Ad Albert LONDRES.
omaggio postumo.
e a JEAN-PAUL.
perché sappia
che suo padre non odiò.
Con grande abbondanza di dettagli e maggiore o minore felicità e talento,
un certo numero di testimoni hanno fatto, dalla Liberazione in poi, il quadro
degli orrori dei campi di concentramento. All'opinione pubblica non può
essere sfuggito che l'immaginazione del romanziere, gli eccessi di lirismo del
poeta, la parzialità interessata del politicante o le zaffate di odio
della vittima servono da sfondo, volta a volta o tutti insieme, ai racconti
finora pubblicati. Ho pensato, per parte mia, che fosse venuto il momento di
spiegare quegli orrori con la penna fredda, disinteressata, obiettiva, al tempo
stesso imparziale e spietata, del cronista - anche lui, ahimè, testimone
- preoccupato unicamente di ristabilire la verità per gli storici e i
sociologi dell'avvenire.
P. R.
PREFAZIONE ALLA SECONDA E ALLA TERZA EDIZIONE.
“Le armi del nemico non sono tanto mortali quanto le menzogne delle quali
i capi delle vittime riempiono il mondo; il canto pieno di odio del nemico è
meno spiacevole all'orecchio delle frasi che, come una disgustosa saliva, colano
dai libri dei necrologisti.”
Manès Sperber, “Et le Buisson devint cendre”.
Le due parti di questo lavoro sono già state pubblicate, ma separatamente,
- la prima, o l'esperienza vissuta (“Passage de la ligne”), nel
1949,
- la seconda, o l'esperienza degli altri (“Le Mensonge d'Ulysse”,
propriamente detto), nel 1950, sotto la forma di uno studio critico della letteratura
concentrazionaria: avevo creduto fosse opportuno somministrare, su un argomento
così delicato, la verità a piccole dosi.
E’ di questa disposizione di spirito che alcuni hanno tentato di approfittare
per gettare il sospetto sulle mie intenzioni: così, se il “Passage
de la Ligne”, accolto in genere con simpatia, provocò soltanto
qualche sordo e inconcludente digrignar di denti, “La menzogna di Ulisse”
fornì l'occasione per una violenta campagna di stampa che partì
addirittura dalla tribuna stessa dell'Assemblea nazionale.
Contemporaneamente, Albert Paraz, autore della prefazione, l'editore e io stesso
fummo trascinati dinnanzi al Tribunale correzionale, dove fummo assolti, poi
in Corte d'Appello, dove fummo condannati (1), benché, aderendo alle
nostre conclusioni, l'Avvocato Generale stesso avesse richiesto la conferma
pura e semplice del giudizio correzionale.
Adesso la Corte di Cassazione è chiamata a decidere la questione, ma
l'opinione pubblica, che viene informata a senso unico, è disorientata;
perciò, per poco inclini che si sia a scendere in polemica, è
diventato indispensabile chiarire le circostanze molto confuse che hanno determinato
il clima di questa faccenda. In tal modo si prenderanno due piccioni con una
fava, dato che non si potrà evitare di mettere le prove sotto gli occhi
del lettore (2).
Cadendo nel pieno dibattito sull'amnistia, “La menzogna di Ulisse”,
che a suo modo la giustificava, fu accolto da alcuni come un fatto essenzialmente
politico ed è sotto un aspetto secondario che si tentò di dargli
questo carattere esclusivo.
Per un caso deprecabile, la prefazione di Albert Paraz conteneva un'asserzione
giuridicamente insostenibile (3) sulle circostanze dell'arresto e della deportazione
di Michelet, allora deputato e leader parlamentare del R.P.F. (4): Guérin,
allora deputato M.R.P. (5) di Lione, colse l'occasione non per protestare contro
la pubblicazione del lavoro, benché abilmente ne sia stata data l'apparenza,
ma in realtà per tentare di screditare uno dei principali militanti del
movimento che gli faceva la più temibile concorrenza elettorale. Dunque,
fu così che “La menzogna di Ulisse” venne dapprima sfruttato
da un movimento politico contro un altro, e ciò sarebbe già bastato
in sé per far disperare lo storico...
L'azione extraparlamentare intesa ad attirare l'opinione pubblica si basò
su di un inciso dell'intervento del signor Guérin. Alla tribuna dell'Assemblea
nazionale il deputato di Lione mi aveva messo tra i «responsabili della
collaborazione con l'occupante e gli apologisti del tradimento» (6). Il
signor Guérin aveva esclamato enfaticamente: «Miei cari colleghi,
a quanto pare non vi sarebbero mai state camere a gas nei campi di concentramento...
Ecco ciò che si può leggere in questo libro» («Journal
Officiel», 2 novembre 1950, “Débats parlementaires”).
Ora, il signor Guérin non aveva letto il lavoro!
Senza averlo letto più di lui, tutti i giornali, nei quali pullulano
i giornalisti improvvisati da certa Resistenza (7) al momento della liberazione,
ripresero il tema e mi fecero dire le cose più inverosimili.
Tre associazioni di deportati, internati e vittime dell'occupazione tedesca
chiesero al Tribunale correzionale di Bourg-en-Bresse di ordinare il sequestro
del libro, la distruzione delle copie già messe in vendita e di condannarci
solidalmente al pagamento della graziosa somma di un milione di danni e interessi.
Più avveduto, il Comitato d'azione della Resistenza si astenne da ogni
manifestazione ostile. Non perché gliene mancasse la voglia, ma per timore
del ridicolo. Il Partito comunista, avendo abbozzato un'offensiva, si accorse
in tempo che rischiava nuovamente di mettere in una situazione delicata Marcel
Paul, Casanova, il colonnello Manhès, eccetera, per cui effettuò
una prudente ritirata. Ma il Partito socialista, che ho rappresentato in Parlamento
dopo essere stato per lunghi anni il leader di una delle sue federazioni distrettuali,
mi escluse dal suo seno, «nonostante il rispetto che la mia persona impone»,
recita la sentenza che mi è stata trasmessa dal Comitato direttivo (8).
Furono le prime scaramucce di un'offensiva poco gloriosa che durò poco.
In seguito la sua malafede non si smentì neppure per un istante.
Martin-Chauffier, che danzò sulla corda in quasi tutti i movimenti di
pensiero della prima metà di questo secolo, prese il comando della seconda
ondata d'assalto. Poiché io avevo segnalato (incidentalmente) una svista
in uno dei suoi scritti, egli si credette in dovere di correggerla con un'altra
svista, per riprendere il tema di Maurice Guérin e per dimostrare che
per di più non sapeva leggere. «Tutti i deportati hanno mentito,
afferma Paul Rassinier, che nega l'esistenza delle camere a gas», scrisse
in testa ad un articolo il cui titolo, “Un falsario e calunniatore colto
in flagrante delitto” («Droit de vivre», 15-11, 15-12-1950),
da sé solo mi avrebbe permesso - e sentii la voglia di dargli la risposta
che meritava - di ottenere sostanziose riparazioni da qualsiasi tribunale correzionale.
Il portabandiera della terza ondata fu Rémy Roure, che si spiegò
così:
«Questo Rassinier descrive come segue il campo di Buchenwald: tutti i
Block, geometricamente e piacevolmente disposti in collina, sono collegati tra
loro da strade in cemento; gradinate in cemento e con rampe conducono ai Block
superiori: davanti ad ognuno di essi, pergole con piante rampicanti, giardinetti
con praticelli di fiori, qua e là piccole rotonde con spruzzo d'acqua
o statuetta. Il piazzale dell'appello, che ricopre qualcosa come un mezzo chilometro
quadrato, è interamente pavimentato, pulito da non perderci uno spillo.
Una piscina centrale con trampolino, un campo sportivo, piante che danno un'ombra
fresca a portata di mano, un vero campo di colonia estiva, e qualsiasi passante
che vi fosse ammesso a visitarlo nell'assenza dei detenuti ne uscirebbe convinto
che vi si conduce una vita piacevole, piena di poesia silvestre e particolarmente
invidiabile, in ogni modo fuori di tutte le misure comuni con le sorti della
guerra che sono il destino degli uomini liberi... Faccio appello ai miei camerati
di Buchenwald: riconoscono essi il loro campo?» («Force ouvrière»,
giovedì 25 gennaio 1951 )
Rémy Roure può appellarsi ai suoi camerati di Buchenwald: questo
non si trova ne “La menzogna di Ulisse”. Colto in flagrante delitto
davanti al tribunale correzionale di Bourg-en-Bresse, si scusò e volle
riconoscere («Le Monde», 26 aprile) che, non avendo letto il libro,
mi citava soltanto sulla scorta di Maurice Bardèche (9). Ora, se è
esatto che Maurice Bardèche citò questo passaggio nel suo “Noremberg
II”, è pure esatto che lo prese dal “Passage de la Ligne”
- dove l'ho messo per dare l'idea dell'attrezzatura materiale non del campo
di Buchenwald, bensì di quello di Dora, nell'ultima fase - e che, molto
onestamente, egli non cercò di stornarlo dal suo significato isolandolo
dal contesto.
Aggiungo che, non dispiaccia a Rémy Roure, in assenza dei detenuti -
dico: in assenza dei detenuti! -, il campo di Dora era proprio come la descrizione
che ne faccio e tutti coloro che l'hanno conosciuto ne convengono. Quando i
detenuti rientravano, dopo una lunga e massacrante giornata di lavoro, la burocrazia
concentrazionaria gli dava tutt'altro aspetto; ciò che precede e segue
il passo che con molta leggerezza mi si rimprovera - e che per le necessità
di causa Rémy Roure sostituisce abilmente con puntini di sospensione
- lo dice in termini molto precisi.
Perdono volentieri questa cattiva azione a Rémy Roure. Fosse solo perché,
nello stesso articolo, ha scritto: «... i quadri K.Z. (10), i “Kapo”,
capi Block, “Vorarbeiter”, “Stubendienst”, detenuti
anche loro, i quali vivevano della morte dei loro compagni».
Questo è uno dei temi de “La menzogna di Ulisse” che in tal
modo viene giustificato clamorosamente, ed è esattamente l'opposto di
ciò che tutti i manipolatori della letteratura concentrazionaria, David
Rousset in testa, avevano scritto finora. Ma io pongo questa domanda: perché
ciò che è una calunnia e diffamazione quando viene da me, diventa
parola di Vangelo e rispettabile quando viene da Rémy Roure? O forse
egli non mi perdona di esser stato il primo a tentare di far uscire questa orribile
verità dal fondo del suo pozzo?
***
Passo sotto silenzio i trafiletti velenosi ispirati dalle associazioni di deportati
e il fatto che, per tenere l'opinione pubblica allertata, giornali come «Franc
Tireur», «L'Aube», «L'Aurore», «Le Figaro»,
eccetera li pubblicarono compiacentemente ogni otto od ogni quindici giorni,
arrivando a prendersi tali licenze con l'obiettività che il titolo del
lavoro era diventato: “La leggenda dei campi di concentramento”.
In marzo l'offensiva sferrata contro di noi fu spinta al delirio.
Un poveraccio piccolo piccolo del giornalismo, prestandomi generosamente la
tesi, scrisse nel «Progrès de Lyon»: «Le sevizie, una
leggenda! I forni crematori, una leggenda! I recinti elettrificati, una leggenda!
I morti a gruppi di dieci, una leggenda!»
E Jean Kreher, l'avvocato che le associazioni dei deportati avevano scelto,
veniva alla riscossa nel «Rescapé», organo dei deportati,
con quanto segue, che gli sembrava sgorgasse dalla fonte del mio studio:
«Perché, se eravamo rimpinzati di salsiccia, di margarina eccellente,
se tutto era previsto per fornirci le cure e le distrazioni necessarie, se il
crematorio è un'istituzione imposta dall'igiene, se la camera a gas è
un mito, se, in una parola, le S.S. erano piene di premure nei nostri riguardi,
perché e di che cosa ci si lamenta?»
Il lettore deciderà da sé se ciò può essere dedotto
da quello che ho scritto. Tutta questa gente, del resto, ha faticato a vuoto.
La ‘verità’ che volevano imporre non ha prevalso e il discredito
che invano hanno tentato di gettare su di noi ricade oggi su di loro, dato che,
oltre al cocente scacco che da poco è stato loro inflitto dalla Corte
di Cassazione, André Rousseaux, il quale portò pure alle stelle,
e indistintamente, tutti gli attivisti della letteratura concentrazionaria,
era arrivato perfino lui - probabilmente sotto l'influsso del sentimento pubblico
- a porsi nel «Figaro Littéraire» questa domanda:
«Ma, per i sopravvissuti dell'inferno, la condizione di ex deportati non
è diventata molto presto analoga a quella degli ex combattenti di tutte
le guerre: molto più vittime che testimoni?»
Perché questa maniera di dire le cose, che chiaramente è formulata
come domanda soltanto per precauzione di stile, è di per sé, davanti
alla storia, una condanna in blocco, senza appello e assai più precisa
della decisione della Corte di Cassazione, di tutte quelle testimonianze tanto
influenzate quanto interessate, contro le quali sono stato il primo a mettere
in guardia il pubblico. La disgrazia è, ahimè, che arriva un po'
tardi. E che una letteratura tanto sospetta quanto lo era nella sua ispirazione
la letteratura concentrazionaria, una letteratura che nessuno oggi prende più
sul serio e che un giorno sarà la vergogna del nostro tempo, abbia per
anni fornito i suoi principi ad una morale (che era l'apologia del bolscevismo
- questo ha la sua importanza!) e la sua garanzia ad una politica (11) (che
era il banditismo, giustificato dalla ragion di Stato) - sta a dimostrare che
una cosa deriva in modo naturale dall'altra.
***
E ora ecco la sostanza del dibattito, che un esempio renderà più
accessibile.
Una nuova testimonianza sui campi di concentramento tedeschi è uscita
recentemente in Ungheria e «Les Temps Modernes» ne hanno intrapreso
la diffusione in Francia: “S.S. Obersturmpführer, Docteur Mengele”,
del dottor Nyiszli Miklos (12). Riguarda il campo di Auschwitz-Birkenau.
Il primo pensiero che viene alla mente è che in Ungheria questa testimonianza
non sia potuta uscire senza il consenso di Stalin per l'interposta persona dei
Martin-Chauffier di laggiù, i cui poteri, a livello di presidenti di
Comitati corrispondenti al nostro C.N.E. (13), sono abbastanza ampi da permettere
loro di impedire che libri come “La menzogna di Ulisse” possano
vedere la luce.
Ragion per cui, così stando le cose, il libro sarebbe già sospetto.
Ma non è questo il punto.
Tra le altre cose, questo dottor Nyiszli Miklos pretende che, nel campo di Auschwitz-Birkenau,
quattro camere a gas (14) lunghe 20 metri (senza precisare la larghezza), affiancate
da altre quattro camere delle stesse misure per la preparazione delle vittime
al sacrificio, asfissiavano 20000 persone al giorno e che quattro forni crematori,
ciascuno di 15 focolari a 3 posti, le cremavano via via. Aggiunge che, inoltre,
sempre ogni giorno 5000 persone erano soppresse con mezzi meno moderni e bruciate
in due immensi focolari all'aperto. Aggiunge, ancora, che per un anno ha assistito
personalmente a questi massacri sistematici.
Sostengo che tutto ciò è evidentemente inesatto e che, anche senza
esser stati deportati, basta un po' di buon senso per esserne certi.
Essendo stato, infatti, il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau costruito
fin dalla fine del 1939 ed essendo stato evacuato nel gennaio 1945, se si dovesse
credere al dottor Nyiszli Miklos bisognerebbe ammettere che, per 5 anni, al
ritmo di 25000 persone al giorno, vi siano morte circa 45 milioni di persone,
di cui 36 milioni cremate nei quattro forni crematori dopo l'asfissia, e 9 milioni
nei due focolari all'aperto.
Se è perfettamente possibile che le quattro camere a gas siano state
capaci di asfissiare 20000 persone al giorno (a infornate di 3000, dice il testimone),
non lo è assolutamente che i quattro forni crematori siano stati capaci
di cremarli mano a mano. Anche se erano di quindici focolari a tre posti. E
anche se l'operazione richiedeva soltanto 20 minuti, come pretende il dottor
Nyiszli Miklos, il che è falso.
Prendendo come base queste cifre, la capacità di smaltimento di tutti
i forni funzionanti parallelamente sarebbe stata, in definitiva, soltanto di
540 all'ora, cioè 12960 persone al giorno di 24 ore. E, a questo ritmo,
sarebbe stato possibile spegnerli soltanto qualche anno dopo la Liberazione.
A patto, beninteso, di non perdere neppure un minuto per circa 10 anni. Se adesso
ci si vuole informare al Père Lachaise circa la durata di una cremazione
di 3 cadaveri in un focolare, ci si accorgerà che i forni di Auschwitz
bruciano ancora e che si è ancora lontani dal poterli spegnere!
Sorvolo sui focolari all'aperto (che avevano, dice il nostro autore, 50 metri
di lunghezza, 6 di larghezza e 3 di profondità) mediante i quali si sarebbe
riusciti a cremare 9 milioni di cadaveri nel corso di 5 anni...
Vi è, d'altronde, un'altra cosa impossibile, almeno a proposito dello
sterminio a mezzo del gas: tutti coloro che si sono occupati del problema concordano
nel dichiarare che «nei rari campi dove ve ne furono» (E. Kogon
“dixit”) le camere a gas furono in definitivo stato di funzionamento
solo nel marzo 1942 e che fin dal settembre 1944 degli ordini, che non si sono
ritrovati, così come non sono state ritrovati quelli che da essi venivano
annullati, proibirono di utilizzarle per asfissiare. Al ritmo sostenuto dal
dottor Nyiszli Miklos, si arriva ancora a 18 milioni di cadaveri per questi
due anni e mezzo, cifra che, non si sa per quale virtù matematica, Tibor
Kremer, il suo traduttore, riduce d'autorità a 6 milioni (15).
E pongo questa nuova e doppia domanda: che interesse poteva esservi a esagerare
tanto il grado dell'orrore e qual è stato il risultato di questo modo
di procedere, che fu generale? Mi si è già risposto che, riportando
le cose alle loro proporzioni reali in una teoria universale della repressione,
non avevo altra intenzione che quella di minimizzare i crimini del nazismo.
Io ho pronta un'altra risposta che adesso non ho più ragione di non rendere
pubblica. Prima di darla, vorrei ancora sottoporre all'apprezzamento del lettore
un incidente indicativo dello stato d'animo del nostro tempo.
Lettore dei «Temps Modernes», naturalmente ho informato anche questa
rivista delle riflessioni suggeritemi dalla pubblicità che essa faceva
al dottor Nyiszli Miklos. Ed ecco la risposta che ebbi da Merleau Ponty:
«Saranno gli storici che dovranno porsi questi interrogativi. Ma nel momento attuale questo modo di esaminare le testimonianze ha per risultato di gettare il sospetto su di esse come se mancassero di una precisione che saremmo in diritto di attenderci. E, dato che adesso si tende piuttosto a dimenticare i campi tedeschi, questa esigenza di verità storica rigorosa incoraggia una falsificazione massiccia, che consiste “grosso modo” nell’ammettere che il nazismo è una favola.»
Trovai amena questa risposta e tralasciai di rispondere a Merleau Ponty che
lui, a sua volta, dimenticava i campi russi e perfino... quelli francesi! Perché,
se si deve ammettere questa dottrina e se già l'esigenza di una verità
storica rigorosa incoraggia nel momento attuale una falsificazione massiccia,
ci si domanda con ansia a quale mostruosità la falsificazione massiccia
del presente rischia di arrivare sul piano della storia. Basta immaginare che
cosa penseranno gli storici futuri dell'abominevole processo di Norimberga il
quale ha già portato l'evoluzione dell'umanità indietro di duemila
anni sul piano culturale, cioè alla condanna di Vercingetorige da parte
di Giulio Cesare, presentata in tutti i manuali di storia come un delitto.
Le relazioni che Merleau Ponty, professore di filosofia, stabilisce tra le cause
e gli effetti non sembrano di un rigore eccezionale, e questo prova che, facendo
ognuno il suo mestiere, anche in filosofia siamo in buone mani!
***
Con la mia tesi sulla burocrazia concentrazionaria, della quale ho messo in
risalto il ruolo determinante nella sistematizzazione dell'orrore, ciò
che più dolorosamente ha sferzato i fabbricatori di figurine di Épinal
sui campi di concentramento è stata la luce nuova nella quale presento
le camere a gas. Le due cose sono intimamente connesse e si spiegano a vicenda.
V'è un certo numero di fatti, concernenti questa irritante questione,
che non possono assolutamente essere sfuggiti alle persone oneste.
Anzitutto, tutti i testimoni sono d'accordo su questa evidenza, che dieci tra
loro - citati contro di me dalla parte civile (16) - sono venuti a confermare
di fronte al Tribunale correzionale di Bourg-en-Bresse: nessun deportato ancora
vivo - ne domando scusa a Merleau Ponty, che garantisce con tanta leggerezza
il dottor Nyiszli Miklos - può aver visto procedere a stermini con questo
mezzo. Io stesso ho personalmente fatto l'esperienza centinaia di volte e ho
smascherati pubblicamente gli sventati che pretendevano il contrario: l'ultimo,
a tutt'oggi, è il famoso G... del quale parla Albert Paraz. Ho dunque
motivo di asserire che tutti coloro che, come David Rousset o Eugen Kogon, si
sono lanciati in minuziose e drammatiche descrizioni dell'operazione, l'hanno
fatto soltanto in base a chiacchiere (17). Questo - e lo preciso ancora onde
evitare ogni nuovo malinteso - non vuole assolutamente dire che non vi siano
state camere a gas nei campi né che non vi sia stato sterminio alcuno
mediante gas: una cosa è l'esistenza dell'attrezzatura, un'altra l'impiego
al quale è destinata, e una terza cosa ancora il suo effettivo uso.
In secondo luogo, è degno di nota il fatto che, in tutta la letteratura
concentrazionaria, e tanto meno al Tribunale di Norimberga, non sia stato possibile
produrre alcun documento comprovante che le camere a gas erano state installate
nei campi di concentramento tedeschi, su ordine del governo allo scopo di farle
utilizzare per lo sterminio in massa dei detenuti.
Dei testimoni, per lo più ufficiali, sottufficiali e anche semplici S.S.,
erano, certo, venuti a deporre che avevano proceduto a stermini per mezzo del
gas e che ne avevano ricevuto l'ordine: nessuno di essi ha potuto esibire l'ordine
dietro il quale si rifugiava e nessuno di questi ordini - a parte quelli di
cui faccio parola in questo lavoro e che non provano assolutamente nulla - è
stato ritrovato alla Liberazione negli archivi dei campi. Si è, dunque,
dovuto prestar fede a questi testimoni unicamente sulla parola. E chi può
provarmi che non abbiano detto questo per aver salva la vita, nell'atmosfera
di terrore che cominciò a regnare in Germania all'indomani della disfatta?
A questo riguardo ecco una storiella che poggia su di un altro cosiddetto ordine
dato da Himmler, ordine sul quale la letteratura concentrazionaria è
molto prolissa: quello di far saltare tutti i campi all'avvicinarsi delle truppe
alleate e di sterminarvi così tutti i loro occupanti, guardiani compresi.
Il medico-capo S.S. dell'infermeria di Dora, dottor Plazza, lo confermò
appena fu catturato e perciò ebbe salva la vita (18). Al Tribunale di
Norimberga l'ordine fu brandito contro gli accusati, che negarono. Ora, nel
«Figaro Littéraire» del 6 gennaio 1951, sotto il titolo “Un
ebreo tratta con Himmler”, a firma di Jacques Sabille, si è potuto
leggere:
«E’ grazie alla pressione di Gunther, esercitata su Himmler per
mezzo di Kersten (suo medico personale), che l'ordine cannibalesco di far saltare
i campi all'avvicinarsi degli alleati - senza risparmiare i guardiani - restò
lettera morta.»
Questo significa che quest'ordine, ricevuto da tutti e abbondantemente commentato,
non è mai stato dato.
Altrettanto per quel che riguarda gli ordini di sterminio per mezzo del gas...
Ma, mi si dirà allora, perché queste camere a gas nei campi di
concentramento? Probabilmente - e semplicemente - perché, avendo la Germania
in guerra deciso di trasportare il massimo delle sue industrie nei campi per
sottrarle ai bombardamenti alleati, non vi era ragione perché dovesse
fare eccezione per le sue industrie chimiche.
Che degli stermini mediante gas siano stati praticati, mi pare possibile se
non certo: non c'è fumo senza fiamma. Ma che essi siano stati generalizzati
al punto che ha tentato di far credere la letteratura concentrazionaria e nel
quadro di un sistema messo in piedi a cose fatte è certamente falso.
Tutti gli ufficiali di cavalleria delle nostre colonie hanno un frustino di
cui sono autorizzati a servirsi tanto secondo il concetto personale che hanno
della vanità militare, quanto secondo il temperamento del loro cavallo:
la maggioranza di essi se ne serve anche per colpire gli abitanti dei paesi
dove imperversano. Nello stesso modo, può essere che alcune direzioni
di campi (19) abbiano utilizzato per l'asfissia camere a gas destinate ad altro
uso.
A questo punto del discorso l'ultima domanda che si può porre è
la seguente: come mai gli autori di testimonianze hanno accreditato con uno
spirito di corpo così degno di nota la versione corrente?
Per questo: perché, avendoci derubati vergognosamente per ciò
che riguardava il cibo e il vestiario, avendoci malmenati, brutalizzati, percossi
a un punto indicibile che ha fatto morire - dicono le statistiche - l'82 per
cento di noi, i sopravvissuti della burocrazia concentrazionaria hanno visto
nelle camere a gas l'unico e provvidenziale mezzo per spiegare tutti quei cadaveri
discolpandosi (20).
Tutto qui: il colmo è che essi abbiano trovato degli storiografi compiacenti.
Per il resto, il tema del ladro che grida più forte della sua vittima
e ne soffoca la voce per sviare l'attenzione della folla non è nuovo
nella nostra letteratura.
Nessuno si è mai chiesto perché - salvo che nel tempo in cui i
tagliandi per razioni supplementari svolgevano il ruolo palese di cemento -
non è mai stato possibile costituire, né sul piano distrettuale
né su quello nazionale, delle associazioni vitali di deportati: il fatto
è che la massa degli scampati non è incline volentieri a riunirsi
in gruppi fraterni, aderendo alle ingiunzioni dei turiferari dei suoi ex guardiaciurme,
i quali, come per caso, sono i protagonisti dei vari movimenti che sollecitano
quella massa.
Nell'insieme di questo lavoro, più precisamente nella conclusione, si
troveranno gli altri elementi della risposta alla doppia domanda che or ora
ponevo.
***
Vi è però uno degli elementi di questa risposta che non figura
in questo libro: il processo del campo di Struthof, che non era ancora avvenuto
alle date in cui ne furono scritte le due parti.
Come il libro del dottor Nyiszli Miklos, questo processo mette in evidenza un
certo numero di cose inverosimili circa le ragioni per cui morirono coloro che
erano detenuti in quel campo.
Leggendo la requisitoria pronunciata dal Commissario del governo contro gli
accusati, che erano medici della facoltà di Strasburgo ai quali si faceva
carico di aver condotto esperimenti medici su detenuti, trovo sul giornale «Le
Monde» quanto segue:
“1) che a uno di essi si rimprovera l'uccisione, dietro suo ordine, «degli
ottantasette israeliti, uomini e donne, arrivati da Auschwitz e uccisi nella
camera a gas, per essere in seguito inviati a Strasburgo allo scopo di accrescere
le collezioni anatomiche del professore tedesco»;
2) che del secondo si dice: «Ammetto volentieri che la prima serie di
esperimenti non causò nessun decesso»;
3) questo commento: «Si tratta ora di sapere se gli esperimenti sul tifo
hanno causato dei decessi. Il capitano Henriey (è il commissario del
governo che fa la requisitoria) riconosce che forse non può darne la
prova, ma pensa che il tribunale può fondare la sua convinzione anche
su sole presunzioni quando queste siano sufficienti, come lo sono in questo
caso. Queste presunzioni egli le trova nelle testimonianze, nella motivazione
del giudizio di Norimberga (21), nelle menzogne di Haagen (è il dottore
in causa) e nelle sue dissimulazioni nel corso degli interrogatori. Egli pensa
che questi fatti debbano permettere al tribunale di rispondere affermativamente
alla domanda posta: Haagen si è reso colpevole di avvelenamenti?”»
Questo prova con tutta evidenza che si sono potuti addebitare soltanto ottantasette
morti alla camera a gas di Struthof e agli esperimenti che ivi hanno avuto luogo.
Se questo numero, relativamente basso in confronto alle affermazioni della letteratura
concentrazionaria che si estendono alla generalità dei campi, non toglie
nulla all'orrore del fatto (quando, beninteso, si ammetta che, contrariamente
a quanto sostiene l'accusato, non si tratta di un incidente indipendente dalla
sua volontà), esso non può né far dimenticare che migliaia
e migliaia - delle decine di migliaia, forse - di detenuti sono morti in questo
campo, né impedire che ci si domandi come e perché sono morti.
Che io sia stato suppergiù il solo ad orientare gli spiriti verso questo
tragico aspetto del problema concentrazionario, fornendo loro allo stesso tempo
gli elementi necessari per formare dei giudizi, cioè le ragioni che hanno
fatto di ogni campo una “Zattera della Medusa” (22), questo la dice
lunga sulla miseria del nostro tempo.
I medici di Struthof si sono difesi sostenendo che gli esperimenti cui si erano
dedicati erano stati effettuati nelle stesse condizioni di sicurezza di altri
esperimenti simili fatti dagli inglesi a Manila, dagli americani a Sing-Sing
e dai francesi nelle loro colonie. Un eminente professore di Casablanca è
venuto a deporre confermandolo, come altri prima di lui l'avevano confermato
al Tribunale di Norimberga, se si presta fede alla magistrale tesi di laurea
del medico della Marina francese François Bayle (“Croix gammée
contre Caducée”), pubblicata in Francia nel 1950. Questo professore
di Casablanca ha anche raccontato che un certo numero di negri erano morti a
causa di un vaccino che era stato provato su 6000 di essi.
Questo argomento, però, è privo di valore: non si possono scusare
i propri misfatti con quelli degli altri.
Ma l'argomento del Commissario del governo che richiedeva la condanna degli
uni sulla base di presunzioni - è lui stesso a confessarlo! - e ignora
gli altri, sui quali possiede fatti altrettanto reprensibili e altrettanto materialmente
accertati, è anch'esso senza valore: non si potrebbe dire più
chiaramente che gli uni sono colpevoli perché sono tedeschi e gli altri
innocenti perché sono inglesi, americani e francesi.
E’ questo modo dì pensare e di giudicare, la cui giustificazione
è lo sciovinismo più grossolano, che consente di dichiarare che
seicento persone bruciate in una chiesa e un villaggio distrutto a Oradour-sur-Glane
(Francia) sono vittime del crimine più abominevole mentre centinaia e
centinaia di migliaia di persone - donne, bambini e vecchi, anche! - sterminati
a Lipsia, Amburgo, eccetera (Germania), Nagasaki e Hiroshima (Giappone) nelle
condizioni che sappiamo, vale a dire altrettanto atroci, costituiscono un'impresa
indiscutibilmente gloriosa.
E’ altresì questo modo di pensare che permette di evitare che si
metta sotto accusa la grande e vera responsabile di tutto: la guerra!
La guerra: quella del 1914-18, la cui conseguenza è stata il nazismo
che ha utilizzato - e non inventato, come si crede generalmente (23) - i campi
di concentramento, in seno ai quali la guerra del 1939-45 ha reso possibile,
contro la volontà degli uomini, sia quella dei carnefici, sia quella
delle vittime, l'atroce regime che sappiamo.
Ma questo si inserisce nell'argomento soltanto incidentalmente.
Avremo, beninteso, l'eleganza o il coraggio di pensare che non dipende né
dal Tribunale correzionale di Bourg-en-Bresse né dalla Corte d'Appello
di Lione, e neppure dalla Corte di Cassazione, che noi si abbia ragione o torto:
molto giudiziosamente l'avvocato Dejean de la Batie ha fatto osservare a nostro
nome che il dibattito nel quale eravamo stati spinti era concepibile soltanto
nelle società scientifiche o in ogni altro luogo in cui gli uomini abbiano
costume di disputare sui problemi sociali, non davanti ad un tribunale.
Ma i dirigenti improvvisati delle associ azioni-fantasma di deportati in favore
dei quali le leve dello Stato giocano tanto compiacentemente non concepiscono
altre verità fuor che quelle che vengono decretate e alle quali il poliziotto
dà corso forzoso nell'opinione pubblica. Non sono contro il campo di
concentramento perché è il campo di concentramento, ma perché
loro stessi vi sono stati rinchiusi: appena liberati, hanno preteso che vi si
mettessero gli altri. Non vi sono dunque rischi: nell'aula delle riunioni scientifiche
si guarderanno bene dal convocarci!
Ora, per parte mia mi rifiuto di lasciarmi condannare al silenzio tra il dibattito
senza via d'uscita che ci è stato imposto davanti ai giudici e quello
che ci viene negato davanti all'opinione pubblica.
Scrivendo “La menzogna di Ulisse” avevo l'impressione di fare eco
a Blanqui, a Proudhon, a Louise Michel, a Guesde, a Vaillant, a Jaurès
e di incontrarmi con altri, come Albert Londres (“Dante n'avait rien vu”),
il dottor Louis Rousseau (“Un medicin au bagne”), Will de la Ware
e Belbenoit (“Les Compagnons de la Belle”), Mesclon (“Comment
j'ai subi 15 ans de bagne”), eccetera, i quali, tutti, hanno posto il
problema della repressione e del regime penitenziario partendo dalle stesse
constatazioni e negli stessi termini in cui lo ponevo io, e per questo avevano
tutti ricevuto un'accoglienza piena di simpatia dal movimento socialista della
loro epoca.
Il fatto che gli avversari più accaniti del lavoro si siano precisamente
trovati fra i dirigenti del Partito socialista e del Partito comunista - unità
d'azione? - si spiega forse con la curiosa e pretesa legge dell'equilibrio storico.
Resta il fatto che Alain Sergent che giudicò il regime penitenziario
francese prendendo anche lui le sue unità di misura nel movimento-socialista
tradizionale (“Un anarchiste de la Belle époque”, Ed. du
Seuil), trovò echi soprattutto fuori dal movimento socialista.
Inoltre, nel dibattito sull'amnistia che ebbe luogo di recente all'Assemblea
Nazionale, si è potuto registrare l'atteggiamento dei rappresentanti
del Partito socialista e del Partito comunista come una prova superflua che
si trattava di una presa di posizione sistematica e quasi dottrinaria.
Deploro che questa presa di posizione abbia come unici punti di riferimento
quelli prescritti di Nazione, di Patria e di Stato. Per questa ragione coloro
che si vantano eredi spirituali dei comunardi, di Jules Guesde e di Jaurès
sono stati insensibilmente portati ad avallare una letteratura la quale, soffocando
i dati elementari del problema della repressione in una cultura dell'orrore
basata sul falso storico, ha, insieme, creato un'atmosfera di omicidio in Francia
e scavato un abisso tra la Francia e la Germania. Questo, indipendentemente
da altri risultati altrettanto paradossali in numerosi altri settori.
In uno dei suoi momenti di sincerità, David Rousset li aveva avvisati:
«La verità è che tanto la vittima quanto il carnefice erano
ignobili; che la lezione dei campi è la fraternità dell'abiezione;
che se tu non ti sei condotto con ignominia è soltanto perché
ne è mancato il tempo e le condizioni non erano del tutto a punto; che
nella decomposizione degli esseri esiste soltanto una differenza di ritmo; che
la lentezza del ritmo è l'appannaggio dei grandi caratteri; ma che il
terriccio, ciò che sta sotto e che sale, sale, sale, è assolutamente,
orribilmente la stessa cosa. Chi lo crederà? Tanto più che gli
scampati stessi non sapranno più. Essi inventeranno, anche loro, delle
scipite immagini di Epinal, degli scipiti eroi di cartapesta. La miseria di
centinaia di migliaia di morti servirà da tabù a queste stampe».
(“Les Jours de notre mort”, Ed. de Paris, 1947, pag. 488).
Hanno fatto finta di non sentire.
E anche lui, troppo preoccupato di trascinare davanti ai tribunali correzionali
i comunisti, dei quali aveva fatto l'apologia, se ne era senza dubbio dimenticato.
***
Il lettore potrà ancora meditare utilmente su alcuni fatti come i seguenti:
- il 26 ottobre 1947 tutti i giornali pubblicavano il seguente articoletto:
«Ancora un dramma dei campi di concentramento davanti al tribunale militare:
un italiano, Piero Fiorellini, fu accusato di avere, al tempo di Bergen-Belsen,
ucciso sette suoi compagni. Egli era infermiere, un infermiere, peraltro, dai
metodi terapeutici assai curiosi. Si dilettava a suonare l'armonica, facendo
ballare i codetenuti al suono di questo strumento. Se rifiutavano li bastonava.
Un giorno, dovendo curare un tenente ammalato, lo portò al lavabo, lo
lavò, poi, dato che l'altro protestava contro la ruvidezza dei suoi modi,
lo ammazzò a furia di bastonate. I compagni del tenente tentarono di
impedirglielo. Fiorellini ne uccise sei, uno dopo l'altro. Oggi egli è
accusato dagli scampati di quel Block.»
- Nel giornale «Le Monde» del 18 gennaio 1954, rendendo conto del
processo di Struthof, Jean-Mare Theolleyre - uno dei rari cronisti giudiziari
dei nostro tempo la cui obiettività non può esser messa in dubbio
- fa il ritratto di uno dei pochi detenuti che abbia dovuto rispondere davanti
alla giustizia del suo comportamento nei campi:
«Di tutti questi accusati ve ne era uno del quale si aspettava l'interrogatorio
con curiosità. Era Ernst Jager, perché Jager non era una S.S.
Detenuto, appartenne a quella razza altrettanto odiata - se non più -
nei campi, quella dei Kapo. Infatti, allo Struthof egli aveva il titolo esatto
di Vorarbeiter, cioè di un detenuto responsabile di un gruppo di lavoro
agli ordini di un Kapo. In questa veste ha picchiato, bastonato, accoppato più
che una S.S.
Jager è l'incarnazione di ciò che la vita concentrazionaria può
fare di un uomo. Quale fu la sua vita? A quarant'anni ne ha passati ventiquattro
in prigione. Della libertà ha conservato soltanto il ricordo di un tempo
in cui era marinaio, senza poterne dire di più, e di un giorno del 1930,
quando, su una banchina del porto, nel corso di una rissa ferì a morte
una S.A. Fu condannato a sette anni di reclusione. Dell'avvento del nazismo
ebbe vaghi echi in prigione. Doveva farne veramente la scoperta soltanto quando,
scontata la pena, si sentì dire dal nuovo regime che sarebbe stato tenuto
ancora in detenzione sotto la qualifica di asociale. Da allora portò
sulla giacca il triangolo nero e passò da un campo all'altro. Ma, prima
di gettarvelo, la Gestapo cominciò con lo sterilizzarlo. Del mondo concentrazionario
ha conosciuto il periodo più orribile. Fu di quell'epoca in cui la popolazione
dei campi era formata di ebrei, zingari, asociali, pederasti, lenoni e ladri.
Era già il tempo dello sterminio e vi sfuggiva soltanto chi aveva il
coraggio di farsi lupo per non esser divorato(24).
Tutti volevano vivere, ma ognuno di essi voleva vivere contro gli altri. A qualsiasi
costo, in qualsiasi modo. Instaurarono e svilupparono nei campi tutti i metodi
del gangsterismo. Quando fu nominato Vorarbeiter al Struthof fu perché
si sapeva che aveva le capacità necessarie. Contaminato da questa esistenza
avvilente, annegò in questo fiume di fango. I suoi nervi non ressero.
Deve esser stato di quelli - perché ce ne sono stati - che arrivarono
a prendere talmente in odio questa vita concentrazionaria che tutti coloro che
ne portavano l'abito, quegli spettri famelici e disperati, erano loro diventati
odiosi. Allora venivano i colpi, gli accessi di collera.»
E’ una spiegazione che, senza dubbio, Freud non rinnegherebbe, ma essa
vale solo quel che vale. Per di più, là dove Jean-Marc Theolleyre
sbaglia, e questa volta di sicuro, è quando scrive:
«Allora, che cosa avevano in comune con essi questi detenuti politici,
questi triangoli rossi: comunisti e socialisti tedeschi, resistenti francesi,
polacchi o cechi? Padroni del campo, intendevano restarlo. Fu quello il tempo
in cui i detenuti comuni picchiavano, uccidevano a tutt'andare, e in cui i «politici»
si ingegnavano per organizzare la loro resistenza, per mostrare la loro disciplina,
la loro capacità di dirigere, e finivano col contrattaccare, prendendo
uno ad uno i posti chiave nella vita interna del campo.»
Cosa avevano in comune? Ma, caro Jean-Marc Theolleyre, una volta al potere,
nei campi, essi si comportarono esattamente come i detenuti comuni, ed è
Jager che ve lo dice in questi termini che, molto onestamente, voi riportate
nel vostro resoconto:
«Non ho commesso sevizie. Al contrario, sono io che sono stato picchiato
dai politici... Sono essi che si dimostrarono i peggiori, ma ad essi non si
diceva mai nulla. Perché si fanno tanti torti a gente come noi, triangoli
verdi o triangoli neri? Quando sono arrivato al Struthof non furono le S.S.
a picchiarmi, ma i politici. Ora, fino ad oggi non si è mai visto neanche
uno di loro davanti ad un tribunale. Eppure il primo Kapo del Struthof, che
era uno di loro e che ha fatto peggio di me, ha beneficiato di un non luogo
a procedere».
- In un altro giornale e sempre a proposito del processo di Struthof, un altro
cronista giudiziario riporta:
«Diversi altri testimoni sono venuti ad evocare la morte di un giovane
polacco il quale, addormentato, non aveva raggiunto abbastanza alla svelta il
piazzale dell'appello. Condottovi a suon di botte da Hermanntraut, fu subito
gettato su una specie di tavolo che serviva per amministrare le bastonature.
Così ricevette venticinque terribili colpi che due altri detenuti furono
costretti a dargli.»
In questo libro si troverà la storia di Stadjeck, strana replica a Dora
del Fiorellini di Bergen-Belsen, e quella di alcuni altri il cui comportamento
fu lo stesso di quello di Jager o di quei due disgraziati che furono costretti
- o si offrirono! - ad applicare 25 terribili bastonate a uno dei loro compagni
di sventura: comuni o politici, i secondi subentrando ai primi a capo della
“self-administration” penitenziaria, vi furono nei campi migliaia
e migliaia di Fiorellini, di Stadjeck e di bastonatori.
Si sa di alcuni comuni ai quali fu chiesto conto del loro operato. Non si mosse
alcun addebito ai politici, ed è per questo che le loro colpe non vennero
conosciute. Se si vuole saper tutto, accusare i politici non era possibile:
approfittando della confusione delle cose e del disordine dei tempi, i politici,
che avevano già avuto l'abilità di soppiantare i comuni nei campi
con metodi che riflettevano le leggi dell'ambiente, e che allo stesso tempo
ispiravano fiducia alle S.S., questo non va sottovalutato, ebbero pure, quando
venne il momento, l'abilità di trasformarsi in procuratori e in giudici,
tutto in una volta, e avvenne così che essi soli furono abilitati a chiedere
conto agli altri. Nella frenesia di voler vedere colpevoli dovunque, avrebbero
fucilato tutti e non si accorsero neppure che, a capo dei campi di concentramento,
essi stessi non avevano sostenuto una parte diversa - e in peggio! - di quella
che rimproveravano, per esempio, a Pétain per essersi offerto di figurare
quale capo della Francia occupata.
Quei tempi erano tali che sul momento nessuno se ne accorse per loro.
Alcuni si accorsero in prosieguo che avevano avuto un po' troppa fretta di riconoscere
al Partito comunista la parte di un partito di governo, che la maggior parte
dei procuratori e dei giudici erano comunisti e che, per vigliaccheria, per
incoscienza o per calcolo, quelli che per caso non lo erano facevano però
il gioco del comunismo. Per la strada obliqua della opportunità politica
si finì con lo scoprire solo una parte della verità sul comportamento
dei detenuti politici nei campi di concentramento. Ma questa opportunità
politica non è ancora evidente se non nello spirito di una certa classe:
la classe dirigente, che del comunismo tiene presente solo quello che minaccia
lei, e lei soltanto. E per questo che si conosce sempre solo una parte della
verità: la si conoscerà tutta soltanto il giorno in cui le altre
classi della società, e particolarmente la classe operaia, avranno a
loro volta le idee chiare sui non meno oscuri disegni del comunismo per ciò
che le riguarda e sulla sua vera natura.
Evidentemente, ci vorrà molto tempo.
Abbiamo tuttavia la possibilità, adesso, di vedersi moltiplicare nella
letteratura le confessioni del genere della seguente, che Manès Sperber
(“Et le Buisson devint cendre”) mette in bocca a uno dei suoi personaggi,
ex deportato politico:
«Sul piano politico non abbiamo ceduto, ma sul piano umano ci siamo trovati
dalla parte dei nostri guardiani. L'obbedienza, in noi, precedeva le loro decisioni...»
A lungo andare, queste confessioni si spoglieranno, come di una ganga, della
contraddizione che consiste nel pensare che si può fallire sul piano
umano senza cedere sul piano politico, e rimarrà soltanto «ci siamo
trovati dalla parte dei nostri guardiani.» Senza dubbio, allora, esse
avranno perduto quel carattere di scusa assolutoria che quelli intendevano darsi
da soli, ma avranno acquistato nel significato una sincerità così
commovente che la scusa assolutoria verrà dal pubblico, e ciò
sarà molto meglio.
Quando vi saremo giunti, nulla sarà più facile che trovare al
fenomeno concentrazionario una spiegazione onesta sul piano morale.
Cosa strana anche questa, perché, mentre la letteratura nel suo insieme,
e non soltanto quella concentrazionaria, continua a cercare questa spiegazione
tentando solo di superare se stessa nella descrizione delle crudeltà
di ogni genere commesse dal nemico, mentre storici, cronisti e sociologi cedono
sempre a questo feticismo dell'orrore che è il segno chiave dei nostri
tempi, il sentimento pubblico, al contrario, si manifesta già attraverso
reazioni di una serietà inattesa. Lo testimonia questo estratto di una
lettera di un lettore pubblicata da «Le Monde» il 17 luglio 1954:
«Che tutto ciò sia stato possibile non si spiega soltanto con la
bestialità degli uomini. La bestialità è limitata, a sua
insaputa, dalla misura dell'istinto. La natura è legge senza saperlo.
Lo spavento che ci ha presi di nuovo nel leggere i resoconti di Metz fu generato
nei nostri paradossi di intellettuali, nella nostra noia anteguerra, nella nostra
pusillanime delusione, nella monotonia della non violenza, nelle nostre curiosità
nietzschiane, nella nostra reazione distaccata riguardo alle ‘astrazioni’
di Montesquieu, di Voltaire, di Diderot. L'esaltazione del sacrificio per il
sacrificio, della fede per la fede, dell'energia per l'energia, della fedeltà
per la fedeltà, dell'ardore per il calore che procura, l'appello all'atto
gratuito, cioè eroico: ecco l'origine permanente dell'hitlerismo.
Il romanticismo della fedeltà per se stessa, dell'abnegazione per se
stessa, legava a chicchessia, per qualsiasi azione, quegli uomini i quali -
e, quelli, per davvero - non sapevano ciò che facevano. La ragione consiste
precisamente nel sapere ciò che si fa: pensare un contenuto. Il principio
della società militare, dove la disciplina sostituisce il pensiero, dove
la nostra coscienza è al di fuori di noi, ma che, in un ordine normale,
si subordina a un pensiero politico, cioè universale, e ne trae la sua
ragion d'essere e la sua nobiltà, si trovava - fra la sfiducia generale
nei riguardi del pensiero ragionevole, ritenuto inefficace e impotente - a governare
da solo il mondo.
Da allora, l'uomo è stato in suo potere. Il processo di Struthof ci ricorda,
contro le metafisiche troppo orgogliose, che la libertà dell'uomo soccombe
alla sofferenza e alla mistica. A condizione che accettasse la sua morte, ogni
uomo poteva dirsi libero. Ma ecco che la tortura fisica, la fame e il freddo
o la disciplina, più forti della morte, spezzano questa libertà.
Perfino nei suoi ultimi trinceramenti, là dove essa si consola della
sua impotenza di agire, di rimanere pensiero libero, la volontà estranea
penetra in essa e l'asservisce. La libertà umana si riduce così
alla possibilità di prevedere il pericolo della propria decadenza e di
premunirsi contro di essa. Fare delle leggi, creare delle istituzioni ragionevoli
che gli eviteranno le prove dell'abdicazione, ecco l'unica possibilità
dell'uomo. Al romanticismo dell'eroico, alla purezza degli stati d'animo, sufficienti
a se stessi, occorre nuovamente sostituire - e mettere al suo posto, che è
il primo - la contemplazione delle idee che rende possibili le repubbliche.
Esse crollano quando non si lotta più per qualcosa, bensì per
qualcuno. EMMANUEL LEVINAS.»
C'è tutto: il principio della società militare dove la disciplina
sostituisce il pensiero, che era solo a governare il mondo; la libertà
dell'uomo che soccombe alla sofferenza fisica e alla mistica; la bestialità
limitata soltanto alla misura dell'istinto; le leggi e le istituzioni ragionevoli
e necessarie suscettibili di evitare all'uomo le prove dell'abdicazione, leggi
che non esistevano, che non esistono ancora e che rimangono la sua sola possibilità...
Certo, il ragionamento è costruito soltanto sull'uomo che ha abdicato
e si trasforma in carnefice. Vale per la vittima:
«Quanto alla domanda se la sofferenza provi qualcosa per colui che la
subisce, scrive ancora Manès Sperber, essa mi sembra molto difficile.
Al contrario, mi pare certo che la sofferenza non confuti il suo autore, almeno
nella storia» (op. cit.).
Ed è tanto vero, che le vittime di ieri sono i carnefici di oggi e viceversa.
***
Ora mi resta solo da ringraziare indistintamente e in blocco tutti coloro che
si sono coraggiosamente battuti per “La menzogna di Ulisse”.
Mi è stato detto che tra loro vi erano dei fascisti e io ho sorriso dolcemente:
dato che coloro che me lo rinfacciavano erano proprio quelli che allo stesso
tempo chiedevano il sequestro del libro e, su tutti i loro giornali, esigevano
che fosse decretata contro un po' tutti la proibizione di scrivere, di parlare
e persino di muoversi, come avrei potuto non pensare che, se bastava credere
per essere battezzati, non bastava rifiutare il battesimo per non essere fascisti?
Mi si è detto anche che tra loro c'erano dei collaborazionisti del tempo
dell'occupazione, e io mi sono consolato constatando che soprattutto erano reputati
tali e che, comunque, stavano accanto ad un numero impressionante di resistenti
autentici.
In definitiva, ho osservato soprattutto che, nel vasto campo dell'opinione pubblica
che va dall'estrema destra all'estrema sinistra, molti continuavano o ricominciavano
a pensare a tutti i problemi, non più in conformità alle strette
regole delle sette, dei cenacoli e dei partiti, bensì prendendo i valori
umani a punto di riferimento.
E questo mi pare sufficiente ad autorizzare tutte le speranze.
Mâcon, dicembre 1954.
PAUL RASSINIER.