LA STORIA E IL PARACLETO.
Tutti i passi dei Vangeli che abbiamo esaminato si ricollegano a fenomeni di persecuzione collettiva screditati e condannati nello stesso senso in cui screditiamo e condanniamo fenomeni analoghi della nostra storia. I Vangeli contengono tutta una serie di testi suscettibili di applicarsi a situazioni molto diverse, tutto ciò insomma di cui gli uomini hanno bisogno per considerare criticamente le loro rappresentazioni persecutorie e per resistere ai meccanismi mimetici e violenti che li tengono in esse prigionieri.
L'azione concreta dei Vangeli su questi problemi comincia visibilmente con le violenze contro coloro che i cristiani chiamano i loro "martiri", nei quali noi vediamo degli innocenti perseguitati. La storia ci ha trasmesso questa verità. La prospettiva dei persecutori non ha prevalso, e questa è la constatazione fondamentale. Perché ci sia del sacro in senso mitologico, bisogna che la glorificazione della vittima si effettui sulla base stessa della persecuzione. Bisogna che i crimini immaginati dai persecutori siano considerati veri.
Nel caso dei martiri, le accuse non mancano. Su di loro circolano le dicerie più deliranti, alle quali prestano fede persino scrittori illustri. Si accusano i cristiani dei crimini classici degli eroi mitologici e delle violenze popolari, di infanticidio e di crimini contro la propria famiglia. La loro intensa vita comunitaria li rende sospetti di violare i tabù dell'incesto. Queste trasgressioni, unite al rifiuto di adorare l'imperatore, acquistano agli occhi delle folle, e anche delle autorità, una portata sociale: se Roma brucia, probabilmente sono stati i cristiani ad appiccare il fuoco.
Se tutti questi crimini venissero incorporati nell'apoteosi finale, si assisterebbe a una genesi mitologica, e il santo cristiano sarebbe allora un eroe mitologico. Riunirebbe in sé il benefattore sovrannaturale e l'agitatore onnipotente, capace di castigare ogni trascuratezza, ogni indifferenza nei suoi confronti, inviando qualche flagello; infatti, ciò che caratterizza essenzialmente il sacro mitologico è la sua natura malefica e benefica al tempo stesso. Se, quando lo prendiamo in considerazione, abbiamo l'impressione di una doppia trascendenza, di una congiunzione paradossale, è perché esaminiamo la cosa da un punto di vista cristiano, da noi considerato come la norma, mentre in realtà è un punto di vista unico.
L'innocenza del martire non è mai messa in dubbio. "Essi mi hanno odiato senza una causa". Le conquiste della passione si trasformano in verità concrete. Lo spirito di vendetta combatte vigorose lotte di retroguardia, ma non per questo i martiri cessano di pregare per i loro carnefici: "Padre mio, perdonali, perché essi non sanno quello che fanno".
Certo, gli uomini non hanno aspettato il cristianesimo per riabilitare alcune vittime innocenti. Si citano sempre Socrate, Antigone, altri ancora, e con ragione. Sotto qualche aspetto, i loro casi presentano una certa somiglianza con la visione cristiana del martirio, ma in realtà sono sempre casi molto personali e non riguardano la società umana in sé e per sé. La singolarità del martirio cristiano deriva dal fatto che la sacralizzazione fallisce nelle condizioni più favorevoli al suo successo, l'emozione della folla, la passione persecutoria e religiosa. Prova ne sia la presenza di tutti gli stereotipi della persecuzione: agli occhi della maggioranza, infatti, i cristiani sono una minoranza inquietante, ricca di segni di selezione vittimaria. Non solo appartengono per lo più alle classi inferiori, ma sono in gran parte donne e schiavi.
Ma niente è trasfigurato. La rappresentazione persecutoria si manifesta in quanto tale. La canonizzazione non è una sacralizzazione. Nella glorificazione dei martiri, e più tardi nelle vite dei santi medioevali, esistono certamente alcune sopravvivenze del sacro primitivo. Ne ho menzionate alcune a proposito di san Sebastiano. D'altronde, i meccanismi della violenza e del sacro hanno una parte nel fascino che esercitano i martiri. Si dice che vi sia nel sangue anticamente versato una virtù che tenderebbe a esaurirsi, se del sangue fresco di tanto in tanto non venisse a riattivarla. E' perfettamente vero nel caso dei martiri cristiani ed è un fattore importante nell'espansione del fenomeno, nella sua potenza di diffusione. Ma l'essenziale è altrove.
La maggior parte degli osservatori, anche cristiani, insistono ormai solo sulle vestigia sacrificali. Essi credono di aver scoperto la cerniera tra gli aspetti teologici del cristianesimo, che sarebbero puramente sacrificali, e la sua efficacia sociale, anch'essa sacrificale. Hanno colto un aspetto reale ma secondario; esso non deve coprire, ai loro occhi, la specificità del processo cristiano, che agisce nella direzione contraria a quella del sacrificio, ossia nella direzione della rivelazione.
Il fatto che due azioni opposte possano combinarsi è paradossale soltanto in apparenza. O meglio, esso riproduce il paradosso della passione e dei Vangeli nella loro interezza, i quali si prestano a cristallizzazioni mitologiche secondarie e superficiali in quanto devono riprodurre il processo mitologico con la massima esattezza possibile sì da portarlo alla luce e sovvertirlo nel profondo.
Anche una teologia puramente sacrificale dei Vangeli deve fondarsi in ultima analisi sull'Epistola agli Ebrei, e questa non legittima affatto l'importanza esclusiva data alle frange sacrificali nel fenomeno dei martiri. L'Epistola non riesce, credo, a cogliere la vera singolarità della passione, ma ottiene l'importante risultato di presentare la morte di Cristo come il sacrificio perfetto e definitivo, che rende caduco ogni altro sacrificio e, di conseguenza, irricevibile ogni impresa sacrificale posteriore. Questa definizione lascia ancora in ombra quello che sto cercando di delimitare, ossia l'assoluta specificità del cristianesimo, ma è sufficiente a impedire la ricaduta pura e semplice nella tradizione primitiva e ripetitiva del sacrificio, proprio ciò che si ottiene con una lettura del martirio che si limiti ai meccanismi della violenza e del sacro.
Il fallimento della genesi mitologica, nel caso dei martiri, permette agli storici di cogliere, per la prima volta su vasta scala, le rappresentazioni persecutorie, e le corrispondenti violenze, "in una luce razionale". Sorprendiamo le folle in piena attività "mitopoietica", e la cosa non è poi così bella come immaginano i nostri teorici del mito e della letteratura. Fortunatamente per l'umanesimo anticristiano, è ancora possibile negare che in questo caso si tratti di quel processo che ovunque altrove genera la mitologia.
Per il solo fatto di essere rivelato dalla passione, il meccanismo del capro espiatorio non ha più abbastanza efficacia per produrre un vero mito. Non si può dunque dimostrare direttamente che si tratta proprio di questo meccanismo generatore. Se, al contrario, tale meccanismo avesse conservato la sua efficacia, ora non vi sarebbe cristianesimo, bensì un'altra mitologia e tutto ci apparirebbe sotto la forma, come sempre, già trasfigurata da temi e motivi veramente mitologici. Il risultato finale sarebbe lo stesso: nemmeno in questo caso saremmo in grado di riconoscere il meccanismo generatore. Chi riuscisse a coglierlo sarebbe accusato di prendere le parole per le cose e di inventare una persecuzione reale dietro la nobile immaginazione mitologica.
La dimostrazione è possibile, e spero di averla data, anzi è certa, ma deve servirsi di quelle vie indirette che noi abbiamo seguito.
Nelle vite dei santi, è sempre la passione che fa da modello, e che si insinua sotto le circostanze particolari di questa o quella persecuzione. Ma non è soltanto un esercizio retorico, di pietà formale, come immaginano i nostri pseudo-demistificatori. La critica delle rappresentazioni persecutorie non può che iniziare da qui, e se i suoi risultati sono all'inizio rigidi, maldestri e persino parziali, bisogna considerare che riguardava un processo fino ad allora addirittura inconcepibile e tale che esige un lungo apprendistato.
Mi si obietterà che la riabilitazione dei martiri è un affare di parte, radicato nella comunità di fede tra le vittime e i loro difensori. Il «cristianesimo» difende soltanto le sue vittime. Una volta vittorioso, diventa anch'esso oppressore, tiranno e persecutore. Nei confronti delle proprie violenze, dà prova dello stesso accecamento di coloro che lo avevano perseguitato.
Tutto questo è vero, altrettanto vero della connotazione sacrificale del martirio ma, ancora una volta, si tratta soltanto di una verità secondaria che dissimula la verità primaria. E' in corso una rivoluzione formidabile. Gli uomini, o almeno certi uomini, non si lasciano più sedurre dalle persecuzioni, nemmeno da quelle che fanno appello alle loro credenze, e soprattutto al «cristianesimo». E' dal seno dell'universo persecutorio che scaturisce la resistenza alla persecuzione. Penso, naturalmente, al processo che ho descritto all'inizio del presente saggio, alla demistificazione dei cacciatori di streghe, all'abbandono da parte di tutta una società delle forme più grossolane del pensiero magico-persecutorio.
Lungo tutta la storia occidentale, le rappresentazioni persecutorie si indeboliscono e crollano. Questo non sempre significa che le violenze diminuiscono di quantità e di intensità. Significa tuttavia che i persecutori non possono più imporre durevolmente il loro modo di vedere agli uomini che li circondano. Ci vollero secoli per demistificare le persecuzioni medioevali, bastano pochi anni per screditare i persecutori contemporanei. Anche se qualche sistema totalitario, in futuro, estendesse la sua influenza sull'intero pianeta, non riuscirebbe a far prevalere il suo mito, ovvero l'aspetto magico-persecutorio del suo pensiero.
E' lo stesso processo che si è avuto nel caso dei martiri cristiani, ma ripulito delle ultime tracce di sacro e radicalizzato, giacché non esige nessuna comunità di fede tra le vittime e coloro che demistificano il sistema della loro persecuzione, come dimostra il linguaggio usato, lo stesso usato anche da noi. Non ne esiste un altro.
In latino classico non c'è alcuna implicazione d'ingiustizia nel termine "persequi", che significa semplicemente «perseguire davanti ai tribunali». Saranno gli apologisti cristiani, in particolare Lattanzio e Tertulliano, a dare a "persecutio" un'inflessione in senso moderno. E' l'idea molto poco romana di un apparato legale al servizio non della giustizia ma dell'ingiustizia, sistematicamente alterato dalle distorsioni persecutorie. Anche in greco, "martyr" significa soltanto testimone, e sarà l'influenza cristiana a fare evolvere la parola verso il senso attuale di innocente perseguitato, di vittima eroica di una violenza ingiusta.
Quando esclamiamo: «La vittima è un capro espiatorio», ricorriamo a un'espressione biblica, che però non ha più, come dicevo, il senso che aveva per i partecipanti al rito dello stesso nome. Ha il senso della pecora innocente di Isaia, o dell'agnello di Dio dei Vangeli. Ogni riferimento esplicito alla passione è scomparso, ma è sempre la passione che viene collocata accanto alla rappresentazione persecutoria; è sempre lo stesso modello che serve da griglia di decifrazione, ma esso è ormai così bene assimilato che anche là dove sappiamo già servircene, ce ne serviamo in modo meccanico, senza un esplicito riferimento alle sue origini ebraiche e cristiane.
Quando i Vangeli affermano che Cristo, ormai, ha preso il posto di tutte le vittime, noi vediamo in questa affermazione solo una religiosità sentimentale ed enfatica, mentre dal punto di vista epistemologico essa è vera alla lettera. Gli uomini hanno imparato a identificare le loro vittime innocenti soltanto quando le hanno messe al posto di Cristo: Raymund Schwager lo ha capito molto bene (1). Naturalmente, l'interesse principale dei Vangeli non sta nell'operazione intellettuale bensì nel cambiamento di atteggiamento che essa rende non "necessario", come alcuni assurdamente esigono, ma "possibile".
«Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria, scortato da tutti gli angeli, allora prenderà posto sul trono della sua gloria.
«E saranno riunite davanti a lui tutte le nazioni, ed egli separerà gli uni dagli altri come il pastore separa le pecore dai capri. E porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. Allora il Re dirà a quelli che stanno alla sua destra: 'Venite, benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il Regno preparato per voi sin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e voi mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero uno straniero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi'.
«Allora i giusti gli risponderanno: 'Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere, straniero e ti abbiamo ospitato, nudo e ti abbiamo vestito, malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?'. E il Re darà loro questa risposta: 'In verità vi dico, nella misura in cui avete fatto queste cose a uno solo dei miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me'.
«Allora dirà poi a quelli alla sua sinistra: 'Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il Diavolo e i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero uno straniero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato'.
«Allora costoro a loro volta domanderanno: 'Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato, straniero o nudo, malato o in carcere e non ti abbiamo soccorso?'.
«Allora Egli risponderà loro: 'In verità vi dico, nella misura in cui non avete fatto queste cose a uno dei fratelli più piccoli, non l'avete fatto nemmeno a me'.
«E se ne andranno, questi al supplizio eterno giusti alla vita eterna» (Matteo, 25, 31-46).
Il testo ha il carattere di una parabola, in quanto, per rivolgersi ai violenti che ignorano di essere tali, ricorre al linguaggio della violenza, ma il suo senso è molto chiaro. Non è il riferimento esplicito a Gesù che conta ormai. Soltanto il nostro atteggiamento concreto di fronte alle vittime determina il nostro rapporto con le esigenze suscitate dalla rivelazione, e quest'ultima può diventare effettiva senza che Cristo stesso venga mai nominato.
Quando il testo evangelico parla della sua diffusione universale, ciò non significa che esso si faccia delle illusioni utopistiche sulla natura delle adesioni di cui sarà oggetto, o sui risultati pratici della lenta penetrazione nel profondo che parallelamente si compirà. Esso prevede sia l'adesione superficiale di un universo ancora pagano, il Medioevo «cristiano», sia il rigetto indifferente o rabbioso dell'universo posteriore, maggiormente colpito, in segreto, dalla rivelazione e spesso costretto da questo stesso fatto ad erigere contro l'antico cristianesimo paganizzato certe parodie anticristiane dell'universo evangelico. Non è con il grido «Crocifiggetelo» che la morte di Gesù viene infine decisa, bensì con il grido «Liberate Barabba» (Matteo, 27, 21; Marco, 15,11; Luca, 23, 18).
L'evidenza dei testi mi sembra inconfutabile, ma non la si può segnalare senza sollevare una vera tempesta di proteste, un concerto di vociferazioni ormai quasi universale, perché anche gli ultimi cristiani "en titre" vi si uniscono volentieri. Forse i testi sono talmente potenti, ormai, che c'è qualcosa di polemico e di persecutorio nel fatto stesso di citarli, di rendere manifesta la loro pertinenza.
Molta gente, d'altra parte, si aggrappa ancora alla visione modernista tradizionale di un cristianesimo essenzialmente persecutorio. Questa visione si basa su due generi di dati troppo diversi in apparenza perché la loro concordanza non sembri decisiva.
A partire da Costantino, il cristianesimo trionfa al livello dello Stato stesso, e molto presto coprirà con la sua autorità persecuzioni analoghe a quelle di cui i cristiani dei primi tempi erano stati vittime. Come tante imprese religiose, ideologiche e politiche successive, un cristianesimo ancora debole subisce le persecuzioni, un cristianesimo forte si trasforma in persecutore.
Questa visione di un cristianesimo altrettanto persecutore, se non addirittura "più" persecutore, delle altre religioni è rafforzata anziché diminuita dalla capacità del mondo occidentale e moderno di decifrare le rappresentazioni persecutorie. Finché questa capacità resta limitata alle immediate vicinanze storiche, ossia all'universo superficialmente cristianizzato, la persecuzione religiosa, cioè la violenza sanzionata o suscitata dal religioso, appare in qualche modo monopolio di questo universo.
D'altra parte, a partire dal diciassettesimo secolo, gli Occidentali hanno fatto della scienza un idolo, per meglio adorare se stessi. Essi credono in uno spirito scientifico autonomo, del quale sarebbero simultaneamente gli inventori e il prodotto. Ai miti antichi sostituiscono quello del progresso, ovvero il mito di una superiorità moderna propriamente infinita, il mito di un'umanità che si libera e si divinizza a poco a poco con i propri mezzi.
Lo spirito scientifico non può primeggiare. Presuppone una rinuncia alla vecchia preferenza per la causalità magico-persecutoria così bene definita dai nostri etnologi. Alle cause naturali, lontane e inaccessibili, l'umanità ha sempre preferito le cause "significative dal punto di vista sociale, e che ammettono un intervento correttivo", ossia le vittime.
Per orientare gli uomini verso l'esplorazione paziente delle cause naturali, bisogna innanzitutto distoglierli dalle loro vittime, e come fare a distoglierli se non mostrando loro che i persecutori "odiano senza causa" e, ormai, senza risultati apprezzabili? Per operare questo miracolo, non in pochi individui eccezionali come in Grecia, ma presso vaste popolazioni, è necessaria quella straordinaria combinazione di fattori intellettuali, morali e religiosi che è il testo evangelico.
Gli uomini non hanno smesso di dare la caccia alle streghe perché hanno inventato la scienza, ma hanno inventato la scienza perché hanno smesso di dare la caccia alle streghe. Lo spirito scientifico, come lo spirito d'iniziativa in economia, è un sottoprodotto dell'azione esercitata in profondità dal testo evangelico. L'Occidente moderno dimentica la rivelazione per interessarsi unicamente ai sottoprodotti. Ne ha fatto delle armi, degli strumenti di potenza ed ecco che oggi il processo gli si ritorce contro. Si credeva liberatore e si scopre persecutore. I figli maledicono i padri e si trasformano in loro giudici. In tutte le forme classiche del razionalismo e della scienza, i ricercatori contemporanei scoprono sopravvivenze di magia. Lungi dall'uscire di colpo dal cerchio della violenza e del sacro, come immaginavano, i nostri predecessori hanno ricostituito delle varianti meno forti di miti e rituali.
I nostri contemporanei criticano tutto questo; condannano arrogantemente l'orgoglio dell'Occidente moderno, ma per cadere in una forma d'orgoglio peggiore. Per non riconoscere le nostre responsabilità nel cattivo uso dei prodigiosi vantaggi che ci sono stati dati, neghiamo la loro realtà. Rinunciamo al mito del progresso per ricadere nel mito ben peggiore dell'eterno ritorno. A giudicare tutto ciò con gli occhi dei nostri sapienti, ormai noi non siamo più fecondati da alcun fermento di verità; la nostra storia non ha senso, la nozione stessa di storia non significa niente. Non vi sono segni dei tempi. Non viviamo la singolare avventura che crediamo di vivere. La scienza non esiste; il sapere non esiste.
La nostra recente storia spirituale somiglia sempre più agli irrigidimenti convulsi di un posseduto che sembra preferire la morte alla guarigione che lo minaccia. Per barricarci così contro qualsiasi possibilità di sapere, il timore per l'avvento di un sapere sentito come nemico deve essere sicuramente molto forte. Ho cercato di mostrare che molte cose, nel nostro mondo, sono determinate dall'arresto subìto dalla decifrazione delle rappresentazioni persecutorie. Da secoli ne leggiamo alcune e non ne leggiamo altre. Il nostro potere di demistificazione non si estende al di là dell'ambito che esso stesso definisce storico. Esso si esercita innanzitutto, e ciò è comprensibile, sulle rappresentazioni più vicine, quelle più facili da decifrare perché già indebolite dalla rivelazione evangelica.
Ma le difficoltà non sono più sufficienti ormai a spiegare il nostro ristagno. La nostra cultura è letteralmente schizofrenica, come ho dimostrato, con il suo rifiuto di estendere alla mitologia classica e alla mitologia primitiva i procedimenti interpretativi che sarebbe legittimo applicare a esse. Così facendo, noi cerchiamo, in realtà, di proteggere il mito dell'umanesimo occidentale, il mito rousseauiano della bontà naturale e primitiva dell'uomo.
Di fatto, questi miti non contano poi molto. Sono soltanto gli avamposti di una resistenza più ostinata. Decifrare la mitologia, scoprire il ruolo dei «capri espiatorii» in ogni ordine culturale, risolvere l'enigma del religioso primitivo, significa preparare il ritorno in forze della rivelazione evangelica e biblica. Quando avremo capito veramente i miti, non potremo più considerare il Vangelo un altro mito, dato che è proprio il Vangelo che ce li fa capire.
Tutta la nostra resistenza è diretta contro questa luce che ci minaccia. Per molto tempo ha rischiarato molte cose intorno a noi, ma non rischiarava ancora se stessa. Ci eravamo adattati a credere che provenisse da noi. Ce ne eravamo indebitamente appropriati. Consideravamo luce noi stessi. mentre siamo soltanto testimoni della luce. Ma basterà che il suo splendore e la sua forza aumentino ancora perché essa si volga verso se stessa per illuminarsi. La luce evangelica rivela la propria specificità via via che si estende alla mitologia.
Il testo evangelico, insomma, è in procinto di giustificare se stesso, al termine di una storia intellettuale che ci sembrava essergli estranea perché trasformava la nostra visione in un senso estraneo a tutte le religioni della violenza con le quali, assurdamente, lo confondiamo. Ma ecco che un nuovo progresso della storia, di per sé minore ma gravido di conseguenze notevoli per i nostri equilibri intellettuali e spirituali, dissipa la confusione e rivela che questa critica del religioso violento è il senso stesso della rivelazione evangelica.
Se questo non fosse il senso dei Vangeli, essi tradirebbero la storia stessa che narrano, non sarebbero ciò che noi vediamo in essi, ma di cui invece si parla con la designazione di Spirito. I grandi testi sul Paracleto rischiarano il processo che stiamo vivendo. Proprio per questo la loro apparente oscurità comincia a dissiparsi. Non è la decifrazione della mitologia che illumina i testi sullo Spirito, sono i Vangeli che, annullando i miti dopo averli trafitti con la loro luce, ci fanno comprendere parole che sembrano insensate, intrise di violenza e di superstizione, perché annunciano questo processo come una vittoria di Cristo su Satana, ovvero dello Spirito di verità sullo Spirito di menzogna. I passi del vangelo di Giovanni consacrati al Paracleto condensano tutti i temi di questo nostro saggio.
Essi si trovano tutti negli addii di Gesù ai suoi discepoli, e costituiscono l'apice del quarto vangelo. I cristiani moderni sono un po' imbarazzati, penso, di veder riapparire Satana in un istante così solenne. Giovanni dice che la giustificazione di Gesù nella storia, la sua autentificazione è tutt'uno con l'annullamento di Satana. Questo evento uno e duplice ci è presentato come già consumato dalla passione e nello stesso tempo come non ancora consumato, un evento che deve ancora venire perché invisibile agli occhi degli stessi discepoli.
E quando verrà [il Paracleto],
egli confonderà il mondo
in materia di peccato
in materia di giustizia
e in materia di giudizio:
quanto al peccato,
perché non credono in me;
quanto alla giustizia,
perché vado dal Padre
e non mi vedrete più;
quanto al giudizio,
perché il Principe di questo mondo è stato condannato"
(Giov., 16, 8-11).
Tra il Padre e il mondo c'è un abisso che viene dal mondo stesso, dalla violenza di questo mondo. Il fatto che Gesù ritorni al Padre significa la vittoria sulla violenza, il superamento di questo abisso. Ma gli uomini dapprima non se ne accorgono. Per loro, che sono nella violenza, Gesù è soltanto un morto come gli altri. Nessun messaggio folgorante giungerà né da lui né dal Padre, dopo il ritorno presso il Padre. Anche se Gesù è divinizzato, lo sarà sempre un po' nello stile degli dèi antichi, entro il ciclo perpetuato della violenza e del sacro. In queste condizioni, la vittoria della rappresentazione persecutoria sembra assicurata.
Eppure, dice Gesù, non è così che le cose si svolgeranno. Nel mantenere la parola del Padre sino in fondo e nel morire per essa, contro la violenza, Gesù valica l'abisso che separa gli uomini dal Padre. Diventa egli stesso il loro Paracleto, ossia il loro protettore e manda loro un altro Paracleto che non cesserà di operare nel mondo per farvi scoppiare la verità alla luce del sole.
I nostri dottori sottili sospettano qui una di quelle vendette immaginarie che i vinti della storia si concedono nei loro scritti. Eppure, anche se il linguaggio ci sorprende, anche se l'autore del testo sembra preso a volte dalla vertigine di fronte alla grandezza della sua visione, non possiamo non riconoscere ciò di cui abbiamo noi stessi parlato. Lo Spirito opera nella storia per rivelare quello che Gesù ha già rivelato, il meccanismo del capro espiatorio, la genesi di ogni mitologia, la nullità di tutti gli dèi della violenza; ossia, nel linguaggio evangelico, lo Spirito completa la sconfitta e la condanna di Satana. Fondato com'è sulla rappresentazione persecutoria, il mondo inevitabilmente non crede in Gesù o crede male in lui. Non può concepire la potenza rivelatrice della passione. Nessun sistema di pensiero può veramente concepire il pensiero capace di distruggerlo. Quindi, per confondere il mondo, e per mostrare che è ragionevole e giusto credere in Gesù in quanto inviato del Padre, che ritorna presso il Padre dopo la passione, ossia in quanto divinità senza paragone possibile con quelle della violenza, ci vuole lo Spirito nella storia che si adoperi a disaggregare il mondo e a screditare a poco a poco tutti gli dèi della violenza; sembra che screditi persino Cristo nella misura in cui la Trinità cristiana, per colpa di noi tutti, fedeli e infedeli, appare compromessa nella sacralità violenta. In realtà, soltanto l'incompiutezza del processo storico perpetua e persino rafforza la miscredenza del mondo, l'illusione di un Gesù demistificato dal progresso del sapere, eliminato dalla storia insieme agli altri dèi. Basta che la storia proceda ancora un po' e ci si accorgerà che essa verifica il Vangelo; è proprio 'Satana' a essere screditato ed è Cristo a essere giustificato. La vittoria di Gesù, dunque, viene conseguita subito, fin dall'inizio, nel momento della passione, ma per la maggior parte degli uomini si concreta soltanto al termine di una lunga storia segretamente governata dalla rivelazione. Essa diventa evidente nel momento in cui constatiamo che effettivamente, grazie ai Vangeli e non contro di essi, possiamo finalmente mostrare l'inanità di tutti gli dèi violenti, spiegare e annullare ogni mitologia.
Satana regna soltanto in virtù della rappresentazione persecutoria, ovunque sovrana prima dei Vangeli. Satana è dunque essenzialmente "l'accusatore", colui che inganna gli uomini facendo loro considerare colpevoli delle vittime innocenti. Ora, chi è il Paracleto?
In greco, "parakletos" è l'equivalente esatto dell'italiano avvocato, o del latino "ad-vocatus". Il paracleto è chiamato presso l'imputato, la vittima, per parlare al posto suo e in suo nome, per servirgli da difensore. Il Paracleto è l'avvocato universale, il preposto alla difesa di tutte le vittime innocenti, "il distruttore di ogni rappresentazione persecutoria". E' dunque lo Spirito di Verità, colui che dissipa le nebbie di ogni mitologia.
Vale la pena di chiedersi come mai Girolamo, questo formidabile traduttore che generalmente non manca di audacia, sia indietreggiato davanti alla traduzione di un nome comune così consueto come "parakletos". Egli è letteralmente vinto dallo stupore. Non vede la pertinenza di questo termine e opta per una traslitterazione pura e semplice, "Paracletus". Il suo esempio è religiosamente seguito nella maggior parte delle lingue moderne, per cui abbiamo Paracleto, Paraclet, Paraklet, eccetera. Da allora in poi, questo vocabolo misterioso non ha smesso di concretare, con la sua opacità, non l'inintelligibilità di un testo in verità perfettamente intelligibile ma l'inintelligenza degli interpreti, quella stessa che Gesù rimprovera ai suoi discepoli e che si perpetua, e spesso si aggrava, nei popoli evangelizzati.
Sul Paracleto, beninteso, esistono innumerevoli studi, ma nessuno dà una soluzione soddisfacente, perché tutti definiscono il problema in termini strettamente teologici. Il prodigioso significato storico e culturale del termine resta inaccessibile, e generalmente si finisce per concludere che, se è veramente avvocato di qualcuno, il Paracleto deve farsi avvocato dei discepoli presso il Padre. Questa soluzione invoca un passo della prima epistola di Giovanni: "Ma se qualcuno ha peccato, noi abbiamo come avvocato presso il Padre Gesù Cristo, il giusto" (1 Giov., 2, 1)... Parakletos.
Il testo di Giovanni fa di Gesù stesso un Paracleto. Nel Vangelo dello stesso autore, Gesù appare effettivamente come il primo Paracleto inviato agli uomini:
Io pregherò il Padre
ed egli vi manderà un altro Paracleto,
perché rimanga con voi per sempre,
lo Spirito di Verità,
che il mondo non può ricevere,
perché non lo vede e non lo conosce"
(Giov., 14, 16-17).
Cristo è il Paracleto per eccellenza, nella lotta contro la rappresentazione persecutoria, giacché ogni difesa e riabilitazione delle vittime si fonda sulla potenza rivelatrice della passione ma, dopo la sua partenza, lo Spirito di Verità, il secondo Paracleto, farà brillare per tutti gli uomini la luce che è già presente nel mondo, e che gli uomini cercheranno il più a lungo possibile di non vedere.
I discepoli non hanno certo bisogno di un secondo avvocato presso il Padre, se hanno lo stesso Gesù. L'altro Paracleto è mandato tra gli uomini e nella storia; non bisogna sbarazzarsi di lui spedendolo devotamente nel trascendentale. La natura immanente della sua azione è confermata da un testo dei Vangeli sinottici:
«E quando verrete portati via per essere consegnati, non preoccupatevi di ciò che direte, ma dite ciò che vi sarà dato in quel momento perché non sarete voi a parlare ma lo Spirito Santo» (Marco. 13, 11; Luca, 12, 11-12; Matteo, 10,18-19).
Questo testo è in sé problematico. Non dice completamente ciò che vuole dire. Sembra dire che i martiri non hanno da preoccuparsi della loro difesa poiché lo Spirito Santo sarà lì per dar loro ragione. Ma non può trattarsi di un trionfo immediato. Le vittime non sconfiggeranno i loro accusatori durante il processo; saranno martirizzate; numerosi testi sono lì ad assicurarcelo; i Vangeli non credono affatto che faranno cessare le persecuzioni.
Non si tratta né dei processi individuali né di qualche processo trascendentale, dove il Padre avrebbe la parte dell'"Accusatore". Pensare così è ridare ancora del Padre, con le migliori intenzioni del mondo - l'inferno ne è lastricato - una raffigurazione satanica. Non si tratta dunque che di un processo intermediario tra cielo e terra, il processo delle potenze «celesti» o «mondane» e di Satana stesso, il processo della rappresentazione persecutoria nel suo insieme. Proprio perché gli evangelisti non sono sempre capaci di definire il luogo di questo processo, essi lo rendono a volte o troppo trascendente o troppo immanente, e i commentatori moderni non sono mai usciti da questa duplice esitazione perché non hanno mai capito che nella battaglia tra l'Accusatore, Satana, e l'avvocato della difesa, il Paracleto, è in gioco il destino di tutto il sacro violento.
Le parole dei martiri non hanno molta importanza poiché essi sono i testimoni non di una credenza determinata, come ci si immagina, ma della terribile propensione degli uomini in gruppo a versare sangue innocente, per ricostruire l'unità della loro comunità. I persecutori si sforzano di sotterrare tutti i morti nella tomba della rappresentazione persecutoria, ma più numerose sono le vittime del martirio, più questa rappresentazione si indebolisce, e più la testimonianza si fa luminosa. Proprio per questo utilizziamo sempre il termine martire, che significa testimone, per tutte le vittime innocenti, senza tener conto delle differenze di credenza o di dottrina, secondo l'annuncio dei Vangeli. Come per "capro espiatorio", l'uso popolare del termine "martire" va oltre le interpretazioni colte e suggerisce alla teologia cose che essa non sa ancora.
Il mondo, ancora non trasformato, non può capire niente di ciò che trascende la rappresentazione persecutoria; non può né vedere il Paracleto né conoscerlo. Gli stessi discepoli sono ancora appesantiti da illusioni che soltanto la storia può dissipare, approfondendo l'influenza della passione. L'avvenire ricorderà dunque ai discepoli le Parole che sul momento non possono trattenere la loro attenzione perché appaiono prive di senso:
"Io vi ho detto queste cose,
quando ero ancora tra voi.
Ma il Paracleto, lo Spirito Santo,
che il Padre manderà nel mio nome,
vi insegnerà tutto
e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto"
(Giov., 14, 25-26).
"Ho ancora molte cose da dirvi,
ma per il momento non siete capaci di portarle.
Quando verrà lui, lo Spirito di Verità,
egli vi guiderà alla verità tutta intera;
perché non parlerà da sé;
ma dirà tutto ciò che avrà udito,
e vi annuncerà le cose future.
Egli mi glorificherà,
perché attingerà al mio bene
per rendervene partecipi"
(Giov., 16,12-14).
Ed ecco, infine, il testo più straordinario tra tutti i passi sul Paracleto. Sembra fatto di pezzi e frammenti eterogenei, come se fosse il frutto incoerente di una specie di schizofrenia mistica. In realtà, è la nostra schizofrenia culturale che lo fa apparire così. Non riusciremo a capirci niente finché pensiamo di interpretarlo partendo da princìpi e da metodi che necessariamente appartengono al mondo e non possono quindi né vedere né conoscere il Paracleto. Giovanni ci colpisce con verità straordinarie a un ritmo tale che non possiamo, né vogliamo, assorbirle. Vi è il grosso rischio di proiettare su questo testo la confusione e la violenza da cui siamo sempre un po' posseduti. Può darsi che esso sia intaccato, in alcuni dettagli, dai conflitti tra la Chiesa e la Sinagoga, ma il suo vero soggetto non ha niente a che vedere con i dibattiti odierni sull'«antisemitismo giovanneo».
Chi odia me, odia anche il Padre mio.
Se non avessi fatto in mezzo a loro opere
che nessun altro mai ha fatto,
non avrebbero alcun peccato;
ora invece hanno visto
e hanno odiato me e il Padre mio.
Ma questo perché si adempisse la parola della Legge:
"Essi mi hanno odiato senza una causa".
Quando verrà il "Paracleto",
che io vi manderò dal Padre,
lo Spirito di Verità che procede dal Padre,
egli mi renderà testimonianza (2).
E anche voi mi renderete testimonianza (3)
perché siete stati con me fin dal principio.
Vi ho detto queste cose per preservarvi dallo "scandalo".
Vi escluderanno dalle sinagoghe.
Anzi, verrà l'ora in cui
"chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio".
Arriveranno a questo punto
perché non hanno conosciuto né il Padre né me.
Ma io vi ho detto queste cose,
perché, quando giungerà l'ora,
vi ricordiate che ve ne ho parlato
(Giov., 15, 23-27; 16, 1-4).
Questo testo evoca, certo, le lotte e le persecuzioni contemporanee alla sua elaborazione. Direttamente, non può non evocarle. Ma indirettamente ne evoca altre, tutte le altre, perché non è la vendetta che lo domina, bensì è lui a dominarla. Farne una prefigurazione pura e semplice dell'antisemitismo contemporaneo, con il pretesto che non è mai stato capito, vuol dire abbandonarsi allo scandalo, trasformare in scandalo ciò che ci è stato dato, ci dice, per preservarci dallo scandalo, per anticipare i malintesi causati dall'apparente fallimento della rivelazione.
La rivelazione sembra fallire; sfocia in persecuzioni in grado, apparentemente, di soffocarla ma che alla fine la adempiono. Finché le parole di Gesù non ci raggiungono, non abbiamo in noi alcun peccato. Restiamo allo stadio dei Geraseni. La rappresentazione persecutoria conserva una legittimità relativa. Il peccato è la resistenza alla rivelazione. E questa resistenza si esteriorizza necessariamente nella persecuzione del rivelatore, ossia del vero Dio, poiché è lui che sconvolge i nostri miserabili patteggiamenti più o meno utili con i nostri demoni familiari.
La resistenza persecutoria - quella di Paolo, per esempio, prima della sua conversione - rende manifesto proprio ciò che dovrebbe nascondere per resistere efficacemente, cioè i meccanismi vittimari. Essa adempie la parola tra tutte rivelatrice, quella che scredita l'accusa persecutoria: "Essi mi hanno odiato senza una causa".
Queste parole sono, a mio parere, l'epitome teorica dell'intero processo evangelico, quello che tutti i testi commentati nelle pagine precedenti descrivono, lo stesso che si svolge anche nella nostra storia, lo stesso che si svolge come storia, sotto gli occhi di tutto un mondo ormai, e che è la stessa cosa dell'avvento del Paracleto. Quando verrà il Paracleto, dice Gesù, egli mi renderà testimonianza, rivelerà il senso della mia morte innocente, e di tutte le morti innocenti, dal principio alla fine del mondo. Coloro che vengono dopo Cristo testimonieranno come lui, meno con le loro parole o le loro credenze che non con il loro martirio, morendo come lo stesso Gesù.
Sono certamente i primi cristiani perseguitati dagli Ebrei o dai Romani, ma sono anche gli Ebrei perseguitati più tardi dai cristiani, sono tutte le vittime perseguitate da tutti i carnefici. Di che cosa infatti si dà testimonianza? Della persecuzione collettiva generatrice delle illusioni religiose. Ed è proprio a questo ciò cui allude la frase: "Anzi, verrà l'ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio". Nello specchio delle persecuzioni storiche, medioevali e moderne, noi cogliamo se non la violenza fondatrice in sé, almeno i suoi succedanei, tanto più omicidi in quanto ormai non hanno più niente a che vedere con il ristabilimento dell'ordine. I cacciatori di streghe cadono sotto il colpo di questa rivelazione, come i burocrati totalitari della persecuzione. Ogni violenza rivela ormai quello che rivela la passione di Cristo, la genesi debole degli idoli cruenti, di tutti i falsi dèi delle religioni, delle politiche e delle ideologie. Non per questo gli assassini hanno smesso di credere che i loro sacrifici siano meritori. Neppure loro sanno quello che fanno, e dobbiamo perdonarli. E' venuta l'ora di perdonarci l'un l'altro. Se aspettiamo ancora, non ne avremo più il tempo.
NOTE AL CAPITOLO 15.
(1). R. Schwager, "Brauchen wir einen Sündenbock?", cit. Questo libro apporta considerevoli delucidazioni sulla potenza rivelatrice dei Vangeli di fronte alla mitologia; purtroppo non è stato ancora tradotto.
(2). «Ekeinos "martyresei" peri emou».
(3). «Kai hymeis de "martyreite"».