I DEMONI DI GERASA.
I Vangeli ci mostrano una grande varietà di rapporti umani che a prima vista ci appaiono incomprensibili ed essenzialmente irrazionali, ma che, in ultima analisi, possono e devono essere tutti ricondotti all'unità di un solo e identico fattore, il mimetismo, fonte primaria di ciò che lacera gli uomini, dei loro desideri, delle loro rivalità, dei loro malintesi tragici e grotteschi, di conseguenza fonte di ogni disordine, ma anche di ogni ordine grazie all'intermediazione dei capri espiatorii, vittime spontaneamente riconciliatrici perché uniscono contro se stesse, in un parossismo finale sempre mimetico ma unanime, coloro che gli effetti mimetici precedenti e meno estremi avevano spinto gli uni contro gli altri.
E' lo stesso gioco, ovviamente, che sottende tutte le genesi mitologiche e religiose del pianeta, un gioco che le altre religioni, come abbiamo visto, riescono a dissimularsi e a dissimularci, sopprimendo o camuffando gli assassinii collettivi, attenuando e cancellando gli stereotipi persecutorii in mille modi, mentre i Vangeli, al contrario, lo evidenziano con un rigore e una forza che non hanno equivalenti.
Lo abbiamo appena constatato leggendo il rinnegamento di Pietro e l'assassinio di Giovanni Battista, ma soprattutto rileggendo la passione stessa di Cristo, vero cuore e centro di tutta questa rivelazione, di cui mette in evidenza le linee di forza con un'insistenza che ho definito didattica, volta com'è a mettere bene in testa a popolazioni imprigionate da sempre nella rappresentazione mitologica e persecutoria le poche verità decisive che dovrebbero liberarle, impedendo loro di sacralizzare le proprie vittime.
In tutte queste scene, i Vangeli rendono manifesta una genesi religiosa che, per produrre il mitologico e il rituale, deve restare dissimulata. Questa genesi poggia essenzialmente su una credenza unanime, che i Vangeli infirmano per sempre: la credenza nella colpevolezza della loro vittima. Non c'è paragone tra ciò che avviene nei Vangeli e ciò che avviene nelle mitologie, anche e soprattutto nelle mitologie evolute. Le religioni più recenti attenuano, minimizzano, addolciscono fino a eliminare del tutto le colpevolezze sacre e qualsiasi violenza, ma si tratta di dissimulazioni supplementari, che neanche scalfiscono il sistema della rappresentazione persecutoria. Al contrario, nell'universo evangelico, è proprio questo sistema che crolla; qui non si tratta più di addolcimento e di sublimazione ma di un ritorno alla verità grazie a un processo che la nostra incomprensione considera primitivo, proprio perché deve riprodurre ancora una volta l'origine violenta, per renderla però, questa volta, manifesta e dunque inoperante.
I testi che abbiamo appena letto sono tutti esempi di questo processo. Essi corrispondono perfettamente al modo in cui lo stesso Gesù e, dietro di lui, il Paolo di tutte le epistole definiscono l'azione disgregante della crocifissione sulle potenze di questo mondo. La passione rende visibile ciò che deve rimanere invisibile affinché le suddette potenze si mantengano: il meccanismo del capro espiatorio.
Nel rivelare questo meccanismo, e tutto il mimetismo che lo circonda, i Vangeli costruiscono la sola macchina testuale che possa porre fine all'imprigionamento dell'umanità nei sistemi di rappresentazione mitologica, fondati sulla falsa trascendenza di una vittima sacralizzata in quanto unanimemente considerata colpevole.
Questa trascendenza è nominata direttamente nei Vangeli e nel Nuovo Testamento. Essa ha anzi molti nomi, ma quello principale è Satana, che non sarebbe stato concepito simultaneamente come "omicida fin dall'inizio, padre della menzogna e principe di questo mondo", se egli non coincidesse con la falsa trascendenza della violenza. Non è nemmeno un caso se, fra tutti i difetti di Satana, l'invidia e la gelosia sono quelli più evidenti. Si potrebbe dire che Satana incarna il desiderio mimetico, se questo desiderio non fosse, per eccellenza, disincarnazione. E' lui che svuota del loro contenuto tutti gli esseri, tutte le cose e tutti i testi.
Quando la falsa trascendenza è considerata nella sua unità fondamentale, i Vangeli parlano di diavolo o di Satana, quando invece è considerata nella sua molteplicità si parla soprattutto di demoni e di forze demoniache. La parola demone può essere benissimo usata come sinonimo di Satana, ma essa si applica soprattutto a forme inferiori della «potenza di questo mondo», a manifestazioni degradate, diremmo psicopatologiche. Per il solo fatto che appaia multipla e che si frammenti, la trascendenza perde la sua forza e tende a ricadere nel puro disordine mimetico. A differenza di Satana dunque, sentito simultaneamente come principio di ordine e principio di disordine, le forze demoniache sono invocate nei casi in cui il disordine predomina.
I Vangeli conferiscono volentieri alle «potenze» i nomi che provengono dalla tradizione religiosa e dalle credenze magiche, continuando, a quanto sembra, a vedere in esse entità spirituali autonome, dotate di una personalità individuale. In ogni pagina, o quasi, dei Vangeli troviamo demoni che parlano, interpellano Gesù, lo supplicano di lasciarli in pace. Nella grande scena della tentazione nel deserto, che compare nei tre vangeli sinottici, Satana "in persona" interviene per sedurre il Figlio di Dio con promesse fallaci e per distoglierlo dalla sua missione.
Non bisogna concluderne che, lungi dal distruggere, come io affermo, le superstizioni magiche e tutte le credenze religiose volgari, i Vangeli rilancino questo tipo di credenze in una forma particolarmente perniciosa. Dopotutto, fu proprio sulla demonologia e sul satanismo evangelici che si fondarono i cacciatori di streghe della fine del Medioevo, per giustificare la loro attività.
Per molta gente, soprattutto nella nostra epoca, il brulichio demoniaco «oscura l'aspetto luminoso dei Vangeli», e le guarigioni miracolose di Gesù mal si distinguono dagli esorcismi tradizionali delle società primitive. Nessuna scena di miracolo appare nei miei commenti fino ad ora. Alcuni critici lo hanno notato e si sono chiesti, come è naturale, se io non eviti un confronto che forse non tornerebbe a vantaggio della mia tesi. Secondo loro, io sceglierei i miei testi con la massima cura, trascurando tutti gli altri; così facendo riuscirei a dare una falsa verosimiglianza a prospettive troppo contrarie al buon senso per meritare di essere prese sul serio. Eccomi dunque con le spalle al muro.
Per dare alla prova un carattere decisivo, farò di nuovo appello a Marco, perché dei quattro evangelisti è il più ghiotto di miracoli, quello che dà loro più spazio e che li presenta nel modo più contrario alla sensibilità moderna. Di tutte le guarigioni miracolose di Marco la più spettacolare, forse, è l'episodio dei demoni di Gerasa. Il testo è abbastanza lungo e ricco di particolari concreti da offrire al commentatore un'occasione che con passi più brevi verrebbe a mancargli.
Anche i critici più severi dovrebbero approvare questa scelta. L'episodio di Gerasa è uno di quei testi ai quali non si allude quasi più ai giorni nostri se non per definirlo «selvaggio», «primitivo», «arretrato», «superstizioso», usando insomma tutti quegli epiteti che i positivisti applicavano al religioso in genere, senza distinzione di origine, ma che ormai sono riservati al solo cristianesimo perché giudicati troppo peggiorativi per le religioni non cristiane.
La mia analisi sarà centrata sul testo di Marco, ma ricorrerò a Luca e a Matteo ogni volta che le loro versioni presentino varianti interessanti. Dopo aver attraversato il mare di Galilea, Gesù sbarca sulla riva orientale, in territorio pagano, nella regione detta della Decapoli.
«Non appena Gesù scese dalla barca, gli venne incontro, uscendo dalle tombe, un uomo posseduto da uno spirito impuro: egli aveva la sua dimora nelle tombe e nessuno riusciva più a legarlo, neanche con una catena, perché spesso era stato legato con ceppi e catene, ma aveva spezzato le catene e infranto i ceppi, e nessuno più riusciva a domarlo. E continuamente, notte e giorno, se ne stava nelle tombe e sui monti, gridando e tagliuzzandosi con delle pietre. Visto Gesù da lontano, accorse, si prosternò davanti a lui e gridò a gran voce: 'Che cosa vuoi da me, Gesù, figlio dell'Altissimo Dio? Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi!'. Gesù gli diceva infatti: 'Esci da quest'uomo, spirito impuro!'. E gli domandò: 'Come ti chiami?'. 'Mi chiamo Legione' gli rispose 'perché siamo in molti'. E subito lo supplicò di non cacciarli fuori da quel paese. Ora, c'era sul monte un grande branco di porci che stavano pascolando. E gli spiriti impuri supplicarono Gesù dicendo: 'Mandaci da quei porci, perché entriamo in essi'. Egli lo permise. Allora uscirono, ed entrarono nei porci e, dall'alto del dirupo, il branco si gettò a precipizio nel mare; erano circa duemila e tutti annegarono. I mandriani fuggirono e portarono la notizia in città e nelle case di campagna, e le genti vennero per vedere che cosa fosse successo. Arrivate da Gesù, videro l'indemoniato seduto, vestito e nel pieno delle sue facoltà, lui che era stato posseduto dalla Legione, e furono assalite dal terrore. Quelli che erano stati testimoni raccontarono che cosa era successo al posseduto e che cosa era accaduto ai porci. Allora esse si misero a pregare Gesù di andarsene dal loro territorio» (Marco, 5, 1-17).
Il «posseduto» ha «la sua dimora nelle tombe»: questo fatto colpisce molto l'evangelista, perché lo ripete tre volte. Continuamente, notte e giorno, l'infelice «se ne stava nelle tombe». Viene incontro a Gesù «uscendo dalle tombe». E' l'uomo più libero che ci sia, perché spezza tutte le catene, disprezza tutte le regole, e ha rinunciato persino ai vestiti, ci dice Luca, ma è schiavo della sua possessione, prigioniero della propria follia.
Quest'uomo è un morto vivente. Il suo stato è un fenomeno di crisi, nel senso dell'indifferenziazione mimetica e persecutoria; non vi è più differenza tra la vita e la morte, la libertà e la prigionia. L'esistenza nelle tombe, lontano dai luoghi abitati, non è tuttavia un fenomeno permanente, il risultato di una rottura unica e definitiva tra il posseduto e la comunità. Dal testo di Marco si deduce che i Geraseni e il loro indemoniato si sono da tempo stabilizzati in una patologia di tipo ciclico. Luca ce ne dà conferma presentandoci il posseduto come un "uomo della città", e informandoci che il demone lo "trascinava verso i luoghi isolati" soltanto durante le sue crisi. La possessione abolisce anche, tra l'esistenza cittadina e l'esistenza fuori dalle città, una differenza non certo priva di importanza giacché il nostro testo ne parlerà una seconda volta più avanti.
La descrizione di Luca suppone un'affezione intermittente, con periodi di remissione durante i quali il malato torna in città: "Molte volte lo spirito si era impossessato di lui; allora lo legavano, per custodirlo, con catene e ceppi, ma egli spezzava i legami e il demonio lo trascinava verso i luoghi isolati" (Luca, 8, 29).
I Geraseni e il loro indemoniato rivivono periodicamente la stessa crisi, sempre più o meno nella stessa maniera. Quando sospettano una nuova partenza, gli uomini della città si sforzano di ostacolarla legando il loro concittadino con catene e ceppi. Fanno questo "per custodirlo", ci dice il testo. Perché desiderano "custodirlo"? Apparentemente per una ragione molto chiara: guarire un malato è fare sparire i sintomi del suo male. Ora qui, il sintomo principale è il vagabondaggio sui monti e tra le tombe. E' dunque questo che i Geraseni vorrebbero prevenire con le loro catene. Il male è così atroce che essi non esitano a ricorrere alla violenza. Ma il loro metodo evidentemente non è quello giusto: ad ogni episodio, la loro vittima trionfa su qualsiasi sforzo venga fatto per trattenerla. Il ricorso alla violenza non fa che aumentare il suo desiderio di solitudine e la forza di questo desiderio, tanto che l'infelice diventa presto indomabile. "Nessuno", ci dice Marco, "riusciva a domarlo".
Il carattere ripetitivo di questi fenomeni ha qualcosa di rituale. Tutti gli attori del dramma sanno esattamente ciò che avverrà ad ogni episodio, e si comportano come devono perché effettivamente tutto si riproduca come prima. E' difficile credere che i Geraseni non riescano a trovare catene e ceppi abbastanza robusti per immobilizzare il loro prigioniero. Forse si rimproverano un po' la loro violenza e non vi ricorrono con sufficiente energia per renderla veramente efficace. Comunque sia, sembra che essi si comportino come quei malati che perpetuano con le loro manovre la patologia che hanno la pretesa di interrompere. Tutti i riti tendono a trasformarsi in una specie di teatro, e gli attori recitano la loro parte con tanto più brio quanto più spesso l'hanno recitata: in questo caso molte volte. Questo non vuol dire che lo spettacolo non si accompagni a sofferenze reali dei partecipanti. Devono essere reali, da ambedue le parti, se si vuole conferire al dramma l'efficacia che visibilmente possiede per tutta la città e i suoi dintorni, ovvero per tutta la comunità. I Geraseni sono visibilmente costernati all'idea di vedersene improvvisamente privati. Bisogna pure che, in qualche modo, si compiacciano di questo dramma e persino che ne abbiano bisogno se supplicano Gesù di allontanarsi immediatamente e di non intervenire più nelle loro faccende. La richiesta è paradossale, in quanto Gesù ha appena ottenuto in un sol colpo e senza la minima violenza il risultato cui essi stessi fanno finta di mirare con le loro catene e i loro ceppi, ma che in realtà non si augurano, ossia la guarigione definitiva del posseduto.
Qui come ovunque la presenza di Gesù rivela la verità dei desideri dissimulati. Si verifica sempre la profezia di Simeone: "Questo bambino... deve essere un segno esposto alla contraddizione... affinché siano svelati gli intimi pensieri dei molti".
Ma che cosa significa questo dramma, come lo si definisce sul piano simbolico? Il malato corre tra le tombe e sui monti, ci dice Marco, gridando e "tagliuzzandosi con delle pietre". Nel suo notevole commento a questo testo, Jean Starobinski definisce in modo perfetto questo strano comportamento: si tratta di una "autolapidazione" (1). Ma perché voler lapidare se stessi? Perché essere ossessionati dalla lapidazione? Quando spezza i suoi legami per allontanarsi dalla comunità, il posseduto forse crede di essere inseguito da quelli che hanno provato a incatenarlo. Forse lo è realmente. Egli fugge le pietre che i suoi inseguitori potrebbero scagliargli. Gli abitanti del suo villaggio inseguivano lo sventurato Giobbe a sassate. Niente di simile è detto nel racconto di Gerasa. Forse perché non è mai stato oggetto di una lapidazione effettiva, l'indemoniato si tagliuzza con delle pietre. Mantiene in modo mitico il pericolo da cui si sente minacciato.
E' stato forse oggetto di minacce reali, è forse il sopravvissuto di una lapidazione non terminata, come la donna adultera del vangelo di Giovanni, oppure nel suo caso si tratta di una paura completamente immaginaria, di un semplice "fantasma"? Se vi rivolgete ai nostri contemporanei, costoro vi diranno in modo perentorio che si tratta proprio di un "fantasma". Probabilmente per non vedere né le cose terribili che succedono intorno a noi, né la protezione forse temporanea di cui godiamo, un'importante scuola ha deciso di spiegare tutto con il fantasma.
Vada pure per un fantasma di lapidazione. Ma faccio allora una domanda ai nostri eminenti psicoanalisti: è proprio lo stesso fantasma che è presente sia nelle società che praticano la lapidazione sia in quelle che non la praticano? Forse il posseduto dice ai suoi concittadini: «Non c'è bisogno, vedete, di trattarmi come desiderate fare, non c'è bisogno di lapidarmi; io stesso mi assumo il compito di eseguire la vostra sentenza. La punizione che mi infliggo supera in orrore tutto ciò che voi sognate di infliggermi».
Da notare il carattere mimetico di questo comportamento: come se cercasse di non farsi espellere e lapidare per davvero, il posseduto si espelle e si lapida da sé; egli mima in modo spettacolare tutte le tappe del supplizio che le società del Medio Oriente infliggevano a coloro che consideravano definitivamente impuri, ai criminali irrecuperabili. Prima la caccia all'uomo, poi la lapidazione e la morte; per questo il posseduto «ha la sua dimora nelle tombe».
I Geraseni devono pur comprendere in qualche modo il rimprovero che viene fatto loro, altrimenti non si comporterebbero come fanno con colui che li rimprovera. La loro violenza mitigata è una protesta inefficace. «Ma no,» essi rispondono «non vogliamo lapidarti, dato che vogliamo "custodirti" qui con noi. Nessun ostracismo pesa su di te». Purtroppo, come tutti coloro che si sentono accusati a torto ma non senza verosimiglianza di ragione, i Geraseni protestano con violenza, protestano in buona fede mediante la violenza e così facendo accrescono il terrore del posseduto. La prova che hanno una certa consapevolezza della loro contraddizione, sono le catene mai abbastanza robuste per convincere la vittima delle loro buone intenzioni nei suoi confronti.
La violenza dei Geraseni non è fatta per rassicurare il posseduto. E viceversa; la violenza del posseduto preoccupa i Geraseni. Come sempre, ognuno pretende di porre fine alla violenza con una violenza che dovrebbe essere definitiva, ma che perpetua la circolarità del processo. C'è una visibile simmetria tra tutte queste stravaganze, da una parte l'autolacerazione e le corse fra le tombe, dall'altra le catene magniloquenti. Vi è una sorta di complicità tra la vittima e i suoi carnefici nel perpetuare l'equivoco di un gioco visibilmente necessario all'equilibrio dell'insieme geraseno.
Il posseduto si fa violenza per rimproverare a tutti i Geraseni la loro violenza. I Geraseni gli rimandano il suo rimprovero, e lo fanno con una violenza che rafforza ancora di più la sua e che verifica, in qualche modo, l'accusa e la controaccusa che circolano senza fine nel sistema. Il posseduto imita questi Geraseni che lapidano le loro vittime, ma i Geraseni di rimando imitano il posseduto. Tra quei persecutori perseguitati e questo perseguitato persecutore esiste un rapporto di doppi e di specchi; dunque, un rapporto reciproco di antagonismo mimetico. Non è il rapporto fra lapidato e coloro che lo lapidano, ma è un po' la stessa cosa: infatti, da una parte c'e la parodia violenta della lapidazione e dall'altra il suo disconoscimento non meno violento, ossia una variante di espulsione violenta che mira allo stesso fine di tutte le altre, compresa la lapidazione.
Forse sono anch'io «posseduto», se vado ritrovando i miei doppi e il mio mimetismo in un testo che parla solo di demoni? Forse la volontà di sottomettere i Vangeli al mio sistema e di fare di questo sistema il pensiero stesso dei Vangeli mi fa dare qui il colpo di pollice che mi consente di reintrodurre la mia spiegazione preferita?
Non credo, e comunque se mi sbaglio ricorrendo qui, nel contesto dei demoni di Gerasa, ai doppi mimetici, l'errore che commetto non è soltanto mio: lo condivide almeno uno degli evangelisti, Matteo, il quale ci propone, all'inizio del miracolo, una variante significativa. All'unico indemoniato di Marco e di Luca egli sostituisce due posseduti perfettamente identici e fa parlare loro stessi, invece del demone - i due demoni che, in teoria, devono possederli.
Non c'è niente nel testo di Matteo che indichi una fonte diversa da quella di Marco; si tratta piuttosto di un tentativo di spiegazione, ho quasi voglia di dire di demistificazione, del tema demoniaco in generale. Nei testi del tipo di quello di Gerasa accade spesso che Matteo si distacchi da Marco, sia per sopprimere un particolare che giudica inutile, sia per dare un tono più esplicativo ai temi che conserva per far coincidere il tema con la spiegazione che egli ne dà. Ne abbiamo visto un esempio nell'assassinio di Giovanni Battista. Allo scambio di domande e risposte che in Marco indica enigmaticamente la trasmissione mimetica del desiderio tra madre e figlia, Matteo sostituisce l'espressione «addottrinata dalla madre».
Penso che Matteo faccia qui un po' la stessa cosa, ma con maggiore audacia. Vuole suggerire ciò che noi stessi abbiamo imparato nel corso delle letture precedenti. La possessione non è un fenomeno individuale, è un effetto di mimetismo esacerbato. Vi sono sempre almeno due uomini che si posseggono reciprocamente, ciascuno in quanto scandalo dell'altro, suo modello-ostacolo. Ciascuno è il demone dell'altro; è per questo che in Matteo, nella prima parte del racconto, i demoni non si distinguono realmente da coloro che essi posseggono:
«Giunto [Gesù] all'altra riva [del mare di Galilea], nel paese dei Gadareni, gli vennero incontro, uscendo dalle tombe, due indemoniati, due esseri così selvaggi che nessuno poteva passare per quella strada. Ecco che si misero a gridare: 'Che cosa vuoi da noi, tu, Figlio di Dio? Sei venuto qui per tormentarci prima del tempo?'» (Matteo, 8, 28).
La prova che Matteo si sforza di pensare la possessione in funzione del mimetismo dei doppi e della pietra d'inciampo è in ciò che egli aggiunge e che non compare né nel testo di Marco né in quello di Luca: coloro che vanno incontro a Gesù sono tali che "nessuno poteva passare per quella strada". Detto con altre parole, costoro sono esseri che sbarrano la strada, come Pietro a Gesù quando lo scongiura di evitare la passione. Sono esseri che si scandalizzano reciprocamente e scandalizzano i loro vicini. Lo scandalo è sempre contagioso; gli scandalizzati rischiano di comunicarvi il loro desiderio, ovvero di trascinarvi sulla loro strada per diventare il vostro modello-ostacolo e scandalizzare anche voi. Nei Vangeli, ogni allusione al passaggio ostruito, all'ostacolo insormontabile, alla pietra troppo pesante per essere sollevata, è un'allusione allo scandalo di cui essa trascina con sé tutto il sistema.
Per rendere conto della possessione mediante il mimetismo dello scandalo, Matteo fa appello al rapporto mimetico minimo, a ciò che si potrebbe chiamare la sua unità di base. Prova a risalire alla fonte del male. Compie un gesto che abitualmente non si capisce perché inverte la pratica propriamente mitologica delle nostre psicologie e delle nostre psicoanalisi. Queste interiorizzano il doppio; hanno sempre bisogno, insomma, di un piccolo demone immaginario all'interno della coscienza o, se si vuole, dell'inconscio. Matteo esteriorizza il demone in rapporto mimetico reale tra due individui reali.
Matteo migliora, credo, il testo del miracolo su un punto capitale, o piuttosto ne prepara l'analisi. Ci insegna infatti che all'inizio del gioco mimetico non può non esserci la dualità; una cosa interessantissima, certo, ma che in seguito mette l'autore in grave difficoltà, quando deve pur sempre introdurre la molteplicità, indispensabile anch'essa allo svolgimento del miracolo. Sarà perciò costretto a eliminare la frase chiave di Marco: "Mi chiamo Legione perché siamo in molti", quella che contribuisce più di ogni altra alla celebrità del testo, con il suo strano passaggio dal singolare al plurale. Ritroviamo d'altronde questa rottura nella frase successiva, che nello stile del discorso indiretto riporta il seguito delle parole del demone a Gesù: "E 'egli' lo supplicò di non cacciarli fuori da quel paese".
Non si ritrova dunque più in Matteo, e nemmeno in Luca, che pure è più vicino a Marco, l'idea essenziale che il demone è una vera e propria folla, anche se parla come un solo uomo, anche se, in un certo modo, è uno. Perdendo la folla di demoni, Matteo perde ciò che giustifica l'annegamento, che pure mantiene, di un immenso branco di porci. In fin dei conti, perde più di quanto guadagna. Si direbbe, d'altronde, che è consapevole del proprio insuccesso e pertanto abbrevia tutta la fine del miracolo.
Come tutti i colpi di genio di Marco, come la domanda di Salomè a sua madre: «Che cosa bisogna desiderare?», questa giustapposizione del singolare e del plurale nella stessa frase può essere presa per una specie di goffaggine, che viene invece eliminata da Luca, generalmente più abile e corretto di Marco nell'uso della lingua: "«Legione», rispose, perché molti demoni erano entrati in lui. E lo supplicavano che non ordinasse loro di andarsene nell'abisso" (Luca, 8, 30-31).
Nel suo commento a Marco, Jean Starobinski chiarisce molto bene le connotazioni negative della parola "Legione". Bisogna leggervi a la molteplicità guerriera, la truppa ostile, l'esercito occupante, l'invasore romano e forse anche coloro che crocifissero Cristo» (2). Il critico osserva giustamente che la folla svolge un ruolo importante non soltanto nella storia dell'indemoniato, ma nei testi che vengono subito prima e subito dopo. La guarigione in se stessa, certo, si presenta come un duello tra Gesù e il demone, ma sia dopo sia prima c'è sempre folla intorno a Gesù. All'inizio c'è la folla della Galilea, che i discepoli hanno mandato via per imbarcarsi con Gesù. Al ritorno, Gesù ritroverà questa folla. A Gerasa non c'è soltanto la folla dei demoni e la folla dei porci, ma ci sono anche i Geraseni accorsi in folla, sia dalla città sia dalla campagna. Citando la frase di Kierkegaard, «la folla è la menzogna», Starobinski osserva che il male, nei Vangeli, è sempre dalla parte della pluralità e della folla.
Vi è tuttavia una differenza notevole tra il comportamento dei Galilei e quello dei Geraseni. La folla galilea, come quella di Gerusalemme, non ha paura dei miracoli. In un attimo può rivoltarsi contro il taumaturgo, ma per il momento si aggrappa a lui come a un salvatore. I malati affluiscono da ogni parte. In territorio ebraico tutti sono avidi di miracoli e di segni. Vogliono sia beneficiarne personalmente sia farne beneficiare gli altri sia, più semplicemente, esserne spettatori, assistere all'evento fuori del comune come a uno spettacolo teatrale, spesso più straordinario che edificante.
I Geraseni reagiscono in modo diverso. Quando vedono l'indemoniato "seduto, vestito e nel pieno delle sue facoltà, lui che era stato posseduto dalla Legione", sono presi dal terrore. Si fanno spiegare dai mandriani "che cosa era successo al posseduto e che cosa era accaduto ai porci". Lungi dal calmare i loro timori e dall'eccitare l'entusiasmo o per lo meno la curiosità, il racconto accresce la loro angoscia. Gli abitanti del luogo esigono la partenza di Gesù. E Gesù acconsente senza aggiungere nulla. L'uomo che egli ha guarito vuole seguirlo, ma lui gli ingiunge di restare con i suoi. Silenziosamente si imbarca per tornare in territorio ebraico.
Non vi è stata predicazione, né vero scambio, anche ostile, con quegli uomini. E' l'intera popolazione locale, a quanto sembra, che reclama la partenza di Gesù. Si ha l'impressione che i Geraseni giungano in buon ordine. Non somigliano affatto alla folla senza pastore che suscita la pietà di Gesù: formano una comunità differenziata, giacché gli abitanti della campagna si distinguono dagli abitanti della città. Si informano pacatamente ed è una decisione meditata quella per la quale chiedono a Gesù di andarsene. Non rispondono al miracolo né con l'adulazione isterica né con l'odio della passione, ma con un rifiuto che non ammette esitazioni. Non vogliono avere niente a che fare con Gesù e con ciò che egli rappresenta.
Non è per ragioni economiche che i Geraseni se la prendono per la scomparsa del loro branco. L'annegamento dei loro porci li turba, visibilmente, meno di quello dei loro demoni. Per capire come stanno le cose, è bene osservare che questo attaccamento dei Geraseni ai loro demoni ha il suo corrispettivo nell'attaccamento dei demoni ai loro Geraseni. Legione non ha troppa paura di sloggiare, a condizione che gli si permetta di restare nel paese. "E subito lo supplicò di non cacciarli fuori da quel paese". Siccome i demoni non possono fare a meno della dimora di un vivente, desiderano possedere qualcun altro, preferibilmente un essere umano ma, in mancanza di esso, anche un animale va bene, in questo caso il branco dei porci. La modestia della richiesta mostra che i demoni non si fanno illusioni. Sollecitano come un favore il diritto di stabilirsi in quegli animali ripugnanti: si sentono dunque in una situazione difficile. Sanno quello che li aspetta. Forse riusciranno a farsi tollerare, pensano, se si accontentano di poco. L'essenziale, per loro, è di non essere cacciati via "completamente, definitivamente".
Il legame reciproco fra i demoni e i Geraseni non fa che riprodurre, su un altro piano, quello che la nostra analisi ha rivelato dei rapporti tra il posseduto e gli stessi Geraseni. Gli uni non possono fare a meno dell'altro e viceversa. Per descrivere questi rapporti, ho parlato di rito e, insieme, di patologia ciclica. Non credo che questa congiunzione sia fantasiosa. Degenerando, il rito perde chiarezza di contorni: l'espulsione non è una vera espulsione, e il capro espiatorio - il posseduto - torna in città negli intervalli tra le sue crisi. Tutto si confonde e niente finisce mai. Il rito tende a ricadere in ciò che lo ha generato, i rapporti dei doppi mimetici, la crisi indifferenziata. La violenza fisica tende a cedere il posto alla violenza non fatale, ma anche non decisiva e interminabile dei rapporti psicopatologici.
Questa tendenza, tuttavia, non giunge fino all'indifferenziazione totale. Resta una differenza sufficiente tra l'espulso volontario e i Geraseni che rifiutano di mandarlo via, un dramma abbastanza reale in ogni sua ripetizione, perché l'intrigo descritto dal nostro testo conservi una certa efficacia catartica. Siamo sulla strada della disgregazione completa, ma essa non si è ancora prodotta. La società gerasena è ancora abbastanza strutturata, più strutturata delle folle della Galilea o di Gerusalemme. Esiste ancora una certa differenziazione nel sistema, tra la città e la campagna per esempio, ed essa si esprime con la reazione pacificamente negativa al successo terapeutico di Gesù.
Lo stato di questa società non è proprio sanissimo anzi, è abbastanza traballante, ma non ancora disperato e i Geraseni intendono conservarlo. Formano ancora una comunità nell'accezione di sempre, un sistema che si perpetua come può con procedimenti sacrificali molto degenerati, se dobbiamo giudicare da ciò che vediamo, e tuttavia preziosi e persino insostituibili perché, evidentemente, si è giunti all'esaurimento delle proprie risorse.
Tutti i commentatori ci dicono che Gesù guarisce i suoi posseduti con mezzi classici di tipo sciamanico. Qui, per esempio, costringe lo spirito impuro a dire il suo nome; acquista dunque su di lui il potere spesso associato, nelle società primitive, alla manipolazione del nome. In questo non ci sarebbe niente di veramente eccezionale, e non è certo questa l'informazione che il testo vuol darci. Se non ci fosse niente di straordinario in ciò che fa Gesù, i Geraseni non avrebbero nessuna ragione di aver paura. Essi hanno certamente i loro guaritori, che operano secondo i metodi che i moderni pretendono di ritrovare nella pratica di Gesù. Se Gesù fosse soltanto un "medicine man" più bravo degli altri, questa brava gente non sarebbe terrorizzata ma felicissima. Supplicherebbe Gesù di restare e non di andarsene.
Questa paura dei Geraseni è una semplice amplificazione retorica? E' del tutto priva di contenuto, e destinata soltanto a rendere più impressionante la prodezza del Messia? Io penso di no. La caduta del branco demonizzato ci viene presentata allo stesso modo nei tre sinottici. "Dall'alto del dirupo, il branco si gettò a precipizio nel mare". Il dirupo appare anche in Matteo e in Luca. Perché ci sia un dirupo, bisogna che i porci si trovino su una specie di promontorio. Marco e Luca ne hanno coscienza e, per preparare il dirupo, sistemano quelle bestie "su un monte". Matteo non ha il monte ma conserva il dirupo. E' dunque quest'ultimo a trattenere l'attenzione degli evangelisti. Aumenta l'altezza della caduta. Più i porci cadranno dall'alto, più impressionante sarà la scena. Ma i Vangeli non si preoccupano del pittoresco e non è certo per ottenere un miglior effetto visivo che parlano tutti di questo dirupo. Si potrebbe allora sostenere che sia per una ragione funzionale. La distanza da percorrere in caduta libera prima di raggiungere la superficie del mare garantisce la scomparsa definitiva della razza porcina; il branco non potrà fuggire, non potrà raggiungere a nuoto la riva. Tutto questo è vero; il dirupo è necessario all'economia realista della scena. Ma neppure del realismo i Vangeli si preoccupano molto. C'è dunque qualcosa di più essenziale.
Coloro che sono abituati ai testi mitologici e religiosi riconoscono subito, o dovrebbero riconoscere, questo tema del dirupo (3). Come la lapidazione, la caduta dall'alto di una parete scoscesa ha connotazioni collettive, rituali e penali. E' una pratica sociale molto comune sia nel mondo antico sia nelle cosiddette società primitive. E' un tipo di immolazione sacrificale che più tardi si differenzierà in esecuzione capitale. A Roma, è il principio della Rupe Tarpea. Nell'universo greco, la periodica condanna a morte del "pharmakos" rituale si svolgeva talvolta in questo modo, particolarmente a Marsiglia. Si costringeva l'infelice a precipitarsi in mare da un'altezza tale per cui sarebbe fatalmente morto.
Nel nostro testo, dunque, e in forma abbastanza esplicita, compaiono questi due modi di messa a morte rituale: la lapidazione e la caduta dall'alto di una rupe. Tra di essi vi sono delle somiglianze notevoli. Tutti i membri della collettività possono e devono scagliare pietre sulla vittima. Tutti i membri della collettività possono e devono avanzare simultaneamente verso il condannato e spingerlo sul bordo della rupe, per non lasciargli altra scelta che la morte. Le somiglianze non si limitano, però, al carattere collettivo dell'esecuzione. Tutti partecipano alla distruzione dell'anatema, ma nessuno entra in contatto diretto, fisico, con lui. Nessuno rischia di essere contaminato. Unico responsabile è il gruppo. Tutti gli individui condividono in parti eguali innocenza e responsabilità.
Tutto questo è vero anche per le altre modalità tradizionali di esecuzione, in particolare per tutte le forme di "esposizione", di cui la crocifissione costituisce una variante. Il timore superstizioso del contatto fisico con la vittima non deve, inoltre, impedirci di vedere che queste tecniche risolvono un problema essenziale per le società con un sistema giudiziario debole o inesistente, società ancora impregnate dallo spirito della vendetta privata, che spesso devono dunque confrontarsi con la minaccia di una violenza interminabile in seno alla comunità.
Queste modalità di esecuzione, invece, non offrono alcun pretesto alla sete di vendetta, perché eliminano ogni differenza nei ruoli individuali. I persecutori agiscono tutti allo stesso modo. Chiunque sogni la vendetta è costretto a prendersela con l'intera collettività. E' come se la forza dello Stato, ancora inesistente in quel tipo di società, cominciasse a esistere in modo temporaneo ma reale e non soltanto simbolico, nelle forme violente di unanimità.
Queste modalità collettive di esecuzione capitale rispondono così bene ai bisogni di tali società che inizialmente si fa fatica ad accettare l'ipotesi che esse siano sorte in modo spontaneo nelle collettività umane. Esse sembrano troppo adatte allo scopo per non essere state pensate prima di essere realizzate. Si tratta sempre o dell'illusione moderna del funzionalismo, che crede che il bisogno crei l'organo, o dell'illusione più antica delle tradizioni religiose stesse, le quali si rifanno sempre a una specie di legislatore primordiale, un essere che, grazie a una saggezza e a un'autorità sovrumane, avrebbe dotato la comunità di tutte le sue istituzioni fondamentali.
Con ogni probabilità le cose si sono svolte diversamente. E' assurdo pensare che un problema come il nostro si sia posto in modo teorico prima di essere risolto nella pratica. Ma è impossibile evitare questa assurdità fin quando non si scopra la soluzione anteriore al problema, fin quando non si veda quale tipo di soluzione abbia potuto precedere il problema. Ed essa, naturalmente, non può essere altro che un effetto spontaneo di capro espiatorio. Nel parossismo del mimetismo conflittuale, la polarizzazione su un'unica vittima può diventare così potente che tutti i membri del gruppo si sforzano di partecipare al suo assassinio. Questo tipo di violenza collettiva tenderà spontaneamente verso le forme di esecuzione che ho appena definite: unanimi, egualitarie e a distanza.
Questo vuol dire che i grandi legislatori primordiali di cui tante tradizioni religiose ci parlano non sono mai esistiti? Certo che no. Bisogna sempre prendere sul serio le tradizioni primitive, soprattutto quando si assomigliano. I grandi legislatori sono esistiti, ma non hanno mai promulgato alcuna legislazione "da vivi". Evidentemente, essi non sono altri che i capri espiatorii, il cui assassinio viene scrupolosamente imitato, ricopiato e perfezionato nei riti, per i suoi effetti riconciliatori. Gli effetti sono reali, perché questo assassinio somiglia già al tipo di esecuzione capitale che da esso deriva e che riproduce gli stessi effetti: taglia corto con la vendetta. Sembra dunque scaturire da una saggezza più che umana e, come tutte le istituzioni che derivano dal meccanismo vittimario, può essere attribuito soltanto al capro espiatorio sacralizzato. Il legislatore supremo è l'essenza stessa del capro espiatorio sacralizzato.
Un esempio di capro espiatorio legislatore è il personaggio di Mosè. La sua balbuzie è un segno vittimario. Possiede delle tracce di colpevolezza mitica: l'assassinio dell'egiziano (la colpa che causa il divieto di metter piede nella terra promessa), la sua responsabilità nelle dieci piaghe d'Egitto, che sono pestilenze indifferenziatrici. Sono presenti tutti gli stereotipi della persecuzione, a eccezione dell'assassinio collettivo, che tuttavia ricompare in margine alla tradizione ufficiale, come nel caso di Romolo. Freud non ha avuto torto a prendere sul serio questa diceria sull'assassinio collettivo.
Ma torniamo ai demoni di Gerasa. E' ragionevole far intervenire la lapidazione e l'esecuzione dall'alto della rupe nella spiegazione di questo testo? E' ragionevole associare qui queste due modalità di messa a morte? Penso di sì; il contesto ci invita a farlo. La lapidazione appare ovunque nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli. Ho già menzionato la donna adultera salvata da Gesù. Il primo martire, Stefano, viene lapidato. Anche la passione di Cristo è preceduta da vari tentativi di lapidazione. E c'è anche, fatto molto significativo, un tentativo mancato di precipitare Gesù dall'alto di una rupe.
La scena si svolge a Nazaret. Gesù viene accolto male nella città della sua infanzia; non può farvi alcun miracolo. La sua predica nella sinagoga scandalizza gli ascoltatori. Si allontana senza essere importunato, ma Luca ci racconta quanto segue:
«A queste parole [le parole di Cristo], tutti nella sinagoga furono presi da furore. E si alzarono, lo spinsero fuori dalla città e lo condussero fino al dirupo di una collina sulla quale era costruita la loro città, per farlo precipitare. Ma lui, passando in mezzo a loro, proseguì per la sua strada» (Luca, 4, 28-30).
Bisogna vedere in questo episodio un abbozzo, e di conseguenza un annuncio, della passione. La sua presenza rivela che Luca e certamente anche gli altri evangelisti ritengono che la caduta dall'alto di una rupe sia, come la lapidazione, un equivalente della crocifissione. Essi capiscono l'importanza di questa equivalenza. Tutte le forme di assassinio collettivo significano la stessa cosa, e Gesù e la sua passione ne rivelano il senso. Quello che importa è questa rivelazione, non la localizzazione reale di tale o talaltro dirupo. Secondo coloro che conoscono Nazaret, la città e i suoi immediati dintorni non si prestano alla funzione che Luca vuole assegnare loro. Non ci sono dirupi.
Questa inesattezza geografica non è sfuggita alla vigilanza storico-positivista. La critica non ha risparmiato i commenti sardonici. Sfortunatamente non ha mai spinto la curiosità fino a domandarsi perché mai Luca abbia dotato la città di Nazaret di un dirupo inesistente. I professori positivisti erano anime piuttosto candide: il loro universo era un vasto esame di storia e geografia, nel quale bocciavano sistematicamente i Vangeli, credendo con questo di «confutarli» per sempre, di svelare i loro inganni imprudenti. Ciò bastava a farli felici.
I Vangeli si interessano troppo delle diverse varianti di morte collettiva per interessarsi della topografia di Nazaret. La loro attenzione è tutta rivolta all'autolapidazione dell'indemoniato e alla caduta dei porci "dall'alto del dirupo".
Ma in questo caso chi si lancia giù dal precipizio non è il capro espiatorio, né una vittima o un paio di vittime, è la folla dei demoni, sono i duemila porci indemoniati. I rapporti consueti sono invertiti. La folla dovrebbe restare in alto e far cadere la vittima; in questo caso, invece, è la folla che si butta di sotto, e la vittima è salva.
La guarigione di Gerasa inverte dunque lo schema universale della violenza fondatrice in tutte le società del mondo. Questa inversione si produce anche in certi miti, ma non ha gli stessi caratteri; finisce sempre con la restaurazione del sistema che è stato appena distrutto o con l'instaurazione di un nuovo sistema. Qui, invece, tutto è molto diverso; l'annegamento dei porci indemoniati ha un carattere definitivo; è un evento senza avvenire, tranne che per il miracolato stesso.
Il nostro testo intende suggerire una differenza non di gradi, ma di natura tra il miracolo di Gesù e le guarigioni abituali. E questa differenza di natura corrisponde realmente a tutto un insieme di dati concordanti. Ma i commentatori moderni non se ne rendono conto. Gli aspetti fantastici del miracolo sembrano loro troppo gratuiti per trattenere a lungo l'attenzione. Nella richiesta che i demoni fanno a Gesù, nel loro disordinato ripiegare verso il branco e nel capitombolo di quest'ultimo, non vedono che le solite formulette magiche. In realtà, il modo in cui questi temi sono trattati è eccezionale e corrisponde rigorosamente a ciò che esige su questo punto la rivelazione del mimetismo vittimario - tenuto conto dello stile dell'insieme, che resta demonologico.
I demoni sono anche disposti a tollerare che li si mandi via, ma a condizione che non li si cacci "fuori da quel paese". Ciò vuol dire, penso, che gli esorcismi ordinari sono semplici spostamenti locali, scambi e sostituzioni che possono sempre prodursi all'interno di una struttura senza apportare cambiamenti apprezzabili, senza compromettere la perpetuazione dell'insieme.
I guaritori tradizionali hanno un'azione reale ma limitata, nel senso che essi operano solo per migliorare le condizioni di un individuo X a spese di un altro individuo Y o viceversa. Nel linguaggio demonologico, questo significa che i demoni di X lo hanno abbandonato, e si sono trasferiti in Y. I guaritori modificano certi rapporti mimetici, ma le loro piccole manipolazioni non compromettono l'equilibrio del sistema, che permane immutato. E' qualcosa di simile ai rimpasti ministeriali di una compagine governativa ormai estenuata. Il sistema continua a essere quello che è, un sistema non soltanto di uomini, ma di uomini e dei loro demoni.
E' questo sistema totale ciò che viene minacciato dalla guarigione del posseduto e dal concomitante annegamento della Legione. I Geraseni lo intuiscono e ne sono turbati. Anche i demoni lo capiscono: anzi, su questo punto si dimostrano più lucidi degli uomini, ciò che per altro non impedisce loro di essere ciechi su altri punti, e facilmente ingannabili. Lungi dall'essere puramente immaginari e fantasiosi come immaginano gli spiriti mediocri, questi temi sono ricchi di senso. Le qualità attribuite ai demoni corrispondono rigorosamente alle proprietà concrete di questa strana realtà che i Vangeli fanno loro incarnare: la disincarnazione mimetica. Più il desiderio diventa frenetico e demoniaco, meno gli sfuggono le proprie leggi; ma questa lucidità non diminuisce in niente il suo asservimento. Grandi scrittori hanno dimostrato di saper capire e utilizzare questo sapere paradossale. Dai demoni di Gerasa Dostoevskij prenderà a prestito non soltanto il titolo del suo romanzo "I demoni", ma anche il sistema dei rapporti tra i personaggi, e il «dinamismo dell'abisso» che trascina il sistema.
I demoni cercano di 'negoziare' con Gesù, come fanno con i guaritori locali; essi trattano da pari a pari con quanti hanno una potenza o un'impotenza che non si differenzia molto dalla loro. Con Gesù il negoziato è più apparente che reale. Questo viaggiatore non è iniziato a nessun culto locale, né è delegato da nessuno della comunità. Non ha bisogno di fare concessioni per ottenere che i demoni si allontanino dal posseduto. Il permesso di invadere i porci non ha conseguenze, poiché non ha alcun effetto duraturo. Basta che Gesù appaia in qualche posto per fare piazza pulita dei demoni e minacciare l'ordine necessariamente demoniaco di ogni società. I demoni non possono resistere alla sua presenza: entrano in grande agitazione, e dopo un breve periodo di convulsioni agoniche, tendono a disintegrarsi completamente. Questo è il corso inevitabile delle cose che il momento parossistico del nostro miracolo ci mostra.
In tutte le grandi disfatte, le ultime manovre divengono lo strumento perfetto dello sfacelo. E' questo duplice significato che il nostro testo riesce a conferire al mercanteggiare tra il taumaturgo e i demoni. Il tema è effettivamente preso in prestito dalle pratiche degli sciamani e di altri guaritori, ma qui esso è soltanto un veicolo per significati che lo superano.
In presenza di Gesù i demoni sperano solo di poter continuare a esistere ai margini di quell'universo dove prima abitavano da padroni, nei suoi recessi più nauseabondi. Insomma, per proteggersi dall'abisso che li minaccia, i demoni vi si dirigono volontariamente. Presi dal panico, decidono in fretta e, in mancanza d'altro, accettano di "farsi porci". Questo somiglia stranamente a ciò che succede un po' ovunque. Ma anche dopo essere diventati porci, come i compagni di Ulisse, i demoni non reggono. L'annegamento è una perdizione definitiva. Esso realizza il peggior timore dell'orda sovrannaturale, quello di essere "cacciata fuori da quel paese". Tale è l'espressione di Marco ed è preziosa; fa prendere coscienza della natura sociale della posta in gioco, del ruolo che ha il demoniaco in ciò che alcuni chiamano il «simbolico». Ma anche il testo di Luca non è da meno; nel mostrarci i demoni che supplicano Gesù di non spedirli per sempre "nell'abisso", esprime perfettamente l'annientamento definitivo del demoniaco ovvero il significato principale del testo, quello che spiega la reazione dei Geraseni. Questi sfortunati capiscono che il loro precario equilibrio si basa sul demoniaco, ossia sul tipo di attività che si svolge periodicamente tra loro e quella specie di celebrità locale che il loro posseduto è diventato.
Nella possessione non vi è nulla che non sia il risultato di un mimetismo frenetico. Ce lo suggerisce, come dicevo, la variante di Matteo che sostituisce due posseduti indifferenziati, quindi mimetici, all'indemoniato solitario degli altri due Vangeli sinottici. In fondo, anche il testo di Marco esprime la stessa cosa, in modo meno visibile ma ancor più essenziale, anzi meno visibile perché più essenziale, mostrandoci un unico personaggio posseduto da un demone che è simultaneamente uno e molteplice, singolo e plurimo. Questo significa che il posseduto non è soltanto il posseduto di un unico altro, come Matteo suggerisce, ma di tutti gli altri in quanto simultaneamente uno e molteplici, cioè in quanto formano una società nell'accezione umana o, se si preferisce, demoniaca del termine, una società fondata sull'espulsione collettiva. E' precisamente questo che il posseduto imita. I demoni sono a immagine del gruppo umano, sono l'"imago" di questo gruppo perché ne sono l'"imitatio". La società dei demoni all'inizio del testo, come la società gerasena alla fine, possiede una struttura, una specie di organizzazione; essa è l'unità del molteplice: "Mi chiamo Legione perché siamo in molti". Come un'unica voce si alza, alla fine, per parlare a nome di tutti i Geraseni, così un'unica voce si alza, all'inizio, per parlare a nome di tutti i demoni. E, in verità, dicono la stessa cosa. Giacché tra Gesù e i demoni ogni coesistenza è impossibile, pregare Gesù di non cacciare i demoni, quando si è demoni, equivale a pregarlo di andarsene quando si è Geraseni.
La prova essenziale dell'identità tra demoni e Geraseni risiede nel comportamento del posseduto in quanto posseduto da quei demoni. I Geraseni lapidano le loro vittime e i demoni costringono la loro a lapidarsi da sé, che è la stessa cosa. Questo posseduto archetipico mima la pratica sociale più fondamentale di tutte: quella che genera, alla lettera, la società trasmutando la molteplicità mimetica più atomizzata nell'unità sociale più forte, l'unanimità dell'assassinio fondatore. Nel dire l'unità del molteplice, la Legione simboleggia il principio sociale stesso, il tipo di organizzazione che si fonda non sull'espulsione definitiva dei demoni, ma su espulsioni equivoche e mitigate come quella rappresentata dal nostro posseduto, espulsioni che in realtà finiscono nella coesistenza di uomini e demoni.
Ho detto che Legione simboleggia l'unità molteplice del sociale ed è senz'altro vero ma, nella frase giustamente famosa "Mi chiamo Legione perché siamo in molti", simboleggia questa unità nella fase di disintegrazione, giacché qui prevale l'ordine inverso a quello che genera il sociale. Il singolare che si trasforma irresistibilmente in un plurale, all'interno di un'unica frase, è la ricaduta dell'unità nella molteplicità mimetica, è il primo effetto della presenza dissolvente di Gesù. E' quasi arte moderna. Io è un altro, dice Matteo. Io è tutti gli altri, dice Marco.
Ho forse il diritto di identificare il branco di porci con la folla dei linciatori? Mi si rimprovererà di alterare i Vangeli nel senso delle mie fastidiose ossessioni? Con che ragione potrebbero dirlo, se questa mia identificazione figura già esplicitamente almeno in un vangelo, quello di Matteo? Penso a un aforisma molto significativo, che precede di poco il racconto di Gerasa: "Non gettate le vostre perle davanti ai porci; potrebbero calpestarle, poi voltarsi contro di voi per sbranarvi" (7, 6).
Nel racconto di Gerasa, tuttavia, sono i linciatori, come ho già detto, che subiscono il trattamento «normalmente» riservato alla vittima. Essi non si fanno lapidare, come il posseduto, ma si lanciano giù dal dirupo, che è lo stesso. Per cogliere l'aspetto rivoluzionario di questa inversione bisogna trasportarla in un universo che il nostro umanesimo antibiblico rispetta più di quello ebraico: l'universo dell'antichità classica, greca o romana. Bisogna immaginare il "pharmakos" che spinge la città greca, filosofi e matematici compresi, verso il dirupo. Dall'alto della Rupe Tarpea, non è più il reprobo che capitombola nel vuoto, sono i maestosi consoli, i virtuosi Catoni, i solenni giureconsulti, i procuratori della Giudea e tutto il resto del "senatus populusque romanus". Tutto questo scompare nell'abisso mentre al di sopra, l'ex vittima, "vestita e nel pieno delle sue facoltà", osserva tranquillamente la sorprendente colata.
La conclusione del miracolo soddisfa una certa sete di vendetta; è davvero giustificata nell'ambito del pensiero che definisco? Non comporta forse una dimensione, vendicatrice per l'appunto, che contraddice la mia tesi sull'assenza di spirito di vendetta nei Vangeli?
Qual è la forza che catapulta i porci nel mare di Galilea se non il desiderio di tutti noi di vederceli cadere o la violenza dello stesso Gesù? Che cosa può motivare tutto un branco ad autodistruggersi senza esservi costretto da chicchessia? La risposta è evidente. Si chiama spirito gregario, quello che di un branco fa per l'appunto un branco; in altre parole, la tendenza irresistibile al mimetismo. Basta che un primo porco cada in mare, per caso o per una ragione qualsiasi, per effetto di una paura improvvisa o per le convulsioni provocate dall'invasione demoniaca, perché tutti i suoi congeneri facciano altrettanto. La frenesia di accodarsi va perfettamente d'accordo con la proverbiale mancanza di docilità della specie. Al di là di una certa soglia mimetica, quella stessa che definisce la possessione, l'intero branco riproduce istantaneamente ogni comportamento che gli sembra fuori della norma. E' un po' come il fenomeno della moda nelle cosiddette società avanzate, nel senso in cui diciamo avanzata quella di Gerasa.
Che uno qualsiasi del branco scivoli soprappensiero ed ecco il lancio di una nuova moda, quella del "tuffo negli abissi", che trascinerà nel suo entusiasmo fino l'ultimo dei porcellini. La minima sollecitazione mimetica fa vacillare folle compatte. Più lo scopo sarà fievole futile o, meglio ancora, fatale, più sarà avvolto nel mistero, e più ispirerà desiderio. Tutti questi porci sono scandalizzati, dunque già in perdita d'equilibrio, inevitabilmente interessati, di colpo, e perfino elettrizzati da una perdita di equilibrio più "radicale", eccolo il bel gesto che oscuramente tutti cercavano, il gesto "impossibile da recuperare". Si precipitano tutti quanti sulle tracce dell"audace innovatore'.
Quando parla, Gesù mette quasi sempre il mimetismo dello scandalo al posto di qualsiasi diavoleria. Basta fare la stessa cosa, e il mistero scompare. Quei porci sono dei veri posseduti: sono mimetizzati fino alle orecchie. Se qualcuno vuole ad ogni costo dei riferimenti non evangelici, non deve andare a cercarli nei manuali di demonologia, e neppure nelle false scienze moderne dell'istinto, quelle che scoprono tristemente il nostro avvenire in oscure storie di lemming; io preferisco rivolgermi a una letteratura più allegra e più profonda. I demoni suicidi di Gerasa sono dei montoni di Panurge al quadrato, perché non hanno nemmeno bisogno di un Dindenneau per buttarsi in mare. Alle domande che pone il nostro testo, una risposta mimetica non manca mai, ed è sempre la migliore.
NOTE AL CAPITOLO 13.
(1). «Le Démoniaque de Gérasa», in "Analyse structurale et exégèse biblique", Neuchâtel, 1971, p.p. 63-94.
(2). Loc. cit.
(3). Sulla caduta dall'alto di un dirupo e la lapidazione, si veda "Les choses cachées...", cit., p.p. 115-17 e 193-95 [trad. it. cit., p.p. 134-37 e 224-27].