Il genio di un grande artista può ricreare nelle pagine di un libro quella sottile azione reciproca fra uomo e ambiente che costituisce l'essenza tanto della vita quanto dell'arte. Poiché io non sono né un genio né un artista, non posso far altro che trattare le due cose separatamente, almeno entro certi limiti. Perciò in questo capitolo prenderò in considerazione soprattutto il nostro ambiente, i suoi effetti sull'uomo moderno, e ciò che temiamo esso determini in lui; nel prossimo capitolo, invece, prenderò in considerazione soprattutto noi stessi.
Senza dubbio, il timore che la nostra sia un'epoca di nevrosi angoscia l'uomo moderno, e aumenta la sua infelicità individuale. Sentendo acutamente i disagi della nostra civiltà, la sua insoddisfazione si accresce sempre più e spesso egli trascura il fatto che ogni epoca e ogni società hanno avuto i loro conflitti tipici, le loro tipiche forme di disagio, e perciò di nevrosi. Ma poiché a noi interessano direttamente le difficoltà che incontriamo nella nostra civiltà, ci preoccupiamo di quegli aspetti di essa che generano in noi angoscia e malattia. In una società di cacciatori, il cacciatore, proprio in quanto trae piacere dalla caccia, soffre del timore di diventare lui stesso una preda, cioè di essere cacciato. E' questo il prezzo che egli paga per vivere in una società basata sulla caccia. Diverse sono le paure che turbano l'esistenza dell'agricoltore: egli teme le tempeste di sabbia, la siccità e le inondazioni.
Talvolta sembra che, con l'evolversi della società ogni passo in avanti, pur riducendo i vecchi disagi, non riesca a cancellare tutte le vecchie angosce. Contemporaneamente, ogni ulteriore sviluppo sembra portare con sé nuove angosce in aggiunta a quelle vecchie ancora presenti. Queste nuove paure che accompagnano ogni progresso dell'evoluzione sociale sembrano svilupparsi in un processo continuo dall'animato all'inanimato, all'astratto. Il cacciatore teme i nemici e le belve feroci; al timore dei capricci del tempo il contadino aggiunge il timore di creature ostili. Tutte queste cose insieme tormentano l'uomo moderno, la cui civilizzazione aggrava la vecchia paura di pericoli animati e inanimati, combinandola con angosce di natura astratta e simbolica, come quelle di natura morale.
La madre moderna conserva ancora i secolari timori per la propria sopravvivenza e per il benessere fisico del bambino, ma ora, nella stessa misura in cui gode della propria maternità, essa è angosciata dalla paura di non essere una buona madre. In breve, tutto quello che forma l'essenza della nostra attività vitale tende anche a trasformarsi in tormento. Nell'èra delle macchine l'uomo teme di vedersi sottrarre la propria umanità dal suo stesso prodotto, la macchina; lo testimoniano la paura sociale dei mali della società di massa e l'angoscia di perdere la propria identità.
Già un secolo fa, un poeta espresse questa stessa ansia quando si trovò davanti la nuova civiltà industriale. Heine, visitando l'Inghilterra, osservò: «La perfezione delle macchine, che qui vengono applicate a ogni cosa, e che hanno sostituito tante funzioni umane, ha per me qualcosa di lugubre; questa vita artificiale, basata su ruote, sbarre, cilindri, e su migliaia di gancetti, di perni, di denti che si muovono come se fossero intelligenti, mi riempie di orrore. Non mi disturbano meno la rigidità, la precisione, l'esattezza della vita degli Inglesi: perché in Inghilterra, mentre le macchine sembrano aver raggiunto la perfezione degli uomini, gli uomini assomigliano alle macchine. Sì, sembra che qui il legno, il ferro e l'ottone abbiano usurpato la mente umana e siano quasi impazziti per pienezza di mente, mentre l'uomo, ormai senz'anima, come un vano fantasma, compie i consueti lavori in maniera meccanica».
Io non so che cosa sentisse l'antico nomade quando vide altri uomini farsi sedentari e cominciare lentamente a coltivare la terra. Forse non sapeva esprimere con parole analoghe il suo senso di angoscia alla vista di quei suoi simili che, per godere di una maggiore sicurezza economica e di agi maggiori, avevano rinunciato a una relativa libertà di movimento. Ma l'arabo nomade moderno prova certamente pietà per coloro che hanno rinunciato alla condizione di libertà per godere degli agi che l'agricoltura può offrire. Per lui la sola esistenza veramente umana consiste nell'esser libero come il vento. Tuttavia, il vento del deserto, che è il simbolo della sua libertà, è anche la maledizione del nomade, che può difficilmente proteggersi contro di esso. Eppure egli ha ragione: fissarsi in un dato luogo comporta sempre una certa dose di schiavitù; certe libertà e certe soddisfazioni devono essere abbandonate per avere in cambio alcune comodità e un po' di sicurezza.
Comunque stessero le cose in altri tempi, il fatto è che l'uomo moderno soffre per la sua incapacità di compiere una scelta, che egli vede come alternativa, fra la rinuncia alla libertà e all'individualismo e la rinuncia ai conforti materiali portati dalla tecnica moderna, e alla sicurezza connessa a una società collettiva di massa. Questo è, secondo me, il vero conflitto dei nostri tempi.
Paragonate a questo conflitto centrale, le nevrosi individuali, basate sulla negazione del problema, sono solo periferiche. Esse hanno una importanza minore, anche se oggigiorno tormentano molte persone. Tale negazione può manifestarsi nello sforzo continuo di affermare a ogni costo la propria individualità, come fanno i "bohémiens", oppure nella rinuncia a ogni individualità, in uno sforzo di adattamento totalmente diretto dall'esterno, intendendo probabilmente con la parola «esterno» le esigenze create dalla tecnica e da una vita organizzata meccanicamente allo scopo di potenziarla.
Quando vengano messi di fronte a questa apparente impasse, invece di cercare se nuovi tipi di analisi, nuove tecniche, nuovi atteggiamenti possano aiutarli a superarla, il "bohémien" o l'uomo totalmente diretto dall'esterno tendono a negare che questa impasse esista, avendo già fatto la loro scelta nevrotica, tipica, nella sua essenza, di una mente limitata. Molte persone, meno squilibrate e meno estremiste, cercano di sfuggire a questa scelta buttandosi allo sbaraglio da una parte o dall'altra, e cioè evadendo. Alcuni di loro, in termini psicoanalitici, si affidano alla rimozione, altri sfogano mediante l'"acting out" le loro ansie e i loro conflitti, altri ancora si rifugiano nei deliri.
- Negare l'esistenza del problema.
L'alcolismo è un esempio efficace di come la società abbia assunto uno di questi atteggiamenti irrazionali per fronteggiare un problema sociale apparentemente insolubile. Messi di fronte alla difficile situazione creata dall'alcolismo, gli Stati Uniti decisero di stabilire per legge che l'intero problema non esisteva. Come nel caso della rimozione in campo individuale, questa negazione della complessità del problema e la repressione che da essa derivò non soltanto non riuscirono a risolvere il problema in questione, ma diedero luogo altresì a risultati ancor meno desiderabili. L'organismo sociale, indebolito dalla manovra repressiva, venne invaso dalla criminalità, dalla violenza e, talvolta, da forme anche peggiori di alcolismo. Benché le leggi proibizioniste siano state abolite, non ci siamo ancora liberati dalle ripercussioni secondarie di questo tentativo di repressione su scala nazionale, perché i sindacati del crimine esistono ancora.
L'esempio è certamente insufficiente a spiegare i problemi in cui si dibatte la civiltà delle macchine. Nessuno ha ancora chiesto seriamente di proibire le invenzioni meccaniche, anche se la loro distruzione è stata proposta da scrittori dalla fertile immaginazione, come Butler in "Erewhon". Più spesso esiste solo la tendenza a negare che il problema esista. Eppure la nostra società, come una persona incallita nel vizio, sembra precipitarsi in avanti verso una sempre maggiore meccanizzazione della vita, pretendendo che una tecnica sempre più sviluppata risolva i problemi che essa crea. Sotto questo aspetto noi ci comportiamo come l'alcolizzato che cerca di sfuggire alla minaccia che incombe su di lui abbandonandosi a una nuova sbornia.
Un'altra specie di evasione è quella di rifugiarsi nel primitivismo: essa è rappresentata in questa nostra età delle macchine dalle persone che ne sono talmente disgustate da cercare rifugio in tipi di civiltà più semplici che, fondate su attività ben diverse dalle nostre, non conoscono l'insoddisfazione propria di una civiltà meccanizzata. Attratte solo da questo aspetto, tali persone trascurano il fatto che i membri di queste società soffrono tuttavia delle insoddisfazioni inerenti al loro modo di vivere.
Per esempio, molti intellettuali cercano ora conforto in quelle che credono essere state le semplici credenze dei loro antenati. Ciò facendo, si procureranno soltanto nuovi terrori, come quelli dell'inferno e della dannazione, e non necessariamente otterranno dalle pratiche religiose che hanno deciso di seguire quel sollievo emotivo che ne traevano i loro antenati.
Ansiosi sguardi rivolti agli aspetti piacevoli di altre civiltà riusciranno soltanto a distorcere le nostre prospettive, e questo sarà un ostacolo in più alla scoperta di una soluzione vitale dei problemi della nostra cultura. I piaceri della caccia potranno sì essere una distrazione, ma non riusciranno certo a curare il danno che l'uomo riceve dalla circostanza di vivere in un'epoca dominata dalla tecnica. E nemmeno le attività ricreative riescono a eliminare gli aspetti negativi dell'età delle macchine; al massimo, possono farli dimenticare per brevi periodi e indurre gli uomini a smettere di cercare i mezzi per porvi riparo. Reiterate lune di miele non salveranno un matrimonio fallito migliorando quello che in esso va male, ma potranno far sì che esso continui senza scopo e in condizioni di insoddisfazione sempre crescenti.
La maniera per evitare che la macchina prenda il sopravvento su di noi non è quella di procurarsi più numerose e più lunghe evasioni da una vita dominata dalla macchina, o da un'esistenza regolata come una macchina; la soluzione sta nel trovare la maniera di rendere la nostra un'epoca in cui l'umanità continui a dominare nonostante l'utilità delle macchine, e pur traendo il massimo vantaggio da esse. Se è vero che ogni civiltà crea i tipi di disagio e gli squilibri emotivi che le sono caratteristici, è anche vero che essa deve creare le loro soluzioni, tanto per i bisogni reali dell'uomo quanto per quelli nevrotici, tipici di quella civiltà.
Se non terremo bene in mente questo semplice fatto non potremo che allontanarci dalla meta, invocando rimedi che non hanno alcun rapporto con le esigenze e le necessità specifiche che opprimono l'uomo e la società in ogni epoca determinata.
Per sopravvivere bene sotto la predicazione del fuoco dell'inferno e della dannazione noi abbiamo bisogno di una fede adeguata nel risveglio religioso e nella salvazione. Che cosa sia necessario per sopravvivere bene nella moderna epoca delle macchine, con la sua alienazione dell'uomo dall'uomo e dell'uomo dalla natura: questa è la domanda cui dobbiamo oggi rispondere. Io non pretendo di avere scoperto una risposta definitiva, ma in questo libro mi sono sforzato di avvicinarmi alla soluzione di alcuni dei suoi aspetti.
- Inconsapevole schiavitù.
Nel mio lavoro quotidiano con bambini psicotici, e nei miei sforzi per creare un ambiente organizzato che li aiuti a ritornare alla normalità, io mi sono trovato a dover affrontare il problema di come trarre il massimo vantaggio da tutto ciò che ci offre un'epoca dominata dalla tecnica, da tutto quello che la scienza moderna offre di meglio per la comprensione e il benessere dell'uomo senza, con ciò stesso, diventare schiavi della scienza e della tecnica.
Non ci è mai capitato, in nessuna occasione, di constatare che potevamo fare di più o meglio senza le «macchine». Al contrario, adoperandole giudiziosamente siamo riusciti a godere di una vita più libera di quanto fosse possibile senza di esse. Tutto questo può sembrare molto ovvio: in fin dei conti, la macchina fu inventata proprio per liberare la vita dell'uomo dalla schiavitù. Ma le cose non sono affatto così semplici.
Ogni volta che noi adottavamo una nuova comodità di natura tecnica, dovevamo esaminare con la massima attenzione il posto che essa avrebbe preso nella vita della nostra istituzione. I vantaggi che potevamo godere dall'uso di ogni nuova macchina erano assai ovvi; era invece molto più difficile accertare la schiavitù alla quale, usandola, ci saremmo esposti, essendo questa assai più inafferrabile. Spesso non ci rendevamo conto dei suoi effetti negativi se non dopo un lungo uso. Ma allora eravamo arrivati a fare tanto assegnamento su di essa che i piccoli svantaggi che accompagnavano l'uso di ogni invenzione ci sembravano troppo futili perché valesse la pena di rinunciare ad essa, o di cambiare la strada che, adoperandola, avevamo imboccato. Nondimeno, quando essi si fossero combinati coi molti altri piccoli svantaggi di tutte le altre invenzioni, avrebbero contribuito a produrre un cambiamento significativo e indesiderabile nello svolgimento della nostra vita e del nostro lavoro.
Ecco ciò che io chiamo «seduzione». I vantaggi delle macchine sono così ovvi e desiderabili che noi tendiamo a lasciarci indurre, a poco a poco, a non considerare il prezzo che paghiamo per il loro uso sconsiderato. Voglio qui insistere sull'espressione «uso sconsiderato», perché tutte le macchine hanno i loro lati positivi, ma sono necessarie le riflessioni più accurate e precise per godere del buon uso di ogni invenzione tecnica senza pagare per essa un prezzo troppo alto in termini di libertà umana.
Se ci fosse bisogno di un esempio, la TV sarebbe certamente quello che fa per noi. Molto è stato detto intorno al contenuto dei programmi televisivi. Tuttavia, in questo momento non è tanto il loro contenuto che mi interessa quanto le conseguenze che un continuo guardare la televisione determina sulla capacità del bambino di stabilire rapporti con le persone reali, di diventare una persona che agisce per impulsi propri, di pensare in base alle proprie esperienze personali, invece che in base alle stereotipie dello schermo.
Molti bambini dell'età di quattro, cinque, sei anni comunicano fra loro nei termini dei loro programmi preferiti e trovano più facile stabilire un rapporto diretto con lo schermo televisivo che con i loro stessi genitori. Alcuni di loro sembrano diventati incapaci di rispondere al linguaggio semplice e diretto dei genitori, perché ai loro orecchi esso suona poco avvincente in confronto alla parola soave e al linguaggio carico di emozione dei professionisti televisivi. E' vero che, per arrivare a conseguenze così radicali, non soltanto i bambini, ma anche i loro genitori devono passare molto tempo davanti all'apparecchio, o parlare così poco fra loro che la conversazione matura non può più controbilanciare la voce suadente o imperiosa dei programmi televisivi.
Quei bambini che si sono abituati o che sono stati condizionati ad ascoltare passivamente per molte ore al giorno la calda comunicazione verbale che proviene dagli schermi televisivi, a dare ascolto al profondo richiamo emotivo della cosiddetta personalità televisiva, sono spesso incapaci di rispondere alle persone reali, perché queste destano in loro un'emozione molto minore di quanto non faccia un attore consumato. Peggio ancora, essi perdono la capacità di imparare dalla realtà, perché le esperienze della vita sono più complicate di quelle che essi vedono rappresentate sullo schermo, e non c'è nessuno che alla fine venga a spiegare tutto quanto. Il «bambino televisivo» il quale si aspetta che gli avvenimenti si succedano nella sua vita come in una sequenza cinematografica, con un principio, una parte centrale e una soluzione prevedibile, il tutto spiegato e reso comprensibile da uno degli eroi principali (come nei "western") o da un maggiordomo (come nelle commedie) finisce col sentirsi scoraggiato perché la vita è troppo complicata. Condizionato a sentirsi spiegare tutto, egli non ha imparato a industriarsi a trovare da sé le spiegazioni necessarie; si scoraggia quando non può afferrare il significato di quello che gli accade, ed è ancora una volta portato a trovare un rifugio facile e comodo nelle storie dello schermo le quali hanno sempre uno svolgimento facilmente prevedibile.
Se più tardi questo blocco di solida inerzia non viene eliminato, l'isolamento emotivo dagli altri, cominciato davanti alla televisione, può continuare a scuola. Può anche accadere che esso porti a una incapacità permanente, o almeno a una specie di riluttanza, a rendersi attivo nell'imparare o nello stabilire rapporti con le altre persone. Nell'adolescenza questa incapacità a stabilire rapporti può avere conseguenze ancora più serie, perché allora la pressione delle emozioni sessuali comincia ad alterare l'equilibrio di una persona che non ha mai imparato a interiorizzarle, a sublimarle o a soddisfarle attraverso rapporti personali.
Proprio questo fatto di lasciarsi indurre alla passività e allo scoraggiamento quando si debba affrontare la vita attivamente, con le proprie forze, è il vero pericolo insito nella televisione, molto maggiore di quello costituito dal contenuto spesso stupidissimo o raccapricciante dei suoi programmi. Ma la «passività televisiva» è soltanto un aspetto dell'atteggiamento generale che si esprime nella formula «lasciamolo fare alle macchine».
Nonostante tutto questo, io non esorto certo a espellere gli apparecchi televisivi dalle nostre case. Ma, se vogliamo godere dei loro vantaggi senza pagare un prezzo troppo alto, dobbiamo agire anche noi. Se permettiamo ai nostri bambini di guardare passivamente la televisione, dobbiamo contemporaneamente assicurar loro la possibilità di avere anche molte esperienze attive, e non soltanto un'attività fisica. Li si deve aiutare a sperimentare la vita direttamente, perché imparino a trarre conclusioni e a prendere una posizione indipendente, e non ad accettare come vangelo tutto quello che viene loro detto.
Forse possiamo addurre un esempio più concreto, e su un argomento meno controverso della TV. Non posso immaginare una massaia che non sia contenta di avere finalmente una macchina lavapiatti. Ma, per alcune coppie, la macchina lavapiatti ha eliminato l'unica cosa che i due facevano assieme ogni giorno; una lavava, mentre l'altro asciugava. Per dirla con le parole di una donna, la macchina le ha procurato non solo un risparmio di fatica, ma il dono di un po' di tempo libero. Ma, ha aggiunto meditabonda, «era carino, noi due soli, insieme, per quel po' di tempo ogni sera, dopo aver messo a letto i bambini!».
Questa necessaria "corvée" riuniva il marito e la moglie. Possedere una macchina lavapiatti è, ovviamente, preferibile al doverli lavare a mano, e anche più igienico. La piacevole intimità che accompagnava questa "corvée" quasi non si notava, finché non scomparve. Ma, altrettanto ovviamente, con l'arrivo della macchina la coppia avrebbe dovuto trovare qualche altra occasione per passare alcuni momenti insieme. Solo in questo caso la macchina avrebbe veramente aggiunto, e non sottratto qualcosa, alla loro vita in comune. Questo, come dicevo, è ovvio. Ma quante sono le famiglie nelle quali questa cosa «ovvia» diviene una realtà?
Alla Orthogenic School non avevamo scelta su questo punto. Incalzati dalle necessità che nascevano dal nostro lavoro, noi scoprimmo che era possibilissimo creare e mandare avanti una istituzione che fa uso dei più moderni ritrovati della scienza e della tecnica senza scendere a compromessi con essi. Quel che ci aiutò a evitare errori fu la sempre rinnovata constatazione di quante cose i sintomi nevrotici e le loro cause possano rivelarci a proposito di ciò che tende ad alterare l'equilibrio degli individui in una data forma di civiltà. Questa constatazione ci aiutò a eliminare dal nostro ambiente tali ostacoli alla libertà personale e alla spontaneità.
- I deliri degli uomini moderni.
Mentre ogni collasso nevrotico o psicotico è radicato nelle difficoltà interiori dell'uomo, le forme esteriori che esso può assumere, cioè i suoi sintomi esterni, riflettono la natura della società. I disturbi psicotici sono particolarmente rivelatori, forse a causa dell'estrema angoscia che è alla loro origine, del collasso totale del funzionamento che essi palesano e che attraverso di essi dovrebbe essere superato. Spesso i loro eccessi ci mostrano più chiaramente quello che attualmente opprime tutti noi in una certa misura, e sono per noi un avvertimento di ciò che ci potrebbe accadere. Molto più del comportamento nevrotico, essi possono darci indicazioni preziose sulle forze alle quali la società di una data epoca si rivolge per risolvere le difficoltà che essa è incapace di padroneggiare.
Nel Medioevo un uomo, quando non riusciva a risolvere i problemi che gli si presentavano e si rifugiava in un mondo di deliri, si sentiva posseduto dai demoni. Ma, una volta posseduto, egli trovava conforto nel pensiero di poter essere salvato per l'intercessione celeste di angeli e santi. In tutti i tempi e in tutte le civiltà vi sono state persone che si credevano possedute o perseguitate da forze esterne che esse consideravano più forti. Noi sappiamo ora che questo bisogno di attribuire un proprio conflitto interiore all'intervento di qualche forza esterna sorge quando l'individuo sente di non poter risolvere la difficoltà che è all'interno della sua psiche. Non altrettanto noto è invece il fatto che il contenuto dei deliri da cui egli si sente posseduto può rivelarci molte cose sugli aspetti della società che lo turbano.
La seduzione sessuale da parte del diavolo non viene ipotizzata se non in un ambiente che esiga la massima castità, e in cui questa venga considerata una meta alla quale una donna deve aspirare. L'idea delirante che sia necessario un diavolo per sedurre una donna riflette una norma interiore di castità talmente rigorosa da rendere necessario l'intervento di un potere sovrumano (i demoni cattivi) per infrangerla; ma questo stesso delirio mostra anche quali siano le forze cui guarda la società (i demoni buoni) per risolvere le profonde contraddizioni che essa sembra incapace di affrontare.
In altre epoche la gente si rivolgeva ai grandi uomini per risolvere le proprie difficoltà. Una larga diffusione del tipico delirio megalomane di essere Napoleone, o un altro grande uomo, ci indica che quell'epoca tendeva a rivolgersi al grande uomo per risolvere le sue difficoltà. Angeli e demoni non erano più entità sovrumane, ma erano visti sotto spoglie umane. Eppure il grande uomo è soltanto l'apoteosi dell'uomo medio. Anche quando diciamo che una persona si sente «braccata», questa espressione rivela l'immagine di un cane o di qualche altra creatura vivente. Ma che cosa si deve dire di un'età che non crede più né negli angeli né nei grandi uomini per risolvere i suoi problemi, ma solo nei «cervelli» meccanici o nei missili teleguidati?
L'uomo moderno non cerca più il suo nirvana (cioè la sua via d'uscita dai problemi insolubili della vita) in cielo, ma nello spazio extraterrestre. E così il timore della bomba atomica lo ossessiona nella stessa misura in cui egli affida la sua sicurezza a fusioni nucleari e a missili teleguidati.
La cosa nuova nelle speranze e nei timori dell'età delle macchine è che il salvatore e il distruttore non si presentano più sotto spoglie umane: le figure che noi immaginiamo capaci di salvarci o di distruggerci non sono più una proiezione diretta della nostra immagine umana. Ciò da cui, nei nostri deliri, speriamo la salvezza e temiamo la distruzione, è qualcosa che non ha più qualità umane. (1)
Questo nuovo sviluppo del problema presenta erano soltanto rivestiti di sembianze umane, ma erano anche concepiti come soprannaturali o almeno superiori all'uomo, e non mai come servitori dell'uomo. Le macchine e le scoperte scientifiche invece furono e sono concepite come una creazione razionale dell'uomo: esistono soltanto in funzione del loro uso a favore dell'uomo stesso. Questa trasformazione della macchina, utile ma priva di ragione, in qualche cosa che può trasformare l'uomo se non addirittura ucciderlo, viene considerata non come un cambiamento di qualità, ma come un cambiamento di quantità o di grado.
Un esempio tipico è quello che (per buone ragioni) venne per la prima volta chiamato in Germania il "Karteimensch", che possiamo tradurre liberamente con l'espressione «esistenza da scheda perforata». La scheda perforata, con la macchina selezionatrice che la utilizza, sembra trasformare ciascuno di noi in una semplice combinazione di caratteristiche utili. Singolarmente o insieme ad altre combinazioni, questi tratti danno alle persone che controllano quelle macchine la possibilità di utilizzarci innanzitutto e principalmente come possessori di tali tratti caratteristici, e soltanto incidentalmente (o addirittura nemmeno incidentalmente) come personalità globali.
Una storiella, probabilmente inventata, apparsa nel «New Yorker» illustra questo punto meglio di una lunga discussione. Ci viene narrato che una signora abbonata a un club del libro non rinnovò l'abbonamento quando esso scadde. Nonostante ciò, a intervalli regolari, ella continuò a ricevere una scheda perforata con la richiesta di inviare il pagamento per mezzo di essa. La signora respinse diverse volte la scheda, scrivendo di non avere rinnovato l'abbonamento e perciò di non dovere più pagare la sua quota. Tuttavia le schede continuarono ad arrivare con la posta, finché, un giorno, ella prese un punzone e con quello fece numerosi buchi sulla scheda. Questo sistemò ogni cosa, e lei non fu più disturbata. L'organizzazione meccanizzata poteva reagire soltanto a una risposta meccanizzata.
Questo è solo un esempio secondario di come un'invenzione meccanica, escogitata esclusivamente per semplificare il lavoro e per risparmiare fatiche umane, costringa un essere umano a conformarsi alle richieste della macchina. Un cambiamento di "grado" nelle difficoltà che si incontrano prendendo decisioni sembra avere cambiato la "natura" del processo che porta a prendere queste decisioni e averlo privato delle sue qualità umane. E' infatti molto più facile spedire una scheda perforata, o il numero che ad essa corrisponde, che non rivolgersi direttamente a una persona. Decisioni concernenti l'assegnazione di un certo lavoro, che normalmente farebbero sorgere grandi resistenze in colui che deve prenderle, se non addirittura un aperto rifiuto, sono attuate senza difficoltà perché tutto quello che deve fare questa persona è alimentare con anonime schede una determinata macchina selezionatrice. Una volta che le schede siano state selezionate, sembra molto più semplice assegnare i compiti prestabiliti agli uomini e alle donne che la macchina selezionatrice ha indicato come i più adatti. Questo è certamente molto diverso dal dover decidere se tu, lettore, o io stesso, dobbiamo essere licenziati dal lavoro o mandati a compiere una missione difficile.
Grazie a uno strano processo psicologico, coloro che sono considerati da chi detiene l'autorità come numeri su una scheda perforata, tendono essi stessi a considerarsi numeri anziché persone, a meno che non si propongano espressamente di evitarlo. Come ha osservato G. H. Mead, l'immagine che gli altri si fanno di noi contribuisce a plasmare la nostra immagine di noi stessi. La psicoanalisi ci mostra che, quali che siano le cause razionali di un'azione, esse hanno anche un significato inconscio. Per quanto razionale possa essere l'uso delle schede perforate (e si tratta veramente di un metodo efficace e razionale per fare le cose evitando errori dovuti a difetti dell'uomo o a mancanza di tempo) esso ha anche effetti irrazionali, inconsci.
Anche qui, come in molti altri casi, la risposta è che non dobbiamo né rinunciare alle schede perforate e ai loro provati vantaggi, né accettare di considerare noi stessi e gli altri come ci descrivono le schede perforate. La risposta è ancora quella che ci suggerisce la psicoanalisi per portare l'individuo disturbato a un funzionamento più umano, e cioè di non negare o trascurare i pericoli di una situazione, di non sfuggire distruggendola e privando se stessi dei vantaggi che ne derivano, ma di rendersi ben conto dei pericoli e affrontarli attraverso un'azione cosciente basata su decisioni personali. Questo comportamento neutralizza il pericolo e ci permette di godere dei vantaggi della tecnica senza che per questo essa ci privi della nostra umanità.
Nello stesso ordine di idee, e sempre secondo la teoria psicoanalitica, quali che siano le cause razionali di un'invenzione, essa ha sempre anche un significato e un'origine inconsci. (2) Stando così le cose, anche se le macchine furono inventate per la loro utilità, tuttavia la loro invenzione è anch'essa inconsciamente influenzata dalla personalità dell'inventore, che esteriorizza e proietta al di fuori di sé il suo intero corpo o parte di esso. Forse, con la crescente specializzazione dei processi meccanici, accadrà sempre meno spesso che l'intero corpo, le sue funzioni e i suoi movimenti, siano inconsciamente il punto di partenza dell'immaginazione dell'inventore. Sempre più spesso sarà una parte isolata del corpo o una singola funzione corporea che servirà di sostegno inconscio al processo razionale di progettare un nuovo tipo di macchina.
La moderna produzione di massa dà luogo a un particolare corollario di tipo umano. In essa il lavoratore è spesso considerato, e considera se stesso, come un «ingranaggio» della macchina piuttosto che come qualcuno che la controlla. Egli ripete sempre gli stessi movimenti, è teoricamente incapace di influire sull'intero processo produttivo, non si trova mai davanti al prodotto finito, non prende parte alle decisioni finali, o, se lo fa, ciò avviene in un modo che non incide sul suo lavoro. (3)
Proprio come le macchine moderne non possono più essere riconosciute come ovvie estensioni dei nostri organi corporei, o come oggetti che esercitano più efficientemente le nostre funzioni corporee - benché questa possa essere stata la loro origine - così, nei deliri moderni, noi troviamo un numero sempre maggiore di proiezioni non umane. Per esempio, un aspetto caratteristico di pazzia moderna è l'idea della «macchina che influenza», qualche cosa, cioè, che si crede introduca pensieri nella testa di una persona come se essi fossero suoi, o che la costringe ad agire contro la sua volontà cosciente.
Come si può facilmente immaginare, la «macchina che influenza» è una forma di delirio apparsa soltanto dopo che le macchine elettriche non solo erano diventate un aspetto essenziale della vita quotidiana, ma anche considerate un toccasana al quale molti si rivolgevano per trovare una risposta ad alcuni importanti problemi sociali. Oggi, in un'epoca in cui l'uomo si rivolge così spesso alla psicologia per affrontare i suoi problemi personali, ci si può ben aspettare che alcuni deliri si manifestino sotto l'aspetto dell'idea fissa di sentirsi dominati, contro la propria volontà o senza saperlo, da influenze psicologiche. L'espressione «lavaggio del cervello» e l'opinione diffusa che certi pensieri e certe convinzioni possano essere introdotti nel cervello di una persona attraverso tecniche psicologiche - insieme all'angoscia irrazionale che questo timore evoca in alcuni - ci dice che noi abbiamo già raggiunto questo punto. Una fede sempre maggiore nei poteri di «salvazione» e di distruzione della psicologia ha così sostituito i santi, i demoni e anche le «macchine che influenzano», come contenuto prevalente di un delirante sentimento di impotenza, della sensazione cioè di essere soggiogati e influenzati contro la propria volontà.
Si può dimostrare che anche la «macchina che influenza» cominciò a manifestarsi sotto forma di una proiezione di certi aspetti del corpo umano, (4) ma il punto essenziale è che oggi non conserva più questa immagine: essa diventa sempre più complessa, e la persona psicotica finisce col sentirsi controllata da meccanismi che non somigliano più a qualcosa di umano o persino di animale. L'uomo moderno, quando è angosciato, sia egli sano o profondamente disturbato, non si sente più oppresso da altri uomini o da grandiose proiezioni dell'uomo, bensì dalle macchine. E questo mentre, contemporaneamente, egli si affida alle macchine per sentirsi protetto.
- Le macchine-divinità.
Questi sviluppi vengono spesso testimoniati dalla popolare fantascienza, cioè dalle fantasticherie prefabbricate, tipiche di una epoca come la nostra, dominata dalla tecnica. Se la macchina può fare tanto, l'uomo, per contrasto, può fare molto poco. Alcuni filosofi antichi affermarono che, se i maiali e le mucche avessero degli dèi, essi li concepirebbero sotto forma di maiali o di mucche glorificati e divini. Le caratteristiche che ad essi attribuirebbero sarebbero quelle che essi trovano o desiderano in loro stessi, soltanto magnificate e rese perfette. Un uomo creato a immagine di Dio o un dio creato a immagine dell'uomo, non meno di un diavolo creato a immagine dell'uomo, ci fanno capire molte cose a proposito delle paure e delle aspirazioni dell'uomo stesso. Un dio-macchina ci indica le paure e le aspirazioni dell'uomo che vive in una società dominata dalla tecnica. Se guardiamo alla fantascienza da questo punto di vista, scopriremo che essa si concentra «sui problemi dello spazio e del tempo; sul significato della realtà e dell'identità dell'individuo; sui problemi creati da un prolungato isolamento, e sull'esistenza individuale in lotta mortale contro le macchine». (5)
Paragonata con altri contenuti dell'immaginazione popolare, come i "western" - con le loro fantasie di soddisfazione di desideri sessuali e aggressivi, e la loro trattazione dei conflitti che ne derivano - la fantasticheria scientifica moderna, contrariamente alla tecnologia altamente sviluppata in mezzo alla quale viviamo, tratta problemi di natura emotiva molto più primitivi. Per esempio, le navi spaziali sono strutture ermetiche nelle quali una persona è immobilizzata e isolata per lunghi periodi di tempo, dove tutti i suoi bisogni sono soddisfatti come nel feto umano. I problemi della vita nello spazio, della gravità, dell'equilibrio, dell'orientamento e della locomozione - sono tutti elementi importanti che caratterizzano gli sforzi che il bambino deve compiere per raggiungere l'orientamento, l'equilibrio e il movimento.
Le idee sulla illimitatezza dello spazio e sull'immensità di pericoli una volta inconcepibili portò anche gli uomini a sentirsi insignificanti e a temere di perdere la propria identità. Sembra che, se proiettiamo i nostri desideri e le nostre angosce non su oggetti antropomorfi ma su macchinari complessi, corriamo il rischio di perdere la nostra identità psicologica di uomini. Il fatto di perderla o meno sembra dipendere dalla nostra capacità di evocare l'immagine di creature superiori all'uomo, ma non radicalmente diverse da lui.
Studiosi che hanno affrontato il medesimo fenomeno da altri punti di vista sono giunti a conclusioni simili: «L'esame di questi miti [la fantascienza] ci mostra che l'allucinante velocità delle innovazioni tecnologiche nella nostra generazione ha effetti psicologici che la voga, in rapido aumento, della fantascienza può forse aiutarci a spiegare. In un'epoca in cui i 'cervelli meccanici', i satelliti artificiali e i voli verso altri pianeti esistono o sono realtà imminenti, le fantasie della scienza sono un mezzo per esprimere angosce ben maggiori e difese ben più profondamente regressive di quelle che evocavano i semidei, i demoni e le streghe in altri tempi. (6)
Io non sono esperto di fantascienza, e perciò posso anche sbagliarmi; sembra però che questo tipo di letteratura di evasione affascini anche molte persone colte e intelligenti, compresi degli scienziati veri. D'altro canto, non c'è dubbio che alcuni fra gli sviluppi scientifici più recenti e spettacolari siano stati previsti in questi scritti. Quello che qui ci interessa non è tanto l'acume dello scrittore a proposito degli sviluppi scientifici futuri, quanto piuttosto quello che egli dice a proposito degli sviluppi che i successi scientifici possono produrre nell'uomo. Evidentemente, gli scrittori che sanno prevedere i nuovi progressi del dominio dell'uomo sulla natura sono anche in grado di prevedere quali possano essere gli effetti sull'uomo di questi sviluppi scientifici. O, per avvicinarmi a quello che qui mi interessa, coloro le cui speranze sono riposte negli estremi avamposti della scienza sono al tempo stesso ossessionati da angosce causate dal fatto che ciò può significare la distruzione dell'uomo.
Poiché la fantascienza presenta come già raggiunto quello che lo scrittore spera e teme intorno al futuro, i corrispondenti cambiamenti nella natura dell'uomo vengono anch'essi descritti come già esistenti. E infatti gli eroi di queste storie abbondano di qualità non umane. La loro depersonalizzazione è spesso simbolizzata dai nomi che portano, come O.g., M-331, eccetera, dall'assenza di qualità corporee, e da una mancanza di veri rapporti umani. Ancor più importante è il fatto che, mentre queste storie abbondano di meravigliosi progressi scientifici, esse contengono sempre anche fantasie concernenti la distruzione del mondo. In alcune storie, i "robot" o i "ciò-che-non-è" prima distruggono l'uomo, poi lo ricreano. Ma di solito questo avviene sinteticamente: l'uomo cioè non viene ricreato a propria immagine attraverso la procreazione. Le relazioni amorose sono virtualmente assenti; la maggior parte degli eroi sono fondamentalmente intelletto senza corpo. Gli scrittori di fantascienza, benché spinti dal desiderio di progresso scientifico, sembrano sentire che il pericolo connesso con tale progresso è la fine della nostra esistenza biologica come uomini.
- Una cosa ragionevole.
Nondimeno, mentre il nostro progresso può essere misurato dal fatto che nessuno dubita che la macchina sia al servizio dell'uomo e non il contrario, si diffonde tuttavia il timore che essa possa diventare il nostro padrone. Poiché la realtà è questa, dobbiamo cercare di analizzare e comprendere le potenzialità negative che esistono dentro di noi e che noi proiettiamo nella macchina, potenzialità che potrebbero fare di essa il nostro padrone anche nella realtà, come già lo è nei nostri deliri. Cercare di evadere il problema rifugiandosi in incubi angosciosi e condannando la macchina non servirà a niente, se ci lasciamo spaventare da «nuovi audaci mondi» o da un qualche «1984».
Lo schizofrenico moderno asservito alle sue «macchine che influenzano» non è né peggiore né migliore (se si eccettuano le possibilità offerte dalla psicoterapia) dell'uomo medioevale che si sentiva perseguitato dal diavolo. Ma noi non ci siamo salvati dai vecchi demoni credendo negli angeli, bensì creando la scienza moderna. Ciò che ora dobbiamo affrontare è il demone potenziale della macchina, benché la sua origine si trovi soltanto nell'immagine che la mente dell'uomo si fa della macchina stessa. Da questa analisi dobbiamo dedurre quello che è necessario fare per impedire che la macchina arrivi a soggiogarci.
Per concludere questo capitolo, voglio tornare ad alcune osservazioni iniziali. L'apparente "impasse" cui si trovò di fronte il primo agricoltore che per conquistare agi maggiori dovette rinunciare alla libertà è fondamentalmente la stessa cui noi moderni alludiamo quando parliamo della nostra civiltà e dei suoi disagi. Noi possiamo enunciare e accettare la verità lapalissiana che ogni modo di vivere ha in sé le proprie insoddisfazioni, e fermarci qui. Possiamo lamentare questo fatto e condannare la civiltà. Oppure possiamo fare la sola cosa ragionevole: organizzare la nostra vita in modo tale che gli agi della civiltà siano usati per ridurne al minimo i disagi, assicurando contemporaneamente ad ogni cittadino il massimo possibile di soddisfazioni umane. Se l'"impasse" verrà posta sotto forma di dilemma fra libertà e schiavitù, essa resterà tale. Questo è il modo con cui l'affronta l'arabo nomade, il quale non può trovare altra alternativa che questa: o la libertà coi suoi disagi e la sua insicurezza, oppure la schiavitù con le sue insoddisfazioni e la sua maggior sicurezza. E questo è il modo in cui pone ancora troppo spesso il problema l'uomo moderno, oppresso dalla civiltà della macchina, dalla società di massa e dal pericolo della distruzione atomica.
Si potrà trovare una soluzione soltanto opponendo la libertà interiore alla libertà esteriore, la libertà emotiva alla libertà di vagabondare e di scatenare continuamente aggressioni. Il maggior pericolo derivante dalla ricchezza prodotta dalle nostre macchine nasce proprio da questo: che per la prima volta viviamo in un'epoca in cui le comodità materiali sono quasi alla portata di tutti. Ma se queste comodità materiali, per il solo fatto di essere tanto più di prima alla nostra portata, sono ricercate non come un sovrappiù all'equilibrio emotivo, ma in sostituzione di esso, c'è il pericolo che diventino una droga. In tal caso avremo un bisogno di progresso tecnico sempre maggiore per poter colmare la lacuna apertasi in noi a causa delle nostre insoddisfazioni emotive e della nostra scontentezza. Questo, a mio avviso, è l'unico pericolo insito in un'epoca dominata dalla macchina. Ma esso non è né inevitabile né intrinseco ad essa.
NOTE al capitolo 2.
Nota 1: L'argomento razionalistico che la bomba atomica ha effetti veramente distruttivi, mentre il diavolo era solo una fantasia relativamente innocua, è fallace. Il diavolo, quando agli occhi della gente era una cosa reale, distruggeva le sue vittime indifese esattamente come la bomba atomica. Coloro che furono bruciati sul rogo perché credevano nel diavolo non morirono certo di una morte immaginaria. La paura nata dalla profezia della fine del mondo che sarebbe dovuta venire nell'anno 1000 non era meno diffusa della odierna paura della distruzione del mondo per effetto della bomba atomica, e condusse a una percentuale di suicidi molto più alta. In un'epoca religiosa i timori dell'uomo scaturivano dalle sue credenze religiose: si temeva cioè il millesimo anniversario della nascita di Cristo. In un'epoca scientifica i timori dell'uomo nascono dalle sue conoscenze scientifiche: la bomba atomica.
Nota 2: H. Sachs, "The Delay of the Machine Age", in «The Psycoanalytic Quarterly», 2, 1933, pagine 404 sgg.
Nota 3: Io non so se e, eventualmente, fino a che punto l'automazione cambierà questo stato di cose liberando il lavoratore dalla schiavitù di rifare continuamente lo stesso tipo di lavoro. Essa dovrebbe senz'altro eliminare gran parte del lavoro più ingrato. Ma diminuendo il tempo dedicato al lavoro necessario per guadagnarsi da vivere rimarranno al lavoratore tempo ed energie da consacrare ad altre occupazioni. Se egli non avrà modo di consacrare questo tempo e queste energie a occupazioni che abbiano importanza per lui, la sua angoscia aumenterà in proporzione alla diminuzione della quantità di energie fisiche e mentali consacrate all'attività che garantisce di che vivere alla sua famiglia e a lui stesso. E' relativamente facile sentire che la propria vita ha un senso quando la maggior parte delle nostre energie è consacrata ad assicurare le cose essenziali per la vita nostra e dei nostri familiari. E' invece molto difficile attribuire un senso ad attività meno importanti, che procureranno solo delle comodità superflue.
Nota 4: Confronta V. Tausk, "On the Origin of the «Influencing Machine» in Schizophrenia", in «The Psychoanalytic Quarterly», 2, 1933, pagine 519 sgg.; M. R. Kaufman, "Some Clinical Data on Ideas of Reference", ibid., 1, 1932, pagine 265 sgg.; L. Linn, "Some Comments on the Origin of the Influencing Machine", in «Journal of the American Psychoanalytic Association», 6, 1958, pagine 305 sgg.
Nota 5: E. P. Bernabeu, "Science Fiction", in «The Psychoanalytic Quarterly», 26, 1957, pagine 527 sgg.
Nota 6: E. P. Bernabeu, loc. cit.