarsi alle sue cause naturali; l'idea che potrebbero agire su queste cause imparando a conoscerle meglio rimane embrionale.
Poiché la crisi è innanzitutto crisi del sociale, esiste una forte tendenza a spiegarla attraverso cause sociali e soprattutto morali. Dopotutto, sono i rapporti umani che si disgregano e i soggetti di questi rapporti non potrebbero essere completamente estranei al fenomeno. Ma gli individui, invece di incolpare se stessi, tendono necessariamente a incolpare sia la società nel suo insieme, il che li porta al disimpegno, sia altri individui che sembrano loro particolarmente nocivi per ragioni facili da scoprire. I sospetti sono accusati di un tipo particolare di crimini.
Certe accuse sono talmente caratteristiche delle persecuzioni collettive che al solo nominarle gli osservatori moderni sospettano che ci sia un clima di violenza; cercano dappertutto altri indizi capaci di confermare il loro sospetto, ovvero altri stereotipi persecutorii.
A prima vista i capi d'accusa sono molto diversi, ma non è difficile individuare la loro unità. Vi sono innanzitutto i crimini di violenza che hanno per oggetto gli esseri verso i quali la violenza è più criminale - sia in senso assoluto sia relativamente all'individuo che commette quei crimini: il re, il padre, il simbolo dell'autorità suprema, e a volte, nelle società bibliche e moderne, anche gli esseri più deboli e disarmati, in particolare i bambini.
Vi sono quindi i crimini sessuali, lo stupro, l'incesto, la bestialità. I crimini più frequentemente invocati sono sempre quelli che trasgrediscono i tabù più rigorosi, relativamente alla cultura considerata.
Vi sono infine alcuni crimini religiosi, come la profanazione delle ostie. Anche in questo caso sono i tabù più severi che devono essere trasgrediti.
Tutti questi crimini sembrano fondamentali. Si rivolgono contro i fondamenti stessi dell'ordine culturale, le differenze familiari e gerarchiche senza le quali non vi sarebbe ordine sociale. Nella sfera dell'azione individuale corrispondono dunque alle conseguenze globali di un'epidemia di peste o di un disastro analogo. Non si contentano di allentare il legame sociale, lo distruggono completamente.
I persecutori finiscono sempre per convincersi che un piccolo numero di individui, persino uno solo, possa rendersi estremamente nocivo all'intera società malgrado la sua debolezza relativa. E' l'accusa stereotipata che legittima e facilita questa credenza giocando, con ogni evidenza, un ruolo mediatore. Essa fa da ponte tra la piccolezza dell'individuo e l'enormità del corpo sociale. Perché dei malfattori, anche diabolici, riescano a indifferenziare tutta la comunità, occorre sia che l'abbiano colpita direttamente al cuore o alla testa, sia che abbiano già commesso nella loro sfera individuale crimini contagiosamente indifferenziatori quali il parricidio, l'incesto, eccetera.
Non dobbiamo preoccuparci delle cause ultime di questa credenza, per esempio dei desideri inconsci di cui ci parlano gli psicoanalisti, o della segreta volontà di opprimere di cui parlano i marxisti. Noi ci situiamo al di qua; la nostra preoccupazione è più elementare; ci interessa soltanto la meccanica dell'accusa, e l'intreccio delle rappresentazioni e delle azioni persecutorie. Vi è qui un sistema e se, per comprenderlo, ci occorrono assolutamente delle cause, quella più immediata ed evidente ci basterà. Il terrore ispirato agli uomini dall'eclissi del culturale, la confusione universale che si esprime con l'insorgere della folla; quest'ultima, al limite, è tutt'uno con la comunità letteralmente de-differenziata, priva di tutto quello che "differenzia" gli uomini tra loro nel tempo e nello spazio: ecco, in effetti, che essi si rassomigliano in maniera disordinata in un solo luogo e in uno stesso momento.
La folla tende sempre verso la persecuzione perché le cause naturali di ciò che la sconvolge, di ciò che la trasforma in "turba", non possono interessarla. La folla, per definizione, cerca l'azione, ma non può agire sulle cause naturali. Cerca dunque una causa accessibile che sazi la sua brama di violenza. I membri della folla sono sempre dei persecutori in potenza, perché sognano di purgare la comunità dagli elementi impuri che la corrompono, dai traditori che la sovvertono. Il diventare folla della folla è una cosa sola con il richiamo oscuro che la riunisce o che la mobilita, in altre parole, che la trasforma in "mob". E' da "mobile", in effetti, che viene questo termine inglese distinto da "crowd" come in latino "turba" è distinto da "vulgus".
La mobilitazione è soltanto militare o partigiana, cioè contro un nemico già designato, o che lo sarà ben presto, se ancora non lo è stato, dalla folla stessa grazie alla sua mobilità.
Durante la peste nera circolavano tutte le accuse stereotipate a proposito degli Ebrei o di altri capri espiatori collettivi. Eppure Guillaume de Machaut non le nomina nemmeno. Ciò di cui accusa gli Ebrei, lo abbiamo visto, è l'avvelenamento dei fiumi. Mette da parte le accuse più incredibili, e la sua relativa moderazione è forse dovuta alla sua qualità di 'intellettuale'. Questa moderazione può avere anche un significato più generale, legato all'evoluzione delle mentalità alla fine del Medioevo.
Nel corso di questa evoluzione la credenza nelle forze occulte si indebolisce. Più tardi ci chiederemo il perché. La ricerca dei colpevoli si perpetua, ma esige dei crimini più razionali; cerca di darsi un corpo materiale, di arricchirsi di sostanza. Per questo, penso, sfocia frequentemente nel tema del "veleno". I persecutori sognano concentrati talmente velenosi che quantità molto ridotte basterebbero ad avvelenare intere popolazioni. Si tratta di zavorrare di materialità, cioè di logica 'scientifica', la gratuità ormai troppo evidente della causalità magica. La chimica sostituisce il demoniaco puro e semplice.
Lo scopo dell'operazione resta lo stesso. L'accusa di avvelenamento permette di addossare la responsabilità di disastri perfettamente reali a gente le cui attività criminali non sono state veramente scoperte. Grazie al veleno è possibile persuadersi che un piccolo gruppo, o anche un solo individuo, riesca a nuocere a tutta la società senza farsi scoprire. Il veleno è dunque nello stesso tempo meno mitico e altrettanto mitico delle accuse anteriori o addirittura del puro e semplice «malocchio» grazie al quale si può attribuire a qualsiasi individuo la responsabilità di qualsiasi sciagura. Bisogna dunque vedere nell'avvelenamento delle fonti d'acqua potabile una variante dello stereotipo accusatorio.
La prova che queste accuse rispondono tutte allo stesso bisogno è che esse sono tutte giustapposte nei processi di stregoneria. Le indiziate sono sempre incolpate di partecipazione notturna al famoso sabba. Nessun alibi è possibile perché la presenza fisica dell'accusata non è necessaria per stabilire la prova. La partecipazione alle riunioni criminali può essere puramente spirituale.
I crimini e i preparativi dei crimini di cui si compone il sabba sono ricchi di ripercussioni sociali. Si ritrovano gli abominii tradizionalmente attribuiti agli Ebrei in terra cristiana, e precedentemente ai cristiani nell'Impero romano. Si tratta sempre di infanticidio rituale, di profanazioni religiose, di rapporti incestuosi e di bestialità. Anche la preparazione dei veleni, però, ha una parte importante in queste storie, come pure le trame colpevoli contro personaggi influenti o prestigiosi. A dispetto della sua insignificanza personale, quindi, la strega si dedica ad attività suscettibili di intaccare il corpo sociale nel suo insieme. Ed è per questo che il diavolo e i suoi demoni non disdegnano di allearsi con lei.
Non dirò altro sulle accuse stereotipate. Non è difficile vedere in che cosa consiste il secondo stereotipo e soprattutto ciò che l'unisce al primo, quello della crisi indifferenziata.
Passo ora al terzo stereotipo. Succede che le vittime di una folla siano del tutto aleatorie; succede anche che non lo siano. Succede persino che i crimini di cui le si accusa siano sì reali, ma che, neanche in questo caso, essi siano determinanti nella scelta dei persecutori, mentre lo è, piuttosto, l'appartenenza delle vittime a certe categorie particolarmente esposte alla persecuzione. Tra i responsabili dell'avvelenamento dei fiumi, Guillaume de Machaut nomina per primi gli Ebrei. Di tutte le indicazioni che ci dà questa è la più preziosa ai nostri occhi, la più rivelatrice della distorsione persecutoria. Nel contesto degli altri stereotipi, immaginari e reali, noi sappiamo che questo stereotipo deve essere reale. Nella società occidentale e moderna, in effetti, gli Ebrei sono frequentemente perseguitati.
Le minoranze etniche e religiose tendono a polarizzare contro di sé le maggioranze. Vi è in questo un criterio di selezione vittimaria certamente proprio ad ogni società, ma transculturale nel suo principio. Non c'è, quasi, società che non sottometta le proprie minoranze, i propri gruppi mal integrati o anche semplicemente distinti, a certe forme di discriminazione se non di persecuzione. In India sono soprattutto i musulmani ad essere perseguitati e, in Pakistan, gli indù. Esistono dunque degli aspetti universali di selezione vittimaria, e sono questi che costituiscono il nostro terzo stereotipo.
Accanto ai criteri culturali e religiosi ve ne sono di puramente "fisici". La malattia, la follia, le deformità genetiche, le mutilazioni accidentali e perfino le infermità in generale tendono a polarizzare i persecutori. Per rendersi conto che in questo vi è qualcosa di universale basta guardare intorno a sé, o anche dentro di sé. Ancora oggi molte persone non possono reprimere, al primo contatto, un leggero ritrarsi di fronte all'anormalità fisica. La parola stessa "anormale", come la parola peste nel Medioevo, ha qualcosa del tabù; è insieme nobile e maledetta, "sacer" in tutti i sensi del termine. Si giudica più decente sostituirla con la parola d'origine inglese «handicappato».
Gli «handicappati» sono ancora oggetto di misure propriamente discriminatorie e vittimarie sproporzionate al turbamento che la loro presenza può arrecare alla fluidità degli scambi sociali. E' un segno di grandezza della nostra società che essa ormai si senta obbligata a prendere delle misure in loro favore.
L'infermità s'inscrive in un insieme indissociabile di segni vittimari, e in certi gruppi - un internato scolastico, per esempio - ogni individuo che prova delle difficoltà di adattamento, lo straniero, il provinciale, l'orfano, il figlio di famiglia, lo squattrinato o semplicemente l'ultimo arrivato, è più o meno intercambiabile con l'infermo.
Quando le infermità o le deformità sono reali, tendono a polarizzare gli spiriti 'primitivi' contro gli individui che ne sono afflitti. Parallelamente, quando un gruppo umano ha preso l'abitudine di scegliere le sue vittime in una certa categoria sociale, etnica, religiosa, tende ad attribuire a questa categoria le infermità o le deformità che rafforzerebbero la polarizzazione vittimaria se fossero reali. Questa tendenza si manifesta chiaramente nelle caricature razziste.
Non è soltanto nell'ambito fisico che si può trovare l'anormalità. Bensì in tutti gli ambiti dell'esistenza e del comportamento. Ed è in tutti gli ambiti, quindi, che l'anormalità può servire da criterio preferenziale nella selezione dei perseguitati.
Vi è, per esempio, una anormalità sociale, è la media che qui definisce la norma. Più ci si allontana dallo statuto sociale più comune, in un senso o nell'altro più aumentano i rischi di persecuzione. Lo si vede facilmente per coloro che sono in fondo alla scala sociale.
Si vede meno bene, invece, che alla marginalità dei miseri, o marginalità dall'esterno, occorre aggiungerne una seconda, la marginalità dall'interno, quella dei ricchi e dei potenti. Il monarca e la sua corte fanno a volte pensare all'"occhio" di un uragano. Questa duplice marginalità suggerisce un'organizzazione sociale vorticosa. In tempi normali, certamente, i ricchi e i potenti godono di ogni sorta di protezioni e di privilegi, che i diseredati invece non hanno. Ma non sono le circostanze normali che qui ci interessano, sono i periodi di crisi. Uno sguardo anche superficiale alla storia universale ci rivelerà che i rischi di morte violenta ad opera di una folla scatenata sono statisticamente più elevati per i privilegiati che per tutte le altre categorie.
Al limite, tutte le qualità estreme sono quelle che attirano, di tanto in tanto, i fulmini collettivi: non soltanto gli estremi della ricchezza e della povertà, ma anche quelli del successo e dell'insuccesso, della bellezza e della bruttezza, del vizio e della virtù, del potere di seduzione e del potere di essere sgradevoli; è la debolezza delle donne, dei bambini, dei vecchi, ma è anche la forza dei più forti che diventa debolezza davanti al numero. E' abbastanza regolare che le folle si rivoltino contro quelli che hanno esercitato su di loro un ascendente eccezionale.
Penso che alcuni troveranno scandaloso veder figurare i ricchi e i potenti tra le vittime delle persecuzioni collettive allo stesso titolo dei deboli e dei poveri. Ai loro occhi, i due fenomeni non sono simmetrici. I ricchi e i potenti esercitano sulla loro società un'influenza che giustifica le violenze di cui possono essere oggetto in periodi di crisi. E' la santa rivolta degli oppressi, eccetera.
A volte è difficile tracciare il confine tra discriminazione razionale e persecuzione arbitraria. Per ragioni politiche, morali, mediche, eccetera certe forme di discriminazione ci sembrano oggi ragionevoli eppure rassomigliano ad antiche forme di persecuzione; è il caso per esempio della messa in quarantena, in periodo di epidemia, di tutti gli individui che potrebbero essere contagiosi. Nel Medioevo i medici erano ostili all'idea che la peste potesse propagarsi attraverso il contatto fisico con i malati. Essi appartenevano in genere ad ambienti illuminati e ogni teoria del contagio rassomigliava troppo al pregiudizio persecutorio per non sembrare loro sospetta. Eppure questi medici avevano torto. Perché l'idea del contagio potesse riapparire e imporsi nel diciannovesimo secolo in un contesto puramente medico, estraneo alla mentalità persecutoria, era necessario che non si potesse più sospettare in essa la ricomparsa del pregiudizio in una nuova veste.
La questione è interessante ma non ha niente a che vedere con il presente lavoro. Il mio solo scopo è di enumerare gli aspetti che tendono a polarizzare le folle violente contro quelli che li possiedono. A questo riguardo gli esempi che ho citato sono tutti indiscutibili. Il fatto che ancora oggi si possano giustificare alcune di queste violenze non ha molta importanza per il tipo di analisi che sto seguendo.
Io non cerco di circoscrivere esattamente il campo della persecuzione; non cerco di determinare con precisione dove comincia e dove finisce l'ingiustizia. Contrariamente a quello che pensano alcuni, dare buoni o cattivi voti all'ordine sociale e culturale non mi interessa. La mia sola preoccupazione è quella di dimostrare l'esistenza di uno schema transculturale della violenza collettiva, facilmente delineabile. L'esistenza di uno schema è una cosa, il fatto che questo o quell'avvenimento determinato vi si inserisca è un'altra cosa. Talvolta è difficile decidere, ma la dimostrazione cui tendo non ne è intaccata. Quando si esita a riconoscere uno stereotipo persecutorio in questo o quell'aspetto particolare di un determinato avvenimento, non bisogna cercare di risolvere il problema soltanto al livello di quell'unico aspetto, isolato dal suo contesto, ma bisogna domandarsi se accanto ad esso si presentino gli altri stereotipi.
Faccio due esempi. La maggior parte degli storici pensa che la monarchia francese non sia senza responsabilità nella Rivoluzione del 1789. L'esecuzione di Maria Antonietta è dunque esterna al nostro schema? La regina appartiene a diverse categorie vittimarie preferenziali; non è soltanto regina, è anche straniera. La sua origine austriaca ritorna continuamente nelle accuse popolari. Il tribunale che la condanna è fortemente influenzato dalla folla parigina. Il nostro primo stereotipo è anch'esso presente: si ritrovano nella Rivoluzione tutti gli aspetti caratteristici delle grandi crisi che favoriscono le persecuzioni collettive. Gli storici non hanno certo l'abitudine di trattare i dati della Rivoluzione francese alla stregua di elementi stereotipati di un solo e identico schema persecutorio. Non pretendo che questo modo di pensare debba sostituirsi dappertutto alle nostre idee sulla Rivoluzione francese. Esso tuttavia getta una luce interessante su un'accusa spesso passata sotto silenzio, ma che figura esplicitamente nel processo alla regina: quella di aver commesso un incesto con suo figlio (2).
Prendiamo adesso ad esempio un altro condannato. Egli ha realmente commesso l'atto che scatena contro di lui le violenze della folla. Il Negro ha realmente violentato una donna bianca. La violenza collettiva cessa di essere arbitraria nel senso più evidente del termine. Essa sanziona realmente l'atto che pretende di sanzionare. Si potrebbe immaginare, in queste condizioni, che non vi siano distorsioni persecutorie e che la presenza degli stereotipi della persecuzione non abbia più il significato che le ho dato. In realtà le distorsioni persecutorie sono presenti e non sono incompatibili con la verità letterale dell'accusa. La rappresentazione dei persecutori resta irrazionale. Essa inverte il rapporto tra la situazione globale della società e la trasgressione individuale. Se tra i due livelli esiste un legame di causa o di motivazione, esso non può procedere dal collettivo all'individuale. La mentalità persecutoria si muove in senso contrario. Invece di vedere nel microcosmo individuale un riflesso o un'imitazione del livello globale, essa cerca nell'individuo la causa e l'origine di tutto ciò che la ferisce. Reale o no, la responsabilità delle vittime subisce lo stesso ingrandimento fantastico. Per quello che ci interessa, insomma, non c'è molta differenza tra il caso di Maria Antonietta e quello del Negro perseguitato.
Esiste un rapporto stretto, lo abbiamo visto, tra i due primi stereotipi. Allo scopo di riferire alle vittime l'«indifferenziazione» della crisi le si accusa di crimini «indifferenziatori». Ma in realtà sono i loro segni vittimari che designano queste vittime per la persecuzione. Qual è il rapporto di questo terzo stereotipo con gli altri due? A prima vista i segni vittimari sono puramente differenziali. Ma anche i segni culturali lo sono. Devono esserci, dunque, due modi di differenziare due tipi di differenze.
Non vi è cultura all'interno della quale ciascuno non si senta «differente» dagli altri e non giudichi legittime e necessarie le differenze. Lungi dall'essere radicale e progressista, l'esaltazione contemporanea della differenza non è che l'espressione astratta di una maniera di vedere comune a tutte le culture. In ogni individuo esiste una tendenza a sentirsi «più differente» di ogni altro rispetto agli altri e parallelamente, in ogni cultura, una tendenza a ritenere se stessa non solo come differente dalle altre, ma come la più differente di tutte, poiché ogni cultura alimenta negli individui che la compongono questo sentimento di «differenza».
I segni di selezione vittimaria non manifestano la differenza in seno al sistema, ma la differenza fuori del sistema, la possibilità per il sistema di differenziarsi dalla propria differenza, cioè di non differenziarsi affatto, di cessare di esistere in quanto sistema.
Lo si vede bene per le infermità fisiche. Il corpo umano è un sistema di differenze anatomiche. Se l'infermità, anche accidentale, inquieta, è perché dà un'impressione di dinamismo destabilizzante. Sembra minacciare il sistema in quanto tale. Si cerca di circoscriverla, ma non si può; essa sconvolge attorno a sé le differenze, che diventano "mostruose", precipitano, si comprimono, si mescolano e, al limite, minacciano di abolirsi. La differenza fuori del sistema è terrificante perché fa intravedere la verità del sistema, la sua relatività, la sua fragilità, la sua mortalità.
Le categorie vittimarie sembrano predisposte ai crimini indifferenziatori. Non è mai la loro differenza specifica che si rimprovera alle minoranze religiose, etniche, nazionali; si rimprovera loro di non differenziarsi in modo opportuno, al limite di non differenziarsi affatto. Gli stranieri sono incapaci di rispettare le «vere» differenze; non hanno buoni costumi o non hanno gusto, secondo i casi; non capiscono bene il differenziale in quanto tale. "Barbaros" è non chi parla un'altra lingua, ma chi mescola le sole distinzioni veramente significative, quelle della lingua greca. Dappertutto il vocabolario dei pregiudizi tribali, nazionali, eccetera esprime l'odio non per la differenza, ma per la sua mancanza. Non è l'altro "nomos" che si vede nell'altro, ma l'anomalia; non è l'altra norma, ma l'anormalità; l'infermo si muta in deforme; lo straniero diventa "apolide". In Russia non è bene passare per "cosmopolita". I meteci scimmiottano tutte le differenze perché non ne hanno. I meccanismi ancestrali si riproducono di generazione in generazione nell'inconsapevolezza della loro riproduzione, spesso d'altronde, bisogna riconoscerlo, a un livello meno letale che nel passato. Ai giorni nostri, per esempio, l'antiamericanismo crede di «differenziarsi» da tutti i pregiudizi precedenti perché adotta tutte le differenze contro il virus indifferenziatore di provenienza esclusivamente americana.
Dovunque sentiamo dire che la «differenza» è perseguitata, ma questo discorso non è necessariamente proprio solo delle vittime, è il sempiterno discorso delle culture, che si fa sempre più astrattamente universale nel rifiuto dell'universale e che non può più presentarsi se non con la maschera ormai indispensabile della lotta contro la persecuzione.
Anche nelle culture più chiuse gli uomini si credono liberi e aperti all'universale; il loro carattere differenziale fa sì che i campi culturali più stretti siano vissuti dall'interno come inesauribili. Tutto ciò che compromette questa illusione ci terrorizza e risveglia in noi la tendenza immemoriale alla persecuzione. Questa tendenza prende sempre le stesse strade, sono sempre gli stessi stereotipi che la attuano, è sempre alla stessa minaccia che risponde. Contrariamente a quello che si ripete intorno a noi, non è mai la differenza che ossessiona i persecutori, ma è sempre il suo indicibile contrario, l'indifferenziazione.
Gli stereotipi della persecuzione sono indissociabili e la maggior parte delle lingue, fatto notevole, non li dissocia. Questo è vero per il latino e per il greco, ad esempio, quindi per il francese e per l'italiano che ci obbligano a ricorrere continuamente, nello studio degli stereotipi, a parole imparentate: "crise, crisi; crime, crimine; critère, criterio; critique, critica", parole che risalgono tutte alla stessa radice, allo stesso verbo greco, "krino", che significa non solo giudicare, distinguere, differenziare, ma accusare e condannare una vittima. Non bisogna mai fidarsi troppo delle etimologie, e io non ragiono mai partendo da esse. Ma il fenomeno è così costante che non credo sia vietato osservarlo. Fa intravedere un rapporto ancora dissimulato tra le persecuzioni collettive e il culturale nel suo insieme. Se questo rapporto esiste, nessun linguista, filosofo o politico lo ha mai spiegato.
NOTE AL CAPITOLO 2.
(1). Fco de Santa Maria, "Historia das sagradas concregaçoes...", Lisboa, 1697, cit. in J. Delumeau, op. cit., p. 112 [trad. it. cit., p. 174].
(2). Ringrazio Jean-Claude Guillebaud per aver attirato la mia attenzione su questa accusa.