L'ESPERIENZA DEGLI ALTRI.
1.
La letteratura concentrazionaria.
Venuto il momento di mettere l'esperienza degli altri, quale essi dicevano
di averla vissuta, su una linea parallela alla mia, mi trovai in una disposizione
di spirito che il lettore capirà facilmente.
Anche al campo tutte le conversazioni che i rari istanti di tregua ci permettevano
erano concentrate su tre argomenti: la probabile data della cessazione delle
ostilità e le probabilità che avevamo individualmente o collettivamente
di sopravvivere, le «ricette di cucina» per i giorni immediatamente
futuri, e quelli che si potrebbero chiamare i «pettegolezzi» del
campo, se la parola avesse qualche rapporto con la tragica realtà che
stava ad indicare. Nessuno dei tre argomenti ci offriva grandi possibilità
di evasione dalla condizione del momento. Al contrario, tutti e tre, separatamente
o insieme, a seconda del tempo del quale disponevamo per fare il giro del nostro
ristretto universo, al minimo tentativo di evasione ci riportavano alla nostra
condizione, con la velata allusione di un «Quando si racconterà
questo...», pronunciata con un tale tono e puntualizzata negli sguardi
da un tale bagliore che ne rimanevo spaventato. Confessando in qualche modo
la mia impotenza a combattere, al di sopra dell'ambiente, queste rapide crisi
di coscienza, mi ripiegavo su me stesso trasformandomi in testimone ostinatamente
silenzioso.
D'istinto mi sentivo riportato all'indomani dell'altra guerra, ai vecchi combattenti,
ai loro racconti e a tutta la loro letteratura. Senza dubbio, questo dopoguerra
avrebbe avuto, in sovrappiù, dei vecchi prigionieri e vecchi deportati
che avrebbero fatto ritorno ai loro focolari domestici con ricordi ancora più
orrendi. Vedevo la via libera all'anatema e allo spirito di vendetta. Nella
misura in cui mi era possibile distaccare la mia sorte personale dal grande
dramma in corso, tutti gli Armagnacchi e tutti i Borgognoni della storia, riprendendo
le loro contese dal principio, si mettevano a ballare davanti ai miei occhi
una sarabanda sfrenata, in uno scenario ingrandito a scala europea. Non arrivavo
ad immaginare che questa tradizione di odio che vedevo nascere proprio sotto
i miei occhi potesse venire arginata, quale che fosse l'esito del conflitto.
Se cercavo di misurarne le conseguenze, mi bastava pensare che avevo un figlio
per arrivare, non solo a domandarmi se non sarebbe stato meglio che nessuno
tornasse, ma anche a sperare che le istanze superiori del Terzo Reich si rendessero
presto conto che non potevano più ottenere perdono se non offrendo, in
un immenso e terribile olocausto, ciò che restava della popolazione dei
campi, in redenzione di tanto male. In questa disposizione di spirito, avevo
deciso che, se fossi tornato, avrei dato per primo l'esempio: e giurai di non
far mai la minima allusione alla mia avventura.
Per un tempo che anche a distanza mi sembra molto lungo mantenni la parola:
e non fu facile.
Prima dovetti lottare contro me stesso. A questo proposito non dimenticherò
mai una manifestazione che, nei primissimi tempi, i deportati avevano organizzato
a Belfort per celebrare il loro ritorno. Tutta la città si era scomodata
per venire a sentire e raccogliere il loro messaggio. La sala immensa della
Casa del Popolo era piena come un uovo. Davanti, la spianata era nera di folla.
Era stato necessario sistemare degli altoparlanti perfino nelle strade. Lo stato
della mia salute non mi aveva permesso di assistere a questa manifestazione
né come oratore né come ascoltatore e il mio dispiacere era grande.
Fu più grande ancora l'indomani, quando i giornali locali dettero la
prova che con tutto ciò che era stato detto era assolutamente impossibile
costruire un messaggio di una qualche validità. Le apprensioni che avevo
avuto al campo erano giustificate. La folla, del resto, non si lasciò
ingannare: in prosieguo mai più fu possibile riunirla allo stesso scopo.
Dovetti anche lottare contro gli altri. Ovunque andassi, si trovava sempre,
tra la pera e il formaggio o davanti alla tazza di tè, una distinta pettegola
in cerca di emozioni rare o un amico benevolo che credeva farmi cosa gradita
attirando l'attenzione su di me e portando la conversazione sull'argomento:
«E vero che...? Crede lei che...? Cosa pensa del libro di...?».
Tutte queste domande, quando non erano ispirate da una curiosità malsana,
tradivano visibilmente il dubbio e il bisogno di fare confronti. Mi infastidivano.
Sistematicamente tagliavo corto, cosa che non mancava di provocare, alle volte,
giudizi severi.
Me ne rendevo conto e, se accadeva che ne provassi risentimento, ne facevo responsabili
i miei compagni di sventura, scampati come me, che non la finivano più
di pubblicare racconti spesso fantasiosi, nei quali si atteggiavano volentieri
a santi, a eroi o a martiri. I loro scritti si ammucchiavano sul mio tavolo
come tante sollecitazioni. Convinto che si avvicinassero i tempi in cui sarei
stato costretto ad uscire dal mio riserbo e a fare io stesso in modo che i miei
ricordi perdessero il loro carattere di santuario vietato al pubblico, mi sono
sorpreso più di una volta a pensare che le parole attribuite a Riera
(2), secondo cui, dopo ogni guerra, bisognerebbe uccidere senza pietà
tutti i vecchi combattenti, meriterebbero qualcosa di più e di meglio
della semplice sorte di un paradosso.
Un giorno mi accorsi che l'opinione pubblica si era formata un'idea falsa dei
campi tedeschi, che il problema concentrazionario restava intatto nonostante
tutto quello che ne era stato detto e che i deportati, anche se non godevano
più del minimo credito, avevano nondimeno contribuito molto a sospingere
la politica internazionale su vie pericolose. La questione usciva dall'ambito
dei salotti. Ebbi ad un tratto la percezione che, ostinandomi a tacere, mi sarei
reso complice di una cattiva azione. E, tutto d'un fiato, senza alcuna preoccupazione
di ordine letterario, nella forma più semplice possibile, scrissi il
mio “Passage de la Ligne” per rimettere le cose a posto e tentare
di portar la gente al senso dell'obiettività e a una nozione più
accettabile dell'onestà intellettuale.
Oggi, gli stessi uomini che hanno presentato i campi di concentramento tedeschi
al pubblico gli presentano quelli russi tendendogli gli stessi tranelli. Da
questa impresa è nata fra David Rousset da una parte, e Jean-Paul Sartre
e Merleau-Ponty dall'altra, una controversia nella quale tutto non poteva essere
che falso, dato che essa poggia essenzialmente sul paragone tra le testimonianze
forse inattaccabili - dico forse - dei reduci dai campi russi e quelle, che
assolutamente non lo sono, dei reduci dai campi tedeschi. Senza dubbio, non
v'è alcuna possibilità di riportare questa controversia sui binari
che avrebbe dovuto seguire. Il guaio è fatto: gli antagonisti obbediscono
a imperativi molto più categorici di quanto lo sia la stessa natura delle
cose sulle quali disputano.
Ma è permesso pensare che le future discussioni intorno al problema concentrazionario
guadagnerebbero in pregio se avessero come punto di partenza una revisione generale
degli avvenimenti di cui i campi tedeschi furono teatro, attraverso la massa
di testimonianze che hanno suscitato. Raggiunta questa convinzione, l'idea mi
obbligava a riunire e a pubblicare i primi elementi di questa revisione. Così
si spiega e si giustifica questo mio “Sguardo sulla letteratura concentrazionaria”.
***
L'esperienza dei combattenti dell'altra guerra, ancora così fresca per
essere stata inutile, offre anch'essa la possibilità di un parallelo
che ritengo probante.
Essi erano tornati con un gran desiderio di pace, giurando per tutti i santi
che avrebbero fatto di tutto perché fosse «l'ultima delle ultime».
Si fu loro grati, si dimostrò loro una riconoscenza che non era esente
da una certa ammirazione. Nella gioia, nella speranza e nell'entusiasmo, un'intera
nazione fece loro un'accoglienza piena di affetto e di fiducia.
Tuttavia, alla vigilia di questa guerra, essi erano molto discussi. Le loro
testimonianze erano abbondantemente commentate in varie guise e il meno che
si possa dire è che l'opinione generale non era tenera nei loro riguardi,
per quanto essi se ne siano appena accorti e non se ne siano affatto preoccupati.
Spesso, però, fu ingiusta. Se sceverò tra i loro discorsi e i
loro racconti, si traduceva però in giudizi definitivi che avevano in
comune la disinvoltura. Sogghignando dei primi, diceva che si trattava degli
inevitabili chiacchieroni - era proprio questa la parola che usava - i cui ricordi
asfissiavano tutte le conversazioni, o dei capi di associazioni distrettuali
e nazionali la cui missione sembrava limitata ad una rivendicazione domenicale.
Sui secondi, essa era altrettanto categorica, e vi era una sola testimonianza
a cui prestasse fede: “Le Feu”, di Barbusse. Quando, nei suoi rari
momenti di benevolenza, le accadde di fare un'eccezione, fu per Galtier-Boissière
e per Dorgelès, ma per un altro motivo: per il pacifismo beffeggiatore
e impenitente del primo e per il realismo che riuscì ad assimilare dell'altro.
Chi potrà dire le ragioni precise di questo capovolgimento?
A mio avviso, tutto si inserisce in questa verità generale: gli uomini
sono molto più preoccupati dell'avvenire, che li attira, che non del
passato, dal quale non hanno più nulla da attendersi, ed è impossibile
fermare la vita dei popoli su un avvenimento, per straordinario che esso sia,
e, a più forte ragione, su una guerra, fenomeno che perde d'interesse
giorno dopo giorno e che passa sempre di moda molto rapidamente.
Alla vigilia del 1914 mio nonno, che non aveva ancora digerito la guerra del
1870, la raccontava ogni domenica a mio padre, il quale sbadigliava di noia.
Alla vigilia del 1939 mio padre non aveva ancora finito di raccontare la sua,
e, per non essere da meno, ogni volta che cominciava a parlare io non potevo
impedirmi di pensare che Du Guesclin (3), se fosse risorto tra noi con la fierezza
delle gesta che traeva dalla sua balestra, non avrebbe potuto essere più
ridicolo.
Così le generazioni vengono ad opporsi nei loro concetti. E si oppongono
anche nei loro interessi. A proposito di ciò, a titolo di cronaca dirò
che nel periodo trascorso fra le due guerre le generazioni che erano in ascesa
sentirono che per loro era impossibile tentare il minimo slancio verso la realizzazione
del loro destino senza urtare contro il vecchio combattente con le sue pretese
e con i suoi diritti preferenziali. A lui erano stati riconosciuti dei «diritti
su di noi». Egli ne approfittò per reclamarne senza tregua degli
altri. Ora, ci sono dei diritti che perfino il fatto di aver sofferto per una
lunga guerra e di averla vinta non conferisce: in particolare, quello di essere
il solo dichiarato abile a costruire una pace, o quello, più modesto,
di passare sopra il merito degli altri, si tratti di una tabaccheria, di un
impiego di guardia campestre o di un concorso qualsiasi.
Il divorzio fu consumato senza speranza di ritorno negli anni Trenta, con la
crisi economica. Si aggravò verso il 1935, con la dimenticanza, da parte
degli uni, dei giuramenti che avevano fatto al loro ritorno, dell'estrema facilità
con la quale accettarono l'eventualità di una nuova guerra, e con la
volontà di pace da parte degli altri. E’ anche una legge dell'evoluzione
storica che le nuove generazioni siano pacifiste, che per loro tramite, nel
corso dei secoli, l'umanità si affermi progressivamente nella ricerca
della pace universale e che la guerra sia sempre, in una certa misura, il prezzo
del riscatto dalla gerontocrazia.
Premesso questo con la opportuna riserva, sembrerebbe anche che i vecchi combattenti
abbiano commesso un errore di ottica insieme ad un errore di psicologia. In
qualsiasi caso, dopo vent'anni di un'agitazione tenace e ininterrotta, i problemi
della guerra e della pace, essendo stati appena sfiorati, rimanevano immutati.
Bisogna però riconoscere un merito ai combattenti: hanno raccontato la
loro guerra quale essa veramente fu. Non c'è una delle loro parole che,
letta o sentita, non suoni profondamente vera o, per lo meno, verosimile. Il
che non si può certo dire di quanto hanno detto i deportati.
Questi, invece, tornarono con l'odio e il risentimento sulla lingua e nella
penna. Commisero, certo, gli stessi errori di ottica e di psicologia dei vecchi
combattenti. Per di più, non erano ancora guariti dalla guerra che già
reclamavano vendetta. Soffrendo di un complesso di inferiorità - per
parlare a 40 milioni di abitanti, si ritrovarono in appena 30000, e in che stato!
-, per ispirare una più sicura pietà e riconoscenza, si misero
a coltivare l'orrore a piacere, davanti a un pubblico che aveva conosciuto Oradour
e che chiedeva qualcosa di sempre più sensazionale.
Eccitandosi l'un l'altro, furono presi come in un ingranaggio e giunsero progressivamente,
inconsapevolmente alcuni, scientemente la maggioranza, a rendere sempre più
fosco il quadro. Così era stato di Ulisse il quale lavorava nel meraviglioso
e, nel corso del suo viaggio, aggiungeva ogni giorno una nuova avventura alla
sua odissea, sia per dar soddisfazione al gusto del pubblico di quell'epoca,
sia per giustificare la sua lunga assenza agli occhi dei suoi. Ma, se Ulisse
riuscì a creare la sua propria leggenda e a fissare su di essa l'attenzione
di venticinque secoli di storia, non è esagerato dire che i deportati
fallirono nel loro scopo.
Nei primissimi tempi dopo la Liberazione tutto era andato bene. Non si poteva,
senza correre il rischio di diventare sospetti, discutere le loro testimonianze
e, se anche si fosse potuto, non se ne sarebbe avuto il desiderio. Ma, lentamente
e come nel silenzio di una cospirazione, la verità si prese la rivincita.
Con l'aiuto del tempo e il ritorno alla libertà di espressione in condizioni
di vita sempre più normali, un bel giorno questa verità proruppe.
Si poté scrivere, con la certezza di tradurre il comune malessere e di
non ingannare:
«Mente bene chi viene da lontano... Ho letto molti racconti di deportati:
sempre, ho sentito la reticenza o il colpo di pollice. Perfino David Rousset,
in certi momenti, ci fa smarrire: vuole spiegare troppo.
“Padre Marius Perrin”», professore alla Facoltà di
Lione («Le Pays Roannais», 27 ottobre 1949).
Oppure:
«“La dernière Étape” è un film imbecille
o fallito.»
“Robert Pernot”.
(«Paroles françaises», 27 novembre 1949).
tutte cose che nessuno avrebbe mai osato nemmeno pensare de “Le Feu”,
de “Les Croix de Bois”, de “La Grande Illusion”, dell'“A
l'Ouest rien de nouveau”, o dei “Quatre de l'Infanterie”.
I vecchi combattenti ci misero quindici anni a perdere il credito che avevano
di fronte al pubblico: ne bastarono meno di quattro ai deportati, pur essendo
meglio armati per bruciare tutti i loro vascelli. A parte questa differenza,
il loro destino politico fu eguale.
Tale è l'importanza della verità nella storia.
***
Vorrei raccontare ancora un piccolo aneddoto personale che è tipico
in quanto mostra il valore del tutto relativo che va dato alle testimonianze
in generale.
La scena si svolge in tribunale nell'autunno del 1945. Una donna è sul
banco degli accusati. La Resistenza, che la sospetta di collaborazione, non
è riuscita ad eliminarla prima dell'arrivo degli americani, ma suo marito
è caduto sotto una raffica di mitra, nell'angolo di una strada buia,
in una sera dell'inverno 1944-45. Non ho mai saputo che cosa avesse fatto questa
coppia, sul conto della quale avevo sentito, prima del mio arresto, le più
inverosimili chiacchiere. Per sincerarmi, al mio ritorno andai all'udienza.
Nel fascicolo non c'è molto. Ne consegue che i testimoni sono più
numerosi e più spietati. Il principale di essi è un deportato,
vecchio capo-gruppo della Resistenza locale, dice lui! I giudici sono visibilmente
imbarazzati dalle accuse, la cui consistenza sembra loro molto discutibile.
L'avvocato della difesa cerca una falla nelle deposizioni. Arriva il teste principale.
Spiega che dei membri del suo gruppo furono denunziati ai tedeschi, il che non
poteva essere fatto che dall'accusata e da suo marito, i quali erano loro amici
intimi e conoscevano le loro attività. Aggiunge che ha visto lui stesso
l'accusata in amabile conversazione con un ufficiale della Kommandantur che
alloggiava su un cortile, dietro il negozio dei genitori di lei, che lei e lui
si scambiavano delle carte, eccetera.
L'Avvocato: Lei frequentava quel negozio?
Teste: Sì, appunto per sorvegliare questi rapporti.
L'Avvocato: Può farmene una descrizione?
(“I1 teste si presta al gioco molto di buon grado. Indica la posizione
del banco, degli scaffali, della finestra di fondo, dice le dimensioni approssimative,
eccetera.... tutte cose che non sollevano alcun incidente”).
L'Avvocato: Dunque dalla finestra di fondo che dà sul cortile, lei ha
potuto vedere l'accusata e l'ufficiale scambiarsi delle carte.
Teste: Esattamente.
L'Avvocato: Allora lei può precisare in che punto del cortile essi si
trovavano e in che punto del negozio si trovava lei?
Teste: I due complici erano ai piedi di una scala che conduceva alla camera
dell'ufficiale, l'accusata teneva i gomiti appoggiati alla rampa, il suo interlocutore
le stava molto vicino, cosa che farebbe supporre...
L'Avvocato: Basta così. (“Indirizzandosi alla Corte e tendendo
un foglio”): Signori, non vi è nessun punto dal quale si possa
vedere la scala in questione: ecco una pianta fatta da un perito geometra.
(“Sensazione. Il presidente esamina il documento, lo passa ai giudici,
riconosce l'evidenza, poi, al teste”):
- Lei mantiene la sua deposizione?
Teste: Cioè... non sono io che ho visto... E’ uno dei miei agenti
che su mia richiesta mi aveva fornito un rapporto... Io...
Il Presidente (“seccamente”): Può andare.
Il seguito di questo caso non ha nessuna importanza dato che il teste non fu
arrestato in piena udienza per oltraggio al magistrato o falsa testimonianza
e dato che l'imputata, avendo riconosciuto che seguiva i corsi dell'Istituto
franco-tedesco, cosa che aveva creato, come diceva, certe relazioni amichevoli
fra lei ed alcuni ufficiali della Kommandantur, fu infine condannata a una pena
detentiva per un insieme di circostanze che la accusavano solo implicitamente.
Ma, se si fosse spinto il testimone fin nei suoi ultimi trinceramenti, probabilmente
ci si sarebbe accorti che l'agente al quale pretendeva di aver chiesto un rapporto
era inesistente e che la sua deposizione era soltanto un cumulo di quei “si
dice” che avvelenano l'atmosfera delle piccole città dove tutti
si conoscono.
Lungi da me l'idea di assimilare a questa tutte le testimonianze apparse sui
campi di concentramento tedeschi. Il mio scopo mira soltanto a stabilire che
ve ne furono altre che non hanno nulla da invidiarle, anche tra quelle che ebbero
la miglior fortuna nell'opinione pubblica. E che, a parte la buona o la cattiva
fede, vi sono tali e tanti imponderabili che influiscono su chi racconta che
bisogna sempre diffidare della storia raccontata, specie quando lo è
a caldo. Il libro di David Rousset, “Le Jours de notre mort”, che
consacrò il prestigioso talento dell'autore, non è, per la maggior
parte dei fatti ai quali l'autore si riferisce, se non un susseguirsi di “si
dice” a loro tempo correnti in tutti i campi e mai controllati sul posto,
tutta una sequela di testimonianze di seconda mano, giustapposte - armoniosamente,
bisogna riconoscerlo - allo scopo di servire ad un'interpretazione particolare.
In questo mio lavoro, dove si tratta di verità e non di talento, non
se ne troverà estratto alcuno.
***
Nel 1950 avevo classificato i testimoni in tre categorie:
- quelli che non erano per nulla destinati ad essere testimoni fedeli e che,
del resto senza nessuna intenzione peggiorativa, io chiamavo i testimoni minori;
- gli psicologi, vittime di una tendenza a mio parere un po' troppo pronunciata
per l'argomento soggettivo;
- i sociologi o reputati tali.
Non avevo trovato storici, o che almeno fossero degni di questo nome.
In guardia perfino contro me stesso, per non essere in nulla accusato di parlare
di cose situate un po' troppo lontano dalla mia personale esperienza o di cadere
a mia volta, rischiando qualche distorsione alla regola della probità
intellettuale, nel difetto che rimproveravo agli altri, avevo deliberatamente
rinunciato a presentare un quadro completo della letteratura concentrazionaria
dell'epoca.
Il numero dei testimoni messi in discussione era dunque limitato in ogni categoria
e nell'insieme: tre testimoni minori (4) (l'abate Robert Ploton, Frate Birin,
delle scuole cristiane di Epernay, l'abate Jean-Paul Renard), uno psicologo
(David Rousset) e un sociologo (Eugen Kogon). Fuori categoria: Martin-Chauffier.
Avendo un caso fortunato fatto sì che, ad eccezione di uno solo, la loro
esperienza si riferisse agli stessi campi in cui io avevo fatto la mia e che
essi fossero i più rappresentativi, questo metodo molto semplice comportava
molti vantaggi.
Da allora, sostenuta e incoraggiata dalla politica che regola i rapporti americano-russi,
la letteratura concentrazionaria che a sua volta sostiene tale politica non
ha fatto che crescere ed abbellirsi. Non è un segreto per nessuno che
nella politica generale degli Stati Uniti vi è un certo numero di articoli
che sono unicamente destinati a non rompere radicalmente i ponti con la Russia:
il mito del pericolo della rinascita del nazismo e dei fascismo in Europa è
uno di questi. Stalin e Truman (degno erede di Roosevelt) lo hanno sfruttato
a fondo insieme; il primo per impedire all'Europa di prendere coscienza di se
stessa e di unirsi alla Germania; il secondo per deficienza mentale. E Chruscev
ha continuato a giocare con Kennedy il gioco di Stalin con Truman...
Comunque sia, verso il 1950, rinacque e prese corpo in molte buone intelligenze
l'idea che l'Europa esisteva. Provocata, in passato, dallo spauracchio delle
guerre germano-francesi, questa presa di coscienza episodica aveva, questa volta,
un altro spauracchio con due insegne complementari: da una parte, la quasi certezza
che, divisa contro se stessa, l'Europa era una facile preda per il bolscevismo;
dall'altra, quella che non vi era Europa possibile senza che la Germania vi
fosse integrata. A Mosca, a Tel-Aviv, si era sentito, allo spirare del suo primo
soffio, che questo vento veniva da lontano: se fosse diventato tempesta non
avrebbe mancato dal concludersi in una Europa unita, cosa che avrebbe significato
l'isolamento per la Russia e, per ciò che riguardava Israele, la fine
di quelle sovvenzioni di importanza vitale che le vengono versate dalla Germania
a titolo di riparazioni (ricevendo Gerstenmayer, presidente del Bundestag, Ben
Gurion aveva dichiarato, il 30 novembre 1962, che alla data del primo aprile
il loro ammontare raggiungeva 850 milioni di dollari: una bazzecola!). La controffensiva
non si fece attendere: due attacchi sincronizzati in modo così perfetto
da sembrare concertati in anticipo partirono come frecce da due imprese di fabbricazione
e falsificazione di documenti storici, una sotto la ragione sociale di un “Comitato
per la ricerca dei crimini e dei criminali di guerra”, la cui sede è
a Varsavia, l'altra sotto quella del “Centro mondiale di documentazione
ebraica contemporanea”, le cui due più importanti succursali sono
a Tel-Aviv e a Parigi. Tema: gli orrori e le atrocità commesse durante
la seconda guerra mondiale dal nazismo, vocazione naturale della Germania (il
tema precisava che il governo di Bonn ne aveva ripreso i principi nazionalistici
e militaristici fondamentali), che ne faceva un popolo da tenersi strettamente
sotto controllo e molto accuratamente isolato. Il primo risultato di questa
controffensiva fu, per quanto mi risulta, la “Documentazione sullo sterminio
per mezzo del gas” (1950) di H. Krausnik; il secondo, “Medico a
Auschwitz” (1951), di un certo dottor Niklos Nyiszli, israelita ungherese
deportato in quel campo nel maggio 1944 (5), e il terzo “Il Breviario
dell'odio” (1951) di Léon Poliakov. Dopo di allora non c'è
stata tregua: ogni volta che è apparso il minimo segno di riavvicinamento
fra la Germania e gli altri popoli europei (CECA, Mercato Comune, Trattato franco-tedesco,
eccetera.) abbiamo avuto, avallate dal Comitato di Varsavia o da un membro importante
del Centro mondiale di documentazione ebraica, oppure anche dall'“Institut
für Zeitgeschichte” di Monaco, che è una diramazione dei due,
pubblicazioni di tal fatta che, ogni volta, costituirono un atto di accusa più
terribile del precedente contro la Germania di Bonn e sulle quali la stampa
mondiale montava una spettacolare campagna di pubblicità. E’ così
che sono stati successivamente pubblicati: “Il Terzo Reich e gli Ebrei”
(1953) di Léon Poliakov e Wulf, la “Storia di Joel Brandt, uno
scambio di 10000 camion contro un milione di ebrei” (1955), “Parla
il Lagerkommandant di Auschwitz, Ricordi di Rudolf Höss” (6) (1958)
eccetera, per citare soltanto i più clamorosi; se si dovessero citare
tutti, la loro sola lista, senza nessun commento, richiederebbe un volume. Molto
di recente, un'antologia di questa letteratura è stata redatta da un
“Comitato di studio della seconda guerra mondiale”, con sede a Parigi
ed i cui animatori sono una signora Olga Wormser, del Centro di documentazione
ebraica, e un illustre sconosciuto tuttofare dal nome di Henri Michel: si è
valsa dei testi di 208 autori testimoni e debbo anche aggiungere che cita soltanto
quelli che seguono senza il minimo errore la linea secondo la quale conviene
testimoniare, dato che sugli scaffali della mia biblioteca di lavoro ne figurano
quasi altrettanti che non vi sono citati, pur anche questi accusando, e spesso
facendolo più intelligentemente, anche se con eguale mancanza di rispetto
per la verità storica. Era naturale che io non vi fossi menzionato. Titolo
di questa antologia: “Tragedia della deportazione” (1962). La cosa
più triste è che si siano trovati degli storici abbastanza disonesti
da avallare queste testimonianze con la loro autorità: Labrousse e Renouvin
in Francia, Rothfels in Germania, eccetera. Gli Stati Uniti, a loro volta, ne
hanno da poco portato uno alla causa del Comitato di Varsavia e del Centro mondiale
di documentazione: Raul Hilberg, il cui libro, “The Destruction of the
European Jews” (1961), è certamente il più importante di
tutti i lavori che sono stati pubblicati sull'argomento e quello che è
riuscito meglio a darsi le apparenze - soltanto le apparenze - di uno studio
serio. Un monumento.
Per essere completi, bisognerebbe citare anche i film destinati a condizionare
l'opinione pubblica che sono stati tratti da questa letteratura: “L'Ultima
Tappa”, “Kapo”, “I Documenti di Norimberga”, eccetera.
Mi era necessario includere tutto ciò nei miei lavori precedenti: senza
preoccuparmi di semplificare, ho deciso di consacrare la quinta parte di questo
lavoro a “The Destruction of the European Jews”.
Tutto sommato, il lettore sarà, per esempio, tentato di considerare questa
messa a punto generale del grande dramma della deportazione soltanto in funzione
delle sue tragiche conseguenze d'insieme sul piano umani e di concludere che
ho forse indugiato troppo sul dettaglio. Se metto in rilievo il fatto che i
trasporti dalla Francia alla Germania si effettuavano in ragione di cento uomini
per ogni vagone destinato a contenerne al massimo quaranta, e non, come certe
persone hanno asserito, in ragione di centoventicinque uomini, si osserverà
che questo non modifica sensibilmente in meglio le condizioni generali del viaggio.
Se preciso che un campo si chiamava Bergen-Belsen anziché Belsen-Bergen,
con questo non cambio nulla alla sorte di chi vi era internato. Che la parola
“Kapo” provenga dalle iniziali di quelle che compongono l'espressione
tedesca “Konzentrazionslager Arbeit Polizei” o derivi invece dall'espressione
italiana “Capo” non ha nessuna importanza. E che i cattivi trattamenti,
la fame, la tortura, eccetera, abbiano avuto luogo in questo o in quel campo,
che siano riferiti da chi ne fu o da chi non ne fu testimone oculare, che siano
stati opera delle S.S. direttamente oppure per interposta persona di detenuti
selezionatissimi, restano sempre cattivi trattamenti.
A mia volta osserverò che un insieme è composto di particolari
e che l'errore in un particolare, anche se fatto in buona fede, oltre a falsare
la natura dei fatti e la loro interpretazione da parte dello spettatore, lo
porta logicamente a dubitare di tutto l'insieme. Un solo errore può portarlo
a dubitare, ma che dire se poi ve ne sono diversi?
E che dire se dipendono tutti da malafede?
Mi si capirà meglio se ci si vorrà riportare ad un fatto che ebbe
gli onori della cronaca qualche anno addietro. Alla vigilia stessa di questa
guerra, uno studente straniero, approfittando di un momento di disattenzione
dei guardiani, rubò al Louvre un quadro di Watteau conosciuto col nome
de “L'Indifferente”. Qualche giorno dopo lo riportò, ma nel
frattempo gli aveva fatto subire una piccola modifica: infastidito da quella
mano che si sollevava in un gesto che tutti gli specialisti sostenevano fosse
rimasto incompiuto per volere del Maestro in persona o per cause indipendenti
dalla sua volontà, egli l'aveva appoggiata a un bastone. Questo bastone
non cambiava nulla al personaggio stesso. Al contrario, si armonizzava meravigliosamente
bene col suo atteggiamento. Ma precisava il senso della sua indifferenza e modificava
sensibilmente l'interpretazione che se ne poteva dare, sia nella sua causa sia
nel suo scopo. In particolare, si poteva sostenere che l'interpretazione sarebbe
stata del tutto diversa se, invece del bastone, fosse stato messo in mano al
personaggio un paio di guanti, o se vi si fosse lasciato negligentemente cadere
un mazzo di fiori.
Benché non si potesse giurare che all'origine, il bastone, se non esisteva
effettivamente sul quadro, non fosse però stato nelle intenzioni di Watteau
più dei guanti o del mazzo di fiori, esso fu cancellato e il quadro rimesso
al suo posto. Se lo si fosse lasciato sussistere, nessuno probabilmente avrebbe
notato una stonatura, sia nel quadro, sia nell'aspetto generale delle gallerie
di pittura del Louvre. Ma se, invece di limitarsi alla correzione dell'“Indifferente”,
il nostro studente si fosse premurato di risolvere tutti gli enigmi di tutti
i quadri, se avesse posto una maschera di velluto sul sorriso della “Gioconda”,
dei ninnoli nelle mani tese di tutti quei Bambin Gesù che riposano, attoniti,
sulle ginocchia e tra le braccia delle Vergini impassibili, degli occhiali a
Erasmo; e... se si fosse permesso che tutto ciò restasse, ci si può
immaginare l'aspetto che avrebbe avuto il Louvre!
Gli errori che si possono rilevare nelle testimonianze dei deportati sono dello
stesso ordine del bastone dell'“Indifferente” o di un'eventuale
maschera sul viso della “Gioconda”: senza modificare sensibilmente
il quadro dei campi, esse hanno falsato il senso della storia.
Passando da una testimonianza all'altra e associandole, il deportato in buona
fede ha la stessa impressione che proverebbe se percorresse le gallerie di un
Louvre di atrocità interamente riveduto e corretto.
Sarà così anche del lettore se, prima di dare il suo giudizio
tanto sui testi quanto sui documenti che io incrimino e sulle conclusioni che
ne sono state tratte da certi storici un po' troppo palesemente impegnati al
servizio di una politica, vorrà domandarsi se, a prescindere da ogni
altra considerazione, questi testi, documenti e interpretazioni potrebbero essere
mantenuti nella loro interezza davanti ad un tribunale regolarmente costituito
che fosse per di più veramente minuzioso, e non... un altro tribunale
di Norimberga!
Parigi, luglio 1963.