MUOIA UN SOLO UOMO...
Non ci rimane ormai che un'ultima cosa: formulare direttamente, nelle sue caratteristiche essenziali, il processo vittimario, il fatto di pagare per gli altri, in qualche modo. Al riguardo, la frase più esplicita dei Vangeli è quella che Giovanni mette in bocca al sommo sacerdote Caifa durante il dibattito che si concluderà con la decisione di far morire Gesù. In essa si enuncia senza ambiguità ciò che ho appena detto.
«Sommi sacerdoti e farisei riunirono allora il consiglio: 'Che facciamo?' dicevano 'quest'uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro Luogo Santo e la nostra nazione'. Uno di loro, Caifa, che in quell'anno era il sommo sacerdote, disse loro: 'Voi non capite nulla. Non vedete dunque come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera'. Egli non disse questo da se stesso; però, in qualità di sommo sacerdote, profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione - e non per la nazione soltanto, ma anche per radunare in un unico insieme i figli di Dio dispersi. Da quel giorno dunque, furono risoluti ad ucciderlo» (Giov., 11, 47-53).
All'ordine del giorno del consiglio è la crisi aperta dalla popolarità eccessiva di Gesù. Ma essa è solo la forma temporanea di una crisi più vasta, quella dell'intera società ebraica, che sfocerà nella distruzione totale dello Stato, meno di mezzo secolo dopo. Il fatto che vi sia dibattito suggerisce già l'impossibilità di decidere. Il dibattito indecisibile riflette la crisi che si sforza di risolvere. Poiché non approda a nulla, Caifa lo interrompe con una certa impazienza, in modo brusco: «Voi non capite nulla» dice. Ascoltando Caifa, ciascun capo dice a se stesso: «Ma sì, è vero, meglio che muoia un solo uomo e non perisca la nazione. Come mai non ci avevo pensato?». Ci avevano anche pensato, probabilmente, ma soltanto il più audace dei capi, il più deciso e più decisivo, poteva rendere esplicito questo pensiero.
Ciò che Caifa esplicita è la ragione stessa, è la ragione politica, la ragione del capro espiatorio. Limitare al massimo la violenza, ma in caso estremo ricorrervi, se necessario, per evitare una violenza maggiore... Caifa incarna il politico nel suo aspetto più alto e non nel più basso. In politica, nessuno ha mai agito meglio.
Eppure vi sono rischi di ogni genere nella violenza; assumendoli, Caifa dimostra di essere un capo. Gli altri si appoggiano a lui. Lo scelgono come modello; imitano la sua serena certezza. Ascoltando Caifa, questi uomini cessano di dubitare. Se l'intera nazione è sicura di perire, è certamente meglio che muoia, per tutti gli altri, un uomo solo, colui che del resto aggrava l'imminenza del pericolo rifiutando di starsene tranquillo.
Il discorso di Caifa suscita, fino a un certo punto, l'effetto di capro espiatorio che esso definisce. Non si limita a rassicurare i suoi uditori, li galvanizza, li 'mobilita', nel senso che s'intende oggi quando si parla dei militari o dei 'militanti' che si devono "mobilitare". Di che cosa si tratta? Di diventare il famoso gruppo in fusione che ha sempre sognato Jean-Paul Sartre, senza mai dire, naturalmente, che esso produce soltanto vittime.
Perché la frase susciti un simile effetto, bisogna capirla in modo superficiale e sempre mitologico. La ragione politica definita sopra resta mitologica perché si fonda su ciò che resta dissimulato nel meccanismo vittimario a livello di interpretazione politica, quella che domina il consiglio di Caifa, come essa domina il nostro mondo. L'effetto di capro espiatorio è visibilmente molto indebolito nel senso dell'indebolimento storico e moderno definito sopra. Per questo la ragione politica è sempre contestata dalle sue vittime, denunciata come "persecutoria" anche da coloro che eventualmente, se si trovassero in condizioni analoghe a quelle di Caifa, vi ricorrerebbero senza rendersene conto. E' l'estremo esaurimento del meccanismo che 'produce' questa ragione politica facendo perdere ad esso ogni carattere trascendente e giustificandolo con l'utilità sociale. Di questo processo il mito politico lascia trasparire aspetti veridici sufficienti per dare a parecchia gente, oggi, l'illusione di possedere, per effetto di una generalizzazione della lettura politica (quella che peraltro talvolta attribuiscono a me), la rivelazione completa dei meccanismi vittimari e la loro giustificazione.
Perché il discorso di Caifa sia veramente rivelatore, bisogna intenderlo non in senso politico, ma in senso evangelico, nel contesto di tutto ciò che ho appena reso esplicito, di tutto ciò che si potrebbe rendere esplicito. Allora si può ravvisare in esso una definizione folgorante del meccanismo fatto emergere nel racconto della passione, in tutti i Vangeli e nell'intera Bibbia. L'effetto di capro espiatorio che si crea sotto i nostri occhi si salda all'effetto di capro espiatorio che è all'origine dei sacrifici ebraici. Caifa è il sacrificatore per eccellenza, colui che fa morire delle vittime per salvare i vivi. Giovanni, mentre ce lo ricorda, sottolinea che ogni "decisione" vera ha, nella cultura, un carattere sacrificale ("decidere", lo ripeto, significa tagliare la gola alla vittima), e di conseguenza si ricollega a un effetto di capro espiatorio non svelato, a una rappresentazione persecutoria di tipo sacro.
Nella decisione del sommo sacerdote si manifesta la rivelazione definitiva del sacrificio e della sua origine. Ed essa si manifesta all'insaputa di colui che parla e di quelli che lo ascoltano. Non solo Caifa e i suoi ascoltatori non sanno quello che fanno, ma non sanno neanche quello che dicono. Bisogna dunque perdonarli. Tanto più che in genere le nostre realtà politiche sono più sordide delle loro; il nostro linguaggio è semplicemente più ipocrita. Evitiamo di parlare come fa Caifa perché comprendiamo meglio il senso delle sue parole senza ancora comprenderlo perfettamente: è qui la prova che la rivelazione si fa strada tra di noi. Eppure, non lo si sospetterebbe consultando lo stato attuale degli studi neotestamentari, della storia delle religioni, dell'etnologia, della scienza politica. Gli 'specialisti' non vedono niente di tutto quello che noi diciamo. Fuori dal loro ambito, il sapere in questione è la cosa più diffusa che esista; le discipline di cui ho fatto menzione non vogliono saperne niente. Tutte sembrano fatte per limitare e neutralizzare le conseguenze delle vere intuizioni piuttosto che per coltivarle. Così avviene sempre, all'alba dei grandi sconvolgimenti. La cattiva accoglienza fatta al sapere del capro espiatorio non impedirà lo sconvolgimento; anzi, è un segno ulteriore della sua prossimità.
Per comprendere veramente il passo di Giovanni, per trarre beneficio dalla rivelazione che esso ci fa, nel suo contesto evangelico, è necessario non isolarsi da questo contesto. Questa comprensione non consiste più in una giustificazione qualsiasi del meccanismo; è stata fatta per accrescere la nostra resistenza alla tentazione vittimaria, alle rappresentazioni persecutorie che l'avvolgono, alle conseguenze mimetiche che la favoriscono. E' l'effetto contrario a quello che agisce sui primi ascoltatori. Oggi è possibile osservare nel nostro mondo entrambi gli effetti, e questo è uno dei segni che la nostra storia, nella buona e nella cattiva sorte, è attraversata, tutta, dalla rivelazione evangelica.
L'essenziale della rivelazione, sotto il profilo antropologico, è la crisi dell'intera rappresentazione persecutoria che essa provoca. Nella passione in sé e per sé non vi è nulla di unico, per quanto riguarda la persecuzione. Né vi è nulla di unico nella coalizione di tutte le potenze di questo mondo. E' anzi la medesima coalizione che è all'origine di tutti i miti. Il dato sorprendente è che i Vangeli ne sottolineano l'unanimità non per inchinarsi di fronte ad essa, non per sottomettersi al suo verdetto come farebbero tutti i testi mitologici o politici o persino filosofici, ma per denunciare in essa un errore totale, la non-verità per eccellenza.
E' questo l'insuperabile radicalismo della rivelazione. Per comprenderlo bisogna evocare brevemente, per contrasto, la riflessione politica nel mondo occidentale e moderno.
Le potenze di questo mondo si dividono visibilmente in due gruppi non simmetrici: da una parte le autorità costituite e dall'altra la folla. In genere, le prime prevalgono sulla seconda; in periodo di crisi, succede l'inverso. Non soltanto la folla prevale ma essa è una specie di crogiolo dove vengono a fondersi anche le autorità più consolidate. Questo processo di fusione assicura la riformazione delle autorità grazie al capro espiatorio, ossia al sacro. La teoria mimetica illumina questo processo che la scienza politica e le altre scienze dell'uomo non riescono a penetrare.
La folla è così potente che non ha bisogno di radunare l'intera comunità per ottenere i risultati più sorprendenti. Le autorità costituite si inchinano di fronte ad essa e le cedono le vittime che il suo capriccio reclama, come fa Pilato con Gesù o Erode con Giovanni Battista. Così facendo, le autorità si uniscono alla folla, facendosene assorbire. Comprendere la passione significa comprendere che essa abolisce temporaneamente qualsiasi differenza non soltanto tra Caifa e Pilato, tra Giuda e Pietro, ma tra tutti coloro che gridano o lasciano che si gridi: «Crocifiggetelo!».
Il pensiero politico moderno, sia esso 'conservatore' o 'rivoluzionario', critica sempre solo una delle due categorie di potenze: o la folla o i poteri costituiti. Per far questo deve anche, e necessariamente, appoggiarsi sull'altra. Ed è proprio questa scelta che lo qualifica o come 'rivoluzionario' o come 'conservatore'.
Il fascino durevole del "Contrat social" non viene dalle verità che potrebbe contenere, ma da quella specie di oscillazione vertiginosa che si produce tra le due categorie. Invece di scegliere in modo risoluto una delle due, e attenervisi, come fanno i 'razionali' di tutti i partiti, Rousseau vorrebbe conciliare gli inconciliabili e la sua opera assomiglia un po' al turbine di una rivoluzione reale, incompatibile con i grandi princìpi che enuncia.
I conservatori si sforzano di consolidare tutte le autorità costituite, tutte le istituzioni nelle quali si incarna la continuità di una tradizione religiosa, culturale, politica, giudiziaria. Essi sono vulnerabili al rimprovero di essere eccessivamente indulgenti verso i poteri costituiti. Sono invece molto sensibili alle minacce di violenza che vengono dalla folla. Per i rivoluzionari è l'opposto. Sistematicamente critici verso le istituzioni, essi sacralizzano senza vergogna le violenze della folla. Gli storici rivoluzionari della Rivoluzione francese e di quella russa ne mitizzano tutti i crimini. Considerano 'reazionaria' qualsiasi ricerca seria sulla folla. Su questo punto non hanno nessuna voglia di 'far luce'. I meccanismi vittimari hanno bisogno di ombra per 'cambiare il mondo'. I grandi scrittori rivoluzionari portano nondimeno esplicite conferme sul ruolo simbolico della violenza reale, ad esempio Saint-Just sulla morte del re.
Per il fatto stesso che i rivoluzionari ricorrono apertamente alla violenza, gli effetti desiderati non si producono più. Il mistero è svelato. La fondazione violenta non è più efficace, può mantenersi solo mediante il terrore. Questo era già abbastanza vero per la Rivoluzione francese di fronte alla democrazia anglo-americana, ed è ancora più vero per le rivoluzioni marxiste.
Il pensiero politico moderno non può fare a meno della morale, ma non può farsi morale pura senza cessare, con ciò stesso, di essere politico. E' dunque necessario un altro ingrediente che si mescoli alla morale. Qual è? Se si cercasse veramente di saperlo, si giungerebbe inevitabilmente a formule come quella di Caifa: «è meglio che costui o costoro muoiano e non perisca la comunità...».
Non soltanto le opposizioni politiche, ma tutte le critiche antagonistiche poggiano su appropriazioni parziali, e certo non imparziali, della rivelazione evangelica. Nel nostro mondo vi sono soltanto eresie cristiane, ossia divisioni e separazioni. Del resto, è questo il significato della parola eresia. Per utilizzare la rivelazione come un'arma nella rivalità mimetica, per farne una forza di divisione, bisogna prima dividerla. Finché essa rimane intatta, rimane forza di pace, e passa al servizio della guerra solo quando è frammentata. Una volta lacerata essa fornisce, ai doppi che si affrontano, armi di gran lunga superiori a tutto ciò di cui potrebbero disporre senza di essa. Ecco il perché delle dispute senza fine attorno ai brandelli del cadavere e oggi, naturalmente, si considera questa stessa rivelazione responsabile delle nefaste conseguenze del cattivo uso che se ne fa. Il capitolo apocalittico di Matteo racchiude in una sola e sorprendente frase l'insieme del processo: "Dovunque sarà il cadavere, là si raduneranno gli avvoltoi" (Matteo, 24, 28).
I Vangeli non cessano di mostrarci ciò che i persecutori storici e, "a fortiori", mitologici ci dissimulano, ovvero che la loro vittima è un capro espiatorio, nello stesso senso in cui noi diciamo che gli Ebrei di cui parla Guillaume de Machaut «sono capri espiatorii». I Vangeli non si servono, certo, dell'espressione «capro espiatorio», ma ne usano un'altra anche migliore: "agnello di Dio". Essa esprime, come «capro espiatorio», la sostituzione di una vittima a tutte le altre. Ma, sostituendo ai connotati sgradevoli e ripugnanti del capro quelli interamente positivi dell'agnello, indica con efficacia maggiore l'innocenza di questa vittima, l'ingiustizia della sua condanna, il 'senza causa' dell'odio di cui è oggetto.
Tutto è dunque perfettamente esplicito. Gesù è continuamente ricollegato, e si ricollega egli stesso, a tutti i capri espiatorii dell'Antico Testamento, a tutti i profeti assassinati o perseguitati dalle loro comunità, Abele, Giuseppe, Mosè, il Servo di Yahvè, eccetera. Che egli sia così designato da altri o da se stesso, è sempre il suo ruolo di vittima, misconosciuta in quanto innocente, che ispira tale designazione. Egli è la pietra scartata dai costruttori che diventerà la pietra angolare. Egli è anche la pietra dello scandalo, quella che fa inciampare persino i più saggi, perché è sempre ambigua, facile da confondere con gli dèi del passato. Neppure il suo titolo di re è esente dal contenere un riferimento, penso, al carattere vittimario della regalità sacra. Coloro che chiedono un segno inequivocabile dovranno accontentarsi del "segno di Giona".
Che cos'è il segno di Giona? Il riferimento alla balena, nel testo di Matteo, non è molto illuminante; e bisogna preferirgli il silenzio di Luca, con tutti gli esegeti. Ma su questo punto, niente ci impedisce di tentare di rispondere meglio di Matteo alla domanda lasciata probabilmente senza risposta dallo stesso Gesù. E lo sappiamo già dalle prime righe. Durante una tempesta, la sorte designa Giona come la vittima che i marinai getteranno in acqua per salvare la nave in pericolo. Il segno di Giona designa, ancora una volta, la vittima collettiva.
Abbiamo, dunque, testi di due tipi, che hanno entrambi un rapporto con il 'capro espiatorio'. Essi ci parlano di vittime, ma gli uni non dicono che la vittima è un capro espiatorio e ci obbligano a dirlo al loro posto: per esempio Guillaume de Machaut e i testi mitologici. Gli altri dicono esplicitamente che la vittima è un capro espiatorio: i Vangeli. Io non ho alcun merito né do prova di particolare perspicacia quando dico che Gesù è un capro espiatorio, giacché lo dice il testo, nel modo più chiaro, designando la vittima come l'agnello di Dio, la pietra scartata dai costruttori, colui che soffre per tutti gli altri e soprattutto presentandoci la distorsione persecutoria come distorsione, in altri termini, "quello che non bisogna credere".
Se invece leggo Guillaume de Machaut, devo dare prova di perspicacia per esclamare, alla fine della lettura: «Gli Ebrei sono capri espiatorii»; in questo caso affermo qualcosa che nel testo non appare e che contraddice il senso che voleva dargli l'autore. Questi infatti ci presenta della versione persecutoria non una distorsione bensì "quello che bisogna credere", la nuda verità.
Il capro espiatorio che il testo mette in evidenza è capro espiatorio "nel" testo e "per" il testo. Il capro espiatorio che noi stessi dobbiamo evidenziare è il capro espiatorio "del" testo. Esso non può apparire nel testo di cui domina tutti i temi, non è mai nominato in quanto tale. Non può diventare tema nel testo che esso stesso "struttura". Non è un tema bensì un meccanismo strutturante.
Ho promesso di essere più semplice possibile e l'opposizione tra tema e struttura può apparire ad alcuni astratta e gergale. Eppure essa è indispensabile. Del resto, per renderla chiara, basta applicarla al nostro problema.
Quando di fronte a Guillaume si esclama: «Gli Ebrei sono capri espiatorii», si riassume "l'interpretazione" corretta di questo testo. Si coglie la rappresentazione persecutoria non criticata dall'autore e le si sostituisce un'interpretazione che pone gli Ebrei sullo stesso piano di Gesù nel racconto della passione. Essi non sono colpevoli, sono vittime di un odio senza causa. La folla intera e qualche volta le autorità sono d'accordo nell'affermare il contrario, ma questa unanimità non ci impressiona. I persecutori non sanno quello che fanno.
Quando pratichiamo questo tipo di decifrazione facciamo tutti dello strutturalismo senza saperlo, e della migliore qualità. La critica strutturalista è più antica di quanto si creda e sono andato a cercarla il più lontano possibile per disporre di esempi incontestabili e incontestati. Nel caso di Guillaume de Machaut, dire capro espiatorio dice tutto, perché questa espressione enuncia qui il principio strutturante nascosto dal quale scaturiscono tutti i temi, tutti gli stereotipi persecutorii presentati nella prospettiva menzognera di un autore incapace di riconoscere negli Ebrei di cui parla i "capri espiatorii" che noi individuiamo in quanto tali, come fanno i Vangeli nel caso di Gesù.
Sarebbe assurdo assimilare i due tipi di testi, Guillaume de Machaut e i Vangeli, col pretesto che essi sono entrambi in un certo rapporto con il 'capro espiatorio'. Essi descrivono lo stesso avvenimento in modo così diverso che sarebbe odioso e stupido confonderli. Il primo tipo ci dice che la vittima è colpevole, riflette quindi il meccanismo del capro espiatorio che lo condanna a una rappresentazione persecutoria non critica: per questo spetta a noi fare questa critica; il secondo invece ci precede in questa stessa critica dato che proclama l'innocenza della vittima.
Bisogna temere l'aspetto ridicolo e odioso di questa confusione. Del resto ce ne renderemmo non meno colpevoli se non distinguessimo ad esempio tra l'antisemitismo di Guillaume e la denuncia dello stesso Guillaume da parte di uno storico moderno, col pretesto che ciascuno dei due testi, quello di Guillaume e quello dello storico, ha un rapporto stretto con l'espressione "capro espiatorio" in un senso non precisato. Un simile amalgama sarebbe veramente il colmo del grottesco o della perversità intellettuale.
Prima di invocare il capro espiatorio, a proposito di un testo, bisogna dunque chiedersi se si tratta del capro espiatorio "del" testo (il principio strutturante nascosto) oppure del capro espiatorio "nel" testo (il tema chiaramente visibile). Soltanto nel primo caso bisogna definire il testo come persecutorio, completamente sottomesso alla rappresentazione persecutoria. Questo testo è governato dall'effetto di capro espiatorio, che esso non esplicita. Nel secondo caso, invece, il testo esplicita l'effetto di capro espiatorio dal quale non è governato; allora non solo non è più persecutorio, ma rivela la verità di una persecuzione.
Il caso dell'antisemitismo e dei suoi storici fa capire chiaramente questa distinzione molto semplice, quasi troppo semplice. Ma ecco che appena si sposta questa definizione verso altri tipi di esempi, la mitologia e il testo evangelico, non la capisce più nessuno, nessuno la riconosce più.
I miei censori non ammettono che si possa leggere la mitologia nel modo in cui tutti noi leggiamo Guillaume de Machaut. Non possono concepire di vedere applicato ai miti quel procedimento che loro stessi, tuttavia, applicano a testi molto analoghi. Armati di una potente lanterna, cercano invano nei testi che io studio ciò che non vi troveranno mai, ciò che non possono trovarvi, il "tema" o il "motivo" del capro espiatorio. Sono loro, naturalmente, a parlare di tema o di motivo, senza accorgersi che io parlo di principio strutturante.
Mi accusano di vedere le cose che non ci sono, di aggiungere ai miti qualcosa che non vi appare. Testo alla mano, mi ingiungono di mostrare loro la parola, la riga, il passo, che designerebbero senza possibile equivoco il famoso capro espiatorio di cui parlo. Poiché non posso soddisfarli, mi considerano «definitivamente confutato».
I miti tacciono a proposito del capro espiatorio. Sembra che questa sia una grande scoperta. Avrei dovuto farla, dichiarano i miei censori, perché loro stessi, leggendomi, la fanno. E mi impartiscono una bella lezione. Vedono in me un caso tipico di quella malattia 'francese' o 'americana' - secondo i casi - che si chiama "mentalità sistematica": quelli come me hanno occhi e orecchi soltanto per ciò che conferma le loro teorie ed eliminano spietatamente il resto. Io riduco tutto a un unico tema. Invento un nuovo "riduzionismo". Come tanti prima di me, scelgo un dato particolare e lo esagero enormemente a scapito degli altri.
Questi critici parlano come se fosse possibile che l'espressione «capro espiatorio» figuri nei miti. Per non scontentarmi del tutto, credo, sono pronti a fare certe concessioni, accettano di lasciare un posticino al capro espiatorio chiedendo magari agli altri temi e motivi di stringersi un po' per accogliere questo nuovo venuto. Sono troppo generosi. Il capro espiatorio nel senso che mi interessa "non ha alcun posto nei miti". Se ne avesse, avrei torto per forza, la «mia teoria» crollerebbe. Non potrebbe essere ciò che ne faccio io, ossia il principio strutturante che governa tutti i temi dall'esterno.
E' ridicolo affermare che il testo di Guillaume de Machaut non ha niente a che vedere con la struttura del capro espiatorio perché non lo menziona. Quanto più un testo è governato da un effetto di capro espiatorio tanto meno ne parla, tanto meno è capace di individuare il principio che lo governa. E' in questo caso, e in questo caso soltanto, che esso è stato scritto in funzione dell'illusione vittimaria, della falsa colpevolezza della vittima, della causalità magica.
Non siamo così sciocchi da esigere che il termine capro espiatorio o un suo equivalente figuri espressamente nei testi che lo suggeriscono, dato il loro carattere persecutorio.
Se aspettassimo, per decifrare le rappresentazioni persecutorie, che i violenti abbiano la cortesia di autodefinirsi consumatori di capri espiatorii, correremmo il rischio di attendere a lungo. Ci contentiamo che essi ci lascino dei segni indiretti delle loro persecuzioni, abbastanza trasparenti certo, e che non possiamo evitare di interpretare. Perché pensare che sia diverso nei miti? Perché gli stessi stereotipi persecutorii o la loro evidente elusione non potrebbero costituire anche nei miti i segni indiretti di una strutturazione persecutoria, di un "effetto" di capro espiatorio?
Al malinteso a proposito dei miti si accompagna il malinteso a proposito dei Vangeli. Mi si tira per la manica per farmi sapere, con discrezione, che mi sbaglio: «Questi Vangeli che lei considera estranei al capro espiatorio e alla struttura sacrificale, non lo sono affatto. Prenda l'agnello di Dio, prenda la frase di Caifa. Contrariamente alla sua opinione, i Vangeli considerano Gesù un capro espiatorio; lei non se ne è accorto, ma è cosa assolutamente certa».
E' l'altra faccia dello stesso malinteso. Stando a certi critici, insomma, io invertirei tutti i dati evidenti dei testi che studio; introdurrei capri espiatorii in tutti quelli che non ne posseggono e li sopprimerei in tutti quelli che ne posseggono. Partendo da una immagine esattamente contraria a quanto la «mia teoria» esige, si dimostra facilmente che brancolo nella totale incoerenza. Mi si richiede del materiale vittimario esplicito ovunque la mia tesi lo esclude, lo si esclude ovunque la mia tesi lo esige. E si conclude frequentemente che misconosco i princìpi cardine della critica contemporanea. Se io sono così come vengo presentato, infatti, misconosco l'incompatibilità reciproca fra principio strutturante e temi strutturati. E' la cosa più sorprendente, direi, ma forse non è affatto sorprendente, anzi è di una logica luminosa.
Nei miei due ultimi libri, ho voluto prevenire le confusioni sostituendo sempre "vittima espiatoria" a "capro espiatorio" quando si trattava del principio strutturante; la prima espressione aveva ai miei occhi il vantaggio di suggerire la presenza probabile di vittime reali dietro ogni rappresentazione persecutoria. Ma questa precauzione non è bastata.
Come mai certi lettori che dispongono di tutto il sapere necessario alla comprensione del mio discorso lo dimostra il modo in cui reagiscono alle persecuzioni storiche possono fraintendere così grossolanamente la «mia teoria»?
Noi riserviamo l'uso strutturante del capro espiatorio al mondo che ci circonda; risaliamo tutt'al più al Medioevo. Appena passiamo dai testi storici ai testi mitologici e religiosi, "dimentichiamo", letteralmente, quest'uso che pure è banale e gli sostituiamo una sorta di capro espiatorio rituale non nel senso della Bibbia, che potrebbe condurci da qualche parte, ma nel senso di Frazer e dei suoi discepoli, che invece ci spinge in un vicolo cieco privo di interesse.
I riti sono azioni misteriose, certo, perfino e soprattutto per chi li pratica, ma sono anche azioni deliberate, intenzionali. Le culture non possono praticare i loro riti inconsapevolmente. I riti sono "temi" o "motivi" all'interno del vasto testo culturale.
Considerando l'espressione capro espiatorio soltanto in senso rituale, e generalizzandola, Frazer ha fatto un grave torto all'etnologia; egli infatti occulta il significato più interessante dell'espressione, quello che comincia a baluginare agli inizi dei tempi moderni e che non designa mai, lo ripeto, né il minimo rito, né il minimo tema, né il minimo motivo culturale, ma il meccanismo inconscio della rappresentazione e dell'azione persecutoria, il meccanismo del capro espiatorio.
Inventando i suoi riti di capro espiatorio, poiché nemmeno lui ha còlto l'origine di tutti i miti nel "meccanismo" del capro espiatorio, Frazer, come d'altronde tutta la scienza del suo tempo, ha malauguratamente messo in cortocircuito l'opposizione fra tema e struttura. Non si è accorto che l'espressione popolare e volgare, quella che ci sale alle labbra di fronte al testo di Guillaume de Machaut, è infinitamente più ricca, più interessante e più carica di avvenire di tutti i "temi" e di tutti i "motivi" offertici dall'enciclopedia, puramente tematica e inevitabilmente bastarda, che egli stava costituendo. Frazer è andato diritto al Levitico, per fare di un rito ebraico il capofila di tutta una categoria rituale - in verità inesistente - senza mai chiedersi se esistesse un rapporto tra il religioso in genere e il tipo di fenomeno al quale tutti noi alludiamo quando affermiamo di un individuo o di una minoranza che essi servono da «capro espiatorio» a un gruppo di maggioranza. Non si è accorto che vi era qui qualcosa di essenziale, e di cui bisognava tenere conto in qualsiasi riflessione sul capro espiatorio. Non ha notato certi prolungamenti del fenomeno nel nostro universo; ha visto soltanto una superstizione grossolana della quale la miscredenza religiosa e il positivismo sarebbero bastati a sbarazzarci del tutto. Ha visto nel cristianesimo un residuo, o piuttosto il trionfo finale, di questa superstizione.
Ancora oggi, appena passiamo, col pensiero, dallo storico al mitologico, scivoliamo irresistibilmente dal capro espiatorio strutturante alla triste piattezza del tema o motivo inventato da Frazer e dai frazeriani. D'altronde, se questo lavoro interpretativo non lo avessero fatto loro, lo avrebbero fatto altri. Era già compiuto per tre quarti quando essi hanno cominciato. Non bisogna rafforzare l'errore iniziale immaginandosi che si tratti di un errore facile da correggere. E' in gioco qualcosa di essenziale. A giudicare dalla tenacia dei malintesi suscitati dal mio lavoro, la ripugnanza a prendere in considerazione l'uso strutturante, quando si tratta di mitologia e di religione, sorpassa di gran lunga il quadro dell'etnologia. Questa ripugnanza è universale e fa tutt'uno con la schizofrenia culturale di cui parlavo prima. Ci rifiutiamo di applicare gli stessi criteri di lettura a ciò che è storico, da un lato, e a ciò che è mitologico e religioso dall'altro.
Gli etnologi di Cambridge cercavano ovunque, e questo è rivelatore, il "rito" del capro espiatorio che, secondo loro, doveva corrispondere al mito di Edipo. Intuivano che tra Edipo e il «capro espiatorio» il rapporto era stretto, e avevano ragione, ma non riuscivano a capire con quale tipo di rapporto avevano a che fare. Il positivismo dell'epoca consentiva loro di vedere ovunque soltanto temi e motivi. L'idea di un principio strutturante "assente" dal testo da esso strutturato sarebbe sembrata loro un esempio di metafisica incomprensibile. Così avviene sempre, d'altronde, per la maggioranza dei ricercatori e neppure io sono sicuro di farmi capire, in questo stesso momento, benché mi riferisca all'interpretazione che tutti noi diamo, senza esitazione, di Guillaume de Machaut mediante un capro espiatorio "introvabile nel testo".
Da Frazer in poi, altri lettori molto colti, tra cui Marie Delcourt e più recentemente Jean-Pierre Vernant, hanno intuito ancora una volta che il mito aveva «qualcosa a che vedere» con il capro espiatorio. Ci vuole certo una cecità e una sordità non consuete, ma molto in auge nelle università, per non vedere gli stereotipi persecutorii che brillano ovunque nel mito e fanno di esso il più grossolano tra i processi di stregoneria. Ma nessuno risolverà mai questo povero enigma, se non si orienta verso l'uso strutturante del capro espiatorio, chiave universale della rappresentazione persecutoria. Appena si tratta di un mito, soprattutto di quello di Edipo, naturalmente, tanto più fortificato dal sacro psicoanalitico, tragico, estetico e umanistico quanto più è in realtà trasparente, il pensiero del capro espiatorio ricade invincibilmente nel solito solco del tema e del motivo. Lo strutturalismo spontaneo della persecuzione demistificata svanisce e nessuno riesce più a ritrovarlo.
Malgrado il suo 'strutturalismo', anche Jean-Pierre Vernant ricade nel tematismo e vede nel mito soltanto una piatta superficie coperta di temi e motivi. Compreso quello del capro espiatorio, al quale egli dà il suo nome greco di "pharmakos" per non farsi rimproverare, credo, il proprio etnocentrismo dai colleghi (1). E' certamente vero che il "pharmakos" è un "tema" o "motivo" della cultura greca, ma i filologi tradizionali non mancheranno di osservare che questo tema non compare affatto, per l'appunto, nel mito di Edipo e se fa un accenno di comparsa nella tragedia, esso è assai problematico anche perché Sofocle, come lo stesso Jean-Pierre Vernant, «sospetta qualcosa». Io penso che il sospetto di Sofocle vada lontano, ma che nel quadro della tragedia egli non abbia potuto esprimersi direttamente, perché essa vietava all'autore la minima modifica alla storia che andava raccontando "Aristoteles dixit". Sofocle è probabilmente responsabile di ciò che vi è di esemplare nell'"Edipo re" sotto il profilo degli stereotipi persecutorii. Egli trasforma il mito in processo; fa nascere l'accusa stereotipata da un processo di rivalità mimetica, dissemina il proprio testo di indicazioni che alludono ora all'idea di un re che soffre da solo per tutti i suoi sudditi, ora a quella di un unico responsabile, Edipo stesso, sostituito agli assassini "collettivi" di Laio. Il poeta, in effetti, allude con straordinaria insistenza al fatto che Laio sia caduto sotto i colpi di numerosi assassini. Vediamo Edipo che confida in questa pluralità per potersi discolpare, e poi Sofocle che rinuncia misteriosamente a rispondere alle domande che egli stesso ha posto (2). Sofocle certamente sospetta qualcosa, ma non s'inoltra nella rivelazione del capro espiatorio strutturante quanto i Vangeli o persino i Profeti. La cultura greca glielo vieta. Nelle sue mani il racconto mitico non scoppia, per rivelare i suoi ingranaggi; la trappola si richiude su Edipo. E tutti i nostri interpreti restano prigionieri di questa trappola, compreso Jean-Pierre Vernant che vede semplicemente temi da aggiungere ad altri temi e che non affronta mai il problema vero, quello della rappresentazione mitica nel suo insieme, quello del sistema persecutorio, certamente scosso dalla tragedia, ma mai al punto da essere veramente sovvertito e dichiarato menzognero come lo è nei Vangeli.
Quello che non si riesce mai a vedere è che Edipo non potrebbe essere simultaneamente figlio incestuoso e parricida da un lato, e "pharmakos" dall'altro. Quando diciamo "pharmakos", infatti, intendiamo questo termine nel senso di vittima innocente, in un senso, cioè, sicuramente contaminato di ebraico e di cristiano ma che tuttavia non per questo è etnocentrico, perché convenire con gli Ebrei e i cristiani che il "pharmakos", o capro espiatorio, è innocente, significa giungere a una "verità" dalla quale, lo ripeto, non possiamo staccarci senza rinunciare alla demistificazione di Guillaume de Machaut e alla negazione del pensiero magico.
O Edipo è un capro espiatorio e non è colpevole di parricidio e d'incesto, oppure è colpevole e non è, almeno per i Greci, il capro espiatorio innocente che Jean-Pierre Vernant chiama pudicamente "pharmakos".
Se la tragedia contiene effettivamente elementi che vanno nell'uno e nell'altro senso, è perché essa è lacerata al suo interno, incapace di aderire al mito e incapace di ripudiarlo nel senso in cui lo ripudiano i Profeti, i Salmi e i Vangeli.
E' questo, del resto, che fa così bella la tragedia greca, lo strazio insuperabile di questa contraddizione interna e non la coesistenza impossibile di un figlio colpevole e di un capro espiatorio innocente nella falsa armonia estetizzante degli umanesimi assolvitori.
Parlando di "pharmakos" invece che di capro espiatorio, Jean-Pierre Vernant spera di eludere il biasimo di chi, tra i suoi colleghi, è assolutamente insensibile al sentore di vittima che si sprigiona dal mito. Ma perché cercare di soddisfare gente dall'odorato così poco sensibile?
Nel caso di Guillaume de Machaut nessuno penserebbe di sostituire "pharmakos" a "capro espiatorio". Anche se scrivesse in greco (e in parte lo fa, come un po' tutti i nostri universitari, quando sostituisce "epydimie" alla parola peste), credo non ci verrebbe in mente di dire che la sua prospettiva sugli innocenti perseguitati è deformata da un effetto di "pharmakos". Noi diremmo sempre "capro espiatorio". Il giorno in cui comprenderemo di che cosa tratta il mito di Edipo, da quale meccanismo genetico e strutturale nasce, penso che dovremo rassegnarci a dire che "Edipo è un capro espiatorio". Tra questa frase e il "pharmakos" di Jean-Pierre Vernant la distanza non è grande, ma grossi pregiudizi impediscono a molta gente di superarla.
Quando parla di "pharmakos", Jean-Pierre Vernant si allontana dal mito non più di quanto faccia io quando parlo di "capro espiatorio". Ma a differenza di lui, io non provo la minima esitazione: posso perfettamente giustificare questo allontanamento e me ne rido dei filologi positivisti. Infatti non mi allontano dal mito né più né meno di quanto essi stessi si allontanano da Guillaume de Machaut quando lo leggono come facciamo tutti.
Perché mai i positivisti eruditi approvano per Guillaume de Machaut ciò che proibiscono, in nome della fedeltà letterale, per Edipo e il suo mito? Essi non sono in grado di rispondere, ma io posso farlo benissimo per loro. Essi capiscono Guillaume de Machaut e non capiscono il mito di Edipo: ebbene, se non lo capiscono è perché fanno un feticcio dei grandi testi antichi, ossia perché di questi testi l'umanesimo occidentale ha bisogno per giustificarsi di fronte alla Bibbia e ai Vangeli. La stessa cosa avviene per i nostri etnocentrifughi militanti, che sono una semplice variante della stessa illusione. Perché allora non condannano, in quanto etnocentrico, l'uso di capro espiatorio a proposito di Guillaume de Machaut?
Se torno sempre a Guillaume, anche a rischio di stancare i miei lettori, non è perché abbia in sé una ragione di interesse particolare, ma perché l'interpretazione che ne diamo si allontana decisamente dal testo, per il fatto stesso di essere radicalmente strutturale. Essa si basa su un principio di cui nel testo non si parla mai; nonostante ciò, essa è legittimamente intoccabile e incontrovertibile. E poiché sui testi di cui parlo io non faccio mai niente di più di quanto tale interpretazione faccia sul suo, essa è per me una meravigliosa controprova, il mezzo più rapido, più intelligibile e più sicuro per spazzare via tutte le idee false che pullulano oggigiorno, non soltanto nell'ambito mitologico e religioso, ma in tutto ciò che riguarda l'interpretazione. Essa ci fa toccare con mano la senescenza delle idee che si cela dietro le pretese 'radicali' del nichilismo attuale. Ovunque trionfa l'idea perniciosa che non vi sia verità da nessuna parte, e soprattutto che non ve ne sia nei testi che interpretiamo. Per opporci a questa idea bisogna brandire la verità che tutti, senza esitare, traiamo da Guillaume de Machaut e dai processi di stregoneria. Bisogna chiedere ai nostri nichilisti se essi rinunciano anche a questa verità, e se ai loro occhi ogni 'affermazione' sia veramente equivalente ad un'altra, sia quelle che provengono dai persecutori sia quelle che denunciano la persecuzione.
NOTE AL CAPITOLO 10.
(1). "Mythe et tragédie en Grèce ancienne", Maspero, Paris 1972, p.p. 99-131 [trad. it. "Mito e tragedia nell'antica Grecia", Einaudi, Torino, 1977].
(2). Sandor Goodhart, "Oedipus and Laius' Many Murderers", in «Diacritics», marzo 1978, p.p. 55-71.