Gli psicologi.
David Rousset e “L'Universo concentrazionario”.
Di tutti i testimoni, nessuno ha raggiunto la maestria, la potenza di evocazione
e la precisione nella ricostruzione dell'atmosfera generale dei campi, più
di David Rousset che ne è, su scala mondiale, il gran tenore riconosciuto.
Ma, anche, nessuno ha romanzato più e meglio di lui.
La storia ricorderà il suo nome, ma temo che sarà soprattutto
a titolo letterario. Sul piano storico propriamente detto, l'imballaggio ha
fatto deperire il prodotto. Del resto, egli, presentandolo, ha messo le mani
avanti:
«Mi è accaduto di riportare certi fatti così come erano conosciuti a Buchenwald, e non come li presentano i documenti. La maggior parte dei testi pubblicati fin qui si riferiscono soltanto ad aspetti molto esteriori della vita nei campi, oppure sono apologie che procedono per allusioni, che affermano dei principi più che non raccolgano dei fatti. Documenti simili sono preziosi, ma a condizione che si conosca già intimamente ciò di cui parlano; in tal caso, permettono spesso di trovare un anello della catena ancora sconosciuto. Mi sono appunto sforzato di rendere i rapporti fra i gruppi nella loro reale complessità e nella loro dinamica». (“Les Jours de notre mort”, Allegato, pag. 764).
Questo ragionamento gli ha permesso di trascurare del tutto o quasi i documenti, e, col pretesto che quelli riguardanti i campi dell'Est erano altrettanto rari e scarsi, di dichiarare che:
“Il ricorso alle testimonianze dirette è il solo metodo serio di dimostrazione» (ibid.),
poi di scegliere, tra queste testimonianze dirette, quelle che servivano meglio al suo punto di vista.
«Si trattava, in queste condizioni - egli ammette -, di un tentativo ardito - si potrebbe dire azzardato -, quello di mostrare un panorama d'insieme del mondo concentrazionario» (ibid.).
Non sarebbe possibile caratterizzarlo meglio di come lo fa lui stesso. Ma,
allora, perché aver presentato i campi in una forma che comincia con
un'affermazione categorica?
“L'Univers concentrationnaire” (Pavois, 1946) ebbe un meritato successo.
Nel concerto dei testimoni minori che gridavano vendetta e morte contro i tedeschi
vinti, egli tentava di riportare le responsabilità sul nazismo, segnando
così una nuova svolta ed un nuovo orientamento.
«I francesi debbono sapere e debbono ricordare che gli stessi orrori causeranno gli stessi orrori. Debbono conoscere il carattere e le tare dei loro vicini d'oltre-Reno, razza di dominatori, ed è per questo che il n. 43652 ha scritto queste righe. Francesi, siate vigilanti e non dimenticate mai,
scriveva Fra' Birin delle scuole cristiane di Epernay (“16 mois de Bagne”,
pag. 117), ed era il tono di tutta la stampa: il «”boche”»
era rifiorito su tutte le labbra, con la stizza che è propria alla parola,
quando la si pronuncia bene.
In questa atmosfera di odio, la Francia pacifista fu grata a David Rousset di
aver concluso in questi termini:
«L'esistenza dei campi è un avvertimento. La società tedesca, sia per la potenza della sua struttura economica, sia per l'asprezza della crisi che l'ha distrutta, ha conosciuto una decomposizione che è eccezionale anche nella congiuntura attuale del mondo. Ma sarebbe facile dimostrare che i tratti più caratteristici della mentalità S.S. e delle sue basi sociali si ritrovano in molti altri settori della società mondiale. Meno accentuati, però, e, certo, senza comune misura con gli sviluppi conosciuti nel Grande Reich. Ma è soltanto una questione di circostanze. Sarebbe un inganno, e criminale, pretendere che agli altri popoli sarebbe impossibile fare un'esperienza simile per ragioni di opposizione di natura. La Germania ha interpretato con l'originalità propria alla sua storia la crisi che l'ha condotta all'universo concentrazionario. Ma l'esistenza e il meccanismo di questa crisi si ricollegano alle fondamenta economiche e sociali del capitalismo e dell'imperialismo. Sotto nuova figura, effetti analoghi potranno ancora apparire domani. Si tratta perciò di una battaglia molto precisa da condurre» (pag. 187).
In seguito, ciò che è avvenuto in Algeria, in Indocina, ciò che avviene ancora oggi fra negri e bianchi negli Stati Uniti, fra ebrei e arabi nel Medio Oriente, ha mostrato al di là di ogni speranza fino a che punto tale teoria fosse giustificata. Ciò che avveniva allora in Russia la giustificava altrettanto bene, ma David Rousset si guardava dal fare uso dell'argomento. Ad un livello più terra-terra si trovavano ancora altre giustificazioni e in particolare la seguente:
«Mentre varie centinaia di migliaia di ‘persone dislocate’
adulte sono riuscite a lasciare i campi e a partire per le due Americhe, migliaia
di bambini sono rimasti, con i vecchi, sotto il controllo dell'I.R.O. (International
Refugee Organisation), nei sinistri baraccamenti di Germania, Austria e Italia.
Ma l'organizzazione internazionale dei profughi cesserà definitivamente
di operare tra qualche mese e ci si domanda quale sarà la sorte di questi
orfani due volte abbandonati.
La loro situazione è già abbastanza tragica, perché, in
certi campi, non ricevono, per alimentazione, se non cibi che raggiungono al
massimo le tre-quattrocento calorie, e nessuno sa se questa razione potrà
essere ancora mantenuta. In simili condizioni, la mortalità fa delle
stragi terribili» («La Bataille», 9 maggio 1950).
Il giornale precisava che erano 13 milioni a vivere così, in un'Europa
liberata da Hitler, da Mussolini e da ogni preponderanza fascista dichiarata.
Se si fosse indagato sul trattamento al quale essi furono sottoposti dai loro
guardiani...
“Les Jours de notre mort” (1947), che riprende i dati dell'“Univers
concentrationnaire” spingendoli fino agli ultimi trinceramenti della speculazione,
sono assai lontani da quella professione di fede che, d'altronde, “Le
Pitre ne rit pas” (1948) dimentica del tutto. Dal che bisogna concludere
che David Rousset non si è voluto scoprire né ha voluto precisare
i propri sentimenti, e questo agli occhi del pubblico ha dato al suo lavoro
un carattere più antitedesco che antinazista. Questa evoluzione fu tanto
più notata in quanto in partenza era contrassegnata da certe debolezze
per il bolscevismo, mentre più tardi trovò la sua conclusione
in un antibolscevismo tale da lasciar pensare che si tradurrebbe in una vera
e propria russofobia ove mai la crisi mondiale dovesse arrivare al punto di
precipitare in un'altra guerra.
Dunque, l'originalità dell'“Univers concentrationnaire” si
è risolta nel distinguere fra la Germania e il nazismo nell'attribuzione
delle responsabilità. Essa si è doppiata di una teoria che fece
sensazione per il fatto che giustificava il comportamento dei detenuti incaricati
della direzione degli affari del campo con la necessità di conservare,
per il dopoguerra, innanzitutto, l'“élite” dei rivoluzionari.
Prima Martin-Chauffier che giustifica il medico che vuol salvare il più
gran numero possibile di detenuti concentrando i suoi sforzi su determinati
ammalati, poi David Rousset che giustifica la politica che vuol salvare la qualità
e non il numero, ma una qualità definita in rapporto a certi imperativi
extra-umanitari, tutto ciò significa molti argomenti, e non dei minori,
che si accaniscono sulla massa anonima dei concentrazionari. E se, a proposito
dell'un caso e dell'altro, un giorno si parlerà di impostura filosofica,
non vi sarà nulla di strano. I maligni potranno anche aggiungere che
David Rousset è stato probabilmente salvato dalla morte dal Kapo comunista
tedesco Emil Künder, che lo considerava come appartenente a quella “élite”
rivoluzionaria e che a tale titolo gli dimostrò una grande amicizia,
e che oggi lo rinnega.
Dico questo senza pregiudizio di alcune altre riserve.
“Il postulato della teoria”.
«E’ normale, quando tutte le forze vive di una classe sono la posta della battaglia più totalitaria mai immaginata, che gli avversari siano messi nell'impossibilità di nuocere, e, “se necessario”, sterminati» (pag. 107).
E’ inattaccabile. La sua conclusione, enunciata senza transizione, lo è molto meno:
«Lo scopo dei campi è senz'altro la distruzione fisica» (ibid.).
Non si può non osservare che, nel postulato stesso, la distruzione fisica
è subordinata alla necessità, e non decretata per principio: contemplata
soltanto nei casi in cui la misura di internamento non sarebbe sufficiente a
mettere l'individuo in condizione di non nuocere.
Dopo una cavalcata o una deduzione cavalleresca di questa fatta, non vi è
ragione di fermarsi, e si può scrivere:
«L'ordine porta il segno del padrone. Il comandante del campo ignora tutto. Il Blockführer ignora tutto. Il Lagerältester ignora tutto. Gli esecutori ignorano tutto. “Ma l'ordine indica la morte e il genere di morte e il tempo che bisogna impiegare per far morire». E, in questo deserto d'ignoranza, è sufficiente» (pag. 100),
che è un modo, allo stesso tempo, di dar vigore al quadro, di far cadere la responsabilità sull'«alta sfera» di Martin-Chauffier e di permettere di giungere ad un piano prestabilito di sistematizzazione dell'orrore, che si giustifica con una filosofia.
«Il nemico, nella filosofia S.S., è la potenza del male espressa intellettualmente e filosoficamente. Il comunista, il socialista, il liberale tedesco, i rivoluzionari, i resistenti stranieri sono le figurazioni attive del male. Ma l'esistenza obiettiva di certe razze: gli ebrei, i polacchi, i russi, è l'espressione statica del male. A un ebreo, a un polacco, a un russo, non occorre agire contro il nazional socialismo: essi sono, per la loro nascita, per predestinazione, degli eretici non assimilabili, votati al fuoco apocalittico. “La morte perciò non ha senso completo. Soltanto l'espiazione può essere soddisfacente, pacificante per i signori. I campi di concentramento sono la sorprendente e complessa macchina dell'espiazione. Coloro che debbono morire vanno alla morte con una lentezza calcolata affinché il loro decadimento fisico e morale, realizzato per gradi, li renda finalmente coscienti di essere dei maledetti, delle espressioni del male, non degli uomini. E il sacerdote giustiziere prova una specie di piacere segreto, di intima voluttà, a rovinare i corpi» (pag. 108 s.).
Dal che si vede che, partendo dai campi di concentramento come mezzi per mettere
gli oppositori fuori dalla condizione di nuocere, si può facilmente farne
degli strumenti di sterminio per principio e ricamare all'infinito sullo scopo
di questo sterminio. A partire dal momento in cui si arriva a tanto, è
solo questione di attitudine alle costruzioni dello spirito, e di virtuosità.
Ma lo sforzo letterario che produce degli effetti così felici di sadismo
è perfettamente inutile e non vi è nessun bisogno di aver vissuto
l'avvenimento per dipingerlo così: bastava rifarsi a Torquemada e ricopiare
le tesi dell'Inquisizione.
Non mi fermo alla prima parte della spiegazione che accomuna nello spirito dei
dirigenti nazisti i russi e i polacchi agli ebrei: la fantasia della cosa balza
agli occhi.
“Il lavoro”.
«Il lavoro è inteso come mezzo di castigo. I concentrazionari-manodopera
sono di secondaria importanza, preoccupazione estranea alla natura intima dell'universo
concentrazionario. Psicologicamente, essa vi si ricollega con questo sadismo
di costringere i detenuti a consolidare gli strumenti del loro asservimento.
E’ in conseguenza di eventi storici che i campi sono diventati anche delle
imprese di lavori pubblici. Poiché l'estendersi della guerra su scala
mondiale esigeva un impiego totale di tutto e di tutti, degli zoppi, dei sordi,
dei ciechi e dei prigionieri di guerra, le S.S. riunirono a colpi di frusta
la muta cieca dei concentrazionari nei compiti più distruttivi... Il
lavoro dei concentrazionari non aveva come scopo essenziale la realizzazione
di compiti precisi, bensì il mantenimento dei ‘detenuti protetti’
nella costrizione più rigorosa, più avvilente» (pagine 110-112).
Se si è deciso che lo scopo dei campi era lo sterminio, è molto evidente che il lavoro entra soltanto come un elemento trascurabile in se stesso nella teoria della mistica sterminatrice. Eugen Kogon, del quale si parla nel capitolo seguente, partendo dallo stesso principio, benché con molto minore raffinatezza nella forma, scrive a questo proposito nell'“Enfer organisé”:
«Fu deciso che i campi avrebbero avuto uno scopo secondario, un po' più realistico, un po’, più pratico e più immediato: grazie ad essi si sarebbe radunata ed utilizzata una manodopera composta di schiavi, affidati alla S.S. e che, per il tempo che si sarebbe permesso loro di vivere, avrebbero vissuto soltanto per servire i loro padroni... Ma, quelli che si sono chiamati gli scopi secondari (spaventare la popolazione, utilizzazione della manodopera di schiavi, mantenimento dei campi come luogo di allenamento e terreno di esperimentazione per la S.S.), questi scopi erano venuti poco a poco in primo piano, per ciò che riguarda le vere ragioni degli invii nei campi, “fino al giorno in cui la guerra scatenata da Hitler”, contemplata e preparata da lui e dalla S.S. in modo sempre più sistematico, provocò l'enorme sviluppo dei campi» (pag. 27 s.).
Dalla giustapposizione di questi due testi risulta che, per il primo, è
il fatto storico della guerra, e, inoltre, soltanto al momento della sua estensione
su scala mondiale, che ha fatto passare in primo piano negli scopi dei campi
l'utilizzazione dei detenuti come manodopera, mentre per il secondo questo scopo
era raggiunto “prima della guerra”, questa non avendo fatto altro
che dare maggiore importanza alla cosa.
Io sono per il secondo: la divisione dei campi in Konzentrationslager, Arbeitslager
e Straflager era un fatto compiuto al momento della dichiarazione di guerra.
L'operazione d'internamento, prima e durante la guerra, si faceva in due tempi:
si concentravano i detenuti in un campo previsto o organizzato per il lavoro
e che in più aveva la funzione di centro di smistamento; da lì,
li si avviava agli altri, secondo le necessità del lavoro. Per i delinquenti
in corso di internamento vi era un terzo tempo: l'invio per castigo in un campo
che in genere era in via di costruzione, considerato come un campo di punizione,
ma che, appena terminato, diventava a sua volta un campo normale.
Aggiungo che a mio parere il lavoro è sempre stato previsto. Questo fa
parte del codice internazionale di repressione: in tutti i paesi del mondo lo
Stato fa guadagnare la vita e sudare utili a coloro che imprigiona, con eccezioni
molto rare (regime politico nelle nazioni democratiche, deportati politici nei
regimi di dittatura). Il contrario non si concepisce: una società che
si sobbarcasse il mantenimento di coloro che infrangono le sue leggi, minandola
nelle sue fondamenta, sarebbe un controsenso. Variano solo le condizioni di
lavoro - a seconda che si sia internati o in libertà - e l'entità
degli utili da realizzare.
Per la Germania si è prodotto il caso particolare che si sono dovuti
costruire i campi dal primo all'ultimo e che, per di più, è sopravvenuta
la guerra. Per tutto il periodo di costruzione si è potuto credere che
essi avessero il solo scopo di far morire: si è continuato a crederlo
durante la guerra e si aveva ragione di pensarlo anche dopo. L'inganno è
tanto meno evidente in quanto, avendo la guerra reso necessario un numero sempre
maggiore di campi, il periodo di costruzione non è mai terminato e queste
due circostanze, sovrapponendosi nei loro effetti, hanno consentito di ingenerare
la confusione, stando alle apparenze scientemente.
“La Häftlingsführung”.
Si sa che le S.S. hanno delegato a dei detenuti la direzione e l'amministrazione
dei campi. Vi sono dunque dei Kapo (capi dei Kommando), dei Blockältester
(capi dei Block), dei Lagerschutz (poliziotti), dei Lagerältester (decani
o capi dei campi), eccetera, tutta una burocrazia concentrazionaria che esercita
di fatto tutta l'autorità nel campo. Anche questa è una regola
che fa parte del codice di repressione in tutti i paesi del mondo. Se i detenuti,
ai quali vengono assegnati tutti questi posti, avessero la minima nozione di
solidarietà, il minimo spirito di classe, questa disposizione interverrebbe
dappertutto come un fattore di alleggerimento della pena per la comunità
dei detenuti. Disgraziatamente ciò non avviene mai da nessuna parte:
dappertutto, quando prende possesso del posto che gli si affida, il detenuto
designato cambia mentalità e clan. E’ fenomeno troppo conosciuto
per dovervi insistere e troppo generale per imputarlo soltanto ai tedeschi e
ai nazisti. L'errore di David Rousset è stato di credere o, comunque,
voler far credere che poteva andare diversamente in un campo di concentramento,
e che di fatto era andata diversamente - che i detenuti politici fossero di
un'essenza superiore agli uomini comuni e che gli imperativi ai quali obbedivano
fossero più nobili delle leggi della lotta individuale per la vita.
Questo lo ha condotto a stabilire come norma che la burocrazia concentrazionaria,
non potendo salvare il numero, ebbe però il merito di salvare quanto
più poteva la qualità:
«Con la stretta collaborazione di un Kapo si potevano creare delle condizioni di vita molto migliori, perfino nell'Inferno» (pag. 166).
Ma non dice come si poteva ottenere la stretta collaborazione di un Kapo. Né
che questa collaborazione non andava mai, fosse anche un politico questo Kapo,
oltre lo stadio dei rapporti individuali da patrizio a cliente. E, nemmeno,
che, di conseguenza, soltanto un numero infimo di detenuti poté beneficiarne.
Tutto si concatena:
«La detenzione di questi posti è perciò di interesse capitale e la vita e la morte di molti uomini ne dipende» (pag. 134).
Poi quelli che li detengono si organizzano, poi i migliori di quelli che si organizzano sono i comunisti, poi organizzano dei veri complotti politici contro le S.S., poi apprestano dei programmi d'azione per il dopoguerra. Ecco, alla rinfusa:
«A Buchenwald il comitato centrale della frazione comunista raggruppava
dei tedeschi, dei cechi, un russo e un francese (pag. 166).
Fin dal 1944 si preoccupavano delle condizioni che si sarebbero create con la
liquidazione della guerra. Avevano una gran paura che le S.S. li avrebbero uccisi
tutti prima. E non era un timore immaginario (pag. 170).
A Buchenwald, all'infuori dell'organizzazione comunista, che vi raggiunse senza
dubbio un grado di “perfezione” e di efficienza unico negli annali
dei campi, vi furono delle riunioni più o meno regolari fra elementi
politici che andavano dai socialisti all'estrema destra e che misero capo alla
formazione di un programma d'azione comune per il ritorno in Francia»
(pag. 80 s.).
Tutto ciò è logico: quello che è discutibile è
il fatto che serve da punto di partenza.
In tutti i campi vi furono, certo, avvicinamenti tra detenuti, tacite costituzioni
in gruppi: per affinità e per sopportare meglio il destino comune (nella
massa), per interesse, per conquistare il potere, per conservarlo o per esercitarlo
meglio (nella Häftlingsführung).
Alla liberazione, in ciò agevolati da David Rousset, i comunisti hanno
potuto far credere che il cemento della loro associazione era la loro dottrina,
alla quale avevano conformato i loro atti. In realtà, questo cemento
era il profitto materiale che potevano trarne quelli che ne facevano parte,
per ciò che riguardava il cibo e la salvaguardia della vita. Nei due
campi che ho conosciuto l'opinione generale era che, politico o no, comunista
o no, ogni «Comitato» aveva anzitutto il carattere di un'associazione
di ladri di cibo, sotto qualsiasi forma ciò avvenisse. Non v'era nulla
che venisse a smentire questa opinione. Al contrario, tutto la convalidava:
i gruppuscoli di comunisti o di politici che si fronteggiavano; le modifiche
nella composizione di quello che deteneva il potere, modifiche che intervenivano
sempre a seguito di discordie sulla ripartizione e divisione del maltolto; l'attribuzione
stessa dei posti di comando che seguiva lo stesso processo, eccetera.
Durante le poche settimane che ho passato a Buchenwald al Block 48, un gruppo
di detenuti, nuovi arrivati, seguendo il suggerimento del capo Block o con la
sua autorizzazione, aveva deciso di prendere in mano il morale della massa.
A poco a poco aveva acquistato una certa autorità e, in particolare,
i rapporti tra il capo Block e noi avevano finito per non esistere se non per
il tramite di esso. Esso regolamentava la vita al Block, organizzava delle conferenze,
assegnava delle corvées, spartiva il cibo, eccetera. Faceva pietà
vedere il concerto di vili adulazioni di tutti i generi che saliva da coloro
che ne facevano parte verso il capo Block onnipotente. Un giorno, il principale
animatore di questo gruppo fu sorpreso da qualcuno della massa mentre spartiva
con un altro delle patate che aveva rubato sulla razione comune...
Eugen Kogon racconta che i francesi di Buchenwald, che erano i soli a ricevere
dei pacchi della Croce Rossa, avevano deciso di dividerli equamente con l'intero
campo:
«Allorché i nostri compagni francesi si dichiararono pronti a distribuirne una buona parte al campo tutto intero, questo atto di solidarietà fu accolto con riconoscenza. Ma per settimane la ripartizione fu organizzata in modo scandaloso; infatti, vi era soltanto un pacchetto ogni gruppo di dieci francesi... mentre i loro compatrioti incaricati della distribuzione, aventi alla loro testa il capo del gruppo comunista francese del campo (19), riservavano per sé cumuli di pacchi, o li utilizzavano in favore dei loro amici di spicco (“L'Enfer organisé”, pag. 120).
Rousset scorge, del resto, un lato malefico di questo stato di cose, anche se non ne fa una causa dirimente o capitale dell'orrore, quando scrive:
«La burocrazia non serve soltanto alla gestione dei campi: essa è, attraverso i suoi vertici, tutta collegata ai traffici S.S.. Berlino invia casse di sigarette e di tabacco per ricompensare gli uomini. Camion di viveri arrivano nei campi. Si debbono ricompensare i detenuti ogni settimana; si ricompenseranno ogni quindici giorni od ogni mese; si diminuirà il numero delle sigarette, si stileranno liste di cattivi lavoratori che non riceveranno nulla. Gli uomini creperanno dalla voglia di fumare. Che importa? Le sigarette passeranno al mercato nero. Carne? Burro? Zucchero? Miele? Cibo in scatola? Una proporzione maggiore di cavoli neri, di barbabietole, di rape condite con un po' di carote, questo basterà. E perfino vera e propria bontà... Il latte? Molta acqua imbiancata, sarà perfetto. E tutto il resto: carne, burro, zucchero, miele, conserve, latte, patate, sul mercato per i civili tedeschi che pagano e sono cittadini corretti. Quelli di Berlino saranno contenti di sapere che tutto è arrivato bene. Basta che i registri siano in ordine e la contabilità a posto... Farina? Ma certo, si diminuiranno le razioni di pane. Senza aver l'aria di farlo. Le razioni saranno tagliate un po' meno bene. I registri non si occupano di queste cose. E i padroni S.S. saranno in eccellenti rapporti con i commercianti locali» (pagine 145-147).
Ecco smentita, almeno per ciò che concerne il cibo, la leggenda secondo
la quale un piano per affamare i detenuti sarebbe stato messo a punto in ‘alto
luogo’. Berlino manda tutto ciò che occorre per servirci le razioni
previste, proprio come si scrive alle famiglie, ma, a sua insaputa, non ce lo
distribuiscono. E chi è che ruba? I detenuti incaricati della distribuzione.
David Rousset ci dice che ciò avviene su ordine delle S.S. alle quali
viene rimesso il bottino del furto: ma no, prima rubano per se stessi, gozzovigliano
con tutto sotto i nostri occhi e pagano un tributo alle S.S. per comprare la
loro complicità.
Tra parentesi, lo stesso fenomeno è stato messo in evidenza nel maggio
1950 dal processo intentato all'“Opera Maternità e Infanzia”
di Versailles, animatrice della quale era la generalessa Pallu. L'istruttoria
del caso ha rivelato che
«I bambini erano malvestiti, lasciati in una sporcizia ripugnante, in
una sala dove i parassiti pullulavano. I pagliericci erano marciti dagli escrementi
e dall'orina: talvolta vi brulicavano i vermi. Vi era un solo lenzuolo, una
coperta. Tutti i gabinetti erano intasati. I bambini facevano i loro bisogni
dove si trovavano. Erano pieni di croste, di pidocchi.
Questo per lo scenario. Lì, 13 bambini sono morti di fame. Eppure, l'opera
della generalessa era riconosciuta di utilità pubblica, riceveva, oltre
che le razioni normali, delle assegnazioni supplementari. Di tutto ciò
i bambini non vedevano nulla: il latte era per metà allungato con acqua,
le materie grasse erano utilizzate per il vitto del personale, lo zucchero super-razionato.
- I bambini ne avevano troppo - ha detto una sorvegliante.
La generalessa si faceva consegnare un litro e mezzo di latte al giorno, cioccolato,
riso, carne - e di prima scelta.
La direttrice, una piccola donna bruna, mandava alla sua famiglia pacchi di
venti chili con le sue riserve personali.
Tutta questa gente era ben nutrita e non si meravigliava di questo cibo scelto
all'epoca delle rape quotidiane.
E i bambini? Oh! era così facile. Non reclamavano nulla...
Non vi erano, dunque, dei medici? Ma sì. Forse si accontentavano di una
visita frettolosa...
- Quel caso di morbillo? - dice il dottor Dupont - Era del tipo normale. L'ho
curato nel modo usuale. (Su di un pagliericcio marcio, con una sola coperta!...
Allora c'è stata broncopolmonite e morte...).
Il sostituto interroga l'altro dottore, il dottor Vaslin:
- Allora, Lei è accorso quando è stato informato che il fanciullo
Dagorgne veniva trasportato all'ospedale dove è morto due giorni dopo?
- Non potevo. Era l'ora della mia merenda... Voglio dire della mia consultazione»
(«Le Populaire», 16 maggio 1950).
Questa pagina è degna dei migliori racconti dei campi di concentramento.
Il dramma è avvenuto in Francia e l'opinione pubblica non ne ha saputo
nulla, né tanto meno l'amministrazione dalla quale dipendeva l’”Opera
Maternità e Infanzia”: i bambini morivano come concentrazionari,
nelle stesse condizioni e per le stesse ragioni... ma in un paese democratico!
Così, dunque, quei famosi comitati rivoluzionari di difesa degli interessi
del campo, o di preparazione di piani politici per il dopoguerra, si riducono
a questo, eppure hanno potuto ingannare l'opinione pubblica in maniera così
rilevante. Lascio ad altri la cura di ricercare le ragioni per le quali ciò
è accaduto. Aggiungerò ancora che coloro che erano riusciti a
costituirli, a farne parte o ad assicurar loro l'autorità che ebbero
in tutti i campi, incoraggiavano lo spirito di vile adulazione dei quale essi
stessi si rendevano colpevoli di fronte alle S.S..
A proposito delle conferenze organizzate al Block 48 e delle quali si è
già fatto cenno, David Rousset racconta ancora:
«Organizzai dunque una prima conferenza: uno Stubendienst russo, di ventidue o ventitre anni, operaio dell'officina Marty, a Leningrado, ci espose a lungo la condizione operaia in U.R.S.S. La discussione che seguì durò due pomeriggi. La seconda conferenza fu fatta da un kohlkosiano sull'organizzazione agricola sovietica. Io stesso tenni, un po' dopo, una conversazione sull'Unione Sovietica, dalla Rivoluzione alla guerra...» (pag. 77).
Ho assistito a questa conferenza: era un capolavoro di bolscevicofilia, abbastanza inatteso per chi conosceva le precedenti attività trotzkiste di David Rousset. Ma Erich, il nostro capo-Block, era comunista e godeva di molto credito presso il «nucleo» che esercitava l'influenza preponderante nella Häftlingsführung del momento: era cosa abile saper attirare la sua attenzione e tenerla in serbo per il giorno in cui esso avrebbe avuto dei favori da distribuire.
«Tre mesi dopo - prosegue Rousset -, non avrei certamente ricominciato questo tentativo. La corda era agli estremi. Ma, a quell'epoca, eravamo tutti ancora molto ignoranti. Erich, nostro capo-Block, brontolò ma non si oppose alla faccenda» (pag. 77).
Naturalmente. E inoltre, tre mesi più tardi, era il Kapo Emil Künder
che bisognava assediare, il tempo delle conferenze era passato, la parola stava
ai pacchi che arrivavano dalla Francia. Se ho capito bene “Le Jours de
notre mort”, Rousset se ne servì, e io sono ben lungi dal rimproverarglielo:
debbo io stesso unicamente ai pacchi che ho ricevuto di essere tornato e non
ne ho mai fatto mistero.
Si può sostenere, e forse lo si farà, che non era di capitale
importanza stabilire, anche per mezzo di testimoni attinti tra coloro che ritengono
il fatto trascurabile o che lo giustificano, che la Häftlingsführung
ci ha fatto subire un trattamento più orribile ancora di quello che era
stato previsto per noi nelle sfere dirigenti del nazismo e che nulla la costringeva
a ciò. Dirò allora che mi è parso indispensabile fissare
esattamente le cause dell'orrore in tutti i loro aspetti, non foss'altro che
per ricondurre al suo giusto valore l'argomento soggettivo del quale si fece
così largo uso, e per orientare un po' di più verso la natura
stessa delle cose le investigazioni del lettore nello spirito del quale questo
problema non è risolto se non in maniera imperfetta e incompleta.
“L'obiettività”.
«Birkenau, la più grande città della morte. Le selezioni all'arrivo: gli scenari della civiltà montati come caricature per ingannare e asservire. Le selezioni regolari nel campo, tutte le domeniche. La lenta attesa delle distruzioni inevitabili al Block 7. Il “Sonderkommando” (20) completamente isolato dal mondo, condannato a vivere tutti i secondi della sua eternità con i corpi torturati e bruciati. Il terrore spezza i nervi in maniera così decisiva che le agonie conoscono tutte le umiliazioni, tutti i tradimenti. E quando, ineluttabilmente, le potenti porte della camera a gas si chiudono, tutti si precipitano, schiacciandosi l'un l'altro nella follia di vivere ancora, tanto che, una volta aperti i battenti, i cadaveri inestricabilmente mischiati si abbattono in cascate sulle rotaie» (pag. 51).
In un panorama d'insieme come “Les Jours de notre mort”, romanzato
e, per di più, ricostruito con l'aiuto di mezzi di cui l'autore ha lui
stesso, e sia pure senza saperlo, confessato l'ingenuità, questo passo
non urterebbe. Nell'“Univers concentrationnaire”, che ha, invece,
per tanti aspetti il carattere di un racconto vissuto, appare fuori posto. David
Rousset, infatti, non ha mai assistito a questo supplizio del quale dà
una descrizione così precisa e allo stesso tempo così impressionante.
Nel 1950 era troppo presto per pronunciare un giudizio definitivo sulle camere
a gas (21): i documenti erano rari, incompleti, imprecisi e visibilmente apocrifi
o sollecitati. Ma lo storico non aveva il diritto di avanzare ipotesi gratuite.
Mi sono dunque limitato a segnalare delle anomalie evidenti. Per esempio, Eugen
Kogon che, nel suo “Enfer organisé”, diceva (pag. 154): «Un
numero molto piccolo di campi avevano le loro proprie camere a gas», guardandosi
bene dal dire quali campi. Oppure, ancora, a proposito di quelle di Auschwitz-Birkenau,
raccontano come si procedeva allo sterminio con tale mezzo secondo la testimonianza
«di un giovane ebreo, Janda Weiss, che nel 1944 apparteneva al Sonderkommando (del crematorio e delle camere a gas), dal quale provengono i dettagli seguenti, confermati del resto da altre persone» (pag. 155).
Per quanto ne so, Janda Weiss è il solo personaggio di tutta la letteratura
concentrazionaria del quale si dica che ha assistito al supplizio e del quale
si dà l'indirizzo preciso. E solo Eugen Kogon ha messo a profitto queste
dichiarazioni. Data l'importanza storica e morale dell'utilizzazione delle camere
a gas come strumento di repressione, si sarebbe forse potuto fare in modo che,
la deposizione (22) fatta da lui, fosse consentito al pubblico di conoscerla,
anziché per interposte persone, ampliandola con dettagli che avrebbero
fatto sì che la deposizione medesima non avesse preso solo lo spazio
di un paragrafo in una testimonianza d'insieme.
Nella tesi di Eugen Kogon relativa alle camere a gas, vi era un elemento di
dubbio che consisteva in questo:
«Nel 1941 Berlino mandò nei campi i primi ordini per la formazione
dei trasporti speciali di sterminio con i gas. Furono scelti in primo luogo
i detenuti comuni, dei detenuti condannati per violazione del buon costume e
certi politici malvisti dalla S.S.. Questi trasporti partivano verso una destinazione
ignota. Nel caso di Buchenwald, si vedevano tornare fin dall'indomani il vestiario,
compreso il contenuto delle tasche, le dentiere, eccetera. Da un sottufficiale
di scorta si seppe che questi trasporti erano arrivati a Pirna e a Hohenstein
e che gli uomini che li componevano erano stati sottoposti alle prove di un
nuovo gas ed erano periti.
Nel corso dell'inverno 1942-43 si erano esaminati tutti gli ebrei dal punto
di vista della loro capacità lavorativa. Al posto dei summenzionati trasporti,
furono allora gli ebrei invalidi che in quattro gruppi di 90 presero la stessa
strada, ma finirono a Bernburg, presso Kothen. Il direttore della casa di salute
del luogo, un certo dottor Eberl, era il docile strumento delle S.S.. Nelle
pratiche delle S.S. questa operazione portò come riferimento «14
F. 13». Essa sembra essere stata attuata simultaneamente all’annientamento
di tutti gli ammalati delle case di salute, che andava generalizzandosi poco
a poco in Germania sotto il nazional -socialismo» (pag. 225 s.).
Ora, io avevo già studiato la questione abbastanza per sapere che gli ordini di sterminio ai quali egli alludeva provenivano, non da un programma di sterminio, ma dal programma di eutanasia. I due documenti di appoggio che egli citava - si era ben guardato dal citare gli ordini stessi - lo provavano ampiamente.
«Abbiamo potuto conservare - proseguiva - la copia delle lettere scambiate tra il dottor Hoven (di Buchenvald) e questa sorprendente casa di salute:
K. L. Buchenwald.
Il medico dei campo.
Weimar-Buchenwald, 2 - 2 - 1942.
Alla Casa di Salute di Bernburg a. d. Saale
Casella postale 263.
OGGETTO: ebrei inabili al lavoro nel campo di concentramento di Buchenwald.
ALLEGATI: 2.
RIFERIMENTO: Conversazione personale.
Riferendomi alla nostra conversazione personale, Vi allego in duplice copia e per qualsiasi fine utile la lista degli ebrei ammalati e inabili al lavoro, che si trovano nel campo di Buchenwald.
Il Medico di Buchenwald.
F.to Hoven.
S.S. Obersturmsführer d.r.»
Si osserverà che i due allegati dichiarati come facenti parte dell'invio
non sono pubblicati.
Ecco il secondo documento:
«Casa di Salute Bemburg.
Ref. Z. Be.gs.pt.
Bemburg, 5 Marzo 1942
Signor Comandante dei Campo di Concentramento di Buchenwald per Weimar.
RIFERIMENTO: nostra lettera del 3 marzo 1942.
OGGETTO: 36 detenuti, dodicesima lista del 2 febbraio 1942,
Con la nostra lettera del 3 corrente vi domandavamo di mettere a nostra disposizione
gli ultimi 36 detenuti, in occasione dell'ultimo trasporto, il 18 marzo 1942.
In seguito all'assenza del nostro Medico capo che deve procedere all'esame medico
di questi detenuti, vi domandiamo di non mandarceli il 18 marzo 1942, ma di
unirli al trasporto dell'11 marzo 1942, con le loro cartelle che vi saranno
restituite l'11 marzo 1942.
Heil Hitler!
F. to Godenschweig.»
Si converrà che occorre sollecitare in maniera singolare i testi per
dedurre, da questo scambio di corrispondenza, che esso si riferiva ad un'operazione
di sterminio mediante camere a gas.
Del resto, questi due documenti esigono molte osservazioni, dato che si riferiscono
all'operazione “eutanasia” (in tedesco: “Gnadentod”,
la morte per grazia) e portano le date del 2 febbraio e 5 marzo perché...
Perché, ecco la storia dell'operazione Gnadentod:
1) Il primo settembre 1939 Hitler firmò il decreto che la ordinava e
che era così concepito:
«Il Reichsleiter Bouhler e il dott. Brandt sono incaricati, sotto la loro personale responsabilità, di estendere i poteri dei medici da indicare nominativamente, in maniera che la morte per grazia (“Gnadentod”) possa essere assicurata, dopo esame critico del loro stato, agli ammalati che si possono umanamente considerare come incurabili.»
Firmato questo decreto - che non era limitativo -, fu intrapresa l'installazione
di camere a gas e di forni crematori in sei luoghi diversi: il castello Hadamar
presso Limburg, quello di Grafereck nel Württemberg, quello di Hartheim
presso Linz, e gli ospizi di Pirna, Bernburg e Brandeburgo. Fin dal gennaio
1940 cominciò la trasferta degli ammalati verso di essi.
2) Nel luglio 1941 correva voce negli ambienti cattolici tedeschi che 30000
ammalati erano stati liquidati con questo mezzo contrario alla dottrina della
Chiesa. I vescovi ne furono scossi e il 6 luglio 1941 fu letta in tutte le chiese
della Germania una lettera pastorale dei vescovi, datata 26 giugno, i cui punti
principali sono i seguenti:
«Vi sono sicuramente dei comandamenti che non ci impegnano se la loro osservanza sollevasse troppe difficoltà o pericoli. Ma vi sono anche dei doveri di coscienza dai quali nessuno può liberarci e che noi dobbiamo adempiere, foss'anche a prezzo della nostra vita. Mai, in nessuna circostanza, salvo che in guerra o per legittima difesa, l'uomo può uccidere un innocente!»
Questa lettera pastorale fu energicamente commentata da monsignor von Galen,
vescovo di Münster, ma non avendo essa avuto effetto alcuno ed essendosi
ripetuti i prelevamenti degli ammalati nella diocesi, mons. von Galen si appellò
al procuratore del Tribunale di Münster, il 28 luglio 1941, invocando gli
articoli 139 e 211 del codice che fanno obbligo a tutti di denunciare gli omicidi
e di opporvisi.
Non avendo neppure questo suo passo ottenuto alcun risultato, mons. von Galen
salì sul pulpito il 3 agosto 1941 nella sua chiesa di S. Lamberto in
Münster e pronunciò un sermone.
Dopo aver ricordato le precedenti proteste dei vescovi e le sue proprie e dopo
aver denunciato un nuovo prelevamento di 1600 ammalati negli ospizi di Marienthal
e di Warstein, il vescovo di Münster dichiarò:
«Perché debbono morire questi poveri ammalati indifesi? Semplicemente
perché, stando alla valutazione di un medico qualsiasi o di una commissione
qualsiasi, essi appartengono alla categoria degli «indegni di vivere».
Si decreta che non possono produrre. Sono come una vecchia macchina che non
funziona più, come un vecchio cavallo paralizzato, come una vacca che
non dà più latte. Cosa si fa di una vecchia macchina? Si getta
via con i rottami. E che cosa si fa di un cavallo paralizzato, dei bestiame
improduttivo?... Ma qui non si tratta di vecchie macchine, di cavalli o di vacche.
Si tratta di uomini come noi, nostri fratelli e nostre sorelle.
Guai agli uomini! Guai al nostro popolo tedesco, se il comandamento sacro: «Non
uccidere», che il nostro Creatore ha scolpito fin dall'origine nella coscienza
dell'uomo, viene trasgredito e se questa trasgressione è tollerata e
impunita.»
Questo sermone destò un'eco profonda in tutta la Germania e determinò
un movimento davanti al quale Hitler arretrò.
E meno di un mese dopo, il 20 agosto 1941, egli diede l'ordine che si sospendesse
l'operazione Gnadentod. Sulla suddetta versione di questo fatto tutti i cronisti,
perfino i più germanofobi e i più antinazisti, sono oggi d'accordo:
perfino Gerhard Jaeckel, che, in uno studio apparso col titolo di “Berlino-Carità”
nel giornale illustrato di Monaco «Quick» (25-6-1961), specializzato
in atrocità e orrori nazisti, l'ha confermata in tutti i suoi dettagli,
tale e quale la si è riportata. E a Parigi anche il giornale «Le
Monde» (5 maggio 1963) l'ha fatta sua.
Ora, i due documenti prodotti da E. Kogon portano le date del 2 febbraio e 5
marzo 1942, mentre l'operazione Gnadentod era terminata da più di 6 mesi.
Un terzo documento pubblicato da E. Kogon in appoggio a queste due lettere,
un rapporto del dott. Hoven relativo a questo fatto, ma senza data, dice secondo
Kogon quanto segue:
«Gli obblighi dei medici contrattanti e le trattative con i servizi d'inumazione hanno spesso dato luogo a difficoltà insormontabili... E’ per questo che mi metto subito in contatto col dotor Infried-Eberl, medico-capo della Casa di salute di Berriburg a.d. Saale, casella postale 252, telefono 3169. E’ lo stesso medico che ha seguito l'operazione «14 F. 13». Il dottor Eberl ha dato prova di estrema comprensione e di grande gentilezza. Tutti i corpi dei detenuti morti a Schöneberg-Wernigerode saranno trasportati presso il dottor Eberl a Bemburg e saranno cremati anche senza certificato di morte.» (pag. 227).
Il meno che si possa dire è che questo rapporto non dispensa dal verificare
l'autenticità dei tre documenti... non foss'altro per sapere se, nella
Germania del 1942, era possibile andare fino a tal punto contro gli ordini del
Führer.
Un'operazione che era praticata periodicamente in tutti i campi col nome di
«”Selektion”» non ha contribuito poco a creare nel pubblico
una opinione che ha finito per ottenere il suo favore, quanto al numero delle
camere a gas e a quello delle loro vittime.
Un bel giorno i servizi sanitari del campo ricevevano l'ordine di redigere l'elenco
di tutti gli ammalati considerati inabili al lavoro per un tempo relativamente
lungo o in via definitiva e di riunirli in un Block speciale. Poi arrivavano
dei camion - o un convoglio di vagoni -, essi venivano imbarcati e partivano
per una destinazione ignota. La voce concentrazionaria voleva che fossero diretti
subito alle camere a gas e, per una specie di crudele derisione, i raduni praticati
in queste occasioni venivano chiamati degli “Himme1skommando”, il
che significava che erano composti da persone in partenza per il cielo. Naturalmente
tutti gli ammalati cercavano di sfuggirvi.
Ho visto praticare due o tre Selektion a Dora: sono perfino sfuggito di stretta
misura a una di esse. Dora era un piccolo campo. Se il numero degli ammalati
inabili vi fu sempre superiore ai mezzi di cui si disponeva per curarli, soltanto
in rarissime occasioni raggiunse proporzioni suscettibili di intralciare il
lavoro o di creare problemi all'amministrazione.
Ad Auschwitz-Birkenau, di cui parla David Rousset nell'estratto che forma l'oggetto
di questa precisazione, era diverso. Il campo era molto grande: un formicaio
umano. Il numero degli inabili era considerevole. Le Selektion, invece di farsi
per via burocratica e per il canale dei servizi sanitari, come a Dora, si decidevano
sul momento, quando i camion o il convoglio dei vagoni arrivavano. Erano numerose
al punto da ripetersi ad una cadenza quasi settimanale e si praticavano basandosi
sull'aspetto. Tra le S.S. e la burocrazia concentrazionaria, da una parte, e
la massa dei detenuti che cercavano di sfuggire loro, dall'altra, si poteva
perciò assistere a vere e proprie scene di caccia all'uomo in un'atmosfera
di panico generale. Dopo ogni Selektion, quelli che restavano si sentivano provvisoriamente
sfuggiti alla camera a gas.
Ma nulla prova irrefutabilmente che tutti gli inabili o reputati tali, così
reclutati, sia col procedimento di Dora, sia con quello di Birkenau, fossero
diretti a delle camere a gas. A questo riguardo voglio riferire un fatto personale.
Nell'operazione di Selektion alla quale sono sfuggito a Dora, uno dei miei compagni
non ebbe la mia stessa fortuna. Lo vidi partire e lo compiansi. Nel 1946 credevo
ancora che fosse morto asfissiato con tutto il convoglio di cui faceva parte.
Nel settembre dello stesso anno lo vidi con stupore presentarsi a casa mia per
invitarmi a non ricordo più quale manifestazione ufficiale. Quando gli
dissi il pensiero nel quale ero vissuto per ciò che lo riguardava, mi
raccontò che il convoglio in questione era stato diretto non ad una camera
a gas, ma a Bergen-Belsen, la cui funzione era, pare, specialmente allora, quella
di ricevere in convalescenza i deportati di tutti i campi. Si può verificare:
si tratta del signor Mullin, impiegato alla stazione ferroviaria di Besançon.
In realtà, dopo un viaggio compiuto in condizioni spaventose, era arrivato
in una Bergen-Belsen sul quale convergevano, provenendo da tutta la Germania,
dei convogli di inabili, che non si sapeva né dove alloggiare, né
come nutrire, cosa che aveva il dono di eccitare le S.S. e i bastoni dei Kapo...
Vi passò dei giorni terribili, e alla fine fu reimmesso nel circuito
del lavoro.
A Buchenwald, del resto, avevo già incontrato, al Block 48, un ceco che
era tornato da Birkenau nelle stesse condizioni.
La mia opinione sulle camere a gas? Ve ne furono: non tante quanto si crede.
Degli stermini con questo mezzo, pure ve ne furono: non tanti quanto si è
detto. Il numero, naturalmente, non toglie nulla alla natura dell'orrore, ma
il fatto che si trattasse di una misura decretata da uno Stato nel nome di una
filosofia o di una dottrina lo accrescerebbe in modo singolare. Dobbiamo ammettere
che è stato così? Nel 1950 ci si poteva porre questa domanda.
Oggi la questione è risolta: la dichiarazione del dott. Kubovy, direttore
del Centro di documentazione ebraica di Tel Aviv, relativa all'inesistenza degli
ordini di sterminio degli ebrei l'ha definitivamente regolata in senso negativo.
Ripeto: l'argomento che ebbe il maggior ruolo in questa faccenda sembra essere
l'operazione Selektion della quale non vi è deportato che non possa parlare
da testimonio, sotto una forma o sotto un'altra, e che non lo faccia in funzione,
principalmente, di tutto ciò che ha avuto da temere sul momento. Gli
archivi del nazionalsocialismo non sono stati ancora completamente esaminati.
Non si può dire con certezza che vi si scopriranno dei documenti di natura
tale da inficiare la tesi ammessa: sarebbe cadere nell'eccesso opposto: così
scrivevo nel 1950. Ma, aggiungevo, se un giorno dovesse venire fuori uno o più
testi che ordinassero la costruzione di camere a gas per uno scopo del tutto
diverso da quello dello sterminio - non si sa mai, con quel terribile genio
scientifico dei tedeschi -, bisognerebbe pure ammettere che l'impiego che in
certi casi ne è stato fatto si deve a uno o due pazzi tra le S.S. e a
una o due burocrazie concentrazionarie pronte a compiacerle, o viceversa, a
una o due burocrazie concentrazionarie, con complicità, comprata o no,
di una o due S.S. particolarmente sadiche.
Nello stato attuale dell'archeologia dei campi, nulla, dicevo inoltre, permette
di aspettare o di sperare una simile scoperta, ma, del pari, nulla permette
di escluderla. Come si vede, avevo idee molto larghe e circospette.
Due altri testi citati da David Rousset in “Le Pitre ne rit pas”
(1949) non mi parevano più convincenti di quelli di Kogon. Il primo è
una deposizione di un certo Arthur Grosch a Norimberga: si riferisce alla costruzione
delle camere a gas, non alla loro utilizzazione. Il secondo, relativo ad auto
munite di un dispositivo asfissiante che sarebbero state usate in Russia, porta
la firma di un sottotenente ed è indirizzato a un tenente. Né
l'uno né l'altro permettono di accusare i dirigenti del regime nazista
di aver ordinato stermini col gas. Ambedue sono in appendice a questo capitolo.
Parlando di Auschwitz-Birkenau, Eugen Kogon aveva detto che verso la fine del
1942 il Terzo Reich considerava la possibilità di installarvi una succursale
della IG Farben, industria nella quale l'impiego dei gas era indispensabile,
e io espressi il parere che forse da questo fatto era nata l'accusa secondo
la quale il Terzo Reich aveva deciso di sterminare in massa gli ebrei con quel
mezzo.
Beninteso, dicevo, si tratta soltanto di una supposizione, ma tanto nella storia
come nelle scienze la maggior parte delle scoperte non sono forse scaturite,
se non dalla supposizione, almeno da un dubbio stimolatore?
Se si obietta che non vi è nessun interesse a procedere in questo modo
col nazionalsocialismo i cui misfatti sono per altra via solidamente accertati,
mi si permetterà di pretendere che non ve ne è di più ad
appoggiare una dottrina o un'interpretazione forse vera, su fatti incerti o
falsi. Tutti i grandi principi della democrazia muoiono non per il loro contenuto,
ma per il fatto di prestare troppo il fianco con dettagli che si credono insignificanti
tanto nella loro portata quanto nella loro sostanza, e le dittature trionfano
generalmente soltanto nella misura in cui si brandiscono contro di esse argomenti
studiati male. A questo proposito, David Rousset cita un fatto che illustra
magistralmente questo modo di vedere:
«Parlavo con un medico tedesco... Non era chiaramente un nazista. Non ne poteva più della guerra e ignorava dove si trovassero sua moglie e i suoi quattro ragazzi. Dresda, che era la sua città, era stata crudelmente bombardata. «Vediamo, mi disse, la guerra è dunque stata fatta per Danzica?» Gli risposi di no. «Allora, vede, la politica di Hitler nei campi di concentramento è stata spaventosa (feci il saluto); ma, per tutto il resto, egli aveva ragione» (pag. 176).
Così, dunque, da questo piccolissimo dettaglio: perché si era
creduto cosa astuta dichiarare che si faceva la guerra per Danzica, e ciò
si era rivelato falso, questo medico giudicava di tutta la politica di Hitler
e la approvava. Mi domando con spavento cosa deve pensarne adesso, dopo che
ha letto David Rousset ed Eugen Kogon.
Oggi, circa le camere a gas, gli archivi tedeschi hanno rivelato un certo numero
di documenti che hanno modificato considerevolmente le tesi rese ufficiali dal
processo di Norimberga. Fino a che punto i dubbi che esprimevo nel 1950 fossero
giustificati, il capitolo speciale che vi è consacrato in questo lavoro
lo dimostrerà ampiamente.
“Traduttore, traditore”.
Quanto segue non ha grande importanza:
«L'espressione Kapo è verosimilmente di origine italiana e significa la testa; due altre spiegazioni possibili: Kapo, abbreviazione di Kaporal, oppure derivante dalla contrazione dell'espressione Kamerad Polizei, impiegata nei primi mesi di Buchenwald» (pag. 131).
Eugen Kogon è più affermativo:
«“Kapo”: dall'italiano “il capo”, la testa... (“L'Enfer organisé”, pag. 59).
Io suggerisco un'altra spiegazione, che fa derivare la parola dall'espressione
Konzentrationslager Arbeit Polizei, di cui riunisce le iniziali, così
come “Schupo” deriva da “Schutz Polizei” e “Gestapo”
da “Ge”heime “Sta”at “Po”lizei. La fretta
di David Rousset e di Eugen Kogon ad interpretare piuttosto che ad analizzare
a fondo non ha loro permesso di pensarci.
Ed è una prova.
Appendice.
“Dichiarazione sotto giuramento”.
«Io sottoscritto Wolfgang Grosch attesto e dichiaro quanto segue:
... Per ciò che riguarda la costruzione delle camere a gas e dei forni
crematori, essa ebbe luogo sotto la responsabilità del gruppo di funzione
C, dopo che il gruppo di funzione D ne ebbe dato l'ordine. La via gerarchica
era la seguente: il gruppo di funzione D si metteva in rapporto col gruppo di
funzione C. L'ufficio C. 1 metteva a punto i piani per queste installazioni,
per quel tanto che si trattava di costruzioni propriamente dette, li trasmetteva
poi all'ufficio C. 3 che si occupava dell'aspetto meccanico di queste costruzioni,
come per esempio la disaerazione delle camere a gas, o l'apparecchiatura per
la gassazione. L'ufficio C. 3 affidava allora questi piani ad un'impresa privata,
che doveva consegnare le macchine speciali o i forni crematori. Sempre per via
gerarchica, l'ufficio, C. 3 avvisava l'ufficio, C. 4, il quale trasmetteva l'ordine,
per il tramite dell'Ispettorato delle costruzioni Ovest, Nord, Sud, ed Est,
alle direzioni centrali delle costruzioni. La direzione centrale delle costruzioni
trasmetteva allora l'ordine di costruzione alle rispettive direzioni di costruzioni
dei campi di concentramento, le quali facevano eseguire le costruzioni propriamente
dette dai detenuti che l'ufficio del gruppo D. 3 metteva a loro disposizione.
Il gruppo di funzione D dava al gruppo di funzione C gli ordini e le istruzioni
concernenti le dimensioni delle costruzioni e il loro scopo. In definitiva era
il gruppo di funzione D che dava le ordinazioni per le camere a gas e i forni
crematori.
F.to: Wolfgang Grosch.
(Da “Le Pitre ne rit pas”, di David Rousset).»
Questa deposizione è stata fatta al Tribunale di Norimberga.
Se non è colpa esclusivamente del traduttore, il linguaggio nel quale
è redatta sembra essere stata scrupolosamente rispettato da lui, al chiaro
scopo di mantenere la confusione.
Tuttavia non può sfuggire al lettore:
1) che si parla solo della “costruzione” delle camere a gas, e non
della loro “destinazione” e della loro “utilizzazione”;
2) che il testimonio si riferisce a fatti dei quali sarebbe facile stabilire
l'esistenza e a «istruzioni» che si potrebbero pubblicare; e che,
invece, sembra si abbia cura di evitare di farlo, specialmente per quel che
riguarda lo scopo delle camere a gas, scopo al quale si fa riferimento;
3) che dall'insieme delle costruzioni per i campi, il cui studio e la cui realizzazione
erano affidati al gruppo di funzione D (Block di abitazione, infermerie, cucine,
laboratori, officine, eccetera), le camere a gas e i forni crematori sono stati
isolati e singolarmente accoppiati allo scopo di meglio colpire un'opinione
pubblica che accetta facilmente che i forni crematori le siano presentati come
strumenti di tortura appositamente inventati per i campi di concentramento,
perché essa non sa che la cremazione è in tutta la Germania di
uso corrente tanto quanto l'inumazione negli altri paesi.
Per tutte queste ragioni, nessuno storico accetterà mai questa deposizione
nella sua integralità.
“Rapporto di un sottotenente ad un tenente” (23).
«N. del settore postale: 32704.
B.N. 40/42.
501. P.s.
Kiew, 16 aprile 1942.
(Affare segreto del Reich).
Alla S.S. Obersturmführer Rauff, Berlino, Prinz Albrechts, 8.
La revisione delle vetture dei gruppi D. e del gruppo C. è completamente
terminata. Mentre le vetture della prima serie possono essere utilizzate, anche
con tempo cattivo (occorre però che non lo sia troppo), le vetture della
seconda serie (Saurer) s'impantanano “completamente con tempo piovoso”
(24). Quando, ad esempio, è piovuto, foss'anche per mezz'ora soltanto,
la vettura è inutilizzabile, essa, molto semplicemente, scivola. E’
possibile servirsene soltanto con un tempo del tutto asciutto. La sola questione
che si pone è se ci si possa servire della vettura sul luogo stesso dell'esecuzione
quando è ferma. Occorre, prima di tutto, condurre la vettura fino al
luogo in questione, cosa possibile soltanto con il tempo buono.
Il luogo dell'esecuzione si trova in genere distante 10-15 chilometri dalle
strade principali, ed è già scelto poco accessibile. Lo è
completamente quando il tempo è umido o piovoso. Se si conducono le persone
a piedi o in vettura sul luogo dell'esecuzione, esse si rendono subito conto
di quel che accade e diventano inquiete, cosa che è bene evitare per
quanto possibile. Rimane la sola soluzione che consiste nel caricarle in camion
sul luogo del raduno e condurle poi al luogo dell'esecuzione.
Ho fatto camuffare la vettura del gruppo D. come roulotte, e a questo scopo,
ho fatto fissare su ciascun lato delle piccole vetture una finestrina, come
quelle che si vedono spesso nelle case di contadini in campagna, e due di queste
finestrine su ciascun lato delle vetture grandi. Queste vetture si sono fatte
notare così rapidamente che furono soprannominate «vetture della
morte». Non soltanto le autorità, ma anche la popolazione civile,
le indicavano con questo nomignolo appena facevano la loro apparizione! A mio
parere, anche questo camuffamento non potrebbe a lungo che preservarle dall'essere
riconosciute.
I freni della vettura Saurer che condussi da Simferopol a Taganrog si rivelarono
difettosi in strada. Lo S.K. di Mariupol constatò che la leva del freno
è combinata ad olio e a compressione. La persuasione e la corruzione
del H.K.P. riuscirono insieme a far confezionare una forma sulla quale è
stato possibile fondere due leve. Quando arrivai qualche giorno dopo a Stalino
e Gerlowka, i conducenti delle macchine si lamentavano della “stessa difettosità”
(25). Dopo un colloquio coi comandanti di questi kommando, andai di nuovo a
Mariupol per far fare altre due leve per ognuna di queste vetture. Secondo i
termini del nostro accordo, due leve saranno fuse per ogni vettura e altre sei
resteranno di riserva a Mariupol per il gruppo D., e sei altre ancora saranno
inviate alla S.S. Untersturmführer Ernst per le vetture del gruppo C. Per
i gruppi B. e A. le leve potrebbero pervenirci da Berlino, perché il
loro trasporto da Mariupol verso il Nord è troppo complicato e prenderebbe
troppo tempo. Piccole difettosità alle vetture sono riparate da tecnici
dei kommando o dei gruppi nella loro officina.
Il terreno accidentato e la condizione appena concepibile delle vie e delle
strade, consumano poco a poco i punti di sutura e quelli impermeabilizzati.
Mi fu domandato se occorreva allora far effettuare la riparazione a Berlino.
Ma questa operazione costerebbe troppo e richiederebbe troppa benzina. Allo
scopo di evitare queste spese, diedi l'ordine di effettuare sul posto delle
piccole saldature e, nel caso in cui ciò risultasse impossibile, di telegrafare
subito a Berlino, dicendo che la vettura P.O.L. n.... era fuori servizio. Inoltre,
ordinai di allontanare tutti gli uomini al momento delle gassazioni, per non
esporre la loro salute alle eventuali emanazioni di questi gas. Vorrei, in questa
stessa occasione, fare anche la seguente osservazione: parecchi Kommando fanno
scaricare le vetture dai loro propri uomini, dopo la gassazione. Ho fatto presente
al S.K. in questione i danni, tanto morali che fisici, che questi uomini riportano,
se non subito, almeno un po' più tardi. Gli uomini si lamentano con me
di mali di testa dopo ogni caricamento. Peraltro non si può modificare
l'ordinanza (26) perché si teme che i detenuti (27) impiegati in questo
lavoro possano scegliere un momento favorevole per fuggire. Per proteggere gli
uomini contro questo inconveniente, vi prego di promulgare ordinanze in conseguenza.
La gassazione non viene effettuata come si dovrebbe. Per farla finita al più
presto con questa azione, gli autisti premono sempre a fondo sull'acceleratore
(28). Questa misura soffoca le persone da giustiziare invece di ucciderle, addormentandole.
Le mie direttive sono di aprire le valvole in maniera tale che la morte sia
più rapida e più dolce per gli interessati. Essi non hanno più
quei visi sfigurati e non lasciano più delle eliminazioni, come si è
potuto constatare finora.
Nel giorno presente mi reco sui luoghi di stazionamento del gruppo B. ed eventuali
notizie possono raggiungermi là.
F.to: Dott. Becker S.S. Untersturmführer».
(Da “Le Pitre ne rit pas”, di David Rousset)
Questo rapporto viene in appoggio ad un'affermazione di Eugen Kogon che nel suo “Enfer organisé” scrive:
...essa (la S.S.) utilizzava anche le camere a gas ambulanti: erano auto che, dal di fuori, assomigliavano a vetture cellulati, e che, all'interno, avevano ricevuto l'adeguata disposizione. In queste vetture l'asfissia con i gas non pare fosse molto rapida, perché di solito giravano abbastanza a lungo prima di fermarsi e scaricare i cadaveri» (pag. 154).
Eugen Kogon, il quale non dice se si sono ritrovate di queste vetture della
morte, neanche cita questo rapporto.
Ad ogni modo, bisogna rallegrarsi con il traduttore, che, se non è riuscito
a colmare certe lacune e a soddisfare certe curiosità, ha per lo meno
dato alla forma una straordinaria fisionomia latina nell'espressione del pensiero.
E bisogna osservare:
1) che per gli attuali cercatori di documenti è più facile ritrovarne
su quanto accadeva a Mariupol che su quanto accadeva a Dachau;
2) che, trascurando una ordinanza emanante da un ministro, si mette in evidenza
la semplice lettera relativa ai “rapporti di un sottotenente con il suo
tenente”.
3) che, se si è ritrovato un testo, non sembra si sian però ritrovate
delle vetture, a meno che, ove se ne siano ritrovate, questo avvenimento abbia
sollevato solo poco rumore.
La questione è tuttora in discussione, ma, come si è visto (estratto
di un resoconto dei dibattiti del processo del campo di Chelmno a Bonn, udienza
del 6 marzo 1963), un'altra versione è stata avanzata: non si tratta
più di veicoli Saurer (si è scoperto intanto che la ditta Saurer
non costruiva quel tipo dal... 1912! bensì di vetture americane per la
disinfezione delle truppe in campagna, fornite alla Germania dagli USA al tempo
della guerra di Spagna, e di vetture costruite dai tedeschi su di un modello
simile.
Decisamente, si possono sempre trovare testimoni per dire qualsiasi cosa!