L'ESPERIENZA VISSUTA. (1)
Prologo.
Piove. Una pioggia fine di aprile, fredda, glaciale. Regolare, ostinata, inesorabile.
Così da due giorni: sta per iniziare la terza notte.
Il convoglio, una lunga catena di vagoni sgangherati che stridono sui binari,
affonda lentamente nel grande buco nero. La macchina, una locomotiva d'altri
tempi, suda, soffia e fatica, tossisce e sputa, slitta e scoppietta. Cento volte
ha esitato, cento volte è sembrato che volesse rifiutare lo sforzo che
le si richiede.
Piove, piove ininterrottamente.
Nel vagone a cielo aperto ottanta corpi pigiati, accartocciati, si aggrovigliano
e si ammucchiano, gli uni sugli altri, gli uni negli altri. Vivi? Morti? Nessuno
lo potrebbe dire. Al mattino si sono ancora svegliati, gelati nei loro poveri
stracci fradici, smagriti, trasparenti, scarni, con i grandi occhi fuori dalle
orbite febbrili e inebetiti. Con uno sforzo sovrumano si sono come scrollati.
Hanno intravisto il giorno, hanno sentito la pioggia - le lunghe fitte taglienti
della pioggia - attraversare i cenci, le carni esili e indurite, ficcarsi dentro
le ossa, a ranghi serrati e spietati. Con un brivido impercettibile hanno arrotondato
la schiena. Stavano forse per lasciarsi andare ai mille gesti istintivi del
risveglio quando si sono visti, specchiati gli uni negli altri. Attraverso la
nebbia della febbre e la trama dell'acqua che cade dal cielo hanno scorto degli
uomini in uniforme, armati fino ai denti, piantati ai quattro angoli del vagone,
impassibili ma vigilanti. Allora si sono ricordati: si sono resi conto del loro
destino e con un sussulto, cupi e accasciati, sono ricaduti in questo mezzo
sonno, in questa mezza vita, in questa mezza morte.
Piove, piove sempre. Un'aria pesante, densa di fetori, sale dal mucchio dei
corpi, svanisce nel freddo umido e nella notte.
Alla partenza, erano in cento.
Radunati in fretta, con i cani alle calcagna, gettati in fretta e alla rinfusa
nel convoglio, sotto i colpi e tra gli ordini urlati, furono dapprima atterriti,
quando si trovarono sull'angusta piattaforma, sul punto di partire senza viveri,
per il viaggio. Capirono subito che per loro stava per cominciare una grande
prova.
- “Achtung”, “Achtung”! li hanno avvertiti tutt'in un
fiato: in piedi di giorno, seduti di notte!... “Nicht verschwinden!”
Ogni infrazione a questo regolamento, “sofort erschossen!” (2) Capito?
Il vagone scoperto, il freddo, la pioggia, ancora passi, se ne erano viste di
peggio! Ma niente da mangiare: niente da mangiare!
Per colmo di disgrazia, da settimane al campo non era più entrato un
grammo di pane e ci si era dovuti accontentare delle risorse dei silos: così,
la sera, dopo la lunga e dura giornata di lavoro, zuppa lunga di rape, un litro
(alle volte soltanto mezzo), e due piccole patate. Niente da mangiare. Tutto
svanisce davanti a questa minaccia ed essi a malapena percepiscono quella voce
giunta fino a loro, secondo cui gli americani sarebbero a soli dodici chilometri.
- Niente da mangiare, in piedi di giorno, seduti di notte...
Durante la prima notte, tre o quattro di loro che avevano manifestato troppo
precipitosamente il desiderio di soddisfare un bisogno impellente furono presi
per il bavero, schiaffati brutalmente contro l'alta parete del vagone e freddati
sul colpo.
- “Craaac”! contro il legno, “craac”!
Ci si è risolti a farsela nelle mutande, prima con precauzione, trattenendosi
come per sporcarsi meno, poi lasciandosi mano a mano andare.
Tre o quattro altri, crollati di sfinitezza durante la giornata successiva,
erano stati freddamente abbattuti con una pallottola nella testa.
- “Craaac”! contro il pavimento, “craac”!...
Rilevati i numeri di matricola, i cadaveri furono via via gettati fuori bordo:
all'inizio della terza notte le fila sono considerevolmente assottigliate; si
è passati così dallo spavento al terrore e dal terrore all'abbandono
più completo. Si è rinunciato ad uscire da questo inferno, si
è rinunciato persino a vivere: adesso ci si lascia morire nel liquame.
Piove, piove, piove.
Tuttavia, ecco che si è alzato un venticello che prende il convoglio
di traverso e gonfia la tenda fissata male a sostegni di fortuna, sotto la quale
ad ogni angolo del vagone la sentinella ripara le sue lunghe ore di veglia:
ha come spazzato via dei miasmi, e le S.S., nervose alla partenza, indaffarate
benché decise e ancora piene di speranza, improvvisamente sono diventate
inquiete. Da un po' di tempo i colpi di fucile, i tiri di pistola si sentono
con minore frequenza. Perfino i cani - i cani, oh! quei cani! - abbaiano e latrano
di meno alle molte fermate.
Dopo quarantott'ore, andando avanti, tornando indietro, passando da un binario
morto all'altro, cambiando continuamente direzione, il convoglio si trova a
meno di venti chilometri dal punto di partenza. Nella tarda serata si è
messo in marcia verso ovest dopo aver inutilmente tentato di prendere il nord,
il sud e l'est: se questo binario è interrotto come gli altri, ciò
significa che si è accerchiati e che si può essere presi. Aggrottando
le sopracciglia le S.S. hanno passato la voce di vagone in vagone, dall'un capo
all'altro del convoglio, dopo di che si sono ripiegate su se stesse.
- Siamo accerchiati! Saremo presi!
Sono sconvolte: stanno per essere catturate, tutti questi corpi che giacciono
incoscienti ritroveranno la vita, si alzeranno, accuseranno: il delitto sarà
flagrante.
Ancora il mattino li si era sentiti interpellarsi frequentemente con grida gutturali,
dire delle facezie e indirizzare grosse risate alle ragazze lungo il percorso,
ma queste, tristi e disingannate, non concedevano loro che rari e malinconici
incoraggiamenti. Adesso tacevano: solo un lieve battito di accendisigari o il
punto rosso di una sigaretta venivano a scalfire quel silenzio di morte, a turbare
l'oscurità densa e umida della notte.
Piove, piove sempre, piove incessantemente, piove senza fine: il cielo è
inesauribile
Ora, per giunta, il vento sì è fatto più forte. Si mette
a fischiare crudamente negli interstizi delle tavole e l'acqua arriva in tromba.
Le tele delle tende si gonfiano a dismisura, i sostegni si piegano. Tutto ad
un tratto, una legatura ha ceduto, poi un'altra. La tela si mette a svolazzare
come una bandiera e schiocca dall'esterno contro la parete. La S.S. lancia una
bestemmia. Poi, imprecando e sacramentando tra i denti, tenta di riparare il
danno. Invano: se riesce da un lato, il vento le porta via l'altro.
- “Gott Verdammt”! (3)
Dopo due tentativi infruttuosi rinuncia. Bruscamente, si gira verso il disgraziato
che gli si trova più vicino. Uno spintone coi ginocchi, un colpo di stivali
nelle reni, e:
- “Du”, grida, “du... Du, blöder Hund”! (4)
“Blöder Hund”? L'uomo ha sentito, compreso da dove veniva il
richiamo e, raccogliendo automaticamente quanto vi è ancora in lui di
forza, si è alzato spaventatissimo. Quando vede che cos'è che
si vuole da lui ne è un po' rassicurato. Si issa - piuttosto, si lascia
issare! - sul bordo, in equilibrio sulle ginocchia e sulle mani. Poi, con precauzione
per non cadere all'indietro sulla massicciata -, attento a non cadere sulla
massicciata! - raddrizza la tela e aiuta l'altro a fissarne di nuovo gli angoli
ai sostegni.
- “Fertig”? (5)
- “Ja, Herr S.S.”
A questo punto avviene una cosa straordinaria: l'uomo ritrova se stesso. Tutto
ad un tratto, come in un lampo. Se non fosse stato per l'oscurità e la
pioggia, si sarebbe vista una strana fiamma accenderglisi negli occhi. Come
in un lampo, si è reso conto tutto in una volta che si trova in ginocchio
sull'orlo della parete, che ha le gambe rivolte all'infuori, che il treno non
va molto veloce, che piove, che la notte è nera, che gli americani sono
forse a dodici chilometri, che la libertà...
- La libertà, o, la libertà!
A questa invocazione una follia inspiegabile si impossessa di lui, proprio di
lui che un momento fa aveva paura di cadere all'indietro - oh ironia! -, una
grande luce gli si fa strada nel cervello e inonda, invade tutto il suo corpo:
- “Ja”, ripete. Poi grida: “Ja! Ja! Ja... a... ah!”
Prima che l'altro abbia avuto il tempo di sorprendersi, l'uomo, lo scheletro,
il mezzo-morto, raccoglie i suoi muscoli in uno sforzo supremo, puntella le
povere braccia sul bordo della parete e con un colpo secco si proietta all'indietro.
Nella sua testa sente risuonare il crepitio di una salva e ha ancora la forza,
la sorprendente lucidità di pensare che cade in un angolo morto... Si
sente ghermito e, corpo e anima, cade nel nulla dell'incoscienza.
- “Tsc!... Tsc!... Clac!... Tceretctec!... Clac! Tsc!... Clac!... Tara-tatata!...
Tsce!... Tsce!... Tsce!...”
La macchina suda, soffia, esita, slitta, scoppietta sempre. Le armi hanno ripreso
a sputare la morte. A poco a poco il grande silenzio indifferente della natura
addormentata si richiude sul dramma che si prolunga, turbato soltanto dal mormorio,
ridivenuto regolare, della pioggia nel vento che sta cadendo. Piove, piove,
piove.
***
Ha smesso di piovere. Sono trascorse ore: forse due, tre, quattro. Il cielo
si è finalmente stancato. Laggiù, al di sotto della ferrovia,
nel nero denso, spugnoso, qualcosa si è mosso.
Prima due occhi hanno tentato di aprirsi, ma le palpebre appesantite son ricadute
in un brusco riflesso, come se la testa si fosse trovata sott'acqua.
Una gola arida si è contratta in un richiamo di saliva e ha fatto venire
sulla lingua un sapore di terra. Un braccio ha abbozzato un gesto, che è
stato paralizzato a metà corsa da un dolore acuto al gomito, sordo alla
spalla. Poi, più nulla: l'uomo si è di nuovo svuotato nella sensazione
di uno strano benessere e, davvero, ha creduto di riaddormentarsi.
Ma ad un tratto un brivido lo percorre e lo avvolge. Sul suo petto, la pelle
si è distaccata dall'indumento umido: br!... Ha tentato di rannicchiarsi,
di ripiegare sotto di sé la gamba: ahi!... Allora, ha cercato di svegliarsi,
le sue palpebre hanno sbattuto nervosamente, ha forzato gli occhi a restare
aperti: li ha piantati nel nero opaco, assoluto, pesante. Dai polmoni sale un
bisogno di tossire, e spezza tutto in lui. Gliene rimane l'impressione che il
suo corpo giaccia nell'erba fradicia sul terreno fangoso, in pezzi sparsi e
doloranti. Tenta di pensare. Al primo sforzo riceve come un colpo in testa:
- I cani.
Adesso sì che è sveglio. Rivive tutto. Una cascata di avvenimenti
lo assale, succedendosi, accavallandosi: il caricamento, il convoglio, l'inferno
del vagone, il freddo, la fame, la tela della tenda, il salto nella notte. Il
convoglio: e se dovesse tornare indietro?
I cani: oh! tutto, tutto, piuttosto che quella morte lì!
Vuol fuggire: niente da fare, i pezzi del suo corpo sono inchiodati lì.
Vuol raccogliersi: crocchia tutto e sente le ossa che gli scricchiolano una
sull'altra. Eppure bisogna uscire di lì. A tutti i costi.
Il suo ragionamento prende un'altra direzione: una ferrovia costituisce un obiettivo
militare per gli assalitori e un terreno da utilizzare per gli assaliti. I tedeschi,
utilizzeranno questa, vi ripiegheranno sopra, vi si aggrapperanno: lo troveranno.
- Fuggire, oh! fuggire!... Allontanarsi almeno di qualche centinaio di metri
e aspettare là, più al sicuro, l'arrivo degli americani: prima
di tutto, tirarsi in piedi!
Prima di tutto, tirarsi in piedi. Ha pensato ad alta voce e questa ha risonanze
cavernose, il mormorio delle labbra gli fa uscire di bocca delle granulosità
terrose. Sputacchia:
- “tt!... tt!...”
Con precauzioni infinite raccoglie le braccia una dopo l'altra: a sinistra non
sente nulla, ma a destra c'è sempre quel dolore al gomito e alla spalla.
- Toh, si direbbe che diminuisca...
Ripete il movimento: è proprio così, il dolore si addolcisce nel
gioco dei muscoli e delle articolazioni: nulla di rotto. Il suo petto respira
meglio. Ora tocca alle gambe: massaggia pian piano i muscoli e ne risente un
male orribile, gli vien voglia di urlare... Finalmente, è fatta, nulla
di rotto neanche da questa parte; almeno, così si direbbe. Si sente più
calmo e si fa più metodico.
Riesce a sedersi. Le contusioni del corpo si fanno più dolorose, l'impacco
dei vestiti più gelido. Trema dal freddo. Al centro dello stomaco avverte
una contrazione circolare: ha fame, buon segno. E si meraviglia di non averla
sentita prima. Porta la mano alla testa: il berretto di prigioniero è
sempre lì, e la cosa lo fa ridere. Pensa ai suoi zoccoli: li ha persi
nel corso dell'avventura: tanto peggio. Si palpa: è coperto di fango
e come preso in un groviglio di fili di ferro dai quali cerca subito di districarsi.
Si rigira, si mette carponi, ancora uno sforzo soltanto e potrà stare
in piedi...
In piedi: sì, ora è proprio in piedi, presto sarà al largo
e i tedeschi potranno ripiegare, venire, aggrapparsi alla ferrovia... Più
adagio, però, ché la testa gli gira, ha voglia di vomitare, sente
che vacilla, che sta per cadere, che soltanto i piedi affondati lo tengono in
equilibrio e che non deve contare di metterli l'uno davanti all'altro. Si irrigidisce,
resiste il più a lungo possibile, ma sente che sta per crollare, e di
nuovo si farà male nella caduta. Allora, piano, pianissimo, si accoccola;
dato che non può camminare, si trascinerà, ma non rimarrà
lì, no, non rimarrà lì. E ripensa al convoglio, ai cani,
ai tedeschi che ripiegheranno. Agli americani.
- E pensare che sono a dodici chilometri. No, sarebbe veramente troppo stupido.
Toglie i piedi dal fango: “floc! floc!”
Strisciando sulle mani e sulle ginocchia come un grosso verme torturato, finisce
di scendere una china, attraversa un piccolo fosso di acqua limacciosa, un quadrato
erboso, attacca un fazzoletto di terreno lavorato di fresco: la terra si solleva
a zolle, gli si incolla ai ginocchi, ai gomiti. Si ferma, riprende fiato.
Però la notte si è fatta meno nera, il cielo è più
alto. Già le forme delle siepi e degli alberi cominciano a precisarsi
in una tenue caligine.
Sta per albeggiare: altro pericolo.
A qualche centinaio di metri, in cima ad una salita, distingue una massa oscura:
i boschi, senza dubbio.
Si prefigge come primo scopo di raggiungerli prima dell'alba e si rimette in
moto. Lo sforzo gli ha riscaldato il corpo, gli ha reso più agili i muscoli
e le articolazioni e adesso il dolore lo sente localizzato in una striscia lungo
tutto il lato destro. Riesce a mettersi diritto, a rimanervi, a posare i piedi
scalzi e insensibili uno innanzi all'altro, a camminare. A camminare adagio
perché trascina la gamba destra e la spalla gli duole molto. Ma cammina,
avanza: rattrappito, contorto, spezzato, sale su verso la foresta. Vuole fortemente,
si irrigidisce, si sforza e si aggrappa. Prima dell'alba l'avrà raggiunta,
vi si accovaccerà, vi si rintanerà, arriveranno gli americani
e sarà salvo.
***
Tutto il resto avviene come in un sogno - un sogno in due tempi, lungo ed estenuante.
Raggiunto il bosco, ha rinunciato a penetrare nel folto, temendo di venirne
tradito, e giudica più saggio sedersi lì, un po' indietro però,
fra i rari cespugli dai quali può vedere da tutte le parti quel che succede,
come da un osservatorio nascosto.
E’ ormai giorno, il pendio che scendeva sotto di lui è uscito a
poco a poco dall'ombra, la scacchiera dei campi e dei prati indistinti si precisa,
la ferrovia, laggiù, si raddrizza, snodandosi come un lungo nastro. Nel
cavo fra due colline lontane un campanile appuntito drizza la sua freccia tra
le nuvolette di fumo che salgono da camini invisibili.
Molto presto, la nube ancora grigia ma irradiata di una grossa macchia bianca
che denuncia il sole che cerca di affacciarsi viene a trovarsi alta nel cielo.
Qua e là il paesaggio è popolato di pochi tiri di animali che
vanno e vengono lentamente. Un uomo, un borghese anche lui, ma del quale si
distingue il bracciale di riconoscimento, ha cominciato, anche se svogliatamente,
a fare i cento passi di prammatica lungo la ferrovia.
Ha pensato ad un angolo di paesaggio simile, con uno stesso tempo e uno stesso
cielo, la stessa scacchiera di campi e di prati, la stesse foreste, gli stessi
alberi isolati, lo stesso campanile, la stessa ferrovia, in un luogo ai confini
tra l'Alsazia e la Franca Contea.
Ha pensato che se sua madre avesse visto questo qui a questa stessa ora, non
avrebbe mancato di osservare che il cielo «rischiarava» o che il
tempo «si rimetteva». Ha osservato a lungo due cavalli che a cinquecento
metri trainavano una specie di erpice lungo un quadrato erboso per spianare
i nidi delle talpe: quel vecchio che li guidava era, parola d'onore, il vecchio
Tourdot, e quella donnina che tirava una fune legata dietro l'erpice era la
sua nipotina, che aveva il padre, Tony, prigioniero in Germania! Per associazione
di idee ha visto il viso trepido di sua moglie chinarsi su un ometto di due
anni...
Poi è tornato in sé con un sussulto di inquietudine:
- No, no, è un inganno! Gli americani non possono essere a dodici chilometri,
tutto è troppo tranquillo. Attraverso questi campi, questi prati, questi
boschi non si respira un'atmosfera di guerra, e tanto meno di disastro. In Francia,
nel ‘40...
Ne è rimasto atterrito: che sarebbe stato di lui?
Impossibile rivolgersi a quella gente: specie in quella tenuta!
Ha sentito fame, molta fame, ha raccolto un ramoscello che ha messo in bocca:
anche questa era una ricetta della mamma, quando lui, durante la mietitura,
nei pomeriggi di gran calura, gridava la sua sete nelle gonne di lei. Questo
gli ha cambiato le idee.
Sono passate le ore, il sole è riuscito a forare la nuvola, a spezzettare
il cielo. E’ suonata una campana: mezzogiorno; la campagna si è
vuotata. Il pomeriggio è trascorso nello stesso modo: i tiri di animali
sono tornati più numerosi con un sole caldo che ha asciugato i suoi stracci.
Un uomo con una falce sulla spalla gli è passato vicino, quasi sfiorandolo:
lui non ha battuto ciglio, ma ne ha dedotto che non avrebbe potuto rimanere
a lungo in quella situazione senza che venisse dato l'allarme.
Ha riflettuto: il giorno dopo sarebbe stata domenica, non gli riusciva difficile
calcolarlo prendendo come punto di riferimento la partenza dal campo, che era
avvenuta un mercoledì sera. Dunque, l'indomani mattina avrebbe potuto
star tranquillo, ma nel pomeriggio il pericolo sarebbe venuto dall'abitudine,
propria dei tedeschi, grandi e piccoli, di andare a spasso per i boschi.
E’ venuta la sera, poi la notte. La guardia ferroviaria col bracciale
non aveva smesso di andare su e giù. Per tutta quella giornata non vi
è stato nessun allarme, neanche il minimo ronzio di motore nel cielo.
- No, no...
La luna, una grossa luna color di brace, ha diffuso uno strano chiarore sul
paesaggio. Dei colpi sono risuonati in lontananza:
- Sono ancora ad almeno quaranta o cinquanta chilometri. I cani, se me li sguinzagliano
dietro, mi troveranno molto prima del loro arrivo. Bisognerebbe muoversi, andar
loro incontro, ma, prima di tutto, in che direzione?
Stava per essere assalito dalla disperazione quando un allarme venne a infondergli
coraggio. Per ore ed ore gli aeroplani volteggiarono sopra di lui e lasciarono
cadere bombe nelle sue immediate vicinanze: tranquillamente, senza essere minimamente
disturbati o inseguiti, né presi nel fuoco della difesa contraerea. Poi
sono partiti, poi altri sono tornati: un via-vai continuo, fino all'alba.
Un allarme, un allarme vero, di quelli buoni!
- Però, questa volta...
Ecco il giorno, una nebbia che si dirada rapidamente sotto un sole senza esitazioni
- subito un bel cielo sereno: un cielo di domenica, un vero cielo di vera domenica,
di vera primavera.
Saranno state le dieci del mattino quando infine cominciò lo scompiglio.
***
- “Tac!... Tac!... Tacatacatacatac!... Tac!...” Ha valutato la distanza:
quattro o cinque chilometri al massimo. Viene dalla parte del campanile, da
un po' più in là.
- “Toc! Toc... Toc! Toc toc! Toc toc!”
Poi un gran frastuono:
- “Bum! Bum! Bum! Bum!” Il cannone: i proiettili non cadono molto
lontano ma ancora al di là del villaggio.
- “Bum!... Bum!... Bum, bum...” Un intervallo... “Bum!...
Bum!...” Un altro intervallo. “Bum! Bum! Bum!... Bum! Bum!... Bum!”
I colpi arrivano dritti verso di lui, il tiro è regolare, netto, sonoro.
Bisognerà provvedere.
Una esplosione tremenda lacera l'aria dietro di lui, quasi sopra di lui.
- “Brr.. um!”
Poi un'altra:
- “Brr.. um!”
Sembra che gli si spacchino i timpani.
- “Brr.. um!... Br..um!”
Non si ferma più. E da laggiù fa eco:
- “Bum!... Bum!... Bum!...”
Il sole è magnifico, radioso, la campagna deserta, l'uomo col bracciale
è sparito. Più nessuno: è solo.
- “Brr.. um!... Bum,bum,bum... Brrum!”
Viene a trovarsi nell'asse del tiro che la ferrovia taglia quasi perpendicolarmente;
i tedeschi ripiegano su questa: tenteranno di difenderla ma non resisteranno
a lungo, e allora si ritireranno sulla foresta dove faranno alt. Sulla foresta,
cioè su di lui. Lo troveranno.
- No, non si può rimanere qui!
Si alza. Discende il pendio dirigendosi a sinistra per uscire dalla linea di
tiro. Non trascina quasi più la gamba, la terra è secca, il suolo
è duro, lui è in possesso di tutte le sue facoltà.
Sta per concludersi l'ultimo atto della tragedia, non farà passi falsi,
è sicuro di sé, discende:
- Né troppo vicino al binario, né troppo vicino alla foresta,
decide.
E il duello prosegue:
- “Bum!... Bum!... Buni!... Bum!...”
- “Brr... um!... Brr.. um!... Bum!... Bum!...”
I tiri si allungano ancora: ora cadono sulla strada.
Vede l'erba schizzar via a fasci nel fumo, in una lunga traiettoria che taglia
il binario obliquamente. Sente l'odore delle granate.
- Accidenti! Bisogna stendersi a terra!
Avrebbe voluto andare più in là, ma... Ecco un cespuglio isolato
a portata di mano:
- Cattivo rifugio.
E sceglie il solco profondo che separa due appezzamenti a quindici passi davanti
a lui; vi si rannicchia.
- Zz... Bum!... Zz... Bum!
Era ora! La sparatoria fischia di sopra, cade tutt'intorno, il tuono che dietro
di lui aveva taciuto ora riprende e i colpi sono più sordi, più
lontani:
- Arretrano!
E mentre gli americani allungano il tiro i tedeschi lo accorciano, seguono l'avanzata
a ritroso... Tutto ad un tratto si trova come al centro di uno spaventoso terremoto,
in una nuvola di fumo, ferro e terra.
E’ quasi tutto ricoperto di terriccio e si chiede per quale miracolo non
sia stato polverizzato.
Tra il rombo di due tuoni azzarda un'occhiata al di sopra del suo solco: forme
grigie attraversano il binario l'una dopo l'altra, a rapidi salti... Si distendono
sulla scarpata: un tiro... Una distesa, un tiro!... Una distesa, un tiro!...
Oplà!...
Quindici passi indietro... Oplà! Oplà!... Si direbbe che si diano
la voce, saltando a turno.
Indietreggiano verso di lui, cercano di allontanarsi dal terreno scoperto, di
raggiungere il bosco. Oplà!... Quindici passi indietro, un tiro... Oplà!...
- Purché uno non venga a distendermisi vicino o addirittura addosso!
Scoppia un tiro a meno di quindici passi sulla sua sinistra e un altro a meno
di cinque sulla destra. Non vede rispondere gli avversari.
- Santo Dio, ma su cosa sparano?
Il tiro dei cannoni si allunga un po', raggiunge la foresta, la supera di un
balzo. Gli scoppi si incrociano sopra di lui, laggiù altre forme grige
hanno saltato la ferrovia e avanzano verso la foresta: Oplà! quindici
passi avanti, Oplà!... Oplà! quindici passi avanti, clac... Oplà!...
- “Clac!... Clac!... Clac!... Clac!... Clac!...”
Un fuoco nutrito. Gli assaliti si indeboliscono, la risposta che parte dalla
foresta si fa sempre più debole, finisce con lo spegnersi del tutto.
E ad un tratto un clamore immenso:
- Urrà!... Urrà! Urrà!...
I cannoni continuano, i loro colpi si fanno sempre più sordi, si allontanano
sempre di più, ma i fucili e le mitragliatrici tacciono.
- Urrà!... Urrà!... Urrà!...
Parte da tutti gli angoli dell'orizzonte, echeggia sempre più vicino,
non finisce più.
- Urrà!... Urrà!... Urrà!...
Si è alzato un nugolo di uomini con il mitra in pugno. Poco prima, quelli
che fuggivano erano poche decine, un centinaio al massimo: questi sono almeno
un migliaio. Come obbedendo ad una stessa imperiosa attrazione, si dirigono
tutti, si concentrano su di uno stesso punto.
- Urrà... a... a...ah!
Vanno di qua e di là, camminano, corrono... La fine del dramma li ha
inebriati tutti. Quanto a lui, nessuno l'ha visto: ne è contento, non
si sa mai cosa può accadere in questi momenti di eccitazione. Ha cura
che la sua persona non si riveli troppo presto e aspetta che le acque si calmino.
Finalmente osa fare una mossa.
Si siede. A ottocento metri degli uomini nervosi, una quindicina appena - gli
altri debbono essere penetrati nel bosco - fanno la spola, di guardia, col mitra
all'erta. Davanti ad essi, rigidi con la schiena rivolta alla foresta, stanno
allineati altri uomini, le mani sulla nuca. Altri ancora, con le braccia alzate
che reggono un fucile, sorvegliati da vicino, si presentano uno a uno, gettano
a terra le armi, si disarmano completamente e vanno a prender posto nella fila.
- Filate! Svelti!
Uno di loro troppo lento, viene richiamato alla sua condizione da un colpo di
stivale ben piazzato. Un altro, da un calcio di un fucile. Un terzo ha tentato
di discutere, di tergiversare, forse di protestare. “Cra-a-ac!”
Un mitra gli si è scaricato sul petto all'istante. Ancora qualche pugno,
qualche colpo di stivale, di calcio di fucile, e il convoglio è pronto.
Avanti verso il campanile!
gruppo passa proprio alla sua altezza, a un centinaio di metri. I prigionieri,
in file di cinque, completamente disarmati, con le giacche aperte, le scarpe
slacciate e le mani dietro la schiena, avanzano, impacciati, silenziosi e obbedienti.
Ai fianchi un cordone armato di sette-otto uomini li sommerge di parole di irrisione
e di avvertimenti. Lui giudica buono il momento di rivelarsi e si alza di colpo:
- Ohè!... Ohè!...
Leva un braccio in un gesto di richiamo.
Non c'è voluto molto: il gruppo ha fatto stop, quattro uomini se ne sono
distaccati a passo di corsa e, prima che egli avesse tempo di rendersene conto,
si è trovato quattro mitra appoggiati al petto e alla schiena. Pensa:
- Almeno posso esser certo che così non sparano.
Le domande si incrociano, minacciose, in una lingua che non capisce. E dice:
- “French man” (6).
E’ tutto quello che sa di inglese e per di più non è sicuro
che sia corretto.
Gli uomini lo squadrano con grandi occhi stupiti e diffidenti.
Non hanno capito. Allora dice ancora:
- “Français”!
Peggio che mai. Tenta allora la sua ultima risorsa:
- “Französiche Häffing (7)... Franzous!”
Questa volta ci siamo. Uno dei quattro mitra si abbassa:
- “Was?”
Brevemente, a frasi mozze, si spiega e si accorge di trovarsi alla presenza
di un tedesco, due spagnoli e uno jugoslavo per i quali un gergo italiano costituisce
una lingua comune.
Finalmente ha capito, tutti i mitra si abbassano, gli vien tesa una fiasca.
Beve: Un liquido acre, freddo, che vuole sputar fuori.
Fa una smorfia:
- “Kaffee”, dice il tedesco, “gut Kaffee!” E tutti si
mettono a tirar fuori biscotti secchi - duri, duri, oh, come duri! -, cioccolata,
scatolette, sigarette... Sigarette...
- Prima di tutto, una sigaretta.
Ma non si deve perder tempo:
- “Schnell”, dice il tedesco, “Wir müssen”... Si
sono resi conto del suo stato. In due - lo hanno voluto fare in due -, se lo
sono issati sulle spalle e, come un trofeo vivente, lo riportano, ridendo, verso
il gruppo che aspetta.
- “Sing-sing?” (8) domanda uno dei ragazzi della scorta.
- “Yes”, risponde, ma nessuno gli fa eco, perché c'è
un solo inglese - o americano - nel gruppo. Truppe d'assalto, pensa, brigata
internazionale, e ricorda la guerra di Spagna.
Nella sera che cala, la piccola schiera si è rimessa in marcia verso
il campanile, mentre lui, adesso, raccogliendo bene la saliva, sgranocchia adagio
biscotti e cioccolata, mentre con difficoltà si tiene in equilibrio sulle
spalle di due uomini di differente statura.
Le irrisioni, gli avvertimenti, come pure le bestemmie ricominciano a piovere
sui prigionieri i quali avanzano, sempre docili, sempre impacciati, con le scarpe
slacciate, il capo chino e le mani intrecciate alla nuca:
- Porco Dio! (9)... “Gott Verdammt!”...
Ogni tanto il tedesco prende la parola:
- “Du!... Blöder Hund!... Du...” E indica un prigioniero.
Poi, estraendo una pistola dalla fondina e girandosi verso il prigioniero che
è stato liberato gli chiede:
- “Muss ich erschiessen?” (10)
Quello sgrana due grandi occhi atterriti e supplichevoli, spiando la risposta:
è un sorriso neutro, rassegnato.
- “Du hast Gluck!... (11) Mensch! Blöder Hund!...” E sputa
con disprezzo: “tt!... Lumpe!” (12)
Le parti si sono rovesciate.
Di sarcasmi in sarcasmi, di derisione in derisione, di minacce in minacce, il
corteo dei vincitori trionfanti e dei vinti disfatti fa il suo ingresso nel
villaggio ancora prima che sia notte. Sono passati davanti ad una stazioncella,
precisa identica ad un'altra che lui conosce tanto bene, a cavallo tra la Franca
Contea e l'Alsazia. Sulla facciata ha letto Munschlof in caratteri gotici. Hanno
attraversato un passaggio a livello. L'hanno deposto a terra, si sono distaccati
con lui dal gruppo e poi, lentamente, aiutandosi l'un l'altro, si sono messi
in marcia nel fracasso assordante di imponenti macchine da guerra le quali,
in tutta fretta e con tutti gli artigli fuori, attraversano il villaggio, deserto
benché intatto, per portarsi su nuove posizioni.
***
Spesso i deboli, i depressi, coloro che sono stati per lungo tempo sottratti
alla vita del mondo sono, come i nervosi e gli ammalati, di una sensibilità
estrema e questa sensibilità si manifesta invariabilmente alla rovescia.
Urtato, egli lo fu sin dalle prime prese di contatto con la libertà.
Prima dal comandante, poi quando ritrovò il convoglio, poi ancora nella
villa dove passò due notti.
Strano tipo, quel comandante: l'inglese, il tedesco, l'italiano, il francese,
tutte le lingue sembravano la sua. E poi, quel tono, quel modo di fare:
- Prima di tutto, amico mio, scegliere un alloggio, mangiare, ristorarsi, riposarsi,
un buon letto. Poi, si vedrà... Bussi alla prima porta che le pare adatta...
no, no, senza i miei uomini, non hanno tempo, li lasci in pace, adesso, i miei
uomini. Bussi, se le aprono, si faccia dare da mangiare - caldo, ha bisogno
di qualcosa di caldo. Noi le daremo una piccola aggiunta, fredda, s'intende...
Se non le rispondono, entri lo stesso, e ci sia o non ci sia qualcuno è
lo stesso, faccia come se fosse a casa sua, ché quelli lì sono
tutti servi nostri, adesso tocca a loro... E che si comportino bene! No, niente
paura, alla minima mancanza di riguardo... capito, eh? Torni da me domani. Intanto...
Non è mica ferito? Ammalato? Eh, si sa, debole, soltanto debole. Dunque,
a domani. E guardi se riesce a trovare un paio di scarpe là... e un altro
smoking!
L'indomani era tornato. Seduto sulla scalinata in una comoda poltrona, il comandante
faceva il bello con due graziose personcine che ridevano a più non posso
e sembravano dispostissime a «comportarsi bene» nel senso militare
dell'espressione quando si riferisce ai civili dell'altro sesso.
- La femmina subisce sempre ridendo la legge del vincitore, rifletté.
In Francia nel '40... Figlie di Colas Breugnon, tutte.
E l'altro, subito:
- Ah! Eccola qua! Senta un po', lo sa che da ieri sera ho ereditato un bel po'
di gente come lei: è dall'alba che i miei uomini non fanno altro che
trasportarli all'“Arbeitsdienst” (13)... Sant'Iddio, che me ne faccio?
Un treno, sono, addirittura un treno! E io sono senza mezzi per trasportarli
nelle retrovie! Creperanno tutti, parola d'onore, creperanno tutti! Allora,
mi dica, com'era la pensione dove è stato?... Ah! Sporcaccioni! Non se
la prenda, bello mio, quelle due sgualdrine lì...
- Bene, riprese... Può camminare? Allora non ci vada all'“Arbeitsdienst...”
Verso ovest, amico mio, verso ovest. Evaso, arrivato in terra amica con mezzi
propri... Convenzione dell'Aja, deportato, priorità... La prima ambulanza
che trova, le faccia cenno... In otto giorni è a Parigi... Tutti i diritti,
le dico. Le daremo dei viveri per il viaggio. Ma come, da ieri sera non ha trovato
altro? Vecchio mio, farà paura alle ragazze, per strada! Ma non c'era
proprio nulla, dove ha dormito? Santo Dio, abbiamo vinto la guerra! Dio mio,
quant'è buona quella! Oh! questi francesi, non impareranno mai nulla...
Franz!
Qualche parola in gergo anglo-tedesco con un piantone:
- “Also, bye bye! (14)...” Segua la guida, le darà un po'
di provvista. Buona fortuna, però... la prossima volta cerchi di far
meglio le cose!
Abbondantemente zavorrato di scatolame, zucchero, cioccolato, biscotti, sigarette
eccetera che non sapeva dove mettere, si era ritrovato fuori: voleva vedere
e si diresse verso la stazione.
Delle persone, civili e militari, andavano e venivano sui marciapiedi, parlavano
in fretta fra loro, indaffarate. Fecero largo al suo passaggio: l'abito che
indossava gli valeva una specie di considerazione. Gli uomini, a squadre, tiravano
delle carrette, dei corpi semivestiti e coperti di cenci, scarni, sporchi, barbuti,
fangosi, e i civili, impietositi e inorriditi, aiutavano e guardavano. I cadaveri
venivano allineati sul margine della ferrovia, dopo che ne erano stati rilevati
i numeri, quando ancora ce ne erano su quei miseri stracci. Cercò di
vedere se fra i morti ci fosse qualche volto conosciuto. Due uomini, civili
tedeschi, giunsero trasportando un lungo corpo magro:
- “Kaputt!” diceva uno; “nein”, ribatteva l'altro, “atmet
noch...” (15)
E riconobbe Barray: Barray!
Barray era un ingegnere di St. Etienne: al campo avevano dormito insieme, sullo
stesso pagliericcio, per tre settimane, erano diventati amici; se usciremo,
si erano promessi, ci scriveremo.
Da uno scampato apprese che lo sventurato era finito sotto i colpi dei detenuti
tedeschi perché nel delirio della fame, del freddo e della febbre aveva
intonato la “Marsigliese”. Le S.S. avevano assistito al dramma,
con un bel sorriso, trovando che era assai più divertente della monotona
e rituale revolverata.
- Barray!... che sfortuna!, disse fra sé.
E si allontanò, riflettendo che vi è davvero una fatalità
nelle cose e che spesso nella vita si avverano certe premonizioni: da almeno
quindici giorni Barray non aveva fatto altro che scommettere e riscommettere
che per la Domenica in Albis sarebbero stati liberi. Decise di scrivere alla
vedova e ai bambini: ne avevano parlato tante volte insieme, la sera, prima
di addormentarsi.
Lo scampato - diceva proprio: lo scampato - gli raccontò la storia del
convoglio... Sabato mattina, due chilometri dopo la stazione, si era fermato.
Le S.S. avevano fatto scendere in fretta tutti gli uomini validi, li avevano
raggruppati in una lunga colonna che non finiva più e che si era dispersa
in ogni direzione fra le urla dei cani e i colpi assassini di armi da fuoco.
Avevano lasciato lì i morti, i moribondi e tutti quelli che, grazie allo
scompiglio generale, avevano avuto la fortuna di passare per tali. Evidentemente,
erano troppi e le S.S. non avevano tempo di ucciderli uno a uno - il tempo o
voglia (16).
Proseguì la sua ispezione. In un vagone tutto aperto, del quale nessuno
si curava, dei tronchi viventi, tremanti nonostante il gran sole, emergevano
da un mucchio di morti; si stringevano su stessi, contro un freddo che essi
soli sentivano.
- Che aspettate?
- Ma... aspettiamo di crepare, non vedi?
- Eh?
- Boh!... siamo ancora quattordici vivi, ma gli altri sono morti, aspettiamo
la nostra volta...
Non riuscì a capire il loro poco attaccamento alla vita.
- Hanno mollato, pensò, non vale la pena occuparsene. Sono già
dall'altra parte e ci si trovano bene. Ricevevano la vita come una punizione
che avrebbero avuto fretta di vedersi tolta.
E passò oltre, indifferente. Quanti ne aveva visti, al campo, di questi
esseri che si trascinavano dietro una specie di fatalità e che non si
potevano mai incontrare senza pensare che erano già morti, che il loro
cadavere sopravviveva, in qualche maniera, a se stesso... Non si lasciavano
mai sfuggire l'occasione di attaccar discorso e di cantarti la tiritera che
fra due mesi la guerra sarebbe finita, che gli americani erano qui, i russi
là, la Germania in rivoluzione, eccetera.. Quanto erano noiosi, irritanti.
Un bel giorno non li si vedeva più: i due mesi erano trascorsi, non avevano
visto nulla e si sentiva dire che avevano «mollato», come si usava
dire, cioè si erano lasciati morire alla data prefissata.
Questi qui, però, «mollavano» al limitare, i due mesi terminavano
lì, il giorno della libertà. Ma per esperienza sapeva che ormai
non c'era più nulla da fare.
Però, due passi più in là, lo assalì un rimorso:
- Ragazzi, non restate così, ci sono gli americani che vuotano il vagone
accanto, stanno per arrivare qui da voi. Vi daranno da mangiare, e lì,
nel villaggio, c'è un ospedale.
Non gli credettero, ma si sentì la coscienza a posto.
Dieci, dodici, quindici vagoni, di morti, di moribondi.
- Morire lì!... Venire a morir lì!
In coda al treno, ecco i viveri: sacchi di piselli, di farina, scatole di conserve,
pacchetti di ogni genere di “ersatz”, alcoolici, birra, liquori,
e poi abiti, scarpe, accessori, eccetera.
Prese uno zaino da soldato e un paio di scarpe italiane in tela, con la suola
piatta, che gli stavano a meraviglia, poi partì, con la fretta di lasciarsi
dietro tutta quella miseria.
Però volle vedere ancora il campo dell'Arbeitsdienst, a due passi da
lì, dove il comandante gli aveva detto che venivano trasportati quelli
ancora vivi: un grande spiazzo circondato da costruzioni in legno, in cui degli
scheletri andavano e venivano, premendosi le mani sugli intestini che si torcevano,
qua e là dei cadaveri... Cinque o seicento, erano. In mezzo a loro degli
infermieri premurosi si davano da fare, correvano dall'uno all'altro, si sforzavano
invano di far loro capire che dovevano fare i bravi e star distesi sui pagliericci
all'interno delle baracche. Fra quegli esseri, rari erano quelli che avevano
serbato negli occhi la volontà e nel cuore il gusto della vita. Quelli
che ancora sarebbe stato possibile salvare cominciavano a morire di dissenteria
perché, respingendo i suggerimenti, si erano gettati troppo ingordamente
sui viveri che venivano loro distribuiti in abbondanza: mangiavano e poi provavano
un gran bisogno d'aria, volevano partire, e andavano a morire nel cortile...
No, no, quello non era posto per lui. Prima di tutto, si era ancora troppo vicini
al fronte, si sentivano ancora troppo bene i colpi frequenti dei cannoni. Sarebbe
partito. Magari, far tutta la strada a piedi: evocò il ritorno di Ulisse...
S'incamminò verso la villa dove aveva dormito il giorno prima e dove
l'attendeva un altro dispiacere. Strada facendo trovò un soldato americano
alla porta di un magazzino agricolo; e questi, divertito, volle radergli la
barba.
Per l'esattezza, non di una villa si trattava, ma di una casetta che poteva
essere di un ingegnere o di un pensionato, come ce ne sono tante in Francia,
col cancelletto e il giardino tutt'intorno. Il giorno innanzi l'aveva trovata
deserta, con tutte le porte spalancate. In cucina, la tavola non era stata nemmeno
sparecchiata: in un piatto c'era del formaggio bianco e in un altro della marmellata
- la marmellata dei tedeschi! Nella sala da pranzo, gli armadi avevano i battenti
aperti, la biancheria e oggetti vari a profusione stavano disposti sul sofà,
sulla tavola, sulle sedie, tutto alla rinfusa - mentre lì accanto un
baule col coperchio aperto sembrava aspettare. La camera da letto era in un
ordine perfetto. Là dentro aveva respirato la preoccupazione solo di
ieri di gente benestante che aveva sperato fino all'ultimo e aspettato l'ultimo
istante per partire.
- Non debbono essere lontani, pensò, torneranno da un momento all'altro.
Aveva dormito nel grande letto della camera, e il mattino aveva fatto il pigro
fumando una sigaretta. Nel calore delle lenzuola, sotto un fascio di luce che
rimbalzava sui mobili laccati, si era stiracchiato. Nel lasciare quella casa,
verso le dieci, per recarsi dal comandante, aveva pensato a quel che gli era
accaduto nel 1940, quando, ripiegando dall'Alsazia, aveva voluto passare un'ultima
volta da casa sua. Si rivedeva, con una matita in mano, sul punto di scrivere
un biglietto che aveva pensato di attaccare alla porta, senonché, all'ultimo
momento, una specie di fierezza che lui stesso aveva sempre giudicato fuori
posto lo aveva trattenuto: «Servitevi di tutto, non rubate nulla, non
rompete nulla. Non vendicatevi sulle cose per quello che avete da rimproverare
agli individui... Non fate pagare agli individui quello che credete essere l'errore
della collettività». Qui, ricordando queste cose, aveva preso dall'armadio
soltanto lo stretto necessario: una camicia, un paio di pantaloni, un fazzoletto
e, da sotto la credenza di cucina, quei sandali uso cuoio che avevano fatto
tanto ridere il comandante. Aveva perfino superato una fortissima tentazione
quando, all'ultimo momento, prima di uscire, passando, in giardino, davanti
al garage, aveva sollevato una tenda che nascondeva una meravigliosa Opel.
Adesso, tutto era sparito, la meravigliosa Opel non c'era più, i mobili
erano sventrati, la biancheria rubata, i piatti e i bicchieri rotti.
- E io che mi son fatto tanti scrupoli, pensò. La guerra, oh, la guerra!
Sul comodino, una sveglia che aveva notato il giorno prima, vi era rimasta come
per miracolo. Segnava le 18 e 30.
Si buttò tutto vestito sul letto e si addormentò.
***
L'indomani mattina, di buon'ora, col sole già alto, si mise in cammino...
Il rombo dei cannoni correva ancora nell'aria; dietro di lui, le potenti macchine
da guerra continuavano ad andare alla riscossa... All'uscita del villaggio,
davanti ad una casa che stava un po' in disparte, alcuni civili facevano cuocere
qualcosa in un calderone posato su due pietre: erano lì in una dozzina,
vestiti male, mal lavati, con la barba lunga, sporchi, e ne vide uno che ogni
tanto prendeva un libro da un mucchio per buttarlo sul fuoco. Incuriosito, si
avvicinò: erano belgi e olandesi, già mobilitati per il servizio
di lavoro obbligatorio: i libri quelli della “Hitler-Jugend-Bucherei”
(17)...
Diede un occhiata ai titoli: “Kritik über Feuerbach, Die Räuber”,
di Schiller, “Kant und der Moral”, Goethe, Hölderlin, Fichte,
Nietzsche, eccetera erano tutti lì, come in un tragico appuntamento,
frammisti ad altri signori di meno nobile lignaggio, i Goebbels, gli Streicher,
in attesa che si decidesse la loro sorte. La carta era bella, la legatura modesta,
la presentazione accurata: aveva sempre avuto un debole per libri di qualsiasi
sorta. Ne vide uno, “Du und die Kunst”, di un leader nazionalsocialista.
Meccanicamente lo aprì: c'era una riproduzione a colori de “La
libertà che guida i popoli”, di Delacroix. Sfogliò, più
attento: dei fiori di Monet, un dettaglio di Renoir, la “Gioconda”,
“Madame Récamier”, il “Martirio di S. Sebastiano”...
Il contrasto con l'inferno dal quale usciva gli fece male, chiese il permesso
di prendere quel libro che, pure, era frutto di quella civiltà che era
stata così crudele per lui e che meraviglierà e scandalizzerà
il mondo fino alla consumazione dei secoli. Con un sorriso e una battuta di
spirito, il permesso gli fu concesso. Certo, era difficile da capire.
Riprese la direzione dell'Ovest con il presentimento che non avrebbe mai incontrato
un'ambulanza ben disposta e che avrebbe dovuto far tutta la strada a piedi...
Di colpo si sentì alla soglia di una nuova avventura, e avrebbe desiderato
che, quantunque in altro tempo e sotto un altro cielo, essa assomigliasse a
quella di Ulisse che egli aveva evocato ieri.
Davanti a lui vide strade, contadini nei campi, cespugli in fiore, alberi pieni
di gemme, fattorie, gente che gli domandava la sua storia e alla quale lui volentieri
la raccontava, strade e ancora strade, e, laggiù, al di sotto di quell'orizzonte
di miraggio, una casetta tra le piante di tuia, alla periferia di una cittadina.
Nel cortiletto, un fanciullino che aveva sempre due anni e che giocava con la
sabbia alzava gli occhioni meravigliati vedendolo arrivare nel suo abito di
galeotto... La lingua gli si sbloccò:
- Come ti chiami, piccino? Dov'è la tua mamma?
E pianse.