Sul versante britannico, l'Adam Smith Institute, il Centre for Policy Studies
e l'Institute of Economic Affairs (IEA) hanno agito di concerto per diffondere
non solo le idee economiche e sociali neoliberiste (33), ma anche le tesi punitive
concepite negli Stati uniti, introdotte in Gran Bretagna da John Major e quindi
riprese e enfatizzate da Tony Blair. Per fare un esempio, fin dal 1989, l'IEA
(fondato, come il Manhattan Institute da Antony Fischer, sotto il patrocinio
intellettuale di Friederich von Hayek) promosse con grande clamore su iniziativa
di Rupert Murdoch una serie di incontri e pubblicazioni intorno al «pensiero»
di Charles Murray che, da parte sua, rivolse ai cittadini britannici l'invito
a ridimensionare drasticamente il loro stato assistenziale - visto che purtroppo
era impossibile sopprimerlo del tutto - per scongiurare l'emergere di una presunta
"underclass" di poveri alienati, dissoluti e pericolosi, analoga a
quella che «devasta» le città americane, la cui origine sarebbe
da riferire alle politiche sociali lassiste instaurate a partire dalla «Guerra
alla povertà» degli anni sessanta.
L'intervento di Charles Murray, a cui fece seguito un'ondata di articoli giornalistici
improntati prevalentemente all'entusiasmo (sul «Times», l'«Indipendent»,
il «Financial Times», il «Guardian» eccetera), condurrà
alla pubblicazione di un volume collettaneo nel quale, a fianco delle disquisizioni
di Charles Murray sulla necessità di far valere «la forza civilizzatrice
del matrimonio» nei confronti dei «giovani uomini [che] sono essenzialmente
dei barbari» e sulle loro compagne sempre pronte a restare incinte, in
quanto per esse «avere rapporti sessuali è divertente e fare un
figlio qualificante» (34), figura un intervento firmato da Frank Field,
responsabile per il welfare del Partito laburista e futuro ministro degli Affari
sociali del governo Blair, nel quale si propongono misure punitive volte a impedire
alle ragazze madri di avere dei figli e inoltre a obbligare i «padri assenti»
ad assumersi le responsabilità economiche della loro illegittima progenie
(35). In tal modo, si stabilisce un'esplicita convergenza fra la destra americana
più reazionaria e l'autoproclamata avanguardia della «nuova sinistra»
europea intorno all'idea che i «cattivi poveri» devono essere gestiti
con mano ferrea dallo stato e i loro comportamenti corretti tramite la pubblica
riprovazione e l'appesantimento dei vincoli amministrativi e delle sanzioni
penali.
Quando nel 1994 Charles Murray ritorna all'attacco, in occasione di un soggiorno
a Londra generosamente coperto dalla stampa (il «Time» pubblica
regolarmente sue lettere e opinioni), il concetto di "underclass"
- sotto la spinta di «burocrazie della ricerca» preoccupate di dimostrare
la loro utilità e ragion d'essere gettandosi sui temi politico-mediatici
del momento - era ormai entrato a pieno titolo sia nel linguaggio politico sia
nelle scienze sociali. Di conseguenza non ebbe alcuna difficoltà a convincere
il suo uditorio del fatto che le sue fosche previsioni del 1989 si erano nel
frattempo del tutto realizzate: l'«illegittimità», la «dipendenza»
e la criminalità si erano affermate congiuntamente fra i nuovi poveri
di Albione, minacciando le fondamenta della civiltà occidentale (36).
(A qualche giorno dalla pubblicazione del monito di Charles Murray, il ministro
del Tesoro e bilancio del governo Major, Kenneth Clarke, rispose affermando
in un discorso ufficiale che la diminuzione della spesa sociale promossa dal
governo mirava «a impedire l'emergere di una "underclass" esclusa
dalla possibilità di lavorare e dipendente dalle sovvenzioni sociali».)
Nel 1995 sarà il turno di un compagno di lotta ideologica di Charles
Murray, il politologo neoconservatore della New York University, Lawrence Mead,
chiamato a spiegare agli inglesi, in occasione di un convegno dell'IEA, che
lo stato, se da una parte deve evitare di aiutare materialmente i poveri, dall'altra
ha il dovere di sostenerli moralmente imponendo loro di lavorare. Si tratta
del tema, in seguito assai caro a Tony Blair, degli «obblighi di cittadinanza»,
volto a giustificare la trasformazione del welfare in workfare e il ricorso
alle prestazioni salariali coatte in sostituzione dei diritti sociali e del
diritto al lavoro per i soggetti «dipendenti» dalle sovvenzioni
pubbliche (processo portato a termine nel 1996 negli Stati uniti, e tre anni
più tardi in Inghilterra) (37).
[Lawrence Mead, grande ispiratore della politica britannica di riforma delle
prestazioni sociali, è autore del libro "Beyond Entitlement. The
Social Obbligation of Citizenship", pubblicato nel 1986, la cui tesi centrale
afferma che lo stato assistenziale americano degli anni settanta e ottanta ha
completamente fallito nel suo tentativo di riassorbire la povertà. Ciò
è accaduto non perché i suoi programmi di supporto sociale erano
troppo generosi (come sostiene Charles Murray) ma in quanto erano «permissivi»
e non imponevano ai beneficiari alcun obbligo di condotta. Oggi, infatti, diversamente
dal passato, «la disoccupazione è dovuta più ai problemi
e alle difficoltà personali del disoccupato che a motivazioni di ordine
economico». Di conseguenza «qualsiasi impiego, anche quelli 'sporchi'
e 'mal pagati', non possono essere affidati solo alla buona volontà e
all'iniziativa del lavoratore», ma devono essere resi obbligatori «sul
modello di reclutamento del servizio militare». Lo stato non dovrebbe
quindi impegnarsi per rendere i comportamenti auspicati più attraenti
- per esempio aumentando i livelli minimi salariali, in caduta libera dal 1967
o migliorando la previdenza sociale - ma limitarsi a punire coloro che non li
adottano: «il non lavoro è un atto politico» che manifesta
la «necessità del ricorso all'autorità» (38).
In altri termini, le condizioni salariali miserabili devono essere elevate al
rango di dovere civico (in particolare riducendo le possibilità di sopravvivenza
al di fuori del mercato del lavoro dequalificato), al quale non si può
sfuggire. Lawrence Mead ha il merito di cogliere ed evidenziare come la generalizzazione
del lavoro precario, da molti presentata nei termini di una «necessità
economica» per molti versi spiacevole ma ideologicamente neutra e in ogni
caso materialmente ineluttabile, si fondi in realtà sul ricorso diretto
al comando politico e si collochi all'interno di una precisa strategia di classe.
Tale progetto esige non tanto la distruzione dello stato a favore dell'eden
liberale del mercato universale, quanto "la sostituzione dello stato assistenziale
«maternalista» con uno stato punitivo «paternalista»",
capace di imporre la condizione salariale desocializzata come norma sociale
e fondamento di un nuovo ordine di classe polarizzato.
In "The New Politics of Poverty. The Nonworking Poor in America",
pubblicato sei anni dopo, Lawrence Mead nota come nelle società avanzate
- sia in America, sia in Europa (anche se con qualche ritardo) - la questione
sociale prioritaria oggi è rappresentata non dall'«eguaglianza
economica», concetto ormai superato, ma dalla «dipendenza dei poveri»
inadatti al lavoro per incapacità sociale o imperizia morale: «Abbiamo
bisogno di un nuovo linguaggio politico che faccia della competenza non il postulato
ma l'oggetto del dibattito. Abbiamo bisogno di sapere come e perché i
poveri sono più o meno meritevoli, e quale tipo di pressioni possono
influire sul loro comportamento». Da ciò consegue che «una
nuova politica del comportamento individuale», libera dai retaggi del
«sociologismo» che fino a oggi ha viziato i diversi approcci al
problema attribuendo illegittimamente cause sociali alla miseria, sia chiamata
a sostituire la «riforma sociale» (39).
Proseguendo, Lawrence Mead, in un'opera collettiva dall'eloquente titolo di
"The New Paternalism. Supervisory Approaches to Poverty", «teorizza»
l'esigenza di uno stato forte che, e come un tutore morale inflessibile, sappia
sconfiggere la «passività» dei poveri attraverso la disciplina
del lavoro e il rimodellamento autoritario del loro «stile di vita»
non funzionale e dissoluto: «Le politiche tradizionali di lotta contro
la povertà adottano un approccio 'compensatorio', tentando di rimediare
ai deficit di reddito e qualificazione di cui soffrirebbero i poveri a causa
delle condizioni svantaggiose del loro ambiente sociale. [...] All'opposto,
i programmi paternalistici insistono sugli obblighi. L'idea centrale è
che i poveri necessitino non tanto di sostegno, quanto soprattutto di una salda
strutturazione. Ed è compito dello stato far rispettare le norme di comportamento.
Il versante 'mantenimento dell'ordine' della politica sociale è al servizio
della libertà della maggioranza, ma intende anche favorire la libertà
dei poveri» (40). In altri termini, volenti o nolenti, le frazioni diseredate
della classe operaia sarebbero le presunte grandi beneficiarie della transizione
storica dallo stato assistenziale allo stato penitenziale.
I programmi paternalistici, volti a fornire ai poveri un «quadro direttivo»
che permetta loro (finalmente) di «vivere in maniera costruttiva»,
riducendo in tal modo il fardello che addossano al resto della società,
hanno per obiettivo principale, come era lecito attendersi, due categorie di
persone spesso coincidenti e correlate: i destinatari delle sovvenzioni sociali
e i clienti del sistema penale (41), ossia le donne e i bambini appartenenti
al (sotto)proletariato sul versante del welfare, e i rispettivi mariti, padri,
fratelli e figli per quanto riguarda il sistema penale. Lawrence Mead auspica
dunque «più stato», nel duplice senso di sociale e penale,
ma a patto che il «sociale» operi come «penale mascherato»,
come strumento di sorveglianza e disciplinamento dei beneficiari che, in caso
di mancanze, vengono rinviati direttamente all'ambito penale.
Lawrence Mead, comunque, ammette che «le conseguenze» del paternalismo
di stato «potrebbero rivelarsi particolarmente pesanti per le minoranze
razziali sovrarappresentate fra i poveri». Ai loro occhi, il dispiegamento
di simili politiche potrebbe a prima vista «apparire come una regressione,
in particolare per i neri che potrebbero pensare a un ritorno allo schiavismo
e al regime di Jim Crow» ( il sistema di segregazione e discriminazione
legale prevalente negli stati del Sud nel periodo che va dall'emancipazione
agli anni Sessanta). Lawrence Mead, tuttavia, si affretta ad aggiungere che
«il paternalismo è un'autentica politica sociale postrazziale»
in quanto emergerebbe proprio nel momento in cui «le teorie razziali della
povertà hanno raggiunto un livello di discredito e implausibilità
senza precedenti», inoltre «oggi i poveri e coloro che li favoriscono
sono mescolati ["integrated"] e provengono da tutti i gruppi razziali
[sic]» (42).'
Il fatto che un importante esponente del New Labour, Frank Field, dopo essere
stato interlocutore di Charles Murray si sia impegnato personalmente nella discussione
delle tesi di Lawrence Mead, la dice lunga sul livello di colonizzazione mentale
dei politici inglesi (sulla copertina della riedizione del 1997 del libro, dopo
cioè la vittoria elettorale dei neolaburisti, compariva a caratteri cubitali
la scritta «Frank Field, ministro per la Riforma dell'intervento sociale»)
(43). Tale supina acquiescenza non manca di stupire e nello stesso tempo lusingare
il politologo della New York University: «Sono onorato per l'interesse
che i responsabili della politica sociale britannica manifestano nei confronti
del mio lavoro. E' per me estremamente emozionante ["thrilling"] scoprire
come ragionamenti sviluppati in luoghi assai lontani da qui abbiano agito su
uno stato che gli americani definirebbero 'la madre di tutti gli stati assistenziali'»
(44).
L'estratto che ci accingiamo a presentare, tratto da un testo di Lawrence Mead
dal titolo "Il dibattito sulla povertà e la natura umana",
offre un eloquente catalogo pseudofilosofico delle nuove «evidenze»
che presiedono allo sviluppo delle politiche sociali americane (e inglesi) nell'era
del «postwelfare» (45). In primo luogo, emerge la regressione verso
una concezione atomistica della società, vista come semplice collezione
seriale di individui guidati ora dalla chiara percezione dei loro interessi,
ora (in particolare quando i comportamenti sembrano contraddire il calcolo utilitaristico
o il buon senso conservatore) da una «cultura» da cui scaturiscono
miracolosamente strategie e opportunità. A ciò si accompagna il
ricorso a spiegazioni dei fatti sociali incentrate sulla dimensione individuale,
in palese violazione della prima regola del metodo sociologico (secondo la quale
un fatto sociale deve sempre essere spiegato da un altro fatto sociale), considerato
del tutto superato con l'avvento della nuova «società meritocratica».
Ne risulta la totale cancellazione delle classi sociali, non a caso rimpiazzate
dalla distinzione tecnica e morale fra «competenti» e «incompetenti»,
«responsabili» e «irresponsabili», fondata sul fatto
che le ineguaglianze sociali altro non farebbero che riflettere differenze di
«personalità» - o, per usare gli schemi di Murray e Herrnstein,
di «capacità cognitiva» - sulle quali le politiche pubbliche
non possono aver alcun effetto. Tale prospettiva ultraliberale curiosamente
si accompagna alla concezione autoritaria di uno stato paternalistico a cui
viene affidato il compito di far rispettare i «principi elementari della
civiltà e dell'educazione» e nello stesso tempo di imporre condizioni
salariali dequalificate e sottopagate a coloro che in proposito si mostrano
recalcitranti. L'intervento sociale e il lavoro di polizia, in tal modo, obbediscono
a una stessa logica di controllo e rettifica dei comportamenti delle fasce più
demunite e incompetenti della classe operaia. Non privo di significato, inoltre,
è il fatto che il testo in questione sia stato pubblicato in un volume
collettaneo volto a proporre «prospettive cristiane a una politica sociale
in crisi». La componente religiosa, infatti, svolge un ruolo rilevante
nel ritorno in auge presso le classi dominanti anglo-americane di un moralismo
di impronta neovittoriana. Sociodicea e teodicea uniscono quindi i loro sforzi
per meglio legittimare il nuovo ordine liberal-paternalista.
«Le politiche sociali hanno progressivamente abbandonato l'obiettivo di
riformare la società per concentrarsi sul controllo e la supervisione
della vita dei poveri. Le ragioni di tale mutamento di prospettiva sono da ricercare
non solo nella maggiore influenza esercitata nel paese dalle correnti conservatrici,
ma anche nella perdita di plausibilità delle spiegazioni strutturali
della povertà. Se la povertà è dovuta più ai comportamenti
dei poveri che alle barriere sociali, allora si dovranno cambiare i comportamenti
e non la società. E sarà quindi necessario, in primo luogo, scoraggiare
le gravidanze illegittime ed elevare il livello del lavoro [...].
E' per questo motivo che le politiche sociali si sono indirizzate verso l'imposizione
del lavoro. A partire dal 1967, con una significativa accelerazione dopo il
1988, il programma A.F.D.C. pretende da una crescente percentuale di madri assistite
["welfare mothers" - sic!], come condizione per l'accesso alle allocazioni,
la partecipazione a un programma di lavoro. I diversi stati utilizzano la legislazione
sul sostegno all'infanzia per spingere i «padri assenti» a lavorare
per provvedere ai bisogni delle loro famiglie. Inoltre, le scuole divengono
più severe nell'applicazione dei regolamenti, i ricoveri per senzatetto
normano i comportamenti dei loro ospiti e, in generale, la tutela dell'ordine
si è fatta più intransigente. L'osservazione mostra come simili
politiche paternalistiche, che aiutano i poveri esigendo che divengano 'funzionanti',
abbiano maggiori possibilità di migliorare la situazione della povertà
rispetto al semplice 'fare di più' (o 'di meno'). La migliore risposta
alla povertà consiste non nel sovvenzionare le persone o nell'abbandonarle,
ma nel dirigere la loro vita. [...]
Lo stato deve farsi carico direttamente dell'osservanza delle norme essenziali
dell'ordine pubblico. Deve reprimere le violazioni della legge, mobilitare i
soldati intorno alla bandiera e così via. E deve anche, con impegno non
minore, fare rispettare gli obblighi a cui ogni americano è tenuto se
vuole partecipare da eguale alla sfera pubblica. L'obiettivo dell'eguaglianza
civica rappresenta la più importante missione ["innermost purpose"]
dell'America. La partecipazione politica è parte integrante dell'eguaglianza
civica, ma sono in pochi a considerare il voto un obbligo. Diverso è
il discorso per quanto riguarda il lavoro. In genere il lavoro è considerato
come l'elemento essenziale nella definizione dello statuto sociale di una persona.
Di conseguenza, il fatto di assicurare un impiego a tutti coloro che non lavorano
rappresenta uno delle priorità della politica interna dello stato americano.
[... ]
Nella società meritocratica che esce da tale riforma [delle sovvenzioni
sociali], le identità di «competente» e «incompetente»
si collocano a fondamento della stratificazione sociale ed eclissano le vecchie
differenze di classe. [...] Si viene considerati «ricchi» quando
si manifestano maniere convenienti e responsabili, «poveri» nel
caso contrario. Nessuna riforma strutturale della società può
alterare simili identità, in quanto nella politica d'oggi la qualità
principale di un individuo dipende dalla personalità e non dal reddito
o dalla classe. La grande frattura che attraversa la nostra società passa
non fra i ricchi e i meno ricchi [sic/] ma fra coloro che sono in grado di essere
responsabili di se stessi, e coloro che non lo sono»].
Lo stato paternalista invocato da Lawrence Mead deve essere anche uno stato
punitivo. Nel 1997 l'IEA invita nuovamente Charles Murray per promuovere, davanti
a un parterre di "policy makers" e giornalisti attentamente selezionati,
l'idea di gran moda presso i circoli neoconservatori del Nuovo mondo, secondo
la quale la «prigione funziona» e le spese penitenziarie, lungi
dal costituire un peso finanziario insopportabile, rappresentano per la società
un investimento ponderato e redditizio (46). (Questa tesi, sostenuta dalle più
alte autorità giudiziarie degli Stati uniti, è talmente indifendibile
al di fuori dell'ambito americano, visto che a livello internazionale non è
riscontrabile alcuna correlazione fra tasso di criminalità e tasso di
incarcerazione, che l'IEA si è dovuto rassegnare a introdurre la formula
in modo interrogativo.) Charles Murray basa le proprie affermazioni su un discutibile
studio del ministero federale della Giustizia, secondo il quale il triplicarsi
della popolazione carceraria statunitense avvenuto fra il 1975 e il 1989 avrebbe
scongiurato, attraverso un effetto di «neutralizzazione», il verificarsi
nel 1990 di 390 mila gravi reati, in particolare omicidi, stupri e furti con
violenza. La conclusione è che «la carcerazione, lasciando da parte
la pena di morte, rappresenta il mezzo di gran lunga più efficace per
impedire ai criminali accertati e notori di uccidere, stuprare e rubare».
La politica penale che deve procedere di pari passo con la dimissione sociale
dello stato può essere enunciata schematicamente in questi termini: «Un
sistema giudiziario non si deve preoccupare delle ragioni che spingono a commettere
un crimine. La giustizia deve limitarsi a punire i colpevoli, a indennizzare
gli innocenti e a difendere gli interessi dei cittadini rispettosi della legge»
(47). In altri termini, lo stato deve interessarsi non alle cause della criminalità
delle classi povere, a meno che non ricadano nell'ambito della «povertà
morale» (nuova «chiave» esplicativa assai alla moda), ma solo
alle sue conseguenze che deve sanzionare con efficacia e intransigenza.
Qualche mese dopo la visita di Charles Murray, l'IEA invita l'ex capo della
polizia newyorkese William Bratton per pubblicizzare la «tolleranza zero»
in occasione di una conferenza stampa mascherata da convegno alla quale partecipano
i responsabili della polizia di Hartlepool, Strathclyde e Thames Valley (i primi
due, in particolare, avevano già preso l'iniziativa di introdurre la
«polizia efficiente» nei loro distretti). Il passaggio era in qualche
modo ovvio, in quanto la «tolleranza zero» rappresenta il necessario
complemento poliziesco della carcerazione di massa a cui conduce il trattamento
penale della miseria sia in Gran Bretagna, sia negli Stati Uniti. In occasione
di quell'incontro, ampiamente coperto da media compiacenti, si ebbe modo di
apprendere che «le forze dell'ordine in Inghilterra e negli Stati uniti
sono sempre più concordi nel ritenere che comportamenti criminali e protocriminali
["subcriminal" - sic!], come lo spargimento di rifiuti, gli insulti,
il graffitismo e i vandalismi, devono essere decisamente repressi per impedire
che possano svilupparsi comportamenti criminali più gravi». Uguale
consenso riscuote l'esigenza di «restaurare la morale delle forze di polizia,
sottoposte da anni alle pressioni di sociologi e criminologi che individuano
le cause del crimine in elementi quali la povertà, su cui la polizia
non ha alcuna competenza».
Tale pseudoconferenza, come prevedibile, è sfociata nella pubblicazione
di un'opera collettiva, "Zero Tolerance. Policing a Free Society",
il cui titolo riassume bene la filosofia politica auspicata: «libera»,
ossia liberale e non interventista «in alto», in particolare in
materia fiscale e per quanto riguarda l'uso della forza lavoro, intrusiva e
intollerante «in basso», cioè nei confronti dei comportamenti
pubblici degli appartenenti alle classi subalterne presi nella morsa della disoccupazione
e della precarietà da un lato, del declino della protezione sociale e
dei servizi pubblici dall'altro. Simili idee, largamente diffuse fra i consulenti
e i membri del governo di Tony Blair, hanno svolto la funzione di quadro di
riferimento per la Legge sul crimine e le turbative all'ordine pubblico approvata
dal parlamento a maggioranza neolaburista nel 1998, considerata come la più
repressiva del dopoguerra (48). E, per dissipare ogni equivoco sui destinatari
del provvedimento, lo stesso Tony Blair argomentava il suo sostegno alla «tolleranza
zero» nei seguenti termini: «E' importante affermare a chiare lettere
che non siamo più disposti a tollerare le infrazioni minori. Il principio
di base, d'ora in avanti, sarà questo: sì, è giusto essere
intolleranti nei confronti dei senzatetto che vagano per le strade» (49).
Il livello di diffusione di simili tesi in Gran Bretagna è ben esemplificato
dal fatto che il «Times Literary Supplement» abbia ritenuto opportuno
far recensire, e incensare, sulle proprie pagine l'opuscolo dell'IEA "Zero
Tolerance" dal direttore generale degli istituti carcerari britannici,
che, in un articolo esplicitamente intitolato "Verso la tolleranza zero",
invita «ad accogliere positivamente e a sostenere [quel] mirabile libretto»
che mostra come i poliziotti possano essere «non solo agenti dell'ordine
pubblico ma anche partner coinvolti in uno sforzo concertato con la comunità
volto a ristabilire le condizioni ottimali di sviluppo di una società
libera» (50).
I concetti e i dispositivi promossi dai think tanks neoconservatori statunitensi,
dal Regno unito, ormai assurto a pietra di paragone sulla base della quale ormai
tutte le autorità sono tenute a valutare le loro politiche giudiziarie
e di ordine pubblico, si sono diffusi per tutta l'Europa occidentale: in Svezia,
Olanda, Belgio, Spagna, Italia e Francia. Lo prova il fatto che oggi è
assai improbabile che un rappresentante ufficiale di un governo europeo si esprima
sulla «sicurezza» senza pronunciare qualche slogan made in Usa,
seppur mascherato. Ne andrebbe dell'onore nazionale, dell'aggettivo «repubblicano»:
«tolleranza zero», coprifuoco, denuncia isterica della «violenza
giovanile» (ossia dei giovani detti «immigrati» provenienti
dai quartieri in desertificazione economica), ossessiva attenzione nei confronti
dei piccoli spacciatori di droga, tendenza all'abbassamento e alla sfumatura
della frontiera giuridica fra minori e adulti, incarcerazione dei giovani multirecidivi,
privatizzazione dei servizi giudiziari eccetera. Tutte queste parole d'ordine
hanno attraversato l'Atlantico e la Manica per trovare un'accoglienza più
o meno calorosa sul continente, dove, al culmine dell'ipocrisia o dell'ignoranza
politicante, sono state presentate dai loro sostenitori come innovazioni nazionali
indotte dalla crescita esponenziale delle «violenze urbane» e dalla
sempre più violenta azione della criminalità.