Nato a Vienna, cresciuto in un ambiente influenzato dalle teorie freudiane da un lato, e da quelle marxiste dall'altro, Bruno Bettelheim viene rinchiuso, nel 1938, prima a Dachau e poi a Buchenwald. Ben presto si rende conto che il campo di concentramento, prima ancora della vita del recluso, tende a distruggerne la personalità, e che l'unico modo per tentare di salvarsi consiste nel resistere a questo processo di disintegrazione restando incrollabilmente attaccati ad alcuni valori fondamentali della vita, mantenendo lucida la propria capacità di comprendere fino in fondo il significato di un'esperienza così terrificante. L'osservazione del comportamento proprio e altrui in quella situazione di «estrema coercizione» gli fa capire che le teorie freudiane, in cui crede, non bastano a spiegare le profonde modificazioni prodotte nella personalità degli internati dalla vita del campo e, più in generale, il fenomeno stesso dei campi di concentramento nei suoi complessi legami con la realtà sociale circostante.
Quando, dopo un anno, uscito da Buchenwald ed emigrato negli Stati Uniti, egli comincerà a riflettere sulla propria esperienza, a completarla con notizie che va man mano raccogliendo e a inquadrarla in un sistema di pensiero più vasto, suggeritogli dalla sua attività di educatore, di psicologo e di sociologo, il "Lager" nazista gli apparirà come una società di massa in miniatura, organizzata secondo i metodi più efficienti per ottenere il massimo rendimento possibile con il minimo dei costi. Il principio fondamentale di una società tecnologica, secondo cui il valore dell'uomo è dato dalla sua capacità produttiva, giunge qui alle sue estreme conseguenze: l'uomo può non valere nulla, neppure i tre "Pfennig" che sono il prezzo di una pallottola di fucile. Così, quello che era sorto, in un dato contesto storico, come un sistema per produrre dei beni con il minimo dei costi, si trasforma paradossalmente in una grande industria della morte Ma il «dato contesto storico» non deve trarci in inganno: se la Germania di Hitler rappresenta il primo e più aberrante esempio di una società «totale» di massa, non possiamo nasconderci che l'intervento sociale e statale nella vita dell'individuo, nelle sue idee e nei suoi gusti, va aumentando di pari passo col progredire della tecnica. E l'autore, esaminando vari aspetti della società tecnologicamente più avanzata, quella americana, giunge in questo libro alla conclusione che il pericolo è ancora ben vivo, e che la sola speranza di tenerlo lontano sta nella consapevolezza dei nessi profondi che sono alla sua origine, e quindi in un'educazione fondata su precisi valori umani, capaci di assicurare la necessaria integrazione del singolo senza imporgli, insieme alla perdita del rispetto di se stesso, quella della propria autonomia di giudizio e di azione.
Bruno Bettelheim, nato a Vienna nel 1903, si trasferì negli Stati Uniti nel 1939 dopo essere stato internato per un anno nei campi di concentramento di Dachau e di Buchenwald. Ha diretto per quasi trent'anni la Sonia Shankman Orthogenic School per bambini psicotici, è Distinguished Professor of Education e Professor Emeritus di psicologia e psichiatria all'Università di Chicago. Opere: "L'amore non basta" (Ferro, 1967); "I figli del sogno" (Mondadori, 1969); "Ferite simboliche" (Sansoni, 1973); "Psichiatria non oppressiva" (Feltrinelli, 1976); "Il mondo incantato" (Feltrinelli, 1977); "La fortezza vuota" (Garzanti, 1978); "Dialoghi con le madri" (Comunità, 1979); "Sopravvivere" (Feltrinelli, 1981); "Imparare a leggere" (Feltrinelli, 1982) in collaborazione con Karen Zelan; "Freud e l'anima dell'uomo" (Feltrinelli 1983); "Un genitore quasi perfetto" (Feltrinelli, 1987).