indice


Il cuore vigile 1. LA CONCORDANZA DEGLI OPPOSTI.


In questo volume ho cercato di presentare alcune mie riflessioni e alcuni risultati dei miei studi sulla condizione dell'uomo nella moderna società di massa e sulla pressione psicologica esercitata su di lui dalle tendenze totalitarie. Parti esigue ma significative di quest'opera erano già state pubblicate, benché in forma assai diversa. Tutto quello che segue è stato scritto recentemente, ovvero riscritto in funzione del presente libro.
Negli ultimi vent'anni ho avuto modo di analizzare accuratamente le idee che vengono qui presentate, e che solo lentamente hanno assunto la forma attuale. Di solito, le opinioni di un autore a proposito dell'uomo e della vita sono una cosa del tutto personale e privata, soprattutto quando egli considera le sue pubblicazioni come dei rapporti scientifici. Tuttavia, uno scrittore il cui lavoro si fondi sull'osservazione, sull'introspezione e sull'analisi delle motivazioni è portato a chiedersi quali siano gli intimi legami che tengono insieme il lavoro che dà un'impronta alla sua vita nel momento in cui si accinge a scegliere fra i suoi scritti ciò che è meritevole di ripensamenti e di aggiornamenti, ciò che ancora si accorda con le sue opinioni attuali, ciò che merita di essere dimenticato e ciò che, invece, richiede una revisione radicale. Forse anche per il lettore è interessante sapere quale sia il profondo legame che tiene unite le idee di un certo libro al di là del fatto che esse furono espresse da un'unica persona e si riferiscono a un unico vasto argomento. Per cercar di spiegare questa più profonda coerenza ho scritto una specie di storia personale, che spero servirà a collegare più strettamente ciò che altrimenti sarebbe potuto sembrare soltanto uno dei tanti volumi miscellanei di psicologia sociale.
Ho tuttavia un'altra e più importante ragione, intimamente connessa con la tesi principale di questo libro: è mia convinzione che, per opporsi e controbilanciare la pressione paralizzante della società di massa, l'opera di una persona deve essere permeata dalla sua personalità. Come la scelta del suo lavoro non deve essere dettata da mera convenienza, o dal caso, o da semplici vantaggi personali, ma deve invece riflettere il modo con cui egli raggiunge la piena realizzazione di se stesso in questo nostro mondo, così il risultato del suo lavoro, oltre ad avere uno scopo obiettivo, deve anche riflettere gli scopi personali che caratterizzano la sua vita. Sulla base di questa convinzione ho deciso di mettere da parte una convenzionale riservatezza e di cominciare questo libro con il racconto di come giunsi a interessarmi così intensamente dei problemi qui esposti.

La generazione dei miei genitori allevò i propri figli in un'atmosfera oggi svanita, in un'Europa occidentale e centrale che desiderava credere in un'epoca di progresso costante e di sempre maggiore sicurezza e felicità. Quantunque contraddetto dai fatti, questo credo era accettato con salda fede soprattutto da coloro che formavano quello che oggi chiameremmo lo strato superiore della classe media, la quale beneficiava più di ogni altra dei progressi compiuti nel tardo Ottocento e nei primi anni del Novecento. Essi accettavano senza difficoltà queste confortanti credenze, essendo esse fondate sulla loro esperienza personale. Nel corso della loro vita erano stati testimoni di un continuo, anzi, di un crescente progresso sociale, economico e culturale, che andava di pari passo con una politica e una pratica sociale più razionali e più eque, quali erano quelle che caratterizzavano l'Europa occidentale prima della Grande Guerra.
In un giorno d'agosto, tuttavia, Lord Gray osservò con profonda tristezza e chiaroveggenza che «le lampade stanno spegnendosi in tutta Europa, e per l'intero corso della nostra vita non le vedremo più accese». La sua predizione non solo si avverò, ma si estese a un periodo molto più lungo di quello della sua vita, per comprendere anche la nostra. L'Europa settentrionale cessò di essere «l'officina della razza umana», per quanto duro fosse per la mia generazione accettare questo fatto prima che Hitler lo rendesse ovvio a tutti.
Per la mia generazione di intellettuali viennesi gli anni formativi subirono profondamente l'influenza della crisi psicologica e sociale della prima guerra mondiale. In noi la crisi personale dell'adolescenza e della prima maturità si combinò col caos sociale ed economico che seguì la guerra e culminò dapprima nel bolscevismo russo, poi nel nazionalsocialismo e finalmente nella seconda guerra mondiale. E' vero che questo valeva per la giovane generazione di tutta l'Europa, ma per quella viennese fu reso ancor più grave dal crollo dell'impero austro-ungarico. I problemi fondamentali di natura sia intellettuale sia emotiva che questo fatto mi pose offrono un esempio estremamente individualizzato del problema del rapporto fra natura ed educazione, ora superato, ma allora assai dibattuto.
La miseria degli anni di guerra e di quelli ad essa immediatamente successivi, in una Vienna improvvisamente non più imperiale, il crollo dell'ordine allora esistente fondato su di un'autocrazia paternalistica, proprio nel momento in cui l'adolescente si rivoltava contro il mondo dei suoi genitori, tutto questo portò con sé problemi di natura assai specifica e condusse a soluzioni particolari. E' duro rivoltarsi contro genitori il cui mondo sia improvvisamente caduto in pezzi. D'altra parte, questa rivolta non è assolutamente evitabile in quanto l'adolescente si sente ancor più profondamente tradito quando si rende conto che il genitore, che egli riteneva un eroe opprimente ma anche protettivo, è soltanto un idolo d'argilla. Egli non può più mettere a confronto i suoi nuovi valori con quelli dei genitori, che hanno dimostrato di non essere più validi. Come può egli mettere a confronto il suo nuovo e non ancora sperimentato modo di concepire la vita con un qualcosa di così instabile, di così fluido come gli sembra ora essere il modo di concepire la vita dei suoi genitori? Tutto a un tratto, egli si sente privato del fermo appoggio, non dei suoi genitori, ma dei valori che questi gli avevano instillato; e ciò accade proprio quando egli ne sente maggiormente il bisogno, come di un porto sicuro dal quale poi ripartire trepidante per la conquista avventurosa della sua indipendenza. Una tale defezione da parte dei genitori è tanto più acutamente sentita dall'adolescente in quanto lo priva di quella protezione che sola può permettergli di ribellarsi impunemente contro il mondo che i genitori stessi rappresentano. (1)


- Ricerca di certezza.

Tutto questo, e molte altre cose, portarono al febbrile desiderio di creare una società stabile e soddisfacente. Il desiderio generò la fede e, poiché il desiderio era intenso, la fede diventò una facile convinzione: sì, era possibile creare una società nuova e diversa, una società «sana» che avrebbe garantito a tutti una buona vita. Questa società doveva essere molto stabile e sicura, e nello stesso tempo doveva permettere, anzi garantire, all'individuo il più alto grado di libertà nel proprio sviluppo personale e nella piena realizzazione di se stesso.
Mi ci vollero molti anni dalla fine della prima guerra mondiale fin quasi all'inizio della seconda per riconoscere intellettualmente, e in contrasto con una forte resistenza emotiva, la natura contrastante di questi due requisiti. Una lotta ulteriore fu necessaria per arrivare ad ammettere ciò a cui ero arrivato con la ragione, e tempo e sforzi ancora più grandi prima ch'io potessi accettare appieno questa conclusione anche emotivamente.
Poiché questa crisi d'adolescenza aveva luogo a Vienna su uno sfondo familiare tipico di una borghesia ebraica assimilata, l'influenza di Freud e della sua dottrina si fece ben presto sentire. Questa veniva a interferire con la fede tanto caldeggiata nell'idea che, se la società fosse stata organizzata in maniera più razionale, nessuna crisi del genere, con il conseguente disagio, avrebbe più potuto turbare altri giovani. La psicoanalisi proponeva l'ipotesi che forse non era la società a creare nell'uomo tutte queste difficoltà, ma che era piuttosto la nascosta, intima, contraddittoria natura dell'uomo a render difficile la vita sociale.
Questa fu, dunque, la forma particolare in cui mi si presentò il conflitto fra natura ed educazione: al fine di creare una società sana era davvero assolutamente necessario cambiare la società in modo così radicale da permettere a tutte le persone di raggiungere una piena realizzazione di sé? In questo caso si poteva anche metter da parte la psicoanalisi, facendo eventualmente eccezione per una minoranza di persone squilibrate. Oppure era questo un modo sbagliato di affrontare il problema, e soltanto persone che grazie alla psicoanalisi avessero raggiunto una piena liberazione personale e una completa integrazione avrebbero potuto creare questa società «sana». In tal caso, l'unica cosa giusta era dimenticare, almeno per ora, qualsiasi rivoluzione economica o sociale, e concentrare invece tutti gli sforzi per far progredire la psicoanalisi, nella speranza che, quando la grande maggioranza degli uomini avesse beneficiato della sua opera di liberazione interiore, essi avrebbero quasi automaticamente creato per sé e per tutti gli altri una società sana.
Per quanto anche a me piacesse vivere con una certezza, tuttavia non mi sentivo capace di accettare con tutta l'anima l'una o l'altra convinzione. Molti aspetti di ciascuna di esse mi sembravano interessanti e convincenti in questo o quel momento, ma per lo più l'una mi sembrava vuota senza l'altra. La soluzione proposta da quei pochi che cercarono di innestare la psicoanalisi nel comunismo (il più noto dei quali fu Wilhelm Reich) mi sembrò fin da principio non vitale, e difatti ben presto tale si rivelò; ciò accadde per molte ragioni, la più ovvia delle quali era la natura contraddittoria di una tale unione.
Di tanto in tanto, anch'io cercavo di aggirare il problema rifugiandomi in una specie di isolamento spirituale. La forma particolare che questa soluzione assunse in me fu un intenso interesse per la letteratura e per l'arte, e, in grado minore, per la musica, mentre contemporaneamente mi concentravo su alcuni intensi rapporti o relazioni personali. Ma l'arte e la letteratura, per quanto avessero attirato il mio interesse prima della psicoanalisi e dei problemi sociali, si rivelarono inadeguate, perché non mi sembravano capaci di rispondere alla mia esigenza di un uomo migliore in una società migliore. Tuttavia, non ero ancora pronto a metterle completamente da parte. Pensavo invece che, se fossi stato capace di immergermi in esse abbastanza a fondo, avrei potuto trovare l'unica risposta giusta.
La filosofia sembrava andare più a fondo di ogni altra disciplina, così fu ad essa che mi volsi per un certo tempo. Qui scopersi la teoria della concordanza degli opposti, ma, poiché ero ancora in cerca di soluzioni unilaterali, mi fu di poco aiuto nella mia ricerca. Allora non mi rendevo conto di come essa potesse applicarsi alla comprensione della interdipendenza dinamica fra l'organismo e il suo ambiente, e di come la vita consista in lotte continue per raggiungere più alti livelli di integrazione all'interno di un conflitto fondamentalmente inconciliabile. In quel tempo, accettare questo come un dato di fatto mi era impossibile. Come ogni giovane ansioso di trovare se stesso, ero convinto che ogni ambiente (in questo caso particolare visto meno come natura e più come società) avesse semplicemente bisogno di essere riorganizzato in modo idoneo a permettere a tutti gli uomini una piena realizzazione di sé; d'altro canto, non riuscivo ancora a vedere come questa realizzazione potesse esistere all'interno di una "conjunctio oppositorum".
Così mi trovai di nuovo a chiedermi se soltanto una società sana avrebbe potuto produrre automaticamente, o con un certo sforzo, uomini buoni, i quali l'avrebbero poi perpetuata; oppure, se fosse vano sperare che l'uomo attuale potesse creare una società sana e vivere una vita decente all'interno di essa, perché la sua vera natura avrebbe sempre ostacolato questo processo e alla fine ne avrebbe distrutto lo svolgimento. Se la prima ipotesi era vera, allora ad ogni costo, anche a costo di grandi sofferenze per intere generazioni, era necessario creare una società sana, perché essa soltanto avrebbe potuto generare l'uomo buono. Questa era la promessa che negli anni successivi alla prima guerra mondiale sembrava offrire il comunismo. Ma la Russia (e questo diventò chiaro dopo il 1920) non stava affatto creando la società che avrebbe garantito all'uomo la piena realizzazione di sé. Dopo il comunismo, la socialdemocrazia era la speranza migliore, e ad essa io aderii, anche se pieno di esitazioni e di sospetti. Era abbastanza chiaro infatti che non avrebbe creato una società migliore fino a quando i suoi ranghi e i suoi quadri dirigenti non fossero formati da uomini migliori.
Se, d'altro canto, soltanto l'uomo buono poteva creare una società sana, allora il problema diventava quello di trovare il modo di cambiare l'uomo attuale, perché diventasse quell'uomo «buono» che creasse a sua immagine e somiglianza, e poi perpetuasse, una società buona. Ora, per influenzare le persone, fra tutti i metodi conosciuti, la psicoanalisi sembrava offrire le migliori promesse per un radicale cambiamento in meglio degli uomini attuali.


- La promessa della psicoanalisi.

Alla fine fu alla psicoanalisi che io mi rivolsi, nutrendo in essa maggiori speranze che non nelle riforme politiche. Quello che mi fece decidere non fu soltanto la delusione della speranza che una società sana fosse in grado di produrre un uomo completamente libero. Io intrapresi l'analisi in parte per ragioni personali, e in parte per trovare la soluzione dei problemi che mi turbavano, ad alcuni dei quali ho appena accennato. Non partii fin dall'inizio con l'idea di diventare psicoanalista, benché sperassi di trarne, oltre a un beneficio personale, una più profonda comprensione dei problemi teorici, sociali, filosofici ed estetici che desideravo risolvere, problemi che, nella mia arroganza giovanile, ero sicuro di poter risolvere con l'aiuto della psicoanalisi.
Mi ci vollero alcuni anni di analisi intensiva, e molti più di pratica, per imparare quanto profondamente le esperienze psicologiche possano trasformare la personalità di un uomo che viva in una data società, e a che punto la loro influenza cessi. Le lezioni di Hitler, dei campi di concentramento e, successivamente, dell'emigrazione e dell'adattamento nel Nuovo Mondo, furono necessarie per farmi imparare fino a che punto la società possa, e fino a che punto essa non possa, trasformare la personalità e il modo di vita dell'individuo. Queste lezioni mi vennero impartite definitivamente circa venti anni fa. Ma mi ci vollero ancora quindici o venti anni per capire tutto quello che esse implicavano.
In primo luogo mi resi conto che, per quanto la psicoanalisi possa aiutare l'adulto nelle sue difficoltà personali, essa non è in grado di trasformarlo abbastanza da garantirgli una buona vita. Per ottenere questo risultato a profitto di una vasta maggioranza di persone (e non soltanto per quei pochi che in ogni tempo seppero conseguirlo a prezzo di una intensa lotta personale) erano necessarie riforme dell'educazione complessiva dell'uomo e della società in generale. Si dovevano modificare non soltanto il modo di allevare i ragazzi e la loro educazione formale, ma anche, in generale, le esperienze dei giovani, perché molti di loro, e non soltanto quei pochi cui ho accennato, potessero vivere bene. Prima però di pretendere delle riforme, si doveva capire in via preliminare quali fossero gli effetti dell'educazione del fanciullo sul fanciullo stesso, come essi condizionassero la sua vita futura nella società, e perciò la società stessa. Certamente, nel mio caso, il pendolo avrebbe oscillato molte volte fra le due premesse fondamentali (se l'uomo sia figlio della società oppure se sia figlio del bambino) prima che io potessi accettare anche emotivamente quello di cui mi ero reso conto intellettualmente alcuni anni prima: e cioè che quello che conta, ovvero quello che costituisce una buona vita, in condizioni normali, è un sottile equilibrio fra le aspirazioni individuali, le giuste pretese della società e la natura dell'uomo; e che un'assoluta sottomissione a una qualsiasi di queste componenti non raggiungerà mai lo scopo desiderato.

La successiva lezione che dovetti imparare riguardava la natura dell'uomo e l'influsso che la società esercita su di essa. Sto ora avvicinandomi all'essenza del lavoro che ha improntato la mia vita, e che si impernia sull'applicazione della psicoanalisi ai problemi sociali, e all'educazione dei bambini in particolare.
Mi ero reso conto che la psicoanalisi non dava tutti i frutti che avrebbe potuto dare, e che occorreva migliorare tanto le sue teorie quanto l'applicazione pratica di queste teorie, osservando quello che con essa riuscivo a ottenere (e quello che non riuscivo a ottenere) su due bambini autistici che, per ragioni terapeutiche, hanno vissuto con me per alcuni anni. Cercando di capire quello che stava loro accadendo, e anche come e perché, oltre alla loro psicoanalisi quotidiana, si dovessero modificare le loro condizioni di vita Per ottenere un miglioramento, arrivai a una conclusione molto semplice. Per persone molto squilibrate, l'influsso della psicoanalisi classica non è sufficiente a promuovere i necessari cambiamenti della personalità: l'influsso della psicoanalisi stessa, ovvero della vita organizzata in base ad essa, dovrebbe essere continuamente operante, per tutta la giornata, e non soltanto per una singola ora al giorno - almeno così mi sembrava a quel tempo. Questo tentativo fu fatto per quei due ragazzi, ma con scarso successo. Tuttavia, allora, non mi spinsi oltre. Non mi rendevo ancora conto, infatti, che ciò di cui quei bambini avevano soprattutto bisogno era di vivere in un ambiente umano che ancora non esisteva, e che perciò doveva essere creato appositamente per loro. Doveva essere un ambiente che offrisse rapporti profondamente umani, condizioni di vita soddisfacenti e scopi significativi, e non semplicemente un'applicazione della psicoanalisi al modo di vivere che essi già conoscevano.
Alcune riserve ulteriori intorno alla psicoanalisi mi venivano da una esperienza ancor più personale. Circa un decennio prima che l'occupazione dell'Austria da parte di Hitler portasse con sé cambiamenti tanto radicali nella mia vita esteriore, io mi ero reso vagamente conto che stavo avvicinandomi a una crisi profonda della mia vita personale, o che forse la stavo già vivendo, benché professionalmente e socialmente tutto sembrasse andare per il meglio. Relativamente tardi nella mia vita io stavo vivendo quello che Erikson, alcuni decenni più tardi, avrebbe chiamato e descritto come una moratoria psico-sociale. Era questa la situazione psicologica che non era stata risolta né durante gli anni della mia analisi, né durante quelli che la seguirono.
Nonostante ciò, fino al momento in cui venni internato io non misi in dubbio il merito della psicoanalisi in generale, e della mia in particolare. Ero convinto invece che essa avesse fatto per me il massimo che si potesse fare; così, più o meno a disagio, avevo continuato a vivere come al solito, cercando di far sì che questo modo di vivere mi piacesse.
Questa non è una critica né alla mia analisi né al mio analista, poiché entrambi fecero molto per me. Fra le altre cose, devo a loro se oggi posso capire e aiutare, vivendo con loro, bambini autistici, bambini gravemente disturbati e psicotici, creando loro intorno l'ambiente umano e sociale di cui essi hanno bisogno per sviluppare le proprie potenzialità umane.
Debbo dire, tuttavia, che l'influsso del campo di concentramento ha fatto per me in poche settimane quello che anni di analisi utile e fruttuosa non avevano fatto. (Mi rendo conto che con questa ammissione espongo me stesso e il mio analista alla critica che l'analisi mi abbia sì aiutato a comprendere i miei meccanismi psicologici, ma non a elaborarli e risolverli. Va forse ascritto a merito della mia analisi il fatto che questa idea non mi turbi minimamente).


- Nuovi punti di vista.

Attraverso la mia analisi personale, lo studio della letteratura psicoanalitica e l'applicazione pratica delle sue teorie, io stavo ancora cercando di capire la «vera» natura dell'uomo. Benché non fossi più convinto che la psicoanalisi, usata come terapia, sarebbe riuscita a produrre l'uomo «buono», pensavo ancora che essa fosse il metodo migliore per determinare cambiamenti importanti nella personalità.
Come nei riguardi di tante altre idee, anche nei riguardi di questa l'anno che ho passato nei campi di concentramento tedeschi di Dachau e di Buchenwald nel 1938-1939 produsse su di me un forte shock. Ho imparato nei campi moltissime cose: tanto che nemmeno adesso sono completamente sicuro di avere esaurito tutto il contenuto di un'esperienza talmente istruttiva. Poiché lo studio psico-sociale dei campi di concentramento costituisce buona parte di questo libro, non ho qui bisogno di anticipare quali furono tali esperienze. Quanto il mio lavoro sia stato influenzato da convinzioni derivate da esse può vedersi, per esempio, nel mio articolo sulla schizofrenia come reazione a situazioni estreme. (2) Quali erano queste convinzioni, e come ero arrivato a formarmele?
Quando qui parlo di quello che imparai nei campi di concentramento, bisogna tener presente il contesto generale di quella esperienza. Le estreme privazioni e la paura per la propria vita che i campi imponevano a tutti i prigionieri, e particolarmente a quelli ebrei, non permettevano di ragionare lucidamente. Ma forse quello che mancava in forza ragionativa veniva sostituito dalle profonde impressioni emotive che in tali situazioni estreme ciascuno di noi riceveva. Tali impressioni sono incise in modo permanente nella mia psiche e possono portare, se non vengono rimosse, a una rivalutazione di tutti i valori, anche se la mente è attualmente incapace di analizzarle e comprenderne appieno tutte le implicazioni.

Mentre ero nel campo, mi interessava poco scoprire se la psicoanalisi fosse o non fosse una teoria adeguata: il problema essenziale era di trovare la maniera di sopravvivere in modo da proteggere la mia esistenza fisica e morale. Ciò che più mi colpì fu probabilmente la cosa più urgente e impellente di tutte (in relazione ai miei bisogni immediati e alle mie aspettative): la constatazione che quelle persone che, stando alla psicoanalisi come allora io la concepivo, avrebbero dovuto resistere meglio di altre al rigore dell'esperienza del campo, erano spesso esempi ben miseri di comportamento umano sotto l'urto di una situazione estrema. Altri che, secondo le stesse teorie e le aspettative su di esse basate, avrebbero dovuto reagire peggio, offrivano invece esempi luminosi di coraggio e di dignità umana. Constatai anche rapidi cambiamenti non soltanto nel comportamento, ma perfino nella personalità; cambiamenti incredibilmente più rapidi e spesso molto più radicali di quelli che sarebbero stati possibili con qualsiasi trattamento psicoanalitico. Date le condizioni di vita del campo, questi cambiamenti erano più spesso verso il peggio, ma talvolta nettamente verso il meglio. Così uno stesso ed unico ambiente poteva portare con sé cambiamenti radicali tanto verso il meglio quanto verso il peggio.
Non potevo più avere dubbi, perciò, sull'influenza dell'ambiente nella formazione di importanti caratteristiche tanto del comportamento quanto della personalità umani. Questo, in un certo senso, significava un ritorno alle mie convinzioni più antiche, pre-psicoanalitiche, secondo le quali soltanto una società sana può generare l'uomo buono, benché lì mi si presentasse la prospettiva inversa: vedevo infatti coi miei occhi fino a che punto la malvagità sia suscitata nell'uomo da un cattivo ambiente. Ma le stesse cattive condizioni sociali facevano anche venire alla luce, forse addirittura determinavano, qualità nuove e meritevoli in persone che prima di allora non avevano mai mostrato di possederle. Se una stessa società, in questo caso il mondo del campo di concentramento, poteva determinare nell'uomo cambiamenti tanto profondi, sembrava doveroso dedurne che la società influisse molto sulla personalità; tuttavia, poiché essa produceva effetti tanto diversi e talvolta cambiamenti e comportamenti radicalmente opposti, era ragionevole concludere che il fattore decisivo fosse l'uomo, per quanto riguarda ciò che egli è e sarà all'interno di tale società, e indipendentemente da essa. Del resto, la psicoanalisi non aveva mai garantito che un uomo sarebbe diventato una persona migliore o peggiore sotto l'influsso di una società migliore o peggiore.
Non era facile per me giungere a queste constatazioni, ma io dovevo arrivare a formularle rapidamente, se volevo sopravvivere, e in maniera non riprovevole. Le nozioni psicoanalitiche con le quali avevo cercato di dirigere la mia vita mi avevano ingannato, radicalmente ingannato; erano venute meno proprio nel momento in cui ne avevo avuto più bisogno. Così era necessaria una nuova impostazione. La cosa più importante era di arrivare a vedere chiaramente che cosa si potesse concedere all'ambiente senza compromettere la propria personalità interiore. Alcuni prigionieri provarono a concedere tutto all'ambiente; nella maggior parte o vennero rapidamente distrutti oppure diventarono dei buoni prigionieri, ossia degli «anziani». Altri cercarono di mantenere intatta la loro vecchia personalità, ma, mentre questi avevano maggiori probabilità di sopravvivere come persone, la loro soluzione non offriva possibilità di adattamento. La maggior parte di loro non era capace di vivere in una situazione estrema e, se non venivano liberati presto, non sopravvivevano.
Se giunsi con grande rapidità a rendermi conto di quanto forte fosse l'influsso dell'ambiente, mi fu assai più difficile accettarne le conseguenze. Io venni rinchiuso nei campi di concentramento in un periodo in sui le mie convinzioni basate sulla psicoanalisi erano più forti che mai: l'influenza della famiglia sulla formazione della personalità aveva per me un'importanza assolutamente preponderante e, in confronto, quella della società, nel suo senso più ampio, era relativamente trascurabile. Credevo anche fermamente che niente fosse pari alla psicoanalisi per liberare l'individuo e guidarlo a un più alto livello di integrazione.
La mia esperienza nei campi mi insegnò, quasi fin dai primi giorni, che mi ero spinto troppo lontano nel credere che i cambiamenti nell'uomo potessero determinare cambiamenti corrispondenti nella società. Dovetti accettare l'idea che l'ambiente poteva, per così dire, sovvertire completamente la personalità, e non soltanto nel bambino, ma anche nell'uomo adulto. Se volevo evitare che ciò accadesse anche a me, dovevo accettare questa potenzialità dell'ambiente, per decidere quando dovessi adattarmi e quando no, e fino a che punto. La psicoanalisi, come io la concepivo, non mi era di alcun aiuto in questa decisione essenziale.
La cosa più sorprendente era che la psicoanalisi, che io ero arrivato a ritenere la chiave più adatta per risolvere i problemi umani, non offriva alcun suggerimento o aiuto per la soluzione del problema di come sopravvivere, e sopravvivere abbastanza decentemente, nei campi. A questo scopo dovevo ricorrere a qualità che secondo la mia esperienza psicoanalitica e il mio modo di pensare avevano poca importanza, o addirittura una valenza negativa, mentre quelle qualità che avevo imparato a rafforzare potevano spesso essere sia di ostacolo sia di aiuto.
Certamente, la teoria e l'esperienza psicoanalitica mi aiutarono a capire i problemi cui dovevo far fronte: alcune tendenze asociali, non integrate, sono sempre presenti nell'uomo; in determinate circostanze le inibizioni che le controllano cadono, ed esse si manifestano liberamente, senza freni; il fatto di dover vivere nel campo di concentramento portava al crollo di queste forze inibitorie; se le persone reagivano in maniere diverse, se le inibizioni di alcuni rimanevano in piedi mentre quelle di altri crollavano, se alcuni addirittura rafforzavano le proprie difese contro un possibile comportamento asociale, tutto questo si poteva attribuire alle loro diverse vicende personali o alle loro differenti personalità.
Tali spiegazioni - e per la soluzione del problema io potevo fare ricorso (come effettivamente feci) ad applicazioni ancora più sottili delle teorie psicoanalitiche - potevano far luce su quello che stava succedendo in alcuni individui. Ma il mio problema centrale non era quello di sapere se la psicoanalisi potesse o non potesse spiegare le cose, ma se e come queste spiegazioni potessero aiutare me ed altri a sopravvivere come esseri umani in condizioni tanto estreme. L'esperienza avuta sia con persone analizzate sia con persone non analizzate che vivevano nei campi era una dimostrazione convincente che, quando tutto va male, non ha assolutamente alcuna importanza il "perché" una persona agisca in una data maniera: la sola cosa che conti è il "come" essa agisca. Mentre la psicoanalisi poteva spiegare meglio i perché, l'ambiente era più efficace nel condizionamento delle azioni di parecchi individui, anche se non di tutti.
Dapprima soltanto oscuramente, poi con una lucidità sempre maggiore, arrivai anche a vedere che in poco tempo la maniera in cui un uomo agisce può alterare ciò che egli è. Coloro che nei campi resistettero bene divennero degli uomini migliori, quelli che reagirono male, divennero ben presto delle persone cattive: e questo, così almeno sembrava, indipendentemente dalla loro vita passata e dalla loro precedente personalità, ovvero indipendentemente da quegli aspetti della personalità che sembrano significativi dal punto di vista psicoanalitico.

Quasi mai, nei campi di concentramento, sarebbe stato sensato considerare gli atti di coraggio, quelli che mettevano in pericolo la vita di chi li compiva, come un prodotto della pulsione di morte, un'aggressione rivolta contro se stessi, una testimonianza della indistruttibilità del corpo, un megalomane sprezzo del pericolo, un istrionico nutrirsi di narcisismo, così come sarebbe stato insensato applicarvi qualsiasi altra categoria psicoanalitica. Queste e molte altre interpretazioni hanno validità in termini di psicologia del profondo, ovvero della psicologia dell'inconscio, e certamente hanno un valore. Soltanto che considerare un comportamento coraggioso da parte di un prigioniero attraverso lo spettro dell'analisi dell'inconscio sembrava comico oltre ogni dire. Così la psicoanalisi, mentre non perdeva niente del suo valore là dove essa poteva essere applicata, rivelava inaspettatamente (dal punto di vista delle mie aspettative, voglio dire) un ambito di applicazione limitatissimo.
Il modo di agire di una persona in occasione di una prova di forza non poteva essere dedotto dai suoi motivi più profondi e reconditi, che, con tutta probabilità, erano in conflitto fra loro. Neppure i suoi sogni eroici o codardi, le sue libere associazioni o le sue fantasie coscienti permettevano di prevedere esattamente se, poco dopo, quella persona avrebbe rischiato la propria vita per proteggere quella di altre persone, oppure se, sconvolta dal panico, avrebbe tradito molte persone nel vano tentativo di procurare a se stessa un qualche vantaggio.
Fin quando le azioni altrui non avevano messo direttamente in pericolo la mia vita e avevano avuto per me un interesse prevalentemente teorico, io avevo potuto indulgere a considerare i processi inconsci come altrettanto, se non più, importanti del comportamento esteriore. Fino a quando la mia vita personale si era svolta in maniera ordinata, io avevo potuto adagiarmi nella convinzione che il mio inconscio fosse, se non il mio «vero» Io, certamente il mio Io «più profondo». Ma quando la mia vita, e subito dopo la vita di altre persone, cominciò a dipendere dalle mie azioni, allora dovetti concludere che le mie azioni erano assai più il mio «vero» Io che non i miei motivi inconsci o preconsci. Dato che queste azioni, le mie come quelle degli altri, urtavano spesso contro quello che si poteva dedurre dall'azione dell'inconscio, io non potevo più accettare l'idea che quello che viene scoperto per mezzo della psicologia del profondo è ciò che costituisce la «vera» natura dell'uomo. Ciò che accade nel suo inconscio è certamente importante, è una parte dell'uomo e della sua vita, ma non è il «vero» uomo.
Ancora, è semplice enunciare ed accettare l'idea che soltanto l'Es, l'Io e il Super-Io nella loro interezza formino l'uomo; che soltanto i pensieri inconsci e il comportamento esterno nella loro totalità costituiscano l'uomo. Il problema, però, non è di sapere se o quale di questi aspetti esista, ma quali di essi debbano essere precipuamente presi in considerazione, e in quale delle loro possibili combinazioni, allo scopo di vivere bene e di creare una società sana, allo scopo di operare gli opportuni adattamenti all'ambiente e ai metodi educativi, in modo tale da render giustizia a un sano equilibrio.
Quali furono dunque le lezioni che trassi dalla esperienza dei campi di concentramento?
Primo: la psicoanalisi non è affatto il metodo più efficace per "cambiare" la personalità. L'essere posti in un ambiente particolare può produrre cambiamenti molto più radicali e in un tempo assai più breve. (3)
Secondo: la teoria psicoanalitica allora corrente era inadeguata a "spiegare" esaurientemente quello che stava accadendo ai prigionieri; aiutava ben poco a capire che cosa sia una vita «buona», un uomo «buono». Applicata entro un determinato ambito di riferimento, essa chiariva molto. Al di fuori di questo ambito, ovvero applicata a fenomeni che erano fuori del suo campo di applicazione, essa distorceva il loro significato, invece di chiarirlo.
Mentre poteva dirmi molto intorno alla parte «nascosta» dell'uomo, essa mi rivelava molto meno intorno al «vero» uomo. Tanto per usare un solo esempio: era del tutto evidente che l'Io non era affatto un debole servitore dell'Es o del Super-Io. Alcuni uomini rivelarono una stupefacente forza dell'Io che sembrava non derivasse né dall'Es né dal Super-Io.
Tutto questo è ora di conoscenza comune, da quando Hartmann ha sviluppato il concetto dell'autonomia dell'Io, e più tardi, insieme con Kris, ha stabilito l'esistenza dell'energia neutralizzata (dell'Io). Queste formulazioni teoriche, approfondite da Erikson e Rapaport, non erano disponibili quando io subivo l'esperienza dei campi e ne constatavo gli effetti sulla personalità dei prigionieri. Nel mio precedente scritto sul comportamento in situazioni estreme mi ero espresso (o credo di essermi espresso) servendomi dei concetti psicoanalitici allora disponibili, i quali non potevano rendere giustizia al mio argomento. Tanto i dati quanto la loro interpretazione trascendevano l'inquadramento teorico nel quale volevo costringerli.
Per non dare un quadro erroneo, voglio sottolineare che questo vale soprattutto per la teoria psicoanalitica e per le opinioni sulla personalità che ne derivano. In realtà, la psicoanalisi comprende almeno tre cose diverse: un metodo di osservazione, una terapia, e un corpo di teorie sul comportamento umano e sulla struttura della personalità. Esse sono valide in ordine decrescente, ed infatti la teoria della personalità è l'anello più debole dell'intero sistema, quello che ha veramente bisogno di revisione. (4) Rimaneva però il primo aspetto della psicoanalisi, quello che ho chiamato metodo di osservazione, e che si dimostrò molto valido e utile per me. Esso mi dette una più profonda comprensione di quello che poteva succedere nell'inconscio dei prigionieri e delle guardie, una comprensione che in certe occasioni forse mi salvò la vita, e in altre mi permise di aiutare alcuni compagni di prigionia.
Così l'esperienza dei campi mi insegnò anche due cose in apparenza contraddittorie: in primo luogo, le deficienze della teoria psicoanalitica quando essa venga applicata al di fuori del suo campo d'azione, nonché le sue insufficienze quando venga applicata a ciò che non le è pertinente, come nel caso in cui si voglia stabilire che cosa costituisca una personalità bene integrata. In secondo luogo, il grande valore delle applicazioni pratiche della psicoanalisi in ciò che le è pertinente, come l'imparare a capire, per mezzo dell'osservazione, i motivi inconsci del comportamento umano (a parte il problema di stabilire quale comportamento sia preferibile, o quale personalità sia più adeguata).
Forse un altro esempio può chiarire meglio questo punto: secondo le convinzioni psicoanalitiche allora correnti, la prova che una personalità è bene integrata, ben funzionante (e questo è lo scopo della psicoanalisi) era data dalla capacità di allacciare liberamente relazioni intime, di «amare», di essere in immediato contatto con le forze dell'inconscio, e inoltre di sublimarsi nel «lavoro». L'indifferenza verso gli altri e il distacco emotivo dal mondo erano considerati una prova di debolezza del carattere. Le osservazioni da me fatte nel capitolo quinto sul modo ammirevole in cui si comportarono nei campi di concentramento alcune persone che io ho chiamato «gli unti dal Signore», danno un'idea di quanto fossi colpito da personalità talmente indifferenti. Esse erano quasi completamente distaccate dal proprio inconscio, e nondimeno mantennero intatta la struttura della propria personalità, rimasero attaccate ai propri valori nonostante le terribili difficoltà e gli stenti, e, come persone, furono appena sfiorate dall'esperienza del campo.
Un comportamento simile caratterizzava un altro gruppo di persone che, secondo la teoria psicoanalitica, si sarebbe dovuto considerare come estremamente nevrotiche o addirittura folli, e perciò particolarmente suscettibili di crollare come persone sotto una tremenda pressione. Mi riferisco ai Testimoni di Geova, i quali non soltanto dimostrarono una non comune dignità umana e un elevatissimo comportamento morale, ma sembravano protetti contro quelle stesse esperienze del campo di concentramento che in breve tempo distruggevano persone considerate molto bene integrate dai miei amici psicoanalisti e da me stesso.
Molto più tardi, e in un contesto del tutto diverso (o forse non troppo diverso), si verificarono dei fatti simili, che furono assai più generalmente riconosciuti. Mi riferisco allo studio sulle persone allevate nelle case comuni per bambini nei Kibbutzim socialisti di Israele. Molte di loro ebbero esperienze infantili che, secondo le teorie psicoanalitiche, avrebbero dovuto produrre personalità molto instabili. Anch'esse erano isolate e in un certo senso senza legami, almeno in senso psicoanalitico. Gli psicoanalisti le consideravano personalità nevrotiche. Eppure queste stesse persone sopportarono senza disintegrarsi privazioni incredibili durante la guerra di liberazione e poi di nuovo in occasione della breve campagna contro l'Egitto; per non parlare delle privazioni che comporta il dover vivere continuamente in postazioni di frontiera soggette alle infiltrazioni arabe. Proprio queste persone che, secondo le attuali teorie psicoanalitiche, avrebbero dovuto avere una personalità debole, suscettibile di disintegrarsi immediatamente, si rivelarono eroici comandanti, soprattutto grazie alla forza del loro carattere. (5)


- Interpretazioni svisate.

Venne poi il problema del perché la psicoanalisi, che in tanti casi aveva mostrato la sua utilità per capire l'uomo e modificarne la personalità, si fosse mostrata così deludente sotto altri aspetti. Per quale ragione essa non è la chiave per capire la «vera» natura dell'uomo, quando ci ha rivelato su di lui molte più cose che non gli altri metodi da noi conosciuti? Perché, quando essa poteva determinare cambiamenti di personalità che sollevavano alcune persone dalla disperazione e le rendevano capaci di condurre una vita più ricca (come era accaduto anche a me) non procurava ad altri quella integrazione che li avrebbe resi capaci di sostenersi in situazioni estreme?
Mi ci volle molto tempo per capire le ragioni di tutto questo. Una di esse è che, nonostante la sua grande utilità per risolvere conflitti interiori, e il suo grande valore come strumento per guardare al di là del comportamento esteriore e comprendere alcuni dei più intimi recessi della psiche, la terapia psicoanalitica, come fu concepita da Freud e praticata dai suoi seguaci, fondamentalmente non è altro che una situazione sociale potentemente condizionante. Come tale essa può elucidare soltanto alcuni ma non tutti gli aspetti della psiche umana, può modificare alcuni ma non tutti gli aspetti della personalità, e non può non imporre limitazioni tanto ai pazienti quanto ai terapeuti, nonché alla stessa teoria.
La terapia psicoanalitica è essenzialmente un ambiente particolarissimo con particolarissime conseguenze. Essa non è il punto di Archimede, fuori dal mondo dei fenomeni sociali; non può servirci da fulcro per una leva che sollevi l'uomo al di fuori del suo ambiente sociale per darcene una «vera» rappresentazione. Trovarsi in una situazione psicoanalitica equivale ad aver eliminato il consueto ambiente in cui una persona vive sostituendo ad esso un altro ambiente del tutto speciale. Pertanto, lo studio delle reazioni dell'uomo in questo particolare ambiente può portare soltanto a individuarne le tendenze e a fare le scoperte ad esso attinenti. Si può facilmente arrivare a opinioni erronee qualora le scoperte fatte nel campo psicoanalitico vengano applicate fuori dal contesto di quel particolare ambiente senza prima essere state modificate.
Vorrei portare un breve e semplicissimo esempio: presupporremo che due studenti vogliano cercare di capire la società, l'uomo e la sua natura. Il primo decide di farlo studiando un gruppo di scienziati e osservandoli soltanto durante la loro attività di ricerca. Con ogni probabilità, egli troverà che ciascuno di loro (e quindi l'uomo) è tutto dedito ai suoi compiti sociali, che dà tutto quello che ha senza egoismo, senza riluttanza o timore, allo scopo di raggiungere un traguardo che si è scelto spontaneamente, vale a dire che egli attua e promuove gli interessi della società.
L'altro studente, al contrario, decide di arrivare a capire gli scienziati, e attraverso di loro l'uomo, osservandoli soltanto nei cinquanta minuti in cui essi si riuniscono dopo il lavoro nel bar di fronte. Là essi bevono insieme qualche bicchiere, troppo stanchi per andare subito a casa. Esasperati da piccoli intoppi che ostacolano il proseguimento delle loro ricerche, oppure risentiti l'uno contro l'altro, o contro il direttore, o contro la moglie, essi si sfogano. E' questo il momento ideale per allentare la pressione che si era prodotta in loro durante le molte ore di duro lavoro. E' il periodo del rilassamento totale. Essi addirittura si incitano l'un l'altro come ragazzi, e passano questi pochi minuti chiacchierando in modo completamente irresponsabile del lavoro, di se stessi, della moglie e l'uno dell'altro.
Ammetteremo anche, per ipotesi, che ciascuno di loro sappia benissimo di trovarsi in una situazione particolare, in una situazione cosiddetta «come se», che non ha alcun rapporto con la realtà del lavoro. Cercando di trovare una compensazione allo sforzo cui si sono volontariamente sottoposti, essi potranno spingersi fino al punto di dire che il lavoro che fanno non ha per loro alcun senso, mentre sanno benissimo che esso è una parte essenziale della loro vita. Potranno anche vantarsi di lavorare solo per denaro, o per avere una rivincita sulla moglie. Potranno proclamare di odiare la schiavitù del lavoro, qualche collaboratore, o chissà che cosa.
Ammettiamo ora che il nostro secondo osservatore, per una ragione o per l'altra, ascoltando questa conversazione al bar, arrivi alla conclusione di avere scoperto non la controparte del duro lavoro, ma le «vere» motivazioni di questi uomini, la loro autentica natura. Egli concluderà allora che tutto il difficile e utile lavoro che essi fanno durante il giorno non è che uno schermo astuto per nascondere i loro «autentici» desideri, un coperchio posto sopra la vera natura del loro Io. Questo osservatore può così arrivare a considerare le cose che costituiscono altrettanti ostacoli al lavoro degli uomini (come la meschinità, le piccole gelosie e le speranze frustrate) come la vera o la sola ragione che li spinge a sopportare le molte ore che essi dedicano al lavoro.
Ovviamente, entrambi gli osservatori hanno visto aspetti importanti, anche se diversi, dell'uomo in società. Nessuno dei due aspetti è falso, ma nessuno dei due dà una «vera» immagine dell'uomo. Il vero uomo consiste di una combinazione, o meglio di una integrazione, di entrambe queste rappresentazioni. Si tratta dello stesso uomo, soltanto nel primo caso al lavoro, nel secondo al bar, dopo alcuni bicchieri.
Così, durante la psicoanalisi, il paziente si occupa, naturalmente, soprattutto di ciò che gli impedisce di avere una vita felice. Questo accade perché il paziente si rivolge a uno psicoanalista non per fare un racconto completo e totale della sua vita, ma per essere aiutato in situazioni particolarmente difficili. Se egli si abbandonasse a lunghe fantasticherie intorno alle cose che furono e sono belle nella sua vita, lo psicoanalista, prima o poi, dovrebbe fargli osservare che tutto questo va benissimo, ma non è certo per questo che egli ha bisogno di lui; e che non ha senso usare lo scarso e dispendioso tempo a sua disposizione per parlare di cose che vanno benissimo comunque. Potrebbe poi risultare che il fatto di parlare degli aspetti positivi della propria vita era in fondo un'astuzia per non pensare a quelli spiacevoli, oppure un bisogno di non sembrare ingrato verso coloro che gli hanno permesso di fare delle belle esperienze, e così via. Tutto ciò si potrebbe forzatamente interpretare nel senso che, nella vita, le buone esperienze sono meno importanti o soltanto un pretesto. Invece, nella vita, esse sono realissime e importantissime, benché in psicoanalisi possano avere la funzione di un pretesto.


- L'uomo guarito e l'uomo sano.

Tornando alla mia esperienza del campo di concentramento, la psicoanalisi mi aveva aiutato a capire alcuni motivi nascosti delle azioni dei prigionieri e delle guardie, anzi a capire perché la personalità dei prigionieri si disintegrava, e perché si disintegrava in un certo modo. Abbastanza stranamente, e con mio vivo disappunto, essa non mi aiutò in alcun modo particolare a proteggere me stesso contro questo pericolo, né a capire perché quelli che resistettero bene di fronte a quella stessa esperienza poterono farlo. Riesaminando la psicoanalisi sotto questa luce, diventa chiaro perché e in che misura essa si è dedicata all'indagine delle influenze distruttive, e perché e come non ha fatto la stessa cosa per quelle costruttive. L'unica eccezione importante è l'influenza costruttiva dell'analisi stessa.
Senza alcuna precisa intenzione da parte degli psicoanalisti, e spesso contrariamente alle loro stesse affermazioni, in quasi tutte le analisi l'accento cade sugli aspetti negativi della vita di una persona, e su cosa si possa fare per correggere questi guai. Poiché la psicoanalisi tratta principalmente o soltanto di tali problemi, ciò è del tutto legittimo. Però essa non offre una teoria della personalità che possa costituire una guida positiva verso una vita soddisfacente. Al tempo stesso, invece, si cerca sempre più di usarla come guida per la vita, in maniera tanto diretta quanto indiretta, e ne è prova il fatto che essa fornisce attualmente le strutture teoriche di molte scienze che studiano il comportamento.
Gli psicoanalisti sarebbero i primi a dire che il valore delle loro teorie e delle loro esperienze va ora ben oltre il campo ristretto della psicoterapia; essi sono ben coscienti della loro importanza per la sociologia, per l'educazione, per l'estetica, per la vita. Ma quando la psicoanalisi viene applicata al di fuori dei limiti della psicoterapia possono manifestarsi alcuni seri pericoli, qualora il suo punto di partenza originario e la sua continua insistenza su ciò che è morboso, patologico, non vengano temperati da un'attenzione egualmente accurata per ciò che è sano, normale, positivo. A causa di questa concentrazione dell'interesse su ciò che non è sano e sul modo di correggerlo si potrebbe arrivare facilmente a una teoria secondo la quale la vittoria sull'elemento morboso, e non la sua assenza, diventa la norma valida per una personalità sana.
Questa mancata considerazione dell'elemento positivo comporta anche un altro pericolo. Potremmo infatti arrivare al punto di credere che per tutti gli uomini, come per i pazienti in psicoterapia, lo scopo della realizzazione completa di se stessi, della propria individualizzazione, possa essere raggiunto solo se ci si libera da ciò che ci affanna, oppure, se non ci si riesce, se si compensa una grossa tara patologica con grandi realizzazioni artistiche o intellettuali, come nel caso di Beethoven. Così, mentre possono venir create opere d'arte durevoli, le persone più vicine all'artista possono restare distrutte nel processo creativo.
Preferire alla normalità la compensazione di un aspetto patologico (con un atteggiamento simile a quello religioso per il quale il cielo è più contento per un peccatore pentito che per un uomo buono) è una posizione morale pericolosa, tanto nella psicoterapia quanto nella società; essa accentua l'aspetto tragico e spettacolare, e disprezza il sale della terra - ciò che forma la normale felicità e una vita soddisfacente - e cioè una vita sana e relativamente felice in seno alla propria famiglia e con i propri amici. E' una concezione che, concentrando l'interesse sugli istinti distruttivi, quasi affascinata dal patologico, finisce (in realtà senza desiderarlo) col trascurare la vita. L'uomo non appariscente che vive bene e tranquillamente può anche non creare opere d'arte o non essere afflitto da una profonda nevrosi o non compensare le sue inquietudini emotive con grandi realizzazioni artistiche o intellettuali, ma almeno non distruggerà suo nipote e non renderà miserabile la vita di suo fratello per il fatto che sente la mancanza di una famiglia. (6) Invece cercherà semplicemente di crearsi una vita piacevole. Ma se la patologia deve essere il termine di riferimento per ogni azione umana, una vita come questa può sembrare destituita di ogni significato o valore.
Freud era ben conscio di tutto questo; lo testimoniano la sua insistenza nell'affermare che non esiste nessuna "Weltanschauung" psicoanalitica e, in generale, il suo silenzio su ciò che costituisce la personalità normale o sul come i bambini dovrebbero essere allevati per conseguirla. Ma, poiché la psicoanalisi è il più valido insieme di teorie sul comportamento e sulla personalità umani, è comprensibile che la si voglia utilizzare anche per un compito per il quale essa è attrezzata solo parzialmente.
Se volessimo indebitamente approfittare di alcune osservazioni che Freud fece di sfuggita, potremmo affermare che secondo lui i sintomi di una personalità sana sono la capacità di amare e di lavorare. Ma, quantunque egli abbia sviluppato una grandiosa teoria della libido (sesso, aggressività), la costruzione teorica che ci ha lasciato è troppo esile per farci capire, all'interno del suo sistema, la natura e l'importanza degli attaccamenti umani durevoli e del lavoro umano.
Quanto sia inadeguata la teoria psicoanalitica per comprendere le forze positive del «lavoro» nella vita, lo mostra chiaramente la letteratura psicoanalitica sui grandi uomini. Prendendo come punto di partenza lo studio di Freud su Leonardo, sono apparsi molti studi psicoanalitici di personalità famose, quelli per esempio su Beethoven, su Goethe, su Swift, per menzionarne soltanto alcuni fra i più recenti. In ogni caso, l'accento viene posto sulla patologia dell'eroe, sul come questa influenzò certi aspetti della sua opera. Tutti e tre rivelano personalità quasi schizofreniche; tutti e tre i casi costituiscono convincenti studi di psicoterapia. Ma il vero enigma non è costituito dalla psicopatologia di questi artisti, bensì dal loro contributo creativo.
Questi contributi sono pienamente riconosciuti; anzi, questa è la ragione per la quale i loro creatori sono stati studiati. Ma, come affermò lo stesso Freud, la sua analisi delle esperienze infantili di Leonardo (e qui non ha importanza stabilire se i dati e la loro analisi fossero o meno validi) non getta alcuna luce sul perché Leonardo sia diventato un grande inventore ed artista, quando le stesse esperienze avrebbero potuto portare altri a fare scarabocchi e ad inventare stupidaggini prive di senso; perciò, egli pensava, la sua analisi non faceva, né poteva far luce sul perché Leonardo fosse un genio. E così per gli altri che hanno scritto a proposito di Beethoven, di Goethe, di Swift. Essi ci offrono affascinanti spiegazioni sulla vita dei loro eroi, ma falliscono in pieno quando vogliono aiutarci a capire perché esistano le loro opere, cioè il loro contributo positivo al genere umano.
Ciascuna delle tre analisi non fa altro che mettere di nuovo in rilievo il fatto che la psicoanalisi è il metodo migliore per scoprire e capire l'uomo nascosto, ma essa non è affatto uno strumento particolarmente adatto a scoprire l'uomo nella sua interezza; tanto meno a capire in che cosa consista e che cosa determini la sua «bontà» o la sua «grandezza». Sembra perciò legittimo concludere che, mentre la psicoanalisi può spiegare lo sconvolgimento psicologico, l'elemento patologico che ha messo in moto un certo processo, essa è molto meno capace di spiegare perché e come, da questo punto di partenza, si siano verificati sviluppi positivi.


- Combattere la teoria.

Il problema pratico veramente importante è di scoprire quali e quante restrizioni si possano eliminare, ovvero come questa o quella situazione di una persona debba essere modificata per permetterle di rimuovere senza pericolo le sue inibizioni. Oppure, per presentare il problema in maniera diversa, come dovrebbero essere messi in pratica i grandi contributi della psicoanalisi.
Questo problema si ricollega all'attività che mi interessa di più, e cioè al problema dell'educazione dei bambini in generale e alla loro rieducazione in particolare. Dapprima ebbi modo di sperimentare le mie idee sui due bambini autistici menzionati sopra. Il fatto di vivere insieme con loro mi costrinse a riesaminare la psicoanalisi per potermene servire allo scopo di creare un ambiente che fosse totalmente terapeutico e nello stesso tempo anche uno sfondo di vita reale.
Più tardi cominciai a lavorare alla Sonia Shankman Orthogenic School dell'Università di Chicago, partendo dalla semplicistica premessa che ciò che impediva alla psicoanalisi dei bambini di avere il suo pieno effetto era il fatto che essi vivessero insieme con i genitori. (7) Ma fu presto chiaro che quantunque i ragazzi dell'Orthogenic School vivessero ormai lontani dai genitori, essi non miglioravano abbastanza. E questo nonostante il fatto che vivessero ora in condizioni che non solo non ostacolavano gli sforzi psicoanalitici, ma li assecondavano grandemente. Le loro condizioni di vita infatti erano non soltanto favorevoli quanto è umanamente possibile, ma anche basate su quelli che noi consideravamo allora i metodi migliori di educazione del fanciullo, fondati direttamente sulla teoria e la prassi psicoanalitica.
In pratica alcuni bambini peggiorarono addirittura, mentre altri trassero dalla psicoanalisi minor profitto che non prima di essere ammessi a vivere nella scuola, perché il benessere di cui ora godevano aveva eliminato molti dei loro precedenti incentivi a cambiare. Diversi di loro abbandonarono puramente o semplicemente l'analisi, perché sentivano di avere ottenuto tutto quello che volevano, e cioè si trovavano in un ambiente apparentemente «ideale». E questo sarebbe andato benissimo, se essi avessero migliorato la loro integrazione personale, cioè il loro effettivo modo di vivere. Ma ciò non era avvenuto, o per lo meno era avvenuto soltanto in misura inadeguata.
Solo allora mi resi conto che il mio sforzo iniziale di creare una situazione terapeutica totalmente fondata sull'«amore» e su di un'opportuna considerazione dell'inconscio, delle pulsioni di vita e di morte, del sesso e dell'aggressività era stato un errore. Ancora una volta dovevo rendermi conto che l'amore non basta: una vita soddisfacente può essere raggiunta dall'individuo e dalla società soltanto se, in aggiunta all'«amore», essa si innesti anche su di una salutare e fattiva propensione al lavoro, costruttiva per la personalità e non solo per l'«Io».
Come nell'altro caso (cioè soltanto quando i miei sforzi per capire l'esperienza del campo di concentramento attraverso la psicoanalisi classica erano falliti) io mi ero sentito disposto ad accettare l'esigenza di rivedere quell'insieme di teorie, così ora, soltanto quando i miei sforzi per dare vita a un metodo di cura totalmente psicoanalitico basato sulle premesse classiche della psicoanalisi si rivelarono insufficienti, riuscii ad applicare a problemi e a situazioni tanto diversi quello che avevo imparato nei campi.
Le due situazioni che, nonostante la mia riluttanza, mi costrinsero a trarre profitto da queste nuove lezioni erano stranamente collegate, benché diametralmente opposte. Nel primo di questi miei due sforzi per applicare la psicoanalisi al di fuori del suo ambito di riferimento avevo lo scopo di prevenire, mitigare, rallentare, in una parola contrattaccare la disgregazione della personalità prodotta coercitivamente dall'ambiente. Lo scopo del mio secondo sforzo era di costruire una personalità nuova partendo da una personalità già disintegrata, mediante l'influenza dell'ambiente.
In quello stesso periodo altre persone, partendo da osservazioni ed esperienze di tipo diverso, avevano sentito aumentare sempre più la propria insoddisfazione nei confronti delle teorie psicoanalitiche esistenti. Il primo a suggerire una revisione sostanziale basata tanto su considerazioni teoriche quanto sull'esperienza pratica fu Hartmann. La prima revisione di vasta portata delle teorie che mi interessavano più da vicino, e che si conciliava con le mie stesse esperienze più di qualsiasi altra opera pubblicata fino ad allora, fu il libro "Childhood and Society" di Erikson. (8) A loro, e a molti altri, devo importanti idee espresse in questo libro e altrove, debito che sono ben felice di riconoscere. Naturalmente, così tante sono le persone che hanno influenzato il mio lavoro e il mio modo di pensare che non posso nemmeno cominciare a enumerarle. Da molto tempo, poi, ho espresso il mio debito intellettuale verso John Dewey.
Sono perfettamente cosciente di tutte queste influenze. Senza di esse non saprei nemmeno come andare avanti. Io sono quello che sono e faccio quello che faccio grazie a ciò che ho imparato da molte persone, alcune vive, altre morte da molto tempo. Ma c'è soprattutto la Orthogenic School col suo personale e i suoi bambini, i quali mi costringono a riesaminare continuamente gli schemi teorici di cui mi servo. Molti di questi si rivelarono deludenti proprio quando dovevo servirmene per spiegare alcuni difficili problemi al mio personale o ai miei studenti, ovvero quando dovevo applicarli e adattarli alla nostra istituzione. Spesso in tali occasioni fui costretto a riconoscere che la teoria non si adattava al caso mio, e che perciò doveva essere rielaborata in una teoria nuova e migliore, sia per comunicare ad altri quello che ritenevo necessario capissero, sia per rendere la scuola un'istituzione migliore.
Dato il mio interesse per una società migliore e per una vita migliore all'interno di essa, non potevo contentarmi di provare la validità di questi schemi teorici soltanto all'interno del microcosmo della Orthogenic School. Ero continuamente spinto a chiedermi se essi avrebbero resistito anche quando fossero stati applicati alla società in generale. Ovviamente, il campo sociale che attirava principalmente la mia attenzione, come terreno di prova, era quello con cui ero in contatto continuo e che conoscevo meglio: l'educazione dei giovani, tanto all'interno quanto all'esterno della scuola. Ma, come il lettore può rendersi conto, talvolta sono andato oltre questo campo ristretto per parlare anche di certi aspetti della società in generale.
Per quanto forte possa essere stata la mia deviazione dalla psicoanalisi classica, essa mi sembra piccola se la paragono al mio grande debito intellettuale verso di essa. In massima parte le mie deviazioni trovano origini nella insoddisfazione per la tendenza critica, forse addirittura distruttiva, immessa nella teoria psicoanalitica al momento della sua applicazione da coloro che ne hanno fatto una professione, a causa della troppo scarsa importanza da essi attribuita alle forze positive della vita e al fatto che queste sono predominanti rispetto all'influenza deformante della nevrosi.
Tuttavia, probabilmente, io resterò sempre, entro certi limiti, affascinato dagli schemi psicoanalitici, i quali danno troppa importanza alle esperienze che fanno soffrire l'uomo quando la società pone degli ostacoli alle sue naturali aspirazioni, mentre trascurano, in confronto, i benefici incredibilmente più grandi che egli trae dalla società. Nonostante la mia ricerca di schemi teorici che evitino questo errore, infatti, sono ancora ben lontano dalla meta. E' difficile raggiungere una solida posizione di mezzo fra un pessimismo eccessivo e un ottimismo troppo ingenuo, forse perché gli schemi teorici tendono a risolversi in posizioni unilaterali e in ogni caso a favorire le posizioni estreme. La concordanza degli opposti, l'assenza di certezza, non sono certamente delle basi comode, e neppure stabili, per costruire schemi teorici.
Quello che cerco di dimostrare è che ogni ulteriore progresso rende l'equilibrio sempre più precario e difficile da mantenere. In generale, io penso che tutte le difficoltà di cui siamo spettatori, quelle cioè che creano i disagi tipici della nostra civiltà, le ansie proprie del nostro tempo e della nostra epoca, si imperniano sulla caratteristica instabilità del tempo presente. Dobbiamo allontanarci dalla tradizione, e cioè dalla sicurezza basata sulla ripetizione di un medesimo schema, per passare a vivere in condizioni di sempre minore certezza, che possono fondarsi soltanto sugli sforzi che facciamo per vivere soddisfacentemente senza avere alcuna possibilità di prevedere l'esito delle nostre azioni, in circostanze che mutano di continuo. Ma proprio nel fatto di costruire attraverso le circostanze mutevoli una duratura condizione di vita sembra ora risiedere la sola sicurezza possibile in questa nostra società dominata dalla tecnica.
Ho cercato di analizzare questo problema in alcuni dei capitoli successivi. Qui vorrei solo aggiungere che i problemi posti dalla moderna società di massa e dal rapido cambiamento di natura tecnologica (di cui il campo di concentramento fu soltanto un'escrescenza) hanno reso evidente ai miei occhi la ragione per cui la sola psicoanalisi è insufficiente a spiegare tutti i fenomeni ad essi relativi, e perché le sue premesse debbano essere riformate in senso più dinamico ed elastico di quanto lo fossero quando furono concepite.


- Importanza dell'ambiente.

Generalmente parlando, la psicoanalisi si basa ancora sull'opera di Freud e su quella dei primi psicoanalisti, traendo da esse il suo inquadramento teorico. Queste persone curarono i loro pazienti in una società che sembrava molto stabile, caratterizzata da una evoluzione lenta e graduale. L'opera della psicoanalisi stessa mirava solo a portare il paziente al godimento di quello che già esisteva e che era stato già da tempo accettato da lui. Non ci si aspettava, né si riteneva possibile o perfino desiderabile, alcun cambiamento radicale nella società, nella morale, nello stile di vita.
A tutto questo ho già accennato parlando del mondo dei miei genitori. In ogni caso, il mondo dei primi pazienti di Freud cambiava così lentamente, e i cambiamenti che ci potevano essere avevano effetti così limitati o soltanto benigni, che la matrice sociale della vita dell'individuo poteva essere ritenuta una costante. Si consideri per esempio il consiglio che veniva dato al paziente in cura di non prendere alcuna decisione a lunga scadenza a proposito della sua vita esteriore fino a quando l'analisi non fosse finita. Questo riflette sia una certa tendenza a trascurare l'importanza della vita pratica sia la convinzione che essa sarebbe stata esattamente la stessa dopo anni di analisi, e che, allora come prima, sarebbe stato facile per il paziente adottare i cambiamenti ritenuti più opportuni. Non c'è bisogno di parlare, invece, del ritmo della nostra vita attuale, la quale cambia tanto rapidamente che potrebbe essere ben difficile per un paziente congelare la propria vita esteriore per tre, cinque o più anni, per poi cambiare proprio quando la sua vita è già in declino, ovvero sprovvista dell'impulso necessario a prendere decisioni importanti. (9)
Se la società (insieme con gli adattamenti necessari per vivere bene all'interno di essa) si evolve lentamente, organicamente e secondo una prospettiva prevedibile cui l'uomo può prepararsi, allora, per capire la dinamica della personalità, questa costante può essere anche trascurata. Tutti i cambiamenti della personalità potranno essere attribuiti interamente a processi interiori e si staglieranno nettamente come sullo sfondo di uno schermo bianco.
Questa era anche per me la premessa su cui mi fondavo, soltanto che essa è stata per ben due volte invalidata: la prima volta in maniera traumatizzante e la seconda in maniera benigna. La prima di queste due esperienze fu l'improvviso cambiamento del mio modo di vivere nel campo di concentramento, la seconda il fatto di vivere nel Nuovo Mondo. Coordinando, o cercando di coordinare, i rapporti reciproci fra questi cambiamenti radicali dell'ambiente sociale e quelli della mia personalità fui portato a convincermi che la società non è così irrilevante per capire la dinamica della personalità come affermava invece la psicoanalisi, né lo sviluppo della personalità è così radicato nella biologia e nelle precedenti esperienze di vita, ovvero così indipendente dall'ambiente in cui si svolge, come essa sosteneva.
Se, d'altra parte, la società può avere un'influenza così profonda sulla personalità, allora questa influenza deve essere meglio compresa. Inoltre, e questo è ancora più importante, l'uomo deve essere protetto meglio, attraverso l'educazione o altrimenti, contro la sua influenza potenzialmente distruttiva. Gli si devono non solo fornire mezzi più efficaci per trasformare la società in modo tale che non sia più di ostacolo alla sua esigenza di vivere soddisfacentemente, ma si deve organizzare un ambiente che lo faciliti e l'incoraggi. In breve, l'uomo deve fare ambedue queste cose: vivere una vita soddisfacente in società, e di generazione in generazione creare una società migliore per sé e per gli altri.
Ciò che la psicoanalisi ha già compiuto per la personalità all'interno di un contesto sociale stabile, lo deve ora fare tanto per la personalità quanto per il contesto sociale nella loro azione reciproca, in un periodo storico in cui sono entrambi in fase di trasformazione.


- Azione reciproca.

Il resto è ora molto facile da spiegare. Dopo l'esperienza del campo di concentramento, l'esperienza di dover lasciare l'Europa per trasferirmi negli Stati Uniti sollevò nuovamente e con urgenza la questione: fino a che punto nuove condizioni di vita e il necessario adattamento ad esse trasformano la personalità, e quali sono gli aspetti della personalità che rimangono relativamente inalterati di fronte a un cambiamento d'ambiente così radicale? Il problema qui non era tanto di sapere fino a che punto l'uomo può essere modificato dall'ambiente. Era piuttosto quello di individuare quali siano le zone di libertà che egli conserva rifiutandosi di adattarle al nuovo ambiente, cercando invece di modificare quest'ultimo secondo i propri bisogni, e fino a che punto un suo irrigidimento gli può impedire di fare l'una o l'altra cosa.
Anche in questo caso, osservando quei miei amici che condividevano con me questa nuova esperienza (e che io potevo osservare molto da vicino, come avevo fatto coi miei compagni di prigionia nei campi di concentramento) giunsi a rendermi conto che esiste una vasta gamma di comportamenti. A un estremo c'è l'individuo che si attiene rigidamente ai suoi vecchi valori e conserva atteggiamenti mentali che non sono più utili o in armonia col nuovo ambiente in cui vive: egli si comporta così, semplicemente perché quei valori furono impressi in lui durante gli anni giovanili. All'altro estremo c'è l'individuo che si adatta totalmente alla nuova situazione e che, per così dire, viene inghiottito dal nuovo ambiente. Soltanto raramente ho potuto osservare quella sottile azione reciproca fra personalità e ambiente che provoca un più alto grado di integrazione.
Dopo aver sperimentato più volte l'influsso distruttivo delle condizioni sociali sulla mia vita, ebbi la fortuna di poter trarre vantaggio dalla sana influenza di un ambiente nuovo e più libero negli Stati Uniti. Queste esperienze diverse, che si erano succedute in uno sviluppo emotivo e intellettuale non sempre facile, mi portarono alla convinzione che l'ambiente può tanto distruggere quanto guarire; specialmente se all'influsso salutare dell'ambiente si aggiunge l'influsso salutare della psicoterapia.
Cercai di mettere in pratica questa convinzione, creando una situazione in cui l'influsso terapeutico della cura psicoanalitica sarebbe stato assecondato dall'azione di un ambiente che, entro i limiti imposti dalla struttura della società attualmente esistente, potesse portarmi a vivere soddisfacentemente. Quando cominciai l'esperimento, ancora non sapevo che questi due termini non possono essere semplicemente sommati l'uno all'altro, che la loro addizione avrebbe recato non poche contraddizioni, nuovi problemi e nuovi ostacoli. Solo dopo aver creato il microcosmo della Orthogenic School, mi resi conto che sotto alcuni aspetti questo mondo ostacolava il successo del trattamento psicoanalitico. Per quanto fosse duro accettare questa conclusione, era ancora più duro dover riconoscere che la psicoanalisi, a sua volta, può avere un'influenza nociva perfino su un ambiente creato in parte a sua immagine. Penso che soltanto queste ultime constatazioni mi portarono a rendermi pienamente conto di quanto sia precario l'equilibrio fra ambiente, personalità e psicoterapia.
Da quel momento in poi dovetti dedicarmi alla soluzione di questo problema: fino a che punto può l'ambiente influenzare e formare l'uomo, la sua vita e la sua personalità, e fino a che punto non può farlo, come e fino a che punto l'ambiente può essere usato per plasmare la vita e la personalità delle persone; e, infine, come deve svilupparsi la personalità in modo da poter resistere in qualsiasi ambiente o, se necessario, cambiare in meglio l'ambiente stesso. Sono questi gli interessi che hanno nutrito il mio lavoro e che sono alla base di questo libro, anche se talvolta la connessione con essi può sembrare assai vaga.
In particolare, il mio compito divenne e rimane quello di imparare di più sul modo con cui le scoperte della psicoanalisi potevano e dovevano essere liberate da distorsioni parallattiche - da distorsioni, cioè, che derivavano, direttamente o indirettamente, dalla speciale situazione psicoanalitica, e dalla conseguente esagerata importanza attribuita all'inconscio. A questo scopo dovevamo evitare di applicare direttamente alle situazioni della vita reale le scoperte basate su quello che accade nello studio dello psicoanalista, e sostituirle con uno studio attento dell'uomo nella vita reale, dove egli, non meno che il paziente sul divano, deve essere osservato con cura, e tenendo nella dovuta considerazione anche l'inconscio. Non potevamo tuttavia limitarci alle osservazioni e alle conclusioni tratte da questo studio: esse dovevano infatti suggerirci quali modificazioni dell'ambiente si dovessero adottare, dopo averle accuratamente vagliate e organizzate; inoltre, una volta fatto ciò, dovevamo valutare di nuovo gli effetti di queste modificazioni. Talvolta, infatti, il ragionamento che aveva portato all'adozione di un dato cambiamento venne confermato dall'esperienza, talvolta invece no, mentre il più delle volte essa ci suggeriva soltanto di apportare alcune ulteriori modifiche al nostro modo di pensare, di organizzare, di agire.
Così, in un succedersi continuo di studi e di esperimenti, ci consacriamo alla soluzione di questo problema pratico: quali modificazioni dell'ambiente siano necessarie per educare i bambini in modo tale che aumentino le loro possibilità di vivere soddisfacentemente, e quali siano i metodi di educazione necessari per aiutarli a vivere una vita soddisfacente qualunque possa essere l'ambiente in cui vivono.
Poiché alla Orthogenic School noi abbiamo riabilitato bambini che erano stati un tempo dichiarati irrecuperabili da tutti, e poiché alcune persone riuscirono a conservare la loro umanità nei campi di concentramento tedeschi dopo esserci state per dieci anni e più, questi compiti, quantunque difficili, non sembrano superiori alle possibilità umane.



NOTE al capitolo 1.

Nota 1: Questa situazione psicologica e la disperazione totale che ne seguì costituiscono lo sfondo su cui Kafka creò molte delle sue opere.
Nota 2: Confronta «American Journal of Orthopsychiatry», 26, 1956, pagine 507-18.
Nota 3: Una conseguenza più tarda di questa constatazione fu l'adozione di una terapia che si serviva dell'ambiente come mezzo di cura: vale a dire, la creazione di un ambiente appositamente studiato con lo scopo di contribuire a determinare radicali trasformazioni della personalità in individui che non potevano essere curati con la psicoanalisi.
Nota 4: Confronta Ia mia opera "Symbolic Wounds", The Free Press, Glencoe, Illinois, 1954, pagine 69 sgg. [trad. it. "Ferite simboliche", Firenze, 1973].
Nota 5:. Non voglio con questo affermare che l'indifferenza ovvero un atteggiamento di distacco emotivo sia una caratteristica umana positiva, né che la rigidità sia in grado di produrre una vita «buona». Voglio soltanto dire che la teoria psicoanalitica della personalità è incapace di suggerire quali siano gli elementi essenziali di una personalità «desiderabile» e bene integrata; e ciò perché essa dà importanza eccessiva alla vita interiore, trascurando l'uomo nell'insieme delle sue caratteristiche, a contatto con l'ambiente umano e sociale che lo circonda.
Nota 6: Confronta R. e E. Sterba, "Beethoven's Nephew", Pantheon Books, New York, 1954.
Nota 7: Trascuravo semplicemente il fatto che i due bambini autistici con i quali avevo vissuto per anni non vivevano insieme con i loro genitori e che l'analisi, pur essendo compiuta all'interno di un ambiente benefico, che andava incontro ai loro bisogni istintivi, non era sufficiente a riabilitarli.
Nota 8: Trad. it. "Infanzia e società", Roma, 1982/10 [N.d.T.].
Nota 9: Diversi biografi di Freud hanno messo in rilievo la sua riluttanza a lasciare Vienna, benché egli dichiarasse spesso che non gli piaceva viverci. Io ho già contestato questo suo proclamato malcontento di vivere a Vienna, e mostrato perché siamo autorizzati a dubitarne. (Confronta la recensione all'opera di E. Jones, "The Life and World of Sigmund Freud", in «American Journal of Sociology», 62, 1957, pag. 419). Qui vorrei solo aggiungere che non mettendo piede, fin quasi alla fine, fuori dei confini di quel mondo e di quella cultura, Freud non ebbe la possibilità di rendersi conto di quali profonde trasformazioni possano essere determinate in una persona quando essa cambi ambiente, constatazione, questa, che avrebbe potuto portarlo a considerare che l'influenza dell'ambiente sulla persona non è né trascurabile né costante.
Nota 10: Vi sono, per esempio, pochissime osservazioni psicoanalitiche che considerano l'influenza sul paziente dello scoppio della guerra, dell'immigrazione, eccetera. Ma è vero, e noi lo abbiamo visto spessissimo in occasione del nostro lavoro alla Orthogenic School, che quando alcuni tra noi partono dalla convinzione che gli avvenimenti che accadono all'interno dell'ambiente sociale di questa scuola, o nel mondo esterno, non hanno influenza sulla formazione della personalità del fanciullo, questi tende a conformarsi a questa convinzione. Ma a causa di ciò il fanciullo diventa meno elastico, meno sensibile all'ambiente in cui vive, si fida meno delle proprie capacità di osservare e di reagire, si sente più lontano dalla realtà, preoccupato com'è unicamente del proprio inconscio, e perciò meno in grado di controllarlo. Analogamente, anche il paziente adulto può essere condizionato dall'ambiente in cui vive (la situazione analitica) a diventare meno sensibile verso il mondo esterno e a reagire soltanto in funzione del proprio mondo interiore. Come il campo di concentramento poteva produrre dei prigionieri «anziani» che si erano adattati ad esso perfettamente, anche la psicoanalisi può ottenere pazienti e terapeuti perfettamente adattati al mondo creato dalla psicoanalisi, la quale dà pochissima importanza alla realtà esterna e moltissima al mondo interiore. In certe condizioni questo può essere giustificato dalle necessità della terapia psicoanalitica. E' comunque ragionevole supporre che, poiché l'influsso potente di un ambiente particolare (l'analisi) impedisce ad altri ambienti di esercitare il loro influsso questi diversi influssi abbiano (o debbano avere) un'influenza assai scarsa o addirittura nulla sulla personalità dell'individuo.

indice


informativa privacy