VIOLENZA E MAGIA.
Per spiegare il sacro, ho confrontato le rappresentazioni persecutorie che lo contengono con quelle che non lo contengono. Ho riflettuto su ciò che vi è di specifico nella mitologia in relazione alle persecuzioni storiche. Ma questa specificità è relativa, e io ho trascurato questa relatività. Ho parlato delle distorsioni storiche come se fossero assolutamente estranee al sacro. Orbene, esse non lo sono. Nei testi medioevali e moderni, il sacro si affievolisce sempre più, ma sopravvive. Io non ho tenuto conto di queste sopravvivenze per non minimizzare lo scarto tra la mitologia e quei testi che, secondo me, permettono appunto di ridurre questo scarto. Fondarsi su somiglianze approssimative sarebbe in questo caso ancor più discutibile, dato che esiste una spiegazione perfetta per le dissomiglianze, ed essa è il meccanismo del capro espiatorio, autentico generatore di distorsioni persecutorie, inintelligibili o intelligibili, mitologiche o non mitologiche, a seconda che funzioni ad un regime più o meno elevato.
Una volta postulata questa differenza di regime, io posso passare ad occuparmi delle tracce di sacro che persistono intorno alle distorsioni intelligibili e chiedermi se esse funzionano come nei miti, se esse confermano la definizione teorica appena esposta.
Nelle persecuzioni medioevali, è l'odio a essere in primo piano ed è facile scorgere soltanto questo aspetto. In particolare nel caso degli Ebrei. Eppure, durante l'intero periodo, la medicina ebraica gode di un prestigio eccezionale. Probabilmente esiste una spiegazione razionale di questo prestigio, una superiorità reale di medici più aperti di altri al progresso scientifico. Ma una simile spiegazione, particolarmente nel caso della peste, non convince molto. La migliore medicina non vale molto più della peggiore. Gli ambienti aristocratici e popolari preferiscono i medici ebrei perché associano il potere di guarire al potere di fare ammalare. Non bisogna dunque vedere nel prestigio medico un fatto dovuto a individui che si distinguerebbero dagli altri per la loro assenza di pregiudizi; io penso che prestigio e pregiudizio siano le due facce di un solo e identico atteggiamento. In quel prestigio bisogna vedere una sopravvivenza del sacro primitivo. Persino ai giorni nostri, il terrore quasi sacro che il medico ispira non è estraneo alla sua autorità.
Se l'Ebreo vuole mostrare di essere maldisposto nei nostri confronti, ci darà la peste; se, al contrario, vuole mostrare di essere bendisposto, allora ci risparmierà, oppure, nel caso in cui ci abbia già colpiti, ci guarirà. Egli appare dunque come l'ultima risorsa in virtù, e non a dispetto, del male che può fare o che ha già fatto. Lo stesso vale per Apollo; se i Tebani supplicano questo dio e non un altro per guarire dalla peste, è perché lo ritengono responsabile estremo del flagello. Non bisogna dunque vedere in Apollo un dio soprattutto benevolo, pacifico e sereno o, se si vuole, apollineo, nel senso che Nietzsche e i cultori dell'estetica danno al termine. Su questo punto, come su tanti altri, essi sono stati tratti in inganno dalla tardiva languidezza delle divinità olimpiche. Malgrado le apparenze e certi raddolcimenti teorici, questo Apollo tragico rimane «il più abominevole» di tutti gli dèi, secondo la formula che Platone rimprovera a Omero di usare, come se si trattasse di una elucubrazione personale del poeta.
Al di là di una certa intensità di credenza, il capro espiatorio non appare più soltanto come il ricettacolo passivo di forze malvagie, ma come un manipolatore onnipotente del quale la mitologia propriamente detta ci costringe a postulare il miraggio sanzionato dall'unanimità sociale. Dire che il capro espiatorio passa per l'unica "causa" del flagello, significa dire che questo flagello diventa letteralmente la sua cosa e che lui ne dispone come vuole per punire o ricompensare a seconda che si susciti la sua ostilità o il suo favore.
Lopez, il medico ebreo di Elisabetta d'Inghilterra, fu giustiziato per tentativo di avvelenamento e pratica della magia proprio nel momento in cui godeva del massimo prestigio a corte. Al minimo insuccesso, alla minima denuncia, il "parvenu" può cadere tanto più in basso quanto più in alto era salito. Similmente a Edipo, redentore di Tebe e guaritore patentato, questo portatore di segni vittimari crolla al vertice della gloria in un periodo di disordini, vittima di una delle nostre accuse stereotipate (1).
All'aspetto sovrannaturale della colpa si accompagna un crimine nell'accezione moderna del termine, in risposta a un'esigenza di razionalità caratteristica dell'epoca, un'esigenza tardiva rispetto alla magia. Si tratta soprattutto di avvelenamento, cioè di quel crimine che priva l'accusato di ogni garanzia giudiziaria con una crudezza quasi pari a quella che comportano le accuse direttamente magiche; il veleno è così facile da nascondere, soprattutto per un medico, che risulta impossibile provarne l'esistenza, "dunque non ha bisogno dl essere provato".
Tale vicenda ci riporta a tutti i nostri esempi simultaneamente. Contiene dei dati che ricordano il mito di Edipo, altri che rimandano a Guillaume de Machaut e a tutti gli Ebrei perseguitati, altri ancora che assomigliano al falso mito che io stesso ho inventato per 'storicizzare' quello di Edipo e dimostrare l'arbitrarietà di ogni decisione che definisce un testo come storico o come mitologico.
Poiché siamo qui in un contesto storico, noi ci orientiamo automaticamente verso l'interpretazione psicosociologica e demistificatrice. Subodoriamo la cabbala organizzata da rivali gelosi e, di conseguenza, non vediamo gli aspetti che richiamano il sacro mitologico.
In Lopez, come in Edipo, come in Apollo stesso, l'arbitro della vita viene a coincidere con l'arbitro della morte, perché è l'arbitro di quel terribile flagello che è la malattia. Lopez è prima dispensatore miracoloso di salute e successivamente dispensatore non meno miracoloso di malattie che sempre potrebbe guarire qualora lo volesse. L'etichetta storica applicata al testo fa sì che noi ricorriamo senza esitazione alcuna al tipo di interpretazione che sembrerebbe blasfema e persino inconcepibile se si trattasse di mitologia, e in particolare di quella greca. Sono un uccello, ammirate le mie ali; sono un topolino, lunga vita ai topi! Presentate la cosa sotto forma di mito e avrete un simbolo potente della condizione umana, degli alti e bassi del destino; ed ecco che i nostri umanisti si esaltano. Riportate il racconto nell'universo elisabettiano ed esso non sarà altro che un sordido affare di palazzo, molto caratteristico delle ambizioni frenetiche, delle violenze ipocrite e delle superstizioni sordide che infieriscono permanentemente nel solo universo occidentale e moderno. La seconda visione è certamente più veritiera della prima, eppure non è interamente veritiera: certi residui di inconsapevolezza persecutoria potrebbero, infatti, svolgere ancora un ruolo nella vicenda di Lopez. Eppure questa visione non ne tiene conto. Essa, soprattutto, diffama il nostro universo storico presentando i suoi crimini, peraltro reali, sul fondo falsamente luminoso di un'innocenza rousseauiana di cui esso soltanto sarebbe privo.
Dietro gli dèi guaritori, vi sono sempre delle vittime e le vittime hanno sempre una qualche proprietà curativa. Così come avviene nel caso degli Ebrei, le persone che denunciano le streghe sono quelle stesse che ricorrono al loro aiuto. Tutti i persecutori attribuiscono alle loro vittime una nocività suscettibile di mutarsi in positività e viceversa.
Tutti gli aspetti della mitologia sono presenti nelle persecuzioni medioevali in una forma meno estrema. E' il caso del mostruoso che vi si perpetua in un modo facilmente riconoscibile, basta prendersi la briga di confrontare dei fenomeni che una decisione cieca ha definito non confrontabili.
La confusione tra l'animale e l'umano costituisce la più importante e spettacolare modalità del mostruoso mitologico. La si può ritrovare nelle vittime medioevali. Streghe e stregoni passano per esseri dotati di un'affinità particolare con il capro, animale estremamente malefico. Nei processi, si osservano i piedi dei sospetti per vedere se sono biforcuti; si tasta loro la fronte per interpretarne le più piccole protuberanze come corna embrionali. L'idea che i confini tra l'animale e l'uomo tendono a scomparire nei portatori di segni vittimari, si avvale di qualsiasi pretesto. Se la presunta strega possiede un animale domestico, un gatto, un cane o un uccello, le è immediatamente attribuita una rassomiglianza con questo animale e l'animale stesso appare come una specie di avatar, un'incarnazione temporanea o un mascheramento utile al successo di alcune imprese. Questi animali hanno esattamente lo stesso ruolo che il cigno di Giove ha nella seduzione di Leda, o il toro in quella di Pasifae. Ma da questa somiglianza ci distraggono le connotazioni estremamente negative del mostruoso nell'universo medioevale, quasi esclusivamente positive, al contrario, nella tarda mitologia e nella concezione moderna della mitologia. Nel corso degli ultimi secoli della nostra storia, gli scrittori, gli artisti e, infine, gli etnologi contemporanei hanno portato a termine quel processo di edulcorazione e di censura già ampiamente iniziato nelle cosiddette epoche «classiche». Riprenderò questo argomento in seguito.
La figura quasi mitologica della vecchia strega illustra bene la tendenza a fondere mostruosità morali e mostruosità fisiche, che abbiamo già osservato nella mitologia propriamente detta. La strega è zoppa, storpia, ha il volto costellato di verruche ed escrescenze che aumentano la sua bruttezza. In lei, tutto richiede la persecuzione. La stessa cosa vale, naturalmente, per l'Ebreo nell'antisemitismo medioevale e moderno. E' una vera collezione di segni vittimari interamente concentrati su certi individui, che si trasformano in bersaglio per la maggioranza.
Anche l'Ebreo è considerato particolarmente legato al capro e a certi animali. L'idea di un'abolizione delle differenze tra uomo e animale può, anche in questo caso, riapparire in una forma inattesa. Nel 1575, ad esempio, la «Wunderzeitung» illustrata da Johann Fischart, di Binzwangen vicino ad Augsburg, mostra una donna ebrea in contemplazione davanti a due maialini che ha appena partorito (2).
Ritroviamo questo genere di cose in tutte le mitologie del mondo, ma la somiglianza ci sfugge perché il meccanismo del capro espiatorio non funziona allo stesso regime nei due casi e il risultato sociale non è comparabile. Il regime superiore della mitologia porta a una sacralizzazione della vittima che tende a nasconderci e, qualche volta, persino a cancellare le distorsioni persecutorie.
Analizziamo un mito molto importante in tutto il Nord-ovest del Canada, vicino al circolo polare. Si tratta del mito fondatore degli Indiani Dogrib. Cito qui il riassunto che Roger Bastide ne ha dato nel volume "Ethnologie générale" dell'Encyclopédie de la Pléiade (p. 1065):
«Una donna, che ha avuto dei rapporti con un cane, mette al mondo sei cuccioli. Scacciata dalla sua tribù, è costretta a procurarsi il cibo da sola. Un giorno, tornando dalla boscaglia, scopre che i suoi cuccioli sono dei bambini e che, ogni volta che lei lascia la casa, si tolgono di dosso le loro pelli di animali. Così, lei finge di andar via e quando i figli si sono spogliati a quel modo, sottrae loro le pelli, costringendoli a conservare ormai la loro identità umana».
In questo mito sono presenti tutti i nostri stereotipi della persecuzione, non facilmente distinguibili gli uni dagli altri, ma la loro stessa fusione è rivelatrice. Ciò che io chiamo crisi, indifferenziazione generalizzata, è un tutt'uno con l'esitazione tra l'uomo e il cane sia nella madre, sia nei bambini che rappresentano la comunità. Il segno vittimario è la femminilità e il crimine stereotipato è la bestialità. La donna è certamente responsabile della crisi perché è lei che mette al mondo una comunità mostruosa. Ma il mito confessa tacitamente la verità. Non vi è differenza tra la criminale e la comunità: l'una e l'altra sono ugualmente de-differenziate e la comunità preesiste al crimine, perché è essa a punirlo. Abbiamo dunque a che fare con un capro espiatorio accusato di un crimine stereotipato e trattato di conseguenza: "Scacciata dalla sua tribù, è costretta a procurarsi il cibo da sola"...
Non riusciamo a scorgere il legame con la donna ebrea di Binzwangen accusata di mettere al mondo dei maiali, perché in questo caso il meccanismo del capro espiatorio opera sino in fondo e diviene fondatore; si capovolge in positività. Proprio per questo la comunità è simultaneamente anteriore e posteriore al crimine che punisce: è da questo crimine che essa nasce, non alla sua mostruosità essenzialmente temporanea, ma alla sua umanità ben differenziata. Il merito di rendere stabile per sempre la differenza tra uomo e animale spetta proprio al capro espiatorio accusato in un primo momento di fare oscillare la comunità tra l'uno e l'altro. La donna-cane diventa una grande dea che punisce non soltanto la bestialità, ma anche gli incesti e tutti gli altri crimini stereotipati, tutte le infrazioni alle regole fondamentali della società. La causa apparente del disordine diviene causa apparente dell'ordine perché è, in realtà, una vittima quella che ricostruisce prima contro di sé, poi intorno a sé, l'unità terrorizzata della comunità riconoscente.
Nei miti vi sono due momenti, e gli interpreti non riescono a distinguerli. Il primo momento corrisponde all'imputazione di un capro espiatorio non ancora sacro, sul quale si addensano tutte le virtù malefiche. Ad esso si sovrappone il secondo momento, quello della sacralità positiva suscitata dalla riconciliazione della comunità. Io stesso ho fatto emergere il primo momento servendomi del suo corrispettivo nei testi storici che riflettono la prospettiva dei persecutori. Questi testi sono tanto più idonei a guidare l'interprete verso il primo momento in quanto sono quasi completamente ridotti a questo.
I testi di persecuzione fanno sì intravedere che i miti racchiudono una prima trasfigurazione analoga a quella dei nostri persecutori, ma essa, in qualche modo, non è altro che la base della seconda trasfigurazione. I persecutori mitologici, più creduli ancora dei nostri, sono posseduti dai loro effetti di capro espiatorio al punto di venire realmente riconciliati da questi e di sovrapporre una reazione di adorazione alla reazione di terrore e ostilità che la loro vittima aveva suscitato in essi. Noi abbiamo difficoltà a capire questa seconda trasfigurazione, che non ha affatto, o quasi, equivalenti nel nostro universo. Eppure, dopo averla nettamente distinta dalla prima, la si può analizzare in modo fondato a partire dalle divergenze che i due tipi di testo messi a confronto presentano, in particolare nella conclusione. Io stesso ho poi verificato l'esattezza di questa analisi constatando che le sopravvivenze del sacro intorno alle nostre vittime storiche, per quanto esili, somigliano troppo alle forme pienamente sviluppate di questo stesso sacro perché le si possa attribuire a un meccanismo indipendente.
Bisogna dunque riconoscere, nella violenza collettiva, una macchina per costruire i miti che continua a funzionare nel nostro universo, anche se, per ragioni che presto scopriremo, funziona sempre meno bene. Delle due trasfigurazioni mitiche, la seconda, in modo evidente, risulta la più fragile perché è completamente scomparsa. La storia occidentale e moderna si distingue per una decadenza delle forme mitiche, che sopravvivono soltanto allo stato di fenomeni persecutorii, quasi del tutto limitati alla prima trasfigurazione. Se le distorsioni mitologiche sono direttamente proporzionali alla credenza dei persecutori, questa decadenza potrebbe ben costituire l'altra faccia del potere di decifrazione, ancorché incompleto ma nondimeno unico e sempre crescente, che ci caratterizza. Questo potere di decifrazione, innanzitutto, ha decomposto il sacro, e, più tardi, ci ha reso capaci di leggere le forme in parte decomposte. Esso continua a rafforzarsi ancora oggi per insegnarci a risalire verso le forme ancora intatte e a decifrare la mitologia propriamente detta.
A parte il voltafaccia sacralizzante, le distorsioni persecutorie nel mito dogrib non sono certo più forti di quelle presenti nel passo di Guillaume de Machaut. E' principalmente sul sacro che inciampa la comprensione. Non potendo seguire la doppia trasfigurazione del capro espiatorio, noi scorgiamo ancora nel sacro un fenomeno certamente illusorio, ma non meno irriducibile di quanto lo fosse per i fedeli del culto dogrib. I miti e i riti contengono tutti i dati necessari all'analisi di questo fenomeno, ma noi non li vediamo.
E' forse confidare troppo nel mito il presupporre dietro di esso una vittima reale, un capro espiatorio reale? Non si trascurerà di dirlo, ma la situazione dell'interprete di fronte al testo dogrib rimane in fondo uguale a quella degli esempi precedenti. Vi sono troppi stereotipi persecutorii perché una concezione puramente immaginaria sia verosimile. Una diffidenza eccessiva è altrettanto nociva di una eccessiva fiducia all'intelligibilità del mito. La mia lettura viene considerata temeraria in virtù di regole inapplicabili agli stereotipi della persecuzione.
Certo, può darsi che io mi sbagli a proposito del mito particolare che ho scelto, il mito della donna-cane. Lo si potrebbe inventare di sana pianta per ragioni analoghe a quelle che prima mi hanno indotto a inventare un 'falso' mito di Edipo. In questo caso, l'errore sarebbe assolutamente circoscritto e non comprometterebbe l'esattezza d'insieme dell'interpretazione. Il mito dogrib, anche se non fosse l'emanazione di una violenza collettiva reale, sarebbe comunque opera di un imitatore competente, capace di riprodurre gli effetti testuali di questo tipo di violenza; sarebbe dunque suscettibile di fornire un esempio valido, analogamente al mio falso mito di Edipo. Se io supponessi l'esistenza di una vittima reale dietro al testo che ho appena inventato, mi sbaglierei eccezionalmente, ma il mio errore, di fatto, non sarebbe per questo meno fedele alla verità della maggioranza dei testi che contengono gli stessi stereotipi, e che sono strutturati allo stesso modo. E' statisticamente impensabile che tutti quei testi siano stati redatti da falsari.
Basta pensare alla donna ebrea di Binzwangen accusata di mettere al mondo dei mostri, per capire che qui succede la stessa cosa. Il minimo cambiamento di scena e l'indebolimento del sacro positivo orienterebbero i miei critici verso l'interpretazione a loro giudizio inaccettabile. Allora essi dimenticherebbero il tipo di lettura che esigono per i miti; e sarebbero essi stessi a denunciarne il carattere mistificatore se si provasse ad imporgliela. A dispetto degli avanguardismi chiassosi, tutte le letture estranee al metodo storico già descritto, il metodo della persecuzione demistificata, sono effettivamente regressive.
L'etnologia degli etnologi crede di essere lontanissima dalla mia tesi, e invece in alcuni punti è vicina. Da molto tempo essa ha ravvisato in ciò che chiama «pensiero magico» una spiegazione sovrannaturale, "e di tipo causale". Hubert e Mauss consideravano la magia «una gigantesca variazione sul tema del principio di causalità». Questo tipo di causalità precede e in qualche modo annuncia quello della scienza. Secondo l'umore ideologico del momento, gli etnologi insistono sulle rassomiglianze o sulle differenze tra i due tipi di spiegazione. In coloro che celebrano la superiorità della scienza prevalgono le differenze, mentre in coloro che ci giudicano troppo vanitosi e vorrebbero ridurci al silenzio prevalgono le rassomiglianze.
Lévi-Strauss appartiene a tutte e due le categorie. In "La pensée sauvage", egli riprende la formula di Hubert e Mauss e definisce i riti e le credenze magiche «espressioni di un atto di fede in una scienza che deve ancora nascere» (3). E' interessato unicamente all'aspetto intellettuale ma cita, a sostegno della sua tesi, un testo di Evans-Pritchard che rende del tutto palese l'identità fra pensiero magico e "caccia alle streghe":
«Considerato come sistema di filosofia naturale, il pensiero magico ["witchcraft"] implica una teoria delle cause: la sfortuna dipende dalla stregoneria, operante di concerto con le forze naturali. Sia che un uomo venga incornato da un bufalo, o che gli precipiti sulla testa un solaio di cui le termiti hanno minato i montanti, o che contragga una meningite cerebro-spinale, gli Azandé asseriranno che il bufalo, il solaio, o la malattia sono cause che si sposano alla stregoneria per uccidere l'uomo. Del bufalo, del solaio, della malattia, la stregoneria non è responsabile, poiché essi esistono indipendentemente; ma è responsabile della circostanza particolare che li pone in un rapporto distruttivo con un certo individuo. Il solaio sarebbe crollato in ogni caso ma è a causa della stregoneria che è crollato in un determinato momento, quando sotto vi si trovava sdraiato un determinato individuo. Tra tutte queste cause, solo la stregoneria ammette un intervento correttivo, poiché è l'unica ad essere emanata dall'uomo. Contro il bufalo o il solaio non c'è niente da fare. Benché li si riconosca come cause, queste però non sono significative sul piano dei rapporti sociali» (4).
L'espressione «filosofia naturale» richiama l'immagine del buon selvaggio di Rousseau che si interroga con innocenza sui «misteri della natura». Il pensiero magico, in realtà, non scaturisce da una curiosità disinteressata. Vi si ricorre, per lo più, in caso di disastro e costituisce soprattutto un sistema di accusa. E' sempre "l'altro" che fa la parte dello stregone e agisce in modo sovrannaturale per fare del male al suo vicino.
Evans-Pritchard evidenzia ciò che io stesso ho evidenziato, ma nel linguaggio che gli etnologi prediligono. Il pensiero magico cerca «una causa significativa sul piano dei rapporti sociali», ovvero un essere umano, una vittima, un capro espiatorio. Non è necessario precisare la natura dell'"intervento correttivo" che risulta dalla spiegazione magica.
Tutto ciò che Evans-Pritchard dice non si applica soltanto ai fenomeni di magia quotidiana nell'universo etnologico, ma a tutta la serie dei fenomeni persecutorii, dalle violenze medioevali alla mitologia 'propriamente detta'.
Tebe non ignora che, di tanto in tanto, le epidemie colpiscono tutte le collettività umane. Ma perché la nostra città, si domandano i Tebani, in questo preciso momento? Le cause naturali non interessano coloro che soffrono. Soltanto la magia ammette «un intervento correttivo» e tutti sono solleciti nel cercare un mago da correggere. Contro la peste in quanto tale o, se si preferisce, contro Apollo stesso, non vi è rimedio. Nulla si oppone, invece, alla correzione catartica dello sventurato Edipo.
Lo stesso Lévi-Strauss suggerisce queste verità nelle sue dissertazioni sul pensiero magico, ma spinge l'arte della litote ancora più lontano di Evans-Pritchard. Egli ammette che, malgrado alcuni risultati «di una certa validità scientifica», la magia fa generalmente una misera figura di fronte alla scienza, non però a causa di ciò che si immaginano i seguaci del «pensiero primitivo». La magia, scrive, «si distingue dalla scienza, più che per ignoranza o disdegno del determinismo, per un'esigenza di determinismo più imperiosa e più intransigente, un'esigenza che, semmai, può essere giudicata dalla scienza irragionevole e avventata» (5). Meno che mai si parla di violenza, ma tutti gli aggettivi del passo si applicano perfettamente al modo di essere dei persecutori intrisi di causalità magica. Infatti, è proprio vero che, in ogni loro giudizio e in ogni loro azione, i persecutori sono "imperiosi, intransigenti, irragionevoli" e "avventati". Il pensiero magico, in linea di massima, percepisce se stesso come un'azione difensiva contro la magia e, di conseguenza, approda allo stesso tipo di comportamento dei cacciatori di streghe o delle folle cristiane durante la peste nera. A buon diritto diciamo, d'altronde, che tutte queste persone ragionano in maniera "magica". E "mitologica", bisogna ricordarlo. I due termini sono sinonimi, ed ugualmente giustificati. E' proprio questo che Evans-Pritchard dimostra senza accorgersene. Non vi è alcuna differenza essenziale tra le rappresentazioni e i comportamenti magici nella storia e nella mitologia.
L'atteggiamento morale delle due discipline, quella storica e quella etnologica, costituisce la vera differenza. Gli storici pongono l'accento sulla dimensione persecutoria e denunciano pesantemente l'intolleranza e la superstizione che rendono possibili simili cose. Gli etnologi si interessano soltanto agli aspetti epistemologici, alla teoria delle cause. Basta invertire i campi di applicazione, senza cambiare niente nei linguaggi, perché si constati, ancora una volta, la natura schizofrenica della nostra cultura. Questa constatazione provoca in noi un inevitabile disagio; intacca valori che ci sono cari e che credevamo incrollabili. Il che non è una buona ragione per proiettare questo disagio su coloro che lo evidenziano e per trattare anch'essi alla stregua di capri espiatorii. O piuttosto, si tratta della stessa e solita ragione, della ragione immemoriale e fondamentale, ma in versione moderna, intellettualizzata. Tutto ciò che rischia di scuotere in noi "l'inconscio" del capro espiatorio, la rappresentazione di ogni cosa fondata sul meccanismo del capro espiatorio, tende una volta di più a far scattare questo meccanismo. Per porre rimedio alle fratture e alle lacune che appaiono nel sistema, si ricorre, sempre "più" o "meno" inconsciamente, al meccanismo generatore e rigeneratore di questo stesso sistema. Ed è sul "meno", evidentemente, che nella nostra epoca bisogna mettere l'accento. Anche se vi sono sempre più persecuzioni, vi è sempre meno un "inconscio" persecutorio, vi sono sempre meno distorsioni veramente percepite nella rappresentazione della vittima. Ed è proprio per questo che le resistenze alla verità si indeboliscono e l'intera mitologia è sul punto di scivolare nell'intelligibile.
I miti sono rappresentazioni persecutorie analoghe a quelle che già decifriamo, ma più difficili da decifrare a causa delle distorsioni più forti che li caratterizzano.
Nella mitologia, le trasfigurazioni sono più forti. Le vittime diventano mostruose, dando prova di una potenza fantastica. Dopo aver seminato il disordine, ristabiliscono l'ordine e appaiono come antenati fondatori o divinità. Questo sovrappiù di trasfigurazione non rende i miti inconfrontabili con le persecuzioni storiche; anzi, è proprio il contrario. Per spiegarlo, basta ricorrere al meccanismo che postuliamo nel caso delle rappresentazioni già decifrate, e addebitargli un funzionamento più efficace. Il ritorno all'ordine e alla pace è attribuito alla medesima causa dei disordini precedenti, alla vittima stessa. Per questo si dice che la vittima è sacra. Per questo l'episodio persecutorio diventa un vero e proprio punto di partenza religioso e culturale. Il fenomeno, considerato nel suo intero svolgimento, servirà in effetti: 1) come modello per la mitologia che lo rammenta nella sua qualità di epifania religiosa; 2) come modello per il rituale che si sforza di riprodurlo in virtù del principio che bisogna sempre rifare ciò che la vittima, in quanto creatura benefica, ha fatto, o subìto; 3) come contromodello per i divieti, in virtù del principio che non bisogna mai rifare ciò che ha fatto questa stessa vittima, in quanto creatura malefica.
Non vi è nulla nelle religioni mitico-rituali che non risulti logicamente dal meccanismo del capro espiatorio, funzionante a un regime più elevato di quello attivo nella storia. La vecchia etnologia postulava a ragione un rapporto stretto tra miti e rituali, ma non ha mai risolto l'enigma di questo rapporto per il fatto di non aver colto, nei fenomeni persecutorii, il modello e il contromodello di ogni istituzione religiosa. Essa scorgeva ora nel mito, ora nel rituale, il fattore principale attribuendo all'altro il semplice valore di riflesso. A furia di fallire, gli etnologi hanno rinunciato a interrogarsi sulla natura e sul rapporto delle istituzioni religiose.
L'effetto di capro espiatorio risolve un problema di cui gli etnologi attuali non riconoscono più l'esistenza. Per comprendere il valore della soluzione che io propongo, bisogna pensare al rapporto che il resoconto della persecuzione da parte degli stessi persecutori mantiene con l'avvenimento realmente descritto. L'osservatore distaccato che assiste a una violenza collettiva senza parteciparvi vede soltanto una vittima impotente messa a mal partito da una folla isterica. Ma se si rivolge ai membri di questa folla per chiedere loro che cosa è successo, non sarà più in grado di riconoscere, oppure riconoscerà a malapena, quello che ha visto con i suoi stessi occhi. Gli verrà riferito della potenza straordinaria della vittima, dell'influsso occulto che essa esercitava ed esercita forse tuttora sulla comunità, giacché è senza dubbio scampata alla morte, eccetera.
Tra ciò che è accaduto realmente e il modo in cui lo vedono i persecutori, vi è uno scarto che bisogna allargare ancor più per comprendere il rapporto tra i miti e i rituali. I riti più selvaggi ci mostrano una folla disordinata che a poco a poco si polarizza contro una vittima e finisce per scagliarsi contro di lei. Il mito ci narra la storia di un dio temibile che ha salvato i fedeli grazie a qualche sacrificio, oppure morendo egli stesso, dopo aver seminato il disordine all'interno della comunità.
Tutti i fedeli di questi culti affermano che nei loro riti ricreano ciò che è successo nei miti e noi non comprendiamo il senso di queste parole perché vediamo nei riti una folla scatenata che colpisce una vittima, mentre i miti ci parlano di un dio onnipotente che domina una comunità. Non capiamo che si tratta dello stesso personaggio in tutti e due i casi, poiché non riusciamo a concepire distorsioni persecutorie abbastanza potenti da sacralizzare la vittima.
L'antica etnologia sospettava, a buon diritto, che i riti più brutali fossero quelli più primitivi. Non si tratta necessariamente dei riti più remoti sul piano di una cronologia assoluta, ma di quelli più prossimi alla loro origine violenta e, pertanto, più rivelatori. Benché i miti abbiano per modello la stessa sequenza persecutoria dei riti, non si avvicinano molto a questo modello, persino nello stadio in cui meno se ne discostano. Le parole sono, in questo caso, più menzognere delle azioni. Ed è proprio questo che trae sempre in inganno gli etnologi. Essi non si accorgono che un solo e identico episodio di violenza collettiva somiglierà a ciò che è accaduto realmente molto più nel rituale che nel mito. Infatti, nei rituali, i fedeli ripetono con i loro atti la violenza collettiva dei loro predecessori, mimano questa violenza e la rappresentazione che essi danno di ciò che accade non avrà la stessa influenza sul comportamento e sulle parole. Le parole sono completamente determinate dalla rappresentazione persecutoria, ossia dal potere simbolizzatore della vittima espiatoria, mentre le azioni rituali ricalcano direttamente i gesti della folla persecutoria.
NOTE AL CAPITOLO 4.
(1). Joshua Trachtenberg, "The Devil and the Jews", Yale University, 1943, p. 98; H. Michelson, "The Jew in Early English Literature", Amsterdam, 1928, p.p. 84 segg. Sulla rappresentazione degli Ebrei nel mondo cristiano si vedano i due studi di Gavin I. Langmuir, "Qu'est-ce que «les juifs» signifiaient pour la société médiévale?", in "Ni juif ni Grec: entretiens sur le racisme", a cura di Léon Poliakov, Paris-La Haye, 1978, p.p. 179-90; "From Ambrose of Milan to Emicho of Leiningen: The transformation of hostility against Jews in Northern Europe", in "Gli Ebrei nell'alto Medioevo", Spoleto, 1980, p.p. 313-67.
(2). "The Devil and the Jews", cit., p.p. 52-53.
(3). "La pensée sauvage", Paris, 1962, p. 19 [trad. it. "Il pensiero selvaggio", Il Saggiatore, Milano, 1964, p. 24].
(4). E. E. Evans-Pritchard, "Witchcraft", in «Africa», vol. 8, n. 4 London, 1955, p.p. 418-19, cit. in C. Lévi-Strauss, "La pensée sauvage", cit., p. 18 [trad. it. cit., p. 24].
(5). "La pensée sauvage", cit., p. 18 [trad. it. cit., p. 24].