Quando, il 19 aprile 1952, la S.F.I.O. lo espulse dal suo seno «nonostante
il rispetto che la sua persona impone» (riconoscimento piuttosto sorprendente
nel dispositivo di una misura del genere), Paul Rassinier - antico militante
del P.C.F. che era passato al partito socialista nel 1934 dopo un breve intermezzo
di dissidenza nella sinistra comunista, che nel partito socialista aveva aderito
prima alla tendenza cosiddetta rivoluzionaria di Marceau Pivert, poi a quella
pacifista di Paul Faure, e che socialista restò sempre - aveva già
cominciato a pagare un alto prezzo per il suo coraggio morale, così come,
prima, il coraggio fisico gli era valso, nella sua qualità di resistente
caduto nelle mani della S.S., undici giorni di torture, diciannove mesi di deportazione
a Dora, uno dei sottocampi di Buchenwald, e una salute così malandata
da spegnerlo prematuramente (morirà nel '67 a soli sessantuno anni).
Aveva già cominciato a pagare: non finirà più. Se “Passage
de la ligne” (1948) aveva suscitato malumori, la rassegna critica della
letteratura concentrazionaria che egli aveva dato fuori nel '50 sotto il titolo
di “Le Mensonge d'Ulysse” (titolo sotto il quale i due lavori rivedranno
la luce in un unico corpo a partire dal '55) era stata accolta da qualcosa che
assomigliava ad una sollevazione. Era molta, ed era in grado di pesare, la gente
che si sentiva toccata nel vivo dal disvelamento delle dinamiche effettive del
dramma che aveva avuto a teatro i lager nazisti e del ruolo che in quel dramma
essa aveva svolto.
Ma Rassinier sarebbe stato recidivo, e recidivo in termini che più gravi
non sarebbero potuti essere. Agli occhi delle persone posate, benpensanti, sollecite
del proprio particulare, l'imprudenza è il peggiore dei peccati capitali.
Rassinier, se si vogliono veder le cose nell'ottica di costoro, peccò
imperdonabilmente. Soltanto un'imprudenza spinta all'estremo poteva suggerirgli
di estendere in una totale indipendenza di spirito la sua analisi dall'esperienza
vissuta in prima persona agli intenti di sterminio di massa, di genocidio, ascritti
alla Germania dai vincitori della seconda guerra mondiale, non solo, ma di far
nota, invece che tenerla per sé, la conclusione cui giungeva: che su
una tragedia reale era stato edificato un mito che la travisava ed amplificava
alle dimensioni di accadimento senza precedenti nella storia e che la sostanza
di questo mito si dileguava mano a mano che le asserite modalità di attuazione
del preteso sterminio, la sua asserita progettazione e i suoi asseriti esiti
venivano sottoposti ad un'indagine incardinata su quei criteri al cui impiego
metodico la ricerca storica è debitrice della propria capacità
di produrre certezze, e, con ciò, del proprio statuto di disciplina scientifica.
“La menzogna di Ulisse” fu la prima tappa di questo itinerario.
Rassinier - le cui idealità socialiste erano gravate dal rifiuto del
marxismo, del quale fu critico superficiale, e si alimentavano ecletticamente
al pensiero di Jaurès, di Keir Hardie, di Bernstein, di Owen, di Proudhon,
di Kropotkin, di Tolstoj, di Gandhi - lo ha percorso, ad onta degli sbandamenti
propiziati dal tremendo isolamento in cui venne a trovarsi, non già approdando
ad una hitlerodicea, come ha sentenziato Vidal-Naquet, bensì rimanendo
fino all'ultimo ciò che era sempre stato e rivendicando la propria fedeltà
ai principi della sinistra del 1919: una fedeltà, però, con la
quale collidevano talune posizioni dei suoi anni estremi; non essendo suoi agiografi
non abbiamo difficoltà a rilevarlo. La sua soggettiva fedeltà
a quei principi va rapportata ad un pensiero in cui sembra molto difficile cogliere
una linea di demarcazione tra democrazia - anche democrazia formale - e socialismo.
Quello che sappiamo di lui e della sua formazione intellettuale ci porta a vederlo,
per ciò che era del suo orientamento politico di base, come un caso particolarissimo
riconducibile all'ambito della socialdemocrazia: un socialdemocratico - in senso
molto lato, si badi bene - egli deve, fondamentalmente, esserlo stato sempre,
anche nella sua fase comunista (fin dalle origini, del resto, presenze così
connotabili erano - all'opposto che nel Partito comunista d'Italia, dove Graziadei
rappresentava una singolarità - tutt'altro che rare nella “Section
Française de l'Internationale Communiste”), né appare, e
il lettore non mancherà di rilevarlo, che i suoi precedenti lontani e
meno lontani gli lasciassero in eredità un'attitudine politica tale da
sollecitarlo ad operare sempre (ma si vedano le pagine conclusive di questo
libro) l'indispensabile distinzione tra bolscevismo e stalinismo, tra comunismo
e stalinismo: l'ideologia democratica e umanitaria cui si abbeverava il suo
socialismo non lasciava spazio se non al rigetto pregiudiziale della violenza
e non poteva non sfociare in quell'adesione al pacifismo e in quella simpatia,
e anche più, per l'anarchismo che in lui pervenuto all'età matura
si direbbe si innestassero su un fondo di idee cui le sue vedute sull'evoluzione
del sistema capitalistico conferivano una tonalità genericamente laburista.
Un sincretismo ideologico, insomma, a proposito dei quale si potrebbe fare per
analogia il nome di Bertrand Russel, da cui, però, lo separava una vicenda
politica che negli anni della guerra fredda vedeva Rassinier schierato, e poi
anche attardato - ma senza mai attenuare il rigore della sua linea pacifista
di sempre -, sulle posizioni filoccidentali ispirategli dal suo orrore per il
totalitarismo.
Ma, se il Rassinier socialista e ancora più il Rassinier dei suoi anni
estremi rendono per noi necessaria una netta presa di distanze, per lui soggettivamente
considerato il rispetto, non v'è dubbio, si impone. Il suo ultimo libro,
uscito l'anno stesso della morte, “Les Responsables de la Seconde Guerre
mondiale” - un libro discutibile fin che si vuole, ma, anche tenuta presente
la parte in esso attribuita alla comunità ebraica mondiale negli avvenimenti
che precipitarono il conflitto, non liquidabile certo come pronazista, e ciò
per ragioni molto simili a quelle per cui a nessuna persona sensata, e oggi
meno ancora di trenta o trentacinque anni or sono, verrebbe in mente di tacciare
di pronazismo il Taylor de “Le origini della seconda guerra mondiale”
- recava in epigrafe poche parole di Jaurès: «”...le mensonge
triomphant qui passe...”» Mette conto di riportare per intero questa
che suona quasi come una professione di fede del grande tribuno: «E’
coraggio cercare la verità e dirla; non subire mai la legge della menzogna
trionfante che passa; non fare mai eco con la nostra bocca e con le nostre mani
agli applausi imbecilli e ai fischi fanatici». Ecco: dentro c'è
tutto Rassinier con la sua dirittura intellettuale, con la sua capacità
di tener duro nell'attesa che l'abbattimento, per il quale operava, degli “idola
tribus” sgomberasse il campo ad una generazione che riprendesse il disegno
della trasformazione socialista. Non è passato molto tempo da quando
lo abbiamo sentito apostrofare - da un tale che verosimilmente non ha mai letto,
com'è la regola, un rigo di lui - come «quel rottame», epiteto
circa il quale non occorre precisare che non si riferiva allo stato fisico di
lui a seguito dei patimenti subiti come deportato. Non ci pare proprio che sia
il caso di stare a prendere le sue difese: non ve n'è bisogno, semplicemente
- tanto più che l'epiteto gli veniva scagliato dalle pagine di una rivistina
esoterica diretta da chi (uno storico di qualche talento!) ha dato abbondante
prova della propria familiarità con l'opera del «rottame»
quando, sfigurandone “à la” Vidal-Naquet, sua probabile fonte
d'informazione, le tesi sulla questione olocaustica, prendeva di mira un incolpevole
“Récamier” per tutta la durata di un lungo pseudodibattito
a due, “arcades ambo”, antirevisionisti entrambi, mandato in onda
da una radio locale bolognese lo scorso anno. E, dato che siamo in tema: una
Rossanda che, quando crede di doversi pronunciare al riguardo, sta sempre sulle
generali, sulle generalissime, che evita accuratissimamente di entrare nel merito,
e che poi («Manifesto», 3 marzo 1995) mette alla gogna un tal “Faurrisson”,
non dà forse da pensare, quanto a conoscenza di ciò di cui purtroppo
parla? Bisogna dirlo: le sinistre più o meno istituzionali e i loro reggicoda
intellettuali - tutto questo “demi-monde” che si sentirebbe in fallo
se non fosse debitamente informato sull'ultimo libro che conta - non perdono
occasione, quando si tratta di revisionismo, di mostrare miserevolmente la corda.
Torniamo a “La menzogna di Ulisse”. Oggi, venuto meno lo scenario
mondiale scaturito dall'esito del secondo conflitto, svanite tante illusioni,
spariti i più degli attori individuali della tragedia che Rassinier,
dopo esserne stato una vittima tra tantissime altre, prese ad oggetto di un'indagine
che doveva la sua lucidità all'essere morale di lui, poco o nulla, a
primo acchito, sembrerebbe doversi opporre a che venisse riconosciuto a questo
libro il posto di primario rilievo che gli spetta nella letteratura concentrazionaria
- ci riferiamo a quella seria, e che tale rimane quali che siano le riserve
che si possono formulare su questo o quell'aspetto di questa o quell'opera,
e non già a certa produzione mitografico-propagandistica, a certa altra
di stampo manifestamente commerciale o ad un «testo trafficato»
(Vidal-Naquet “dixit”, ed è davvero il meno che si possa
dire) quale il celeberrimo “Diario” che va sotto il nome di Anna
Frank, che ha i titoli per essere citato in entrambe le rubriche. Il fatto è
che, se dei miti sono crollati, un altro - vi abbiamo già accennato -
è tuttora in piedi, e non si risparmiano sforzi perché vi resti
e vigoreggi: sforzi tanto più necessari quanto più esso si è
rivelato così sorprendentemente vulnerabile che i critici li si imbavaglia
tout court là dove apposite leggi sono già state varate, li si
censura implacabilmente là dove la repressione non dispone ancora dei
mezzi per imbavagliarli con tutti i crismi della legalità, li si colpisce
dovunque con iniziative extralegali e illegali, ivi compresa la violenza fisica,
e dovunque li si presenta calunniosamente e fraudolentemente sotto una luce
atta a far cadere sul loro capo, in attesa di far loro di peggio, quella stessa
costernata riprovazione che il sentire borghese del buon tempo antico era solito
riservare a chi attentava ai buoni costumi. A “La menzogna di Ulisse”
si continua ad infliggere lo status di libro maledetto per il buon motivo che
essa è stata la prima organica manifestazione del <revisionismo>
- la tendenza eretica, o, piuttosto, lo scandalo che da qualche tempo “maîtres
à penser”, storici di corte o da rotocalco e pennaioli servizievoli
si sono messi a designare con il termine di <negazionismo> - e che in
essa sono presenti tutte, si può dire, le premesse di questo scandalo,
che provoca imbarazzo, e lo si può capire, a un Nolte e a un De Felice,
i quali fanno ogni sforzo per tenersene lontani. Ma sarà inutile cercarvi,
e cercare negli altri libri di Rassinier, quelle “specifiche premesse
ideologiche”, quell'ispirazione, cioè, nazista o antisemita, che
le predette categorie, con una sicumera che discende dalla malafede, dal pressappochismo,
dall'ignoranza o più probabilmente da tutte queste cose insieme, vorrebbero
affibbiare al revisionismo. Sarà inutile cercarvi queste “premesse”:
non solo non vi sono, ma altre ve ne sono, in Rassinier, di segno politico del
tutto diverso.
Tutt'altra questione è quella dell'accoglimento del revisionismo. Che
parte, e le più, delle simpatie di cui esso ha goduto finora siano venute
da settori di destra è così naturale che vi sarebbe di che stupirsi
se fosse stato altrimenti. Quanto alla sinistra, c'è chi pretende che
la questione neanche si ponga e che di tutto si possa dubitare meno che del
fatto che “revisionismo” sia sinonimo di “nazismo”.
Adesso questa pretesa inaudita può perfino farsi forte dell'autorità
della cosa giudicata. Nel febbraio di quest'anno una sentenza federale elvetica
- una sentenza che un tempo si sarebbe detta aberrante, ma che ora non può
più definirsi così, dato che la legislazione antirevisionistica
e la conseguente giurisprudenza vanno orwellianamente conferendo al grottesco
un carattere di piena normalità - ha stabilito che “il fatto di
contestare l'esistenza delle camere a gas, ad esempio reclamandone una sola
prova, costituisce, indipendentemente dagli altri possibili motivi della contestazione,
una presunzione di simpatia per il nazismo, la quale è sufficiente a
dimostrare che un giornalista che formula questa accusa contro un revisionista
è in buonafede e ha recato la prova della veracità della sua allegazione”.
Senonché le cose stanno del tutto diversamente da come vorrebbero far
credere questi blateramenti di legulei prevaricatori. Se è scontata l'ostilità
della sinistra istituzionale nei confronti del revisionismo, è incontrovertibile,
invece, la simpatia che anche in Italia esso raccoglie qua e là - sempre,
ben s'intende, nei limiti di un fenomeno marginale - soprattutto in quella non
convenzionale; in qualche limitato caso, anzi, parlare di semplice simpatia
è riduttivo, giacché non solo v'è interesse, ma finanche
condivisione. Di più: non mancano elementi che legittimano l'idea che
sia a sinistra piuttosto che a destra che questa apertura sia destinata ad accentuarsi.
Dicendo ciò non pensiamo, è doveroso chiarirlo, all'appello lanciato
di recente da un gruppo di intellettuali in difesa della libertà di espressione,
appello che fa esplicito riferimento alla pubblicistica revisionista e diretto
a prevenire l'adozione anche nel nostro paese di misure “ad hoc”
di persecuzione legale: ci sembrerebbe improprio leggervi alcunché di
differente da ciò che vi si dichiara; e, tuttavia, è difficile
respingere la sensazione, e ne accenniamo per quel che vale, che chi lo ha firmato
consideri il revisionismo ben altro che un cumulo di fantasie malevole e di
insensatezze. Ora, la collocazione politica dei più tra i firmatari non
ha nulla di casuale. La loro iniziativa ha altresì il valore di un segnale,
che sarà trascurato, ma che non dovrebbe esserlo. Non ci sembra, infatti,
di azzardare troppo presumendo che essa nasca anche da un ormai incontenibile
fastidio per l'uso davvero spudorato, e anche dissennato, che da troppi anni
si va facendo dell'accusa di antisemitismo al fine di squalificare, prima ancora
che la ricerca revisionistica, ogni atteggiamento che non sia di acquiescenza
e magari di reverenza nei confronti del sionismo, di Israele e delle sue imprese
aggressive, belliche e no, destinate prima o dopo a rinnovarsi: accusa che la
dice lunga circa l'isolamento psicologico in cui è rinchiuso - ciò
che torna comodissimo al sionismo e ad Israele - chi ne fa un impiego tanto
abbondante e protervo e riguardo alla quale non sarà inutile, per misurarne
il valore, ricordare come in passato si sia osato formularla contro gente come
Croce e Toynbec; per non dire di Marx, reo di un testo come la “Questione
ebraica” e di aver criticato anticipatamente l'ideologia sionista parlando
dell'ebraismo come di una «chimerica nazionalità»: giudizio,
lo si noti, che l'esistenza di una nazionalità israeliana non infirma
minimamente.
Il qualcosa che è nell'aria anche in Italia e che ha dato luogo all'appello,
se si concretasse, si concreterebbe in una legge - o in un'interpretazione estensiva
del decreto Mancino - che non si saprebbe dire se più odiosa o più
assurda. I precedenti francese, tedesco, austriaco, belga, svizzero, spagnolo
informino. Si faccia bene attenzione a questa autentica mostruosità che
la multiforme pressione dei sionisti (non è detto per niente, specifichiamolo,
che tutti gli ebrei lo siano, e, d'altro canto, non occorre affatto essere ebrei
per essere sionisti: da noi, ad esempio, lo era il defunto Spadolini - il risorgimentale
Spadolini - e lo è il “libertario” Pannella) è riuscita
a far entrare nei codici di paesi che vantano da sempre la natura liberale e
democratica dei loro ordinamenti e che domani potrebbe figurare anche nel nostro:
tra le miriadi e miriadi di eventi di cui consta tutta la storia svoltasi fino
ad oggi, di “uno solo, e solo di quell'uno”, rimarrebbe, sì,
libero - almeno in linea di principio - l'esame, ma l'espressione pubblica delle
conclusioni raggiunte attraverso l'esame sarebbe consentita soltanto a patto
che esse fossero conformi alla versione corrente di quell'unico evento; in caso
diverso integrerebbe un reato penale. Per intendersi bene: l'unico evento preso
in considerazione non è il “genocidio in genere” (d'altronde,
se anche fosse così, una legge che proibisse di dar pubblicità
ai risultati di un'indagine storica quando essi smentissero l'immagine correntemente
accolta dell'accadimento studiato riuscirebbe comunque inaccettabile), bensì
solo quel genocidio che viene simboleggiato nel nome di Auschwitz e che - essendo
per un verso la pietra sulla quale Israele ha fondato le sue fortune materiali
e morali, per un altro verso l'avvenimento indicibilmente orrido la cui storicità,
una volta che sia ammessa, sancisce in retrospettiva la condanna senza appello
dei regimi politici sconfitti nel '45, condanna che è l'alibi al riparo
del quale l'ordine sociale che li espresse è sopravvissuto alla loro
rovina ed è oggi mondialmente più forte che mai - viene usualmente
presentato come il fatto centrale del secolo, come la svolta epocale dopo la
quale comincia il postmoderno, come la catastrofe che rende impossibile pensare
dio negli stessi termini di prima e via di questo passo. Avendo Bernard Lewis,
della Princeton University, negato per due volte sulle pagine di «Le Monde»
la realtà del genocidio armeno, il tribunale correzionale di Parigi ha
dichiarata inammissibile la causa intentata contro di lui dalla comunità
armena di Francia argomentando che il genocidio armeno non rientra nel quadro
della legge Fabius-Gayssot, che tutela la memoria solo di “quell'altro
genocidio” - ossia che tutela un mito imposto da decenni di martellamento
mediatico, un mito costruito a partire da sofferenze la cui realtà nessuno
nega, ma che si vogliono ricondurre alle loro determinanti effettive e alle
loro proporzioni reali, visto che il farlo è possibile e necessario.
Per chiudere sul punto dei rapporti tra revisionismo e sinistra sarà
opportuno far parola della tesi che è stata avanzata in ordine all'insorgenza
e alla recezione del primo: «La caratteristica dei vinti della storia
(sono parole di un tale, un francese, che fa il mestiere di storico e che qui
da noi vediamo citato come un'autorità) è quella di essere revisionisti,
oppure negazionisti, poiché, per sopravvivere politicamente, si sono
trovati tutti nell'obbligo di riscrivere una storia che non gli fosse sfavorevole
o quella nella quale potessero continuare ad esistere». Detto in Francia,
e da uno che una qualche conoscenza delle cose di cui passa per essere un esperto
dovrebbe pur averla, è, pari pari, una bestialità. Se Rassinier
si ricollegava ad una tradizione revisionistica, a questa tradizione - ne prenda
nota, lo storico - non aveva dato vita o continuità un gruppo di «vinti
della storia», di relitti che «per sopravvivere politicamente»
dovessero sottostare all'«obbligo di riscrivere una storia che non gli
fosse sfavorevole o quella nella quale potessero continuare ad esistere».
Niente di tutto questo: si trattava di uomini che fin dal 1914 rifiutarono di
prender per buone le bubbole sull'esclusiva responsabilità della Germania
nello scoppio del primo conflitto, sulla pacifica Francia aggredita, sul candore
della Russia zarista, sulla guerra per il diritto, e via elencando tutto l'infame
armamentario del “bourrage de crânes”; e questi uomini - i
Demartial, i Gouttenoire de Toury, i Ch. Gide, i Morhardt, di cui non andrebbe
dimenticato l'esempio che diedero di probità intellettuale in un'atmosfera
avvelenata dal più frenetico sciovinismo - erano di sinistra. Ma, si
noti bene, non così di sinistra da caldeggiare il disfattismo rivoluzionario
e la sconfitta del proprio paese di appartenenza; non così di sinistra,
dunque, che la vittoria militare dell'Intesa nella guerra del marco e della
sterlina conclusasi con il dollaro che sbaragliava tutti potesse, anche solo
alla lontana, rinchiuderli nella condizione di «vinti della storia»:
questo, però, non sarebbe - è bene che lo storico reputato autorevole
se ne ricordi - un buon motivo per regalarli retrospettivamente alla destra.
Come la mettiamo?
Le radici di Rassinier e del suo revisionismo sono queste; e, più indietro,
c'è il caso Dreyfus, e, più indietro ancora, c'è Voltaire
che insorge per Calas: giacché esse affondavano nel terreno di quella
grande “democrazia culturale” che la Francia è stata, e che
ora, a quanto pare, non è più; così che, a leggere le pagine
commosse che Arturo Labriola le consacrava nelle sue ignoratissime “Spiegazioni
a me stesso”, si fatica a credere che vi si parli di quel medesimo paese
la cui intellighenzia odierna non sente vibrare, non diciamo la corda dello
sdegno di fronte alla repressione cui sono fatti segno i revisionisti, ma neppure
quella dell'ironia di fronte ad una “Direction des libertés publiques”
operante - udite, udite! - alle dirette dipendenze del ministero degli interni.
Qualche parola, infine, sulle implicazioni teoriche della soluzione data dagli
studi revisionistici, e in “primis” da questo libro, al problema
storico dei lager nazisti.
In quella che a nostro avviso costituisce ancora oggi - pur risultando, oggi,
inevitabilmente in arretrato rispetto alle conoscenze acquisite negli ultimi
tre lustri - un'introduzione esemplare al pensiero di Rassinier sulla questione
concentrazionaria (1) si rileva acutamente come l'interesse delle opere di lui,
e in specie della presente, stia nel fatto che esse permettono «una concezione
materialistica della vita, e quindi della morte, all’interno dei campi».
Questa enunciazione è chiarita da quella che la precede: «i campi
sono un prodotto del capitalismo non solo nella loro origine ma anche nel loro
funzionamento»; e il testo passa poi a mettere in risalto come «i
campi non “fossero” luoghi impermeabili alla logica mercantile:
essi hanno riprodotto in peggio i tratti tipici del capitalismo contemporaneo»,
e come il loro funzionamento «riproducesse e accentuasse le aberrazioni
e le difficoltà di controllo della vita sociale corrente». Ma il
discorso è suscettibile di sviluppo anche su di un piano più generale.
Dal quadro del mondo concentrazionario tracciato da Rassinier esce avvalorata
una veduta radicalmente materialistica del soggetto umano; e una veduta siffatta
è quella che troviamo, implicita per lo più, alla base del materialismo
storico. E’ scontato che questa affermazione troverà in dissenso
coloro che del materialismo storico hanno accolto la versione spuria che postula
l'estraneità di esso al materialismo in generale e il rifarsi di esso,
per contro, ad un «materialismo» - parola che a ragione, stante
il significato cui la si vuol piegare, viene dichiarata impropria e il cui uso
accade di veder giustificato con il richiamo ad una tradizione consolidata -
che colloca, sì, l'operare umano sotto il segno di una «terrestrità
assoluta», come la chiamò Gramsci, ma questa terrestrità
intende poi o idealisticamente o in maniera flagrantemente inconseguente. Nel
primo caso, la si fa corrispondere alla produzione di tutto il reale ad opera
degli uomini, in base alla considerazione (che in sé e per sé
non verrà contestata, com'è chiaro, da nessun marxista) che essi,
così come sono creatori di strumenti, così e perciò stesso
sono creatori di cultura nel senso più lato della parola, e quindi creatori
di storicità: da cui un «materialismo» che assume si possa
dar conto di tutt'intero il mondo reale rimanendo all'interno della dimensione
culturale, ossia storica, asseritamente onnicomprensiva, e che nega l'originaria
e intrinseca irriducibilità a essa dei processi naturali, giacché
questo «materialismo» pretende di risolvere natura e oggettività
in concetti il cui referente non avrebbe altra origine se non l'attività
del soggetto umano, dell'insieme degli uomini, la storia dei quali, dunque,
sarebbe storia della creazione da parte loro di se stessi e del loro proprio
oggetto. Nel secondo caso si ammette bensì un mondo naturale indipendente
dall'esistenza degli uomini, ma solo per farne l'oggetto passivo della loro
attività, la dimensione culturale svincolandoli (così si pretende)
dalla sfera dei processi naturali: quasi che il faticoso, e quanto differenziatamente
realizzato!, affrancarsi della specie dalle costrizioni della natura esterna
non lasciasse sempre e comunque sussistere il determinismo della natura interna.
La quale, poi, fondamentalmente non è affatto una natura a parte; non,
in particolare, una «natura umana» la cui peculiarità rinvii
ad alcunché di diverso dall'essere gli uomini altrettanti frammenti del
processo generale della natura, flusso sterminato di accadimenti impersonali
e obiettivi rispetto a cui ogni soggettività non è un “prius”,
ma un “post”.
Quanto quei modi di pensare siano remoti da Marx (non parleremo neppure di un
Engels la cui causa è perduta, incolpato com'è correntemente di
«materialismo volgare»: come se, in, quell'ottica, potesse mai darsi
un materialismo che, essendo tale non in via di metafora, fosse altro che «volgare»),
da un Marx che, tra l'altro, questa distinzione tra natura esterna e natura
interna, questa nozione del persistere della natura all'interno del soggetto,
le aveva ben presenti, lo si può misurare gettando una semplice occhiata
a certe pagine di lui: ad esempio, all'“Introduzione” del 1857,
dove forme primordiali di organizzazione sociale quali la famiglia e la tribù
vengono senz'altro ascritte alla sfera della natura; o, ancora, a certi passi
del “Capitale” in cui, orribile a dirsi, è alla <razza>
- e nel contesto di una pacifica ammissione di un'ineguaglianza intellettuale
tra le razze, di una sperequata distribuzione di capacità tra di esse
- che egli riconnette dati fenomeni dell'evoluzione economica: cioè fenomeni
culturali; e sono posizioni, queste di cui facciamo parola, la cui portata conoscitiva
è notevolissima, perché, nell'incidentalità del loro manifestarsi,
e qualunque cosa oggi si voglia o si debba pensare della loro sostenibilità,
proiettano una luce meridiana sull'intuizione del mondo che era sua e costituiscono
elementi preziosi di interpretazione autentica del suo pensiero, nel quale il
materialismo storico si saldava al materialismo naturalistico e dava inequivocabile
segno di apertura all'ammissione di un'influenza procedente dal biologico al
sociale. - Di contro a quei modi di pensare, è materialismo ogni riconoscimento
del soggetto umano come necessitato nella sua struttura biologica e preculturale
ad esprimere in circostanze sociali determinate comportamenti sociali determinati.
E questo, se è vero sempre, acquista un'evidenza drammatica in quei frangenti
che, per l'intensità delle torsioni inflitte ai modi usuali di esistenza
degli uomini, si configurano come circostanze-limite.
La testimonianza di Rassinier ci restituisce il dato di una vicenda la cui tragicità
nasceva non da un proposito di eliminazione di massa (proposito che mai vi fu,
neanche nei confronti della globalità dei deportati «razziali»),
ma da condizioni alle quali, per esserne sfuggito il controllo a coloro che
ne avevano poste le premesse, e che dunque di quelle condizioni portano la responsabilità
prima di fronte alla storia, non poteva non conseguire l'emersione generalizzata
di comportamenti la cui norma si modellava sulle più dure tra quelle
che Marx chiamava leggi sociali di natura.
Al materialismo storico di lui giunto a piena maturità - al materialismo
storico, per intendersi, di cui all'aforistica formulazione del 1859 - non era
estraneo quel pessimismo antropologico che si accompagna alla consapevolezza
del radicamento dell'uomo nella natura e della pervasività della natura
nell'uomo, quel pessimismo cui ha insuperatamente dato voce il Jean Rostand
dei “Pensieri di un biologo”, vero Pascal laico. Ma era proprio
questo pessimismo che sotto il profilo etico motivava la tensione al socialismo
come ordinamento in funzione del quale, mutati i rapporti tra gli uomini, gli
uomini forse non sarebbero mutati - o forse lo sarebbero (onnipresenza dell'ombra
di Lamarck!) -, ma i loro comportamenti, quelli sì, sarebbero mutati.
Conclusione che di certo Rassinier non respingeva.
Settembre 1995.
Cesare Saletta.
Nota 1: “Dallo sfruttamento nei lager allo sfruttamento dei lager. Una
messa a punto marxista sulla questione del revisionismo storico”, Graphos,
1994. E’ la traduzione di un articolo apparso nel '79 in forma anonima
- al pari di tutti quelli che vi apparivano - nella rivista «La Guerre
sociale»; il sottotitolo venne aggiunto dai curatori dell'edizione italiana.
Circostanza di cui si venne a conoscenza solo a volumetto pubblicato, il compagno
cui si deve questo eccellente articolo è di estrazione ebraica: il che
lo colloca nel novero di quegli ebrei i quali, conformemente ai «valori
universalmente progressistici» (Lenin) presenti nella loro cultura d'origine,
hanno dato la loro adesione, il loro appoggio e talvolta (Burg, Cole) il loro
contributo di ricerca al revisionismo.