L'esportazione di temi e spunti «sicuritari» elaborati negli Stati
uniti, al fine di riattivare il ricatto morale della società sui «cattivi»
poveri educando il (sotto)proletariato alla disciplina del nuovo mercato del
lavoro, ha riscosso ampio successo soprattutto perché ha incontrato "l'interesse
e il consenso delle autorità dei paesi destinatari". Si tratta di
un consenso che assume forme diverse, esplicito ed entusiasta in Blair, più
surrettizio e carico di imbarazzati dinieghi in Jospin, per non parlare della
vasta gamma di posizioni intermedie. A tal proposito, è necessario tenere
nel giusto conto il ruolo svolto dagli agenti dell'impresa transnazionale di
conversione simbolica volta a fare accettare come fatto ovvio e scontato, universalizzandolo
(all'interno del circolo ristretto dei paesi capitalistici che si considerano
il centro dell'universo), il nuovo "ethos punitivo" necessario per
giustificare il progressivo affermarsi dello stato penale. Il riferimento, in
particolare, cade sulla classe dirigente e i funzionari degli stati europei
che, uno dietro l'altro, dopo la conversione alle meraviglie del mercato cosiddetto
«libero») e alla necessità di «meno stato» (ovviamente
sociale), sono stati folgorati sulla via di Damasco dall'imperativo del ristabilimento
dell'ordine (repubblicano). Dove si rinuncia alla creazione di posti di lavoro
si provvederà impiantando commissariati, in attesa di nuove prigioni
(51). L'espansione dell'apparato poliziesco e penale può quindi offrire
un significativo contributo alla creazione di posti di lavoro nel settore della
sorveglianza degli esclusi e degli scarti del mondo del lavoro. In effetti,
i 20 mila ausiliari di sicurezza di sicurezza e i 15 mila mediatori paragiudiziari
locali, la cui entrata in servizio nei «quartieri a rischio» era
stata prevista entro la fine del 1999, rappresentano un decimo dei posti di
lavoro rivolti ai giovani promessi dal governo francese.
I paesi importatori, in generale, non si limitano a recepire passivamente l'aggressivo
armamentario penale elaborato negli Stati uniti, in relazione alle crescenti
funzioni che le società neoliberali demandano alle istituzioni poliziesche
e penitenziarie, ossia riaffermare l'autorità morale di uno stato che
si condanna all'impotenza economica, piegare il nuovo proletariato alle esigenze
del lavoro salariato precario, sistemare coloro che sono giudicati inutili e
indesiderabili dal nascente ordine sociale. L'adozione dei modelli americani,
infatti, spesso avviene attraverso specifici adattamenti, calibrati sulle esigenze
e le tradizioni politico-culturali di un dato paese, a cui provvedono gli innumerevoli
«viaggi di studio» oltre Atlantico moltiplicatisi nell'ultimo decennio.
Seguendo l'esempio di Gustave de Beaumont e Alexis de Tocqueville partiti nella
primavera del 1831 alla volta del nuovo continente per scoprire il «suolo
originario del sistema penale», parlamentari, criminologi e alti funzionari
appartenenti ai paesi della Comunità europea si recano regolarmente a
New York, Los Angeles e Huston, allo scopo di «scoprire i segreti della
disciplina americana», con la speranza di mettere a frutto quelle arcane
risorse una volta tornati in patria (52). E' in seguito a una «missione»
di quel genere, generosamente finanziata dalla Corrections Corporation of America,
la più importante impresa carceraria degli Stati uniti (per volume d'affari,
più di 400 milioni di dollari, numero di detenuti, intorno ai 50 mila,
e rendimento dei titoli secondo l'indice Nasdaq, con valori azionari aumentati
di quaranta volte nel corso degli ultimi dieci anni), che Sir Edward Gardiner,
presidente della Commissione per gli affari interni della camera dei Lords,
ebbe modo di verificare di persona le indubbie virtù della privatizzazione
del settore penitenziario, orientando la Gran Bretagna sulla via della carcerazione
a scopo di lucro. In seguito, lo stesso insigne uomo politico non esitò
a entrare nel consiglio di amministrazione di una delle principali aziende che
si spartiscono il florido mercato della punizione (in Gran Bretagna gli ospiti
degli istituti di pena privati sono passati dai 200 del 1993 agli attuali 4000).
I rapporti ufficiali rappresentano un ulteriore canale di trasmissione e diffusione
in Europa del nuovo senso comune penale. Si tratta di studi pre-pensati, concepiti
per rivestire le decisioni prese dai governi per motivi strettamente politici
(spesso solo elettorali) con gli orpelli della pseudoscienza, che i ricercatori
più in sintonia con le problematiche politico-mediatiche del momento
producono su ordinazione (53). Tali rapporti si fondano sul seguente contratto
(fraudolento): Il ricercatore, in cambio di un'effimera notorietà mediatica,
spendibile per acquisire prebende e privilegi accademici nei settori più
eteronimi del campo universitario, accetta di rinunciare alla propria autonomia
intellettuale, ossia alla possibilità di affrontare le questioni in termini
propriamente scientifici sulla base dei canoni della disciplina, mettendo cioè
in crisi la definizione ufficiale di un determinato «problema sociale»
attraverso l'analisi della sua precostituzione politica, amministrativa e giornalistica.
Per prendere un esempio d'attualità: descrivere l'invenzione e gli usi
politici della categoria di «violenza urbana» come "puro artefatto
burocratico" privo di coerenza statistica e consistenza sociologica, anziché
dissertare supinamente sulle presunte cause e i possibili rimedi negli stessi
termini dell'amministrazione che evoca tale pericolo per fini interni (54).
I rapporti ufficiali generalmente sono fondati su relazioni prodotte in circostanze
e secondo canoni analoghi nelle società assunte come «modelli»,
o scaturiscono da un gioco fantasmatico di «comparazioni». Si genera
così un processo circolare di reciproca influenza, nel quale il senso
comune governamentale di un paese trova conferma nel senso comune statale dei
paesi limitrofi. Un esempio fra i tanti: non si può che restare attoniti
nello scoprire in appendice alla relazione della missione ufficiale sulle "Réponses
à la délinquence des mineurs", affidata da Lionel Jospin
ai deputati Lazerges e Balduyck, una nota di Hubert Martin, consigliere per
gli Affari sociali presso l'ambasciata francese negli Stati uniti, che innalza
un vero e proprio panegirico al coprifuoco imposto agli adolescenti nelle città
americane (55). Tale zelo funzionariale, da parte sua, riprende, senza manifestare
il minimo dubbio o la più timida critica, i risultati di una petizione
mascherata da pseudoinchiesta promossa e pubblicata dall'Associazione nazionale
dei sindaci delle grandi città degli Stati uniti, allo scopo di difendere
il gadget poliziesco che fa così bella mostra di sé nella «vetrina»
mediatica della sicurezza. Stando ai promotori, l'instaurazione del coprifuoco
rappresenta «uno strumento efficace per l'ordine pubblico» in quanto
responsabilizzando i genitori permetterebbe «un uso ottimale del tempo
e dei servizi della polizia», precondizione indispensabile al dispiegamento
di «una seria presenza sul territorio, volta a stabilire il consenso locale».
Come si è visto, un funzionario francese può trasformarsi in cassa
di risonanza dei sindaci americani che «hanno la sensazione» che
il coprifuoco «abbia contribuito all'abbassamento della delinquenza giovanile».
In realtà, programmi del genere non hanno alcun impatto misurabile sulla
delinquenza, che si limitano a spostare nello spazio e nel tempo. Sono decisamente
costosi in termini di risorse umane e materiali, in quanto prevedono annualmente
l'arresto, la registrazione, il trasporto ed eventualmente la detenzione di
decine di migliaia di giovani che non hanno violato alcuna legge (più
di 100 mila nel 1993, ossia il doppio dei minori arrestati per furto, con l'esclusione
del furto di automobili). Simili provvedimenti, inoltre, lungi dal suscitare
un unanime «consenso locale», sono spesso oggetto di denunce ai
tribunali (diverse cause sono recentemente giunte fino alla Corte suprema),
per i loro effetti discriminatori e la connaturata vocazione repressiva tendente
a criminalizzare i giovani di colore dei quartieri socialmente degradati (56).
Si può quindi notare come un complesso di misure inerenti l'ordine pubblico
privo di significativi effetti (che non siano criminogeni e liberticidi) e di
giustificazioni I che non siano mediatiche) riesca a riscuotere un'adesione
generalizzata, nonostante si sia rivelato in ogni situazione del tutto inefficace,
sulla base di fantomatici successi riscossi «altrove», legittimandosi
soltanto sul mero dato di fatto della sua diffusione.
["Turnaround", l'autocelebrazione del miglior «sbirro d'America»
è stato completamente ignorato dalle riviste criminologiche e sociologiche
statunitensi Diversamente, in Francia è stato prontamente recensito,
e incensato, da Julien Damon (responsabile della Missione solidarietà
della S.N.C.F., la società francese delle ferrovie, con delega alle «politiche
di inserimento» e alle questioni riguardanti la presenza dei senzatetto
nelle stazioni) sui «Cahiers de la sécurité intérieure»,
organo ufficiale dell'Institut des hautes études de la sécurité
intérieure, centro studi ufficialmente incaricato di «pensare la
sicurezza interna». Julien Damon presenta favorevolmente il pamphlet di
William Bratton «raccomandandolo a tutti coloro che desiderano informarsi
sulle pratiche della cosiddetta 'tolleranza zero'». Inoltre, al termine
della recensione, rimanda il lettore all'opuscolo pubblicitario "Zero Tolerance.
Policing a Free Society", pubblicato dall'Institute for Economic Affairs,
descritto come «un opera collettiva inglese che riunisce le riflessioni
di alcuni responsabili dell'ordine pubblico, fra cui William Bratton che presenta
le proprie tesi e i propri metodi» (57).
In quello stesso numero dei «Cahiers de la sécurité intérieure»
compare un lungo articolo del politologo Sébastien Roché, vero
e proprio specialista nell'importazione delle teorie - e ovviamente delle ideologie
- americane sulla sicurezza e i comportamenti sconvenienti, che pone la cruciale
domanda: «la 'tolleranza zero' è applicabile in Francia?».
L'articolo non poteva che suscitare l'entusiasmo dei colleghi americani che
avevano accolto lo studioso francese a Princeton, in occasione di una «missione»
in qualità di Research Fellow sotto il patrocinio di John DiIulio, grande
sostenitore del «pancarcerario» e teorico alla moda della «povertà
morale» come causa principale del crimine (58). Sébastien Roché
contrappone il rigore e la neutralità scientifica del lavoro dei criminologi
ultraconservatori americani (fra cui James Q. Wilson e Richard Herrnstein, lo
stesso di "The Bell Curve" scritto a quattro mani con Charles Murray,
George Kelling, ex capo della polizia di Kansas City divenuto Fellow al Manhattan
Institute, David Courtwright, storico neodarwinista, secondo il quale la violenza
presente negli Stati uniti sarebbe il prodotto di una «società
di celibi» immersa in un'atmosfera di «frontiera» che lascia
libero corso alla «biochimica della specie umana») al dilettantismo
delle ricerche francesi, spesso viziate «da posizioni ideologiche o professionali»
In effetti, nulla nell'articolo potrebbe dispiacere William Bratton. Sébastien
Roché si lancia infatti in una presentazione ultrasuperficiale della
politica dell'ordine pubblico di New York, citando James Q. Wilson, George Kelling
e lo stesso William Bratton, che potrebbe essere facilmente scambiata per un
dépliant pubblicitario del New York City Police Department. Un esempio
fra i tanti: senza avanzare alcun dato (nonostante non fossero mancate le lamentele
circa l'assenza, per quanto riguarda la Francia, di «lavori empirici sistematici»),
si afferma che «sulla sicurezza», le «opinioni [dei neri]
sulla politica di Giuliani convergono con quelle delle altre comunità
nell'esprimere un giudizio positivo». Come abbiamo visto in precedenza,
a tal proposito le idee della comunità afroamericana divergono completamente
da quelle dei newyorkesi bianchi. E non è un caso. Senza dubbio dall'osservatorio
di Princeton, piccolo paradiso sociale e razziale isolato dal resto del mondo,
tale distinzione può risultare scarsamente percepibile. Concludendo,
Roché afferma che la «tolleranza zero» è una «via»
che «merita di essere percorsa anche in Francia», aggiungendo tuttavia
che «la dimensione repressiva, assolutamente indispensabile, non deve
essere "sviluppata al livello" degli Stati uniti: da noi il crimine
violento è infatti molto meno diffuso» (59). Spetterebbe quindi
alla Francia il compito di inaugurare una nuova politica della repressione poliziesca
moderata. Di simili temi tratterà senza dubbio l'opera di Roché
la cui pubblicazione è annunciata da una nota a pie' di pagina: "Y
a-t-il une vitre française cassée?".
L'ardore e l'abnegazione dei missionari transatlantici della sicurezza non si
è rivelato vano. I dogmi della nuova religione penale, concepita negli
Stati uniti per meglio «allineare» le frazioni della classe operaia
restie alla disciplina del lavoro salariato precario e sottopagato, si sono
diffuse per tutta l'Europa, acquisendo lo statuto di evidenze presso gli esperti
che si raccolgono intorno a governi particolarmente desiderosi di promuovere
con zelo il «diritto alla sicurezza» poiché hanno ormai provveduto
a gettare alle ortiche il «diritto al lavoro». Analoghi spunti disegnano
la trama del volume della fortunata collana di divulgazione «Que Sais-Je»
apparso agli inizi del 1999 con il titolo "Violences et insecurité
urbaines". Ne sono autori Xavier Raufer e Alain Bauer. Il primo è
professore al Centre universitaire de recherche sur les menaces criminelles
contemporaines (la cui titolazione è già un programma) dell'università
Paris-Panthéon-Sorbonne e all'Institut de criminologie di Parigi, ma
anche, ma la quarta di copertina non si cura di segnalarlo, fondatore del gruppo
di estrema destra Occident Chrétien. Alain Bauer, da parte sua, ex preside
dell'università di Paris-Panthéon-Sorbonne e docente all'Institut
des hautes études de sécurité, deve la propria fama ai
prolissi editoriali che pubblica regolarmente su «Le Monde». La
sua presenza è d'obbligo ai convegni ufficiali sulla «violenza
urbana», in occasione dei quali è solito reclutare clienti per
l'A.B. Associates, la «società di consulenza sulla sicurezza urbana»
di cui è amministratore delegato. Visto il profilo degli autori, non
sorprende affatto che la loro opera si diffonda in un'apologia della «tolleranza
zero», delle polizie private, della stretta penale sulla «Francia
periferica travolta dal crimine». A parere di Bauer e Raufer, infatti,
la «sicurizzazione» di New York «permette di farla finita
con molte pseudoverità criminologiche»: il crimine non affonda
le proprie radici in ragioni di ordine demografico, economico, culturale o «chimico-medico»
(in riferimento alla tossicomania): i discorsi sulla sua «genesi sociale»
altro non sono che inganni o specchietti per le allodole. «Tutto ciò
è chiaramente dimostrato nel libro» (ossia nella pseudoautobiografia)
di William Bratton. Al di là di ogni teoria di ispirazione sociologica,
la causa più certa del crimine "è il criminale stesso"»
(60).
La scoperta criminologica che Bauer e Raufer generosamente attribuiscono all'ex
capo della polizia di New York, altro non è che il classico ritornello
dei discorsi sul crimine di Ronald Reagan, che a sua volta si ispirava al criminologo
di estrema destra James Q. Wilson che, da parte sua, si limitava a formulare
in termini vagamente «criminologici» i più scontati luoghi
comuni della filosofia sociale conservatrice.
Dopo aver attraversato l'Atlantico, le favole sicuritarie, fatte di pseudoconcetti,
slogan mascherati da «teorie» e pseudoevidenze sociologiche, diffuse
dai think tank neoconservatori nel quadro della loro guerra allo stato assistenziale
animano direttamente il concreto dispiegamento delle politiche dell'ordine pubblico
di vari paesi europei. Per fare un esempio, posizioni del genere imperversano
nelle «schede» redatte dall'influente Institut des hautes études
de la sécurité intérieure in vista dell'implementazione
nelle città della Francia dei Contrats locaux de sécurité
(61)].