LE DIFESE.
La vita nel campo di concentramento era estremamente complessa. La costrizione volta a ottenere obbedienza, sottomissione e acquiescenza agli ordini delle S.S. da un lato, e i cambiamenti che avvenivano nella personalità e nel comportamento dei prigionieri dall'altro, erano ben visibili. Gli opposti sforzi dei prigionieri per cercare di cambiare le condizioni di vita nel campo, di evitare trasformazioni interiori, di prevenire un adattamento forzato, dovevano invece procedere in segreto.
Mentre, per raggiungere i propri scopi, la Gestapo si serviva principalmente di massicce pressioni fisiche e psicologiche, i prigionieri cercavano di reagire organizzandosi ed elaborando difese psicologiche più sottili. Spesso, però, i loro sforzi per difendersi li invischiavano nel sistema ancora di più. Come il desiderio delle S.S. di avere a disposizione officine efficienti tendeva a creare zone di interessi in comune fra loro e i prigionieri, così gli sforzi dei prigionieri per difendere se stessi organizzandosi li costringevano a collaborare con le S.S. Il risultato, contraddittorio, era che quanto più efficiente diventava l'organizzazione dei prigionieri, tanto più efficacemente essa serviva anche gli interessi delle S.S. (1)
Per esempio, il momento in cui venne concesso un maggior potere ai prigionieri capisquadra coincise con l'inizio degli esperimenti umani e con la politica di sterminio. Nel suo rapporto sui campi Rousset (2) attira l'attenzione sul fatto che i "kapo", quando ebbero il permesso di somministrare il siero antitifico, potevano sì darlo a quelli che ne avevano bisogno, e perciò salvar loro la vita, ma potevano anche negarlo ad altri che pure potevano averne bisogno, o darlo in dosi mortali a coloro che desideravano eliminare. Una posizione di potere di alcuni prigionieri era sempre tale da renderli capaci di proteggere e anche di uccidere - quasi mai di proteggere oppure di uccidere - perché, senza uccidere i propri nemici, non avrebbero potuto conservare il proprio potere. Questo fatto rendeva assai ambigua tanto la posizione quanto la politica di tutti i membri del gruppo dominante dei prigionieri.
Ma come poté accadere che dei prigionieri arrivassero ad amministrare in gran parte i campi per conto delle S.S., che ciò desse origine a una complessa gerarchia fra i prigionieri stessi, che la struttura classista di questa gerarchia rendesse miserabile se non addirittura intollerabile la vita di coloro che non potevano uscire dalla classe più bassa, che i prigionieri i quali desideravano salire agli strati più alti tradissero i loro compagni, ne approfittassero e perfino li maltrattassero, che i diversi gruppi (politici, criminali) cospirassero l'uno contro l'altro per emergere o per conservare le proprie posizioni, facendo propri in tal modo i valori e il comportamento delle S.S.?
- La «élite» dei prigionieri.
Già verso il 1936 fece la sua comparsa nei campi di concentramento una forma embrionale di organizzazione dei prigionieri; essi venivano infatti utilizzati per costruire i campi e curarne la manutenzione, oltre che per altri compiti più complessi.
Il lavoro richiedeva dei capisquadra. In quanto membri della classe dominante, le S.S. si rifiutavano di eseguire lavori manuali, considerandosi una casta di guerrieri atti solo a comandare le masse lavoratrici. Di conseguenza, fu facile per i prigionieri offrirsi come capisquadra volontari. Si deve tener presente che certi compiti offrivano un'apparente possibilità di potenza, sicurezza e privilegio. Le classi non erano basate sui servizi economici che rendevano alla società, e perciò non erano ancorate a funzioni importanti: sorgevano o cadevano secondo il capriccio delle S.S.
Per esempio, la divisione fra lavoro specializzato e lavoro non specializzato, che per i prigionieri significava spesso una differenza fra vita e morte, era una divisione fra stratificazioni di «classi» all'interno del campo e non fra varie specializzazioni. Ai prigionieri della «classe media» erano assegnati incarichi specializzati, avessero o non avessero la competenza necessaria per eseguirli. Se l'avevano tanto meglio. Se non l'avevano, se la facevano nel campo; in questo modo i prigionieri potevano diventare, a seconda dei bisogni, elettricisti o chirurghi. Fu così che arrivarono a far parte della classe «quasi media» i quaranta prigionieri politici ebrei sopra menzionati, diventando fabbricanti di mattoni. I "kapo" distribuivano i compiti quasi esclusivamente in base a interessi politici, oppure secondo il loro vantaggio personale.
Ma gli incarichi specializzati erano un'eccezione, ed erano riservati a una minoranza di privilegiati. Il lavoro non specializzato, che comportava i maggiori rischi e le maggiori sofferenze, era il destino permanente della maggioranza dei prigionieri, anzi, in certi momenti di quasi tutti loro.
Poiché qualsiasi lavoro non specializzato era facilmente interscambiabile, non richiedendo alcun addestramento particolare, il lavoratore non specializzato era sempre sacrificabile. Da questo temuto destino derivava lo speciale potere della "élite" dei prigionieri.
In pratica, il funzionamento della gerarchia dei prigionieri dimostrò che un pugno di S.S. poteva agevolmente controllare e dirigere decine di migliaia di prigionieri ostili, anzi poteva addirittura indurre i prigionieri a lavorare e a controllarsi a vicenda, senza che per questo diventassero pericolosi. La formazione stessa di queste classi, benché i prigionieri che avevano una funzione dominante fossero per la maggior parte comunisti e perciò, in teoria, propugnatori di una società senza classi, indica che anche i gruppi più resistenti della popolazione soccombono alla pressione della società di massa, se essa è abbastanza forte. Diverse erano le ragioni che concorrevano a determinare questa evoluzione.
Come ho già indicato, i prigionieri che occupavano posti importanti potevano servirsi della loro posizione di forza per offrire agli altri prigionieri una limitata protezione; ma, per continuare a occupare quei posti, dovevano soprattutto servire le S.S. Il loro interesse personale esigeva che essi mantenessero il potere ad ogni costo. Poiché erano spesso puniti per quelli che le S.S. giudicavano insuccessi nella direzione dei blocchi di baracche o del lavoro a squadre, della cui sorveglianza erano incaricati, essi cercavano di proteggersi prevenendo ogni richiesta delle S.S., cosicché, in pratica, andavano spesso al di là delle stesse S.S. Questo era vero per la maggioranza dei prigionieri che occupavano posizioni di potere, mentre ben poche persone veramente superiori si servirono del proprio potere con audacia e generosità per migliorare la sorte dei prigionieri comuni. Ci furono alcuni "super-kapo" che riuscirono a impedire alle S.S. di maltrattare i prigionieri, ma erano eccezioni, perché la loro azione richiedeva un coraggio straordinario.
Aumentando il numero dei prigionieri, e diventando perciò questi sempre più facilmente sacrificabili, specie con l'inizio della politica di sterminio, ottenere la protezione di un qualche membro dell'«aristocrazia» diventò il solo mezzo con cui un prigioniero potesse salvare la propria vita. Ma, anche prima, il semplice fatto di ottenere e conservare un buon lavoro era sempre stato una questione vitale, come pure quello di ottenere una migliore razione di cibo ogni giorno, o anche soltanto una volta ogni tanto. (3) Crescendo in dimensioni e in complessità l'organizzazione dei campi, questi assunsero sempre più l'aspetto di una società di massa in miniatura. A mano a mano, un numero sempre maggiore di membri dell'aristocrazia dei prigionieri diveniva più potente, e aumentava di conseguenza il numero di coloro che era necessario ingraziarsi per sopravvivere.
Più sopra ho raccontato come centinaia di prigionieri fossero morti in una notte d'inverno per essere stati costretti a rimanere esposti al freddo sul piazzale delle parate mentre le S.S. davano la caccia a due prigionieri in fuga. L'evasione era stata scoperta nel primo pomeriggio. Le S.S. convocarono il "kapo" della squadra in cui lavoravano i due fuggitivi, il capoblocco delle loro baracche e i decani del campo (che ricoprivano le cariche più elevate nell'aristocrazia dei prigionieri) perché li aiutassero a cercare quei due. Attraverso di loro, altri prigionieri importanti vennero a sapere quello che bolliva in pentola, e la voce si diffuse in un lampo.
Quei capiblocco che sentivano le proprie responsabilità nei confronti dei prigionieri loro affidati, e che potevano contare su di loro per non essere traditi, li informarono della situazione. Immediatamente cominciarono affannosi preparativi da parte di quei pochi che erano in grado di farli, benché rischiassero severe punizioni se fossero stati scoperti. Molti accettarono, però, di assumersi questo rischio. Brevissimo era l'intervallo tra il momento in cui la grande maggioranza dei prigionieri sarebbe tornata dal lavoro e quello in cui sarebbero dovuti andare a rapporto sul piazzale, cominciando a mettersi sull'attenti. Il problema principale era quello di procurare a sé e agli altri una qualche protezione contro il freddo, e di apprestare qualcosa per i prigionieri che tornavano dal lavoro, sì che potessero prepararsi in pochi minuti all'ordalia.
Ai prigionieri era proibito di indossare altri indumenti oltre l'uniforme e un'unica maglietta di lana; soltanto i "kapo", i capiblocco, eccetera, avevano e potevano indossare cappotti. Frequenti ispezioni controllavano che i prigionieri non possedessero altri indumenti oltre la leggera maglietta di dotazione e l'uniforme. Qualsiasi tentativo di tenersi caldi in altro modo veniva punito. In vista di quello che li aspettava sembrò più saggio rischiare la detenzione e la punizione che rinunciare a una qualche protezione ulteriore.
Così, con la connivenza dei "kapo" e dei capisquadra, confidando nell'atteggiamento di questi e nella propria audacia, alcuni di loro cominciarono a «organizzare» (nel gergo del campo voleva dire procurarsi qualcosa con qualsiasi mezzo, per lo più illegale) carta o altro materiale che avrebbe potuto difenderli contro il freddo.
A Buchenwald, normalmente, i prigionieri ricevevano il pasto principale, certo non molto nutriente, dopo essere stati contati sul piazzale delle assemblee. Se vi fossero stati trattenuti sull'attenti, l'avrebbero perso. Questo significava rimanere per tutta la notte in piedi e al gelo senza avere mangiato. Alcuni prigionieri tenevano in serbo un po' di cibo nelle proprie scansie, ma non avevano il permesso di entrare nelle baracche tra la fine del lavoro e l'inizio dell'appello. Nondimeno, nel primo pomeriggio, alcuni di loro si allontanarono di nascosto dal lavoro, misero insieme tutto il cibo e tutta la carta che riuscirono a trovare, e l'ammucchiarono in un fondo comune, affinché ciascun prigioniero del loro gruppo potesse avere almeno un tozzo di pane e un po' di carta da mettere sotto l'uniforme prima che la veglia notturna cominciasse.
Tutto questo sembra semplice: e lo sarebbe stato se non ci fosse stata nel campo una grande scarsità di tutto. Mettere insieme della cartaccia in quantità sufficiente per proteggere una sola persona era in quel luogo un compito spaventoso. Ora, quando, come in questo caso, ognuno di quei pochi che a proprio rischio e pericolo potevano lasciare il lavoro doveva procurare una maggior protezione a una dozzina di compagni, erano necessarie un'attività affannosa e grande ingegnosità. Si dovevano forzare le porte dei magazzini delle S.S., vuotare i sacchi di cemento (la pesante carta di questi sacchi era il miglior isolante che si potesse trovare), il cemento doveva essere disposto in modo che il furto non venisse scoperto immediatamente e così via. Quando si arrivò all'assemblea generale, la maggior parte dei prigionieri politici e dei Testimoni di Geova avevano ricevuto qualcosa da mangiare e qualcosa per proteggersi contro il freddo. Lo dovevano alla maggior generosità dei loro gruppi; ma anche questo sarebbe stato impossibile senza la connivenza dei capiblocco, dei "kapo" (che non fecero rapporto a coloro che avevano lasciato il lavoro) e dei personaggi minori della gerarchia dei prigionieri, come i capibaracca e i negozianti.
In tali occasioni, quando la loro posizione e la loro sicurezza non erano messe in pericolo, molti prigionieri politici in grado di farlo aiutavano gli altri quanto più potevano. Questo accadeva meno spesso per i capisquadra non politici, e, in ogni caso, mai a favore delle migliaia di prigionieri asociali, per i quali i capiblocco avevano poca simpatia, non fidandosi che costoro avrebbero saputo mantenere il segreto, e perciò non dando loro alcun aiuto. Conseguentemente, quella notte essi soffersero assai più della maggior parte degli altri gruppi.
In questa occasione, il fatto che i prigionieri che occupavano posizioni dominanti fossero «della partita» fu un vantaggio per alcuni. Ma in molte altre occasioni, il loro potere li portava a compiere atti assai discutibili.
- Potere ambiguo.
Ogni prigioniero che occupava una posizione importante si rese responsabile dell'annientamento di alcuni compagni, per salvare se stesso, o i suoi amici, o altri membri del proprio gruppo. Ma tutto questo era considerato necessario, compreso lo sterminio di interi gruppi di prigionieri, quando era in gioco la conservazione del proprio potere. Accadde così che i membri di alcuni gruppi politici formati per proteggere i propri compagni finirono, anche se a malincuore, col dare piena collaborazione allo sterminio di migliaia di prigionieri per poter salvare alcuni membri del proprio gruppo.
L'atteggiamento ambiguo dell'«aristocrazia» verso gli altri prigionieri non era sempre giustificato da motivi di sicurezza personale o da vantaggi economici e sociali. Spesso, purtroppo, la semplice attrazione psicologica esercitata dal potere aveva lo stesso effetto.
In primo luogo tutti i prigionieri, compresi quelli appartenenti al gruppo dominante, erano talmente privi di vera autonomia e di rispetto verso se stessi da essere portati a desiderare il potere in maniera inaudita. Così, chi era in grado di farlo si attaccò tenacemente a ogni possibilità di esercitare il potere, come se in tal modo potesse conseguire una genuina indipendenza di azione. Potere e prestigio - potere a ogni costo e prestigio in qualsiasi occasione - esercitavano un'attrazione irresistibile in un ambiente il cui solo scopo era quello di annullare l'individuo. Nessun prigioniero si sentiva realmente libero, ma ognuno sentiva meno la propria mancanza di libertà se aveva il potere assoluto di farsi temere dagli altri.
In secondo luogo, per i prigionieri guardare dall'alto in basso altri prigionieri era una difesa psicologica importante contro le loro stesse paure. Come gli altri miei compagni, anch'io fui profondamente impressionato quando entrammo a Buchenwald e vedemmo il gran numero di coloro che non lavoravano e che sembravano scheletri ambulanti; la disintegrazione del loro corpo e della loro personalità si mostrava in tutta la sua evidenza. Fummo anche disgustati vedendoli mangiare i rifiuti. Il gruppo di prigionieri al quale appartenevamo era entrato nel campo ben nutrito, la nostra salute era stata ben curata, in breve, i precedenti anni di benessere ci avevano fornito una notevole riserva di energie. I prigionieri asociali, provenienti per lo più dagli strati più bassi della società, non avevano affatto tali riserve cui attingere.
Vedendoli, nacque in noi la paura di poter diventare simili a loro. La maniera più facile per placare questa angoscia era credere di essere fatti «di un'altra stoffa», e perciò di non poter mai cadere tanto in basso. La paura di affondare nello strato subumano della società della prigione - di diventare degli asociali, dei «musulmani» - era un incentivo potente per combattere contro di loro una vera lotta di classe. Questo sentimento poteva essere razionalizzato con relativa facilità, perché essi erano veramente pericolosi, sia perché portatori di malattie, sia perché le loro disperate condizioni li inducevano a rubare (e i prigionieri, anche quelli appartenenti alla classe media, avevano così poco che la perdita di una maglia o di una fetta di pane era per loro una questione di vita o di morte), sia perché il loro nichilismo e la loro disperazione erano contagiosi. Tenersi su di morale era difficile, ed essi erano odiati perché se ne temeva l'esempio.
Questo può spiegare il comportamento dell'"élite" dei prigionieri, comunisti e non comunisti. Come succede per la maggior parte delle classi dominanti, e specialmente per quei gruppi saliti al potere da poco, essi persero ogni capacità di immedesimarsi col destino, coi sentimenti e con le sofferenze della classe più bassa. Non si rendevano più conto degli effetti che aveva su costoro il fatto di essere esposti alle peggiori miserie del campo, al duro lavoro, al cattivo tempo, alla mancanza di riposo e all'incapacità di sopperire ai propri bisogni fisici. Non si potevano permettere il lusso di comprendere queste cose, perché ogni ammorbidimento del loro atteggiamento verso i prigionieri comuni sarebbe stato presto notato dalle S.S., e di conseguenza essi avrebbero rapidamente perduto il proprio potere. La loro stessa sopravvivenza dipendeva infatti dalla capacità di diventare insensibili, e di restarlo. Per proteggere se stessi cercavano, e trovavano, delle ragioni che li tenessero lontani da quei prigionieri di bassa casta. Li criticavano per la loro mancanza di autocontrollo, che costituiva una minaccia di epidemie e di infezioni per tutto il campo. Li disprezzavano perché bevevano acqua inquinata, in una situazione in cui non si sarebbe dovuto bere altro che acqua bollita.
Quello che i prigionieri privilegiati non potevano permettersi di riconoscere era che essi erano abbastanza ben nutriti e riforniti di acqua bollita e, perciò, dovevano fare sforzi minori per controllarsi, mentre la maggioranza degli altri soffriva troppo la fame e la sete per preoccuparsi di salvaguardare la salute propria e altrui.
Tipico era, per esempio, l'atteggiamento dei capiblocco e dei capibaracca verso quei prigionieri che, sentendosi morire di fame, andavano a rovistare nei bidoni dei rifiuti in cerca di bucce di patate. Forti del loro peso normale di circa ottanta chili, essi frustavano (del tutto arbitrariamente) queste misere ombre che non arrivavano nemmeno a quarantacinque chili, per aver trasgredito la norma del campo che vietava di mangiare rifiuti. Dopo aver mangiato rifiuti che spesso erano in stato di decomposizione, molti prigionieri si prendevano gravi malattie allo stomaco, è vero; tuttavia quegli atteggiamenti di puntiglioso legalitarismo da parte di prigionieri ben nutriti sembravano oltraggiosi a coloro che si sentivano morire di fame.
Perciò l'"élite" dei prigionieri (fatta eccezione per alcuni criminali) raramente era immune da un senso di colpa per i vantaggi di cui godeva. Ma, dato che anch'essi dovevano lottare duramente per sopravvivere, il massimo al quale di solito essi arrivavano era un maggior bisogno di autogiustificarsi. Ed essi si autogiustificavano come per secoli ha sempre fatto ogni membro delle classi dominanti, cioè sottolineando la propria importanza per la società (maggiore di quella delle persone comuni), il proprio potere di influire sulla realtà circostante, la propria istruzione e la propria cultura.
Assai rappresentativo, a questo riguardo, è l'atteggiamento di Kogon. Per esempio, egli dice con un certo orgoglio che nella quiete della notte godeva della lettura di Platone e di Galsworthy, mentre nella stanza adiacente i prigionieri comuni appestavano l'aria col loro puzzo e russavano spiacevolmente. Egli sembra incapace di rendersi conto che soltanto la sua posizione privilegiata, dovuta al fatto che aveva accettato di prendere parte agli esperimenti sugli esseri umani, gli dava la possibilità di godere della cultura, e che egli si serviva di questo piacere per giustificare la propria posizione privilegiata. Egli poteva leggere perché non tremava dal freddo, non moriva di fame, non era istupidito dall'esaurimento. L'atteggiamento di superiorità tipico dei prigionieri privilegiati è evidente anche in alcuni commenti che egli fa sulla psicologia dei prigionieri. «Complicazioni psicologiche significative si avevano soltanto negli individui di una certa levatura o in coloro che erano appartenuti a gruppi o classi superiori» egli scrive. Le classi colte, aggiunge poi, non erano, dopo tutto, preparate per la vita nei campi di concentramento. (4) Dalle sue parole sembrerebbe di poter inferire che i prigionieri comuni, invece, erano adatti a vivere in un campo di concentramento, oppure che essi non soffrivano di alcuna complicazione psicologica.
Queste mie osservazioni non vogliono essere un'accusa contro Kogon, che, tra i membri del gruppo dominante, era evidentemente uno dei più impegnati e coscienziosi, ed era profondamente sconvolto dalle condizioni di vita del campo. Ma poiché la sua stessa vita dipendeva dalla conservazione della posizione privilegiata di cui godeva, egli doveva trovare il mezzo di giustificarsi di fronte a se stesso. Nessun uomo che sia fondamentalmente corretto e sensibile potrebbe fare altrimenti.
Questa è dunque un'altra conferma di quanto si è detto più volte, cioè che nei campi non le S.S. ma i prigionieri erano i nemici peggiori degli altri prigionieri. (5) Le S.S., sicure della propria superiorità, avevano meno bisogno di ostentarla e di darne prova che non i membri dell'"élite" dei prigionieri, i quali non si sentivano mai sicuri di possederla realmente. Le S.S. piombavano sui prigionieri come un ciclone distruttore che colpiva alcune volte al giorno, e tutti vivevano in una condizione permanente di terrore; ma tra un'incursione e l'altra si poteva tirare il fiato. I prigionieri capisquadra, invece, esercitavano la loro pressione senza interruzione: uno se la sentiva addosso costantemente - sul lavoro durante il giorno, nelle baracche per l'intera nottata.
Talvolta gli individui che occupavano posti di primo piano nella lotta intestina che caratterizzava la vita dell'aristocrazia dei prigionieri ammettevano con rassegnazione che gli internati avrebbero potuto fare molto di più l'uno per l'altro e che le S.S. avrebbero chiuso un occhio o sarebbero state incapaci di impedirlo, se la terribile e micidiale lotta di classe fra i prigionieri non avesse costantemente ostacolato i loro sforzi.
In ultima analisi, dunque, soltanto le S.S. beneficiavano della lotta intestina che i prigionieri conducevano per la sopravvivenza e per la conservazione delle proprie posizioni di potere. Nello Stato di massa oppressivo compiutamente realizzato anche gli sforzi della vittima per organizzare la propria difesa sembrano destinati a disintegrare la personalità.
E' relativamente facile spiegare per quali ragioni ciò doveva necessariamente accadere, quando un'unica organizzazione assolutamente preponderante, e cioè le S.S., infieriva su di un'organizzazione fragilissima, i cui membri sapevano di poter sperare in un qualche successo soltanto collaborando col loro potente avversario. Può, invece, essere più difficile capire come ciò valesse anche per le difese psicologiche di ogni singolo prigioniero preso come individuo.
- DIFESE PSICOLOGICHE:
Prime razionalizzazioni.
Anche prima di ricorrere all'organizzazione, ogni prigioniero faceva appello alle proprie difese psicologiche per proteggersi contro l'oppressione del campo di concentramento. Abbiamo già accennato al fatto che i membri di diversi gruppi sociali ed economici reagivano in maniera diversa allo shock dell'imprigionamento. Era comprensibile che, per prima cosa, essi ricorressero a quei meccanismi psicologici che in passato avevano dato loro sicurezza. E, sotto questo aspetto, fin da principio molti prigionieri, e particolarmente quelli appartenenti alla classe media, fallirono completamente. Cercavano di far colpo sulle guardie mettendo in evidenza le posizioni importanti che avevano occupato, e il contributo da loro arrecato alla società. Ma ogni sforzo in questa direzione non faceva che provocare le guardie a ulteriori maltrattamenti.
Dopo tutto, le S.S. desideravano seriamente creare una società diversa. La loro scontentezza per la società che aveva preceduto l'avvento di Hitler era molto forte ed era stata una delle ragioni principali per le quali erano entrate nell'organizzazione. Dire loro di essere stato un pilastro della società da loro odiata, e chiedere rispetto per questo motivo, non soltanto era inutile, ma suscitava profonda animosità nella maggior parte delle S.S. Alcuni prigionieri provenienti dalla classe media ebbero bisogno di molteplici esperienze prima di capire questa lezione. Dapprima, si aggrapparono alla convinzione che solo quella particolare S.S. non riusciva a capire che essi meritavano un trattamento migliore, ovvero maggior rispetto per ciò che erano stati o avevano fatto.
Una considerazione anche superficiale dell'atteggiamento delle S.S. nei confronti della società che aveva preceduto l'avvento di Hitler avrebbe dovuto insegnare ai prigionieri che niente di essa aveva più importanza ai loro occhi. Per le S.S. quella società, che un tempo li aveva relegati in una condizione sociale tanto bassa, era morta. Molti prigionieri dovettero subire dure esperienze prima di imparare questa lezione, perché non erano capaci di vedere le S.S. quali realmente erano. Inoltre, i prigionieri sentivano il bisogno di aggrapparsi alla loro fede in quella che un tempo era stata la fonte della propria sicurezza, e vi si aggrappavano ancor più disperatamente ora che non vedevano alcuna possibilità di procurarsi un qualche altro tipo di sicurezza.
I prigionieri con una coscienza politica, d'altro canto, trovavano un certo sostegno al proprio rispetto di sé nella considerazione che la Gestapo li avesse giudicati abbastanza importanti da ritenerli degni della sua vendetta. I membri dei vari partiti si sostenevano con razionalizzazioni di questo tipo: i radicali di sinistra trovavano nel fatto di essere stati imprigionati una conferma della pericolosità della loro azione politica per il nazismo. D'altra parte, gli ex membri dei gruppi liberali argomentavano che era finalmente chiaro quanto ingiustamente essi fossero stati accusati per aver sostenuto una politica di centro, poiché il fatto di essere stati internati mostrava che questa era proprio la politica che il nazismo temeva di più.
Lo stesso modo di ragionare alimentava il rispetto di sé (tanto duramente messo alla prova) del piccolo gruppo di coloro che provenivano dalle classi più alte, come i monarchici, per i quali il fatto di essere stati messi in prigione aveva la stessa importanza che per coloro che provenivano dalla classe media. L'alta considerazione che essi avevano goduto prima di essere stati internati si era mantenuta per qualche tempo anche nel campo, dove erano stati trattati in modo eccezionale da molti prigionieri, se non dalle S.S., e questo permetteva loro di considerarsi delle eccezioni (uno di costoro era, mi ricordo, l'ex sindaco di Vienna). Negavano, quindi, anche se per poco tempo, la «realtà» di quello che stava loro accadendo. Erano ancora convinti di essere delle persone speciali, e pensavano che per loro non ci fosse alcun bisogno di adattarsi al campo, perché ben presto sarebbero stati rilasciati a causa della loro importanza per la società. Questo valeva in special modo per i membri dell'alta aristocrazia, per alcuni prigionieri che avevano ricoperto altissime cariche politiche, e per alcuni prigionieri estremamente ricchi, i multimilionari.
La convinzione della propria superiorità e il rispetto che veniva loro mostrato da parte di alcuni compagni portarono alcuni prigionieri della classe media a porsi in una condizione di dipendenza nei confronti di questi ultimi. Gli internati delle classi medie speravano che i loro protettori li avrebbero aiutati a riconquistare la libertà, e che in futuro avrebbero pensato a loro. Un risultato di questo fatto fu che i prigionieri provenienti dalle classi più alte non formarono gruppo; la maggior parte di loro rimase più o me no isolata, ciascuno circondato dal proprio gruppetto di «clienti» della classe media. Tuttavia, conservarono questa posizione di superiorità solo fino a quando sussisté una qualche ragione di credere in una loro pronta liberazione, e fino a quando poterono distribuire liberalmente del denaro. Quando, col passare del tempo, l'esperienza li convinse (e con loro i loro clienti) di non essere più vicini alla liberazione di qualsiasi altro prigioniero, la loro posizione sociale crollò, e non vi fu più differenza alcuna fra loro e gli altri prigionieri.
Questo non accadeva però per quei pochissimi che provenivano dalla classe sociale più alta, per coloro cioè che un tempo erano stati, per così dire, «gli unti dal Signore». Si trattava soprattutto dei membri delle famiglie reali, e il loro gruppo era troppo piccolo per permettere di fare delle generalizzazioni. In ogni modo, essi non si circondavano di «clienti», non distribuivano denaro troppo facilmente per ottenere favori da altri prigionieri, né parlavano delle proprie speranze di liberazione. Guardavano dall'alto in basso la maggior parte degli altri prigionieri non meno di quanto disprezzassero le S.S. Sembrava che per poter sopportare la vita nel campo avessero sviluppato un senso di superiorità tale che niente avrebbe potuto scalfirli. Essi dimostrarono perciò, fin dall'inizio, quel senso di distacco, quel rinnegamento della «realtà» della situazione in cui si trovavano, a cui la maggior parte degli altri prigionieri arrivò soltanto dopo dolorose esperienze. Sopportavano la loro disgrazia con una dignità veramente straordinaria ma, come i Testimoni di Geova, costituivano un caso a parte. Mentre le S.S. trattavano tutti gli altri prigionieri come dei numeri, verso gli ex membri di case regnanti ostentavano lo stesso atteggiamento, ma in realtà si comportavano diversamente.
Sarebbe interessante sapere se le S.S. avessero tracciato questa linea di demarcazione senza desiderarlo, o addirittura senza rendersene conto. Una volta ebbi occasione di lavorare vicino a un conte che discendeva da una delle famiglie più aristocratiche della Germania, e vidi che era trattato come tutti gli altri prigionieri. Ma quando, per esempio, si maltrattava e umiliava crudelmente un duca di Hohemberg, pronipote dell'imperatore d'Austria, lo si faceva con l'atteggiamento di chi vuol dire: «Te lo faccio vedere io che non c'è nessuna differenza fra te e gli altri prigionieri», e spesso anzi gli si diceva proprio così. Perciò, questi prigionieri di altissimo rango costituivano veramente un caso a parte, non fosse che per la maniera con cui erano oggetto di insulti da parte delle S.S. Le offese che ricevevano erano speciali, perché essi erano ancora trattati per quello che erano stati in passato, e non erano interscambiabili con gli altri internati. Probabilmente fu questa la ragione per la quale in loro il rispetto di sé non subì mai un annientamento così totale come negli altri. Rimanendo degli esseri speciali, anche se soltanto per la maniera con cui erano offesi, essi rimasero degli individui.
Mentre i vari gruppi politici si accusavano reciprocamente di non aver saputo prevenire il successo del nazionalsocialismo, molti prigionieri, e in particolar modo quelli che avevano una coscienza politica, si rimproveravano di non aver tentato di arrestare la marea combattendo con maggior coraggio ed efficienza. Questo senso di colpa era in apparenza alleviato, e il loro orgoglio parzialmente salvato, dalla stessa razionalizzazione che aveva reso loro sopportabile la prigionia: la considerazione, cioè, che la Gestapo li avesse giudicati abbastanza pericolosi da inviarli in un campo di concentramento.
- Espiare per gli altri.
Uno dei mezzi con cui i prigionieri cercavano di proteggere la propria integrazione era quello di sentirsi ancora importanti per il fatto che le loro sofferenze proteggevano altre persone. Dopo tutto, coloro che erano stati rinchiusi nei campi di concentramento erano stati scelti e puniti dalle S.S. come rappresentanti di tutti i malcontenti del regime. (6)
Questo fatto di dover soffrire per conto di altre persone era usato da molti prigionieri per mettersi in pace con la coscienza ed eliminare il senso di colpa che provavano per il proprio comportamento antisociale nei campi; analogamente, il fatto di dover vivere in condizioni veramente insopportabili serviva per razionalizzare tale comportamento nei confronti degli altri. Se ne aveva una prova ogni volta che un prigioniero accusava un altro per il suo comportamento scorretto. Se un prigioniero veniva rimproverato perché si era approfittato di un compagno, perché l'aveva battuto, perché faceva dei discorsi osceni, per la sua sporcizia, o per qualche altra mancanza, la risposta tipica era: «In circostanze come queste non posso certo comportarmi come una persona normale!».
Con un ragionamento analogo, essi ritenevano di avere espiato non solo per ogni loro colpa passata, sia personale, sia verso la famiglia o gli amici, ma anche per qualsiasi mutamento che avrebbero potuto subire in futuro. Si sentivano autorizzati a negare la propria responsabilità e colpevolezza in un gran numero di casi, si sentivano autorizzati a odiare altre persone, comprese le proprie famiglie, anche quando era evidente che la colpa era soltanto loro. Quando a un prigioniero venne, per esempio, ricordata una qualche mancanza passata nei confronti dei propri doveri, egli rispose che essa non aveva più la minima importanza, perché coloro ai quali aveva fatto torto si stavano godendo la libertà, mentre lui stava soffrendo nel campo. Era questa la prova che chi subiva il torto era lui, e non loro.
Questo tipo di difese che miravano a conservare il rispetto di sé negando ogni colpa non faceva, in pratica, che indebolire la personalità dei prigionieri; attribuendo a forze esterne la responsabilità delle proprie azioni, essi non soltanto negavano di avere alcun controllo sulla propria vita, ma ammettevano implicitamente che le loro azioni non avevano alcuna importanza. Attribuire ad altre persone o alle circostanze esterne la responsabilità del proprio comportamento scorretto può essere un privilegio del bambino, ma un adulto, se non ammette di essere responsabile delle proprie azioni, non fa che un altro passo verso la disintegrazione della propria personalità.
- Distacco emotivo.
Abbiamo già accennato che una delle difese contro il desiderio di morire era costituita dai legami che univano il prigioniero alla sua famiglia. Ma poiché il prigioniero non poteva far nulla per rafforzare questi legami, viveva in una paura costante che essi potessero rompersi. Questa paura, poi, era continuamente alimentata da storie di mogli che avevano deciso di divorziare dai mariti prigionieri (una decisione che del resto veniva incoraggiata dalle S.S.), e da voci anche più frequenti di tradimenti, eccetera. Ogni volta che arrivavano lettere da casa si avevano manifestazioni di angoscia e ambivalenza emotiva.
Poteva accadere che i prigionieri non riuscissero a trattenere le lacrime leggendo una lettera in cui si riferivano loro gli sforzi fatti per liberarli, e subito dopo bestemmiassero leggendo che una parte dei loro beni era stata venduta senza il loro permesso, anche se con lo scopo di comprare la loro liberazione. Alcuni addirittura maledivano le proprie famiglie, che «ovviamente» li ritenevano «già morti», dato che disponevano così dei loro beni senza il loro consenso. Ogni cambiamento, anche il più insignificante, nella vita privata dei loro congiunti assumeva un'importanza tremenda. Potevano aver dimenticato il nome di alcuni dei loro migliori amici, ma venire a sapere che un amico aveva cambiato casa o si era sposato li agitava terribilmente, e non sapevano darsene pace.
Non può dunque meravigliare che, col passare degli anni, alcune delle notizie che ricevevano diventassero per loro fonte di forti emozioni, anche se gli avvenimenti cui si riferivano non erano che il risultato dell'evolversi naturale della vita nel mondo esterno. Per esempio, un prigioniero veniva a sapere che sua figlia, che egli ricordava adolescente, si era appena sposata con un uomo il cui nome non gli diceva niente. Se nel mondo esterno le cose continuavano ad andare avanti, mentre loro vivevano in condizioni tanto abiette, come potevano sperare di potersi riadattare a quel mondo? Spesso dunque la lettera tanto attesa conteneva notizie che non rafforzavano affatto il loro amore di sé, o la loro speranza di essere ancora amati, ma, al contrari, indicavano quanto poco, ormai, essi contassero per i loro familiari; o, almeno, così la interpretavano. (7)
Molti aspetti dell'ambivalenza dei prigionieri verso il mondo esterno sembravano dipendere dal desiderio di tornare a casa esattamente identici a com'erano quando l'avevano lasciata. Questo desiderio era tanto grande che essi temevano ogni cambiamento, per insignificante che fosse. I loro beni dovevano restare al sicuro e non venir toccati da nessuno, pur non essendo di utilità alcuna per loro. Le famiglie, d'altronde, difficilmente potevano accettare questo punto di vista, cioè fare in modo che per anni e anni, in assenza del capofamiglia, nulla mutasse al loro interno.
E' arduo dire se i prigionieri volessero che tutto rimanesse com'era perché erano consapevoli delle difficoltà che avrebbero poi incontrato dovendo adattarsi a una situazione familiare completamente diversa, oppure per una specie di pensiero magico che si potrebbe formulare pressappoco così: «Se nel mondo in cui ero abituato a vivere tutto rimane immutato, allora anch'io lo rimango». In questo modo cercavano di combattere l'intima consapevolezza del cambiamento che in loro stava avvenendo. La violenta reazione contro qualsiasi cambiamento all'interno della propria famiglia era la contropartita, direttamente proporzionale, di questa consapevolezza della trasformazione avvenuta nella propria personalità.
Ciò che esulcerava i prigionieri ancor più dei cambiamenti che avvenivano nelle loro case era il cambiamento che questo implicava nella loro posizione all'interno della famiglia. Come abbiamo già notato, le posizioni reciproche si erano rovesciate: ora era la famiglia che prendeva le decisioni e il prigioniero che dipendeva da essa. Così, non erano soltanto le S.S. a degradarlo, perfino la sua famiglia stava distruggendo il suo rispetto in se stesso, già così crudelmente intaccato, scalzandolo dalla posizione di capofamiglia. Essere posto nella condizione di non esercitare più le proprie funzioni di capofamiglia era un'ingiustizia. Di conseguenza, essi si sentivano oggetto di un duplice torto: sia da parte delle S.S., che gli impedivano di avere cura delle loro famiglie, sia da parte di queste, quando le circostanze le costringevano ad agire di propria iniziativa. A un certo livello il prigioniero si rendeva conto di questo, ma a un altro livello aveva l'impressione che la famiglia non lo trattasse in maniera diversa dalle S.S., e ne risentiva ancor più dolorosamente. (8)
Rara era quella lettera che non producesse contemporaneamente sollievo e depressione; sollievo perché provava che essi non erano stati ancora dimenticati, depressione perché le decisioni prese senza il loro consenso erano tali che, normalmente, soltanto il capofamiglia avrebbe dovuto prenderle. Ogni volta che attendevano una lettera tutte queste emozioni accrescevano la tensione del loro animo: non solo suscitavano uno scoppio di rabbia impotente contro le persone amate (fra tutte le esperienze di natura emotiva una delle più debilitanti, se non la più debilitante di tutte), ma anche un certo senso di colpa, perché gli internati sapevano che questa rabbia era ingiustificata.
Contro tutto questo i prigionieri si difendevano psicologicamente eliminando ogni attaccamento sentimentale, quando esso non recava che pena. Per evitare questo senso di colpa, di frustrazione e di dolore, cercavano di staccarsi emotivamente dalla propria famiglia, non solo, ma da tutto ciò che apparteneva al mondo esterno e a cui erano ancora attaccati. Mentre però questi legami emotivi rendevano la vita del campo più penosa, l'alternativa opposta, cioè il rinnegarli, rimuoverli, eliminarli, privava il prigioniero della sua fonte maggiore di energie vitali.
Come in molte altre situazioni, questo distacco emotivo non era soltanto una difesa interiore, ma anche il risultato del modo in cui le S.S. consegnavano i messaggi che arrivavano dall'esterno. In primo luogo, i prigionieri potevano ricevere soltanto due lettere al mese, ed esse dovevano essere molto corte. Assai spesso, per punizione, ogni forma di corrispondenza era proibita per mesi. Ma anche quando le lettere venivano consegnate, lo si faceva in maniera tanto umiliante per chi le riceveva che spesso poteva sembrare non valesse la pena di riceverle. Col passare del tempo si cominciò a considerare preferibile non dare troppa importanza alle notizie da casa, tanto erano penose le circostanze che ne accompagnavano la trasmissione.
Un giorno, per esempio, l'S.S. capoblocco arrivò con un grosso pacco di lettere e lesse i nomi dei prigionieri a cui erano indirizzate. Fatto ciò, disse: «Ora, maiali, sapete di avere ricevuto posta», e bruciò il pacco. Un altro giorno un ufficiale delle S.S. disse a un internato che era arrivata la notizia della morte di suo fratello, senza tuttavia mostrare il telegramma che conteneva il messaggio. Il prigioniero chiese umilmente quale fratello gli fosse morto, perché ne aveva molti. La risposta fu: «Puoi scegliere quello che ti pare!», e questo fu tutto ciò che egli riuscì a sapere per il resto della prigionia.
Nonostante il graduale inaridimento dei vecchi legami emotivi, nel campo non si poteva dar vita ad alcun altro legame che li sostituisse. L'energia vitale non si poteva spendere in emozioni, perché era tutta necessaria alla sopravvivenza pura e semplice. Non poteva essere vivificata dall'amicizia per altri prigionieri, perché era pressoché impossibile offrire ad altri emozioni non condizionate, e di gran lunga troppe erano le occasioni di attrito, se non addirittura di vero e proprio odio. Ne derivava che i vari sforzi del prigioniero per sbarrare la strada alle delusioni che gli venivano dalla famiglia eliminavano la sola fonte di energia emotiva che gli restava. Dall'esterno e dall'interno, dalle S.S., dalla lotta per la sopravvivenza e dalle sue stesse reazioni interiori, gravava su di lui una costante pressione verso l'isolamento emotivo.
- Amnesia selettiva.
Come abbiamo notato, a causa dell'ambivalenza emotiva verso gli eventi più importanti della loro vita passata e verso la gente che vi aveva preso parte, molti prigionieri mostravano una notevole tendenza a dimenticare nomi e luoghi. Dimenticare queste cose creava angoscia, perché i prigionieri cominciavano a temere di perdere la memoria, e perfino le loro capacità intellettuali. Questa paura era aggravata dalla consapevolezza di non essere più in grado di ragionare obiettivamente; i prigionieri sapevano che i loro ragionamenti oscillavano continuamente sotto la spinta delle emozioni, specialmente dell'angoscia. Di conseguenza, cominciarono a fare sforzi per mantenere in esercizio la memoria e per provare a se stessi che non stavano perdendo l'intelligenza. Per esempio, provavano a ricordare quello che avevano imparato a scuola.
E' abbastanza interessante notare che essi riuscivano a ricordare soprattutto quello che avevano imparato meccanicamente, ossia cose che non avevano niente a che fare con la loro situazione presente. Per fare sfoggio della propria memoria, cercavano di ripetere i nomi degli imperatori tedeschi, le date della loro ascesa al trono, i nomi dei papi, e altre cose del genere che avevano imparato a scuola molti anni prima. I loro sforzi per sfoggiare e mantenere in esercizio la memoria portavano a un'ulteriore regressione verso situazioni infantili, cioè a fare le cose automaticamente e non spontaneamente.
Questa capacità di ricordare dati che in quel momento non avevano alcuna importanza, e la corrispondente incapacità di ricordare fatti che avrebbero permesso loro di giungere a certe conclusioni e, di conseguenza, a decisioni utili nell'urgenza della loro situazione attuale, era un'esperienza che li colpiva. Sembrava che perfino la loro mente funzionasse in modo da non offrire più alcuna protezione, ma che si limitasse a eseguire direttive e compiti imposti da persone che in passato avevano esercitato autorità su di loro. Ricordavano fatti che erano stati costretti a imparare, non quelli che avevano desiderato imparare.
Da un punto di vista psicologico, questo meccanismo è facilmente spiegabile. Tutto ciò che aveva a che fare con le privazioni presenti era così angoscioso che si desiderava rimuoverlo, dimenticarlo. Soltanto quello che non aveva alcuna relazione con le loro sofferenze attuali era emotivamente neutro e poteva perciò essere ricordato. Ma per il prigioniero questa era una riprova del fatto che la sua mente riusciva a funzionare soltanto quando non poteva trarne alcun vantaggio, che egli conservava nozioni acquisite molto tempo prima, e soltanto quando esse non avevano più importanza. (9)
Per il prigioniero rendersi conto che la sua mente funzionava in cose senza importanza, mentre girava a vuoto in questioni d'importanza vitale - per esempio dimenticare l'indirizzo di una persona che avrebbe potuto aiutarlo a ottenere la liberazione - era un'esperienza distruttiva. Una volta di più egli aveva la prova di quanto si fosse deteriorato. Peggio ancora, ciò dimostrava che i suoi sforzi per rimanere intatto (e cioè per mantenere la memoria) provavano che stava accadendo proprio l'opposto (e cioè il suo deterioramento).
- Potenza sessuale.
Come c'era da aspettarsi, nei prigionieri il terrore di perdere le proprie capacità e la propria integrazione trovava la più aperta espressione nei timori per la propria potenza sessuale. Abbiamo già fatto notare che le S.S. costringevano i prigionieri a regredire verso desideri e interessi immaturi. Ci limiteremo qui a considerare gli sforzi di questi ultimi per impedire la regressione, e gli effetti di tali difese sulla loro integrazione personale.
Virtualmente, ogni prigioniero aveva paura di diventare impotente, e da questa angoscia era spinto a mettere alla prova la propria potenza sessuale. Questo significava o pratiche omosessuali o masturbazione. I prigionieri indulgevano in entrambe: una minoranza nelle prime, la stragrande maggioranza nella seconda; raramente, tuttavia, e meno per il piacere che per accertarsi di non essere diventati impotenti. Eppure, dal punto di vista della loro educazione e della loro condizione di adulti, ambedue queste pratiche significavano il ritorno a un comportamento preadulto, con accrescimento del senso di colpa. Conseguentemente, di nuovo, lo sforzo per proteggere la personalità per mezzo di esperienze che avrebbero dovuto procurare sicurezza, finiva per indebolire ulteriormente il rispetto di sé.
La paura di diventare impotenti era strettamente connessa con l'angoscia infantile di castrazione, tenuta viva dalle S.S. con le loro continue minacce. In realtà, fino allo scoppio della guerra le sterilizzazioni furono rare; prima del 1940 venivano sterilizzati soltanto veri o presunti criminali sessuali. Ma la minaccia della sterilizzazione, cioè della castrazione, era usata frequentemente, e non soltanto dalle S.S., ma anche dai prigionieri «anziani», i quali se ne facevano portavoce. In questo caso, l'uso di tali minacce da parte di costoro era, probabilmente, non tanto un aspetto del loro processo di identificazione con le S.S., quanto una difesa contro le proprie stesse angosce.
Per esempio, ai nuovi arrivati si diceva che tutti i prigionieri venivano evirati il giorno successivo all'arrivo nel campo. Dopo le esperienze subite durante il trasporto questi erano pronti a credere qualsiasi cosa. Gli anziani si rendevano perfettamente conto delle condizioni mentali in cui si trovava la maggior parte dei nuovi arrivati. Perciò tale minaccia sembrava scaturire da un bisogno psicologico assai forte in loro. Di solito, non lo facevano in maniera aggressiva. Si limitavano semplicemente a riferire di aver subìto la mutilazione, di essere sopravvissuti, e che, tutto sommato non era andata poi troppo male. Raccontavano le loro storie in maniera così convincente che alcuni dei nuovi prigionieri andavano a chiedere alle S.S. dove dovevano rivolgersi per l'operazione.
I veterani invidiavano la virilità dei nuovi arrivati e il fatto che questi avevano poco prima goduto di esperienze sessuali delle quali essi erano stati privati da anni. Che le S.S. evirassero i prigionieri era vero simbolicamente, non alla lettera. La minaccia di evirazione era probabilmente una risposta che i veterani davano ai nuovi arrivati anticipando la loro domanda: «Come può un uomo permettere a se stesso di vivere in condizioni così degradanti?». Dicendo ai nuovi arrivati che tutti i prigionieri del campo erano stati evirati, essi intendevano implicitamente affermare che, se avevano perduto la propria virilità ed erano diventati incapaci di rivoltarsi, la stessa cosa sarebbe accaduta anche ai nuovi arrivati.
In generale, se gli anziani usavano la loro esperienza del campo per intimorire i nuovi arrivati, lo facevano per trovare un sollievo dallo stato di impotenza in cui si trovavano. Ma anche questa difesa operava a favore delle S.S.: indeboliva la resistenza dei nuovi arrivati senza rafforzare quella degli anziani.
- Fantasticherie.
Abbiamo già accennato all'inclinazione da parte dei prigionieri anziani, a fantasticherie megalomani. Si può qui aggiungere che i prigionieri fantasticavano continuamente, sforzandosi così di evadere da una realtà opprimente. Il loro dramma consisteva nel fatto che a poco a poco non erano più sicuri di saper distinguere i sogni dalla realtà. Circolavano sempre nuove voci di miglioramenti nelle condizioni del campo e di liberazione immediata. Il contenuto di queste voci dipendeva largamente dal temperamento del singolo prigioniero. Tuttavia, nonostante le differenze, quasi tutti si compiacevano di parlare di queste voci, che in molti casi avevano il carattere di sogni in comune, ovvero di "folies à deux, trois, quatre", o anche più.
La credulità della maggior parte dei detenuti superava ogni ragionevolezza, e si può spiegare soltanto col bisogno che essi provavano di tenersi alto il morale raccontandosi storie ottimistiche, a cui poi credevano contro ogni verosimiglianza. Viceversa, quando si trovavano in uno stato di depressione, come più spesso accadeva, sembrava che poter giustificare con voci pessimistiche la loro profonda disperazione recasse loro sollievo.
Certe dicerie ricomparivano regolarmente, benché non si fossero mai rivelate vere. Quella, per esempio, di un'amnistia generale in occasione del quinto, settimo o decimo anniversario del Terzo Reich, o del compleanno di Hitler, (10) o della vittoria all'Ovest, e così via. Altre voci ricorrenti erano quelle che il ministero della Giustizia stesse per assumere la direzione dei campi, e che in tal caso si sarebbero prese in considerazione le ragioni personali dell'internamento di ciascun prigioniero, che i campi sarebbero stati presto chiusi, eccetera. Le voci pessimistiche dicevano invece che tutti i prigionieri, o un certo gruppo di essi, sarebbero stati sterminati allo scoppio della guerra, o alla fine della guerra, o in qualche altra occasione.
Per qualche tempo i prigionieri credevano in questi sogni a occhi aperti e si rallegravano per quelli più ottimistici con l'unico risultato di sentirsi poi ancora più depressi quando le voci cadevano nel nulla. Pur essendo state inventate per recare sollievo, esse in pratica indebolivano la capacità di valutare correttamente la situazione. Fino a un certo punto, rientravano nella più generale tendenza a negare validità all'ambiente. I prigionieri lo desideravano con tanto ardore che spesso fantasticavano puramente e semplicemente di non viverci.
Queste fantasticherie sarebbero state abbastanza innocue se si fosse trattato di carcerati, rinchiusi magari in cella di isolamento. Avrebbero potuto essere un utile passatempo. Ma molti prigionieri vi si immergevano fino a un punto pericoloso. Si comportavano semplicemente come se vivessero ancora nel vecchio ambiente. Questi sogni a occhi aperti arrecavano loro un limitato e provvisorio sollievo emotivo, ma nello stesso tempo impedivano loro di affrontare in maniera adeguata la realtà dei campi. Questo non era che un nuovo e più insidioso espediente per non guardarsi intorno, per non osservare la realtà, per «non vedere». Anche in questo caso le difese interiori concorrevano con la pressione esterna per ridurre i prigionieri a una pericolosa passività.
Quanto a coloro che inventavano queste voci alcuni lo facevano per acquistare prestigio, perché gii altri erano ansiosi di sentirle. La loro presa sulla realtà si era talmente indebolita che spesso nemmeno loro si rendevano conto con chiarezza di inventare delle favole, né del perché lo facessero. Il fatto è che avevano una possibilità talmente minima (per non dire nulla) di conoscere la realtà che ogni particolare, anche il più insignificante, dovendo sostituire fatti importanti che rimanevano ignoti, veniva accettato al posto di questi. Un tale bisogno di sapere, combinato al bisogno di sentirsi importanti anche soltanto per pochi minuti, di essere al centro dell'attenzione, di essere ascoltato invece di essere scacciato in malo modo, li spingeva a inventare quelle frottole. Ma coloro che lo facevano andavano incontro a un grave scompenso emotivo: prima o poi dovevano pagarla cara, o col disprezzo, o anche con maltrattamenti da parte di quei prigionieri che avevano creduto alle loro fandonie.
Un altro aspetto demoralizzante di queste fantasticherie era insito nella loro natura spesso contraddittoria. Tutti i prigionieri odiavano il regime nazista, anche se, senza saperlo, ne avevano adottato alcuni valori. La fine del regime nazista avrebbe significato la fine dei campi di concentramento. Di conseguenza, l'odio per il regime e il desiderio della liberazione gli facevano sperare che il regime crollasse. Ma la fine del regime avrebbe anche significato la fine della Germania. Questo era un prezzo che molti Tedeschi esitavano ad accettare. C'era poi sempre la possibilità che, prima di essere spazzate via, le S.S. uccidessero tutti i prigionieri. Questo fatto, anzi, era in generale dato per certo.
Gli Ebrei, poi, si trovavano di fronte a un dilemma di natura diversa. Fino al 1940 molti di loro venivano liberati se potevano emigrare immediatamente. Risultava però evidente che li si liberava soltanto quando il regime nazista si sentiva relativamente forte, mentre li si uccideva in gran numero appena il regime si sentiva minacciato. Così, i prigionieri ebrei dovevano affrontare questa alternativa: essi desideravano ardentemente la distruzione del nemico, ma nello stesso tempo (e questo fino al 1940) desideravano che, almeno fino al momento in cui avrebbero potuto emigrare, esso rimanesse ancora abbastanza forte, o addirittura (e questo più tardi) che non soffrisse alcun danno, per evitare la distruzione in massa e la strage delle loro famiglie.
Il trovarsi nell'impossibilità di risolvere un dilemma così cruciale per la propria vita può facilmente distruggere l'equilibrio psicologico di qualsiasi persona; lo stesso può accadere quando si desideri un avvenimento che può portare con sé sia la nostra morte sia quella dei nostri amici. La natura contraddittoria di questi desideri e di queste fantasticherie che si sostituivano a una più accurata valutazione della realtà era un passo ulteriore verso quel comportamento infantile imposto ai prigionieri dalla strana realtà in cui vivevano.
Lo scopo di tutte le difese, sia psicologiche sia di altro genere, era soprattutto quello di salvarsi la vita. Nonostante quanto abbiamo detto sopra a proposito delle difese escogitate per proteggere la propria condizione, il rispetto di sé, l'autonomia nell'azione, la maturità, eccetera, gli sforzi psicologici di questo tipo erano relativamente rari. In realtà, la vita dei prigionieri si svolgeva sotto la minaccia di un pericolo così grave che ben poca energia e ben poco interesse restavano per quelle difese. In generale, la preoccupazione di conservare l'integrità e l'integrazione personale doveva essere sacrificata alla preoccupazione di conservare la vita. E non sempre era facile decidere quando una difesa psicologica fosse intesa a salvaguardare una cosa a spese dell'altra, o quale delle due si volesse proteggere.
Per esempio, se si eccettua la delazione, niente era punito più duramente dagli stessi prigionieri del furto di pane; e a buon diritto, perché, per un uomo che stava già morendo di fame, esso poteva significare la vita o la morte. Il pane era considerato da tutti il cibo fondamentale, tanto che l'atteggiamento comune verso il furto di pane era completamente differente da quello verso furti di ogni altro tipo. Anche l'atteggiamento emotivo che si aveva nei confronti del pane era diverso da quello tenuto verso gli altri cibi. Mentre si protestava continuamente a proposito di questi, rare erano le proteste sulla qualità del pane: ci si lamentava soltanto di non poterne avere di più.
Il furto di pane era punito dalle S.S. in maniera tale che raramente si sopravviveva alla punizione, ma esisteva anche una norma del codice dei prigionieri che non ammetteva la possibilità di fare la spia sul conto di un altro detenuto. Le trasgressioni venivano perciò punite dai prigionieri stessi; di solito al colpevole veniva inflitta una severa bastonatura cui si accompagnava un ostracismo sociale che era quasi «omicida», data la profonda interdipendenza fra i prigionieri.
Un giorno, a un prigioniero entrato nel campo relativamente da poco capitò di dire che gli era stato rubato il pane e di sapere con sicurezza chi glielo aveva preso. Per lui questo non era ancora una cosa di importanza vitale, dato che poteva sempre ricevere del denaro da casa, e comprarsi degli extra al negozio del campo. Ma il capobaracca udì la conversazione. Nella sua qualità di «anziano» si sentì offeso, e chiese al prigioniero di dirgli chi glielo aveva preso. Il nuovo venuto rifiutò di fare il nome del ladro, dicendo che questi doveva certo essere più affamato di lui, e che non voleva che al suo stato miserabile si aggiungesse una punizione tanto sproporzionata al delitto commesso. Egli si ostinò talmente a non rispondere che fu chiamato il capoblocco, il quale nella gerarchia dei prigionieri occupava il grado immediatamente superiore. Con l'animo agitato da sentimenti contrastanti, questi minacciò il nuovo venuto di infliggergli una dura punizione se si rifiutava ancora di dire quello che sapeva; ma nonostante le botte questi tenne la bocca chiusa. Alla fine, i capi persero la pazienza e minacciarono di fargli rapporto alle S.S. Cominciando ad attuare la loro minaccia, si mossero verso il cancello (che dava adito agli uffici delle S.S.) alternando le botte ai tentativi di persuasione. Tuttavia, all'ultimo momento, i due lasciarono perdere, un po' per timore, un po' per vergogna, e sul fatto non fu più pronunciata parola.
Per quanto questo fosse un esempio di coraggio individuale piuttosto insolito, e comunque da parte di un prigioniero ancora bene integrato, esso mostra su che terreno meschino si conducesse la lotta continua per conservare la propria dignità e riuscire contemporaneamente a sopravvivere. Il nuovo prigioniero, protagonista di questo episodio, reagì dapprima come avrebbe reagito normalmente fuori del campo. Ma, dopo la sfida, la sua resistenza diventò una prova della propria capacità di resistere alla pressione congiunta della forza e del terrore, e in particolar modo al loro potere di modificare i suoi princìpi morali. Tollerare il furto di pane era fatale, ma fatale era anche far violenza ai valori cui ci si era attenuti fino ad allora. Si doveva scegliere fra una morte per fame interiore e una morte per fame fisica, e alla fine la maggior parte dei prigionieri scelse di garantirsi il pane, piuttosto che difendere la propria dignità.
- Lavoro.
Non era certo facile fare sottili distinzioni fra sopravvivenza morale e sopravvivenza fisica, nell'elaborare i sistemi difensivi da mettere in opera nella situazione di lavoro. Inoltre, non era sempre possibile dire quando un certo atteggiamento verso il lavoro costituisse una difesa psicologica contro la disintegrazione della personalità, oppure un'intima accettazione dei valori delle S.S.
Abbiamo già osservato che i prigionieri odiavano la costrizione a fare dei lavori senza senso, e che ciò contribuiva alla loro disintegrazione personale. Ora vorrei accennare all'aspetto contrario. Per non perdere completamente il rispetto di sé, alcuni prigionieri cercavano di lavorare bene. Di solito non lo ammettevano, e cercavano di razionalizzare in qualche modo il loro comportamento, dicendo, per esempio, che il lavoro dei prigionieri serviva a tutti i cittadini tedeschi e non soltanto alle S.S.
Per esempio, i prigionieri raccoglievano tutti i residui che si trovavano nel campo perché in Germania c'era scarsità di materie prime. Quando si faceva loro notare che questo andava a vantaggio dei nazisti e dello sforzo bellico del regime, essi razionalizzavano questo comportamento dicendo che, se si conservavano i rottami, anche le classi lavoratrici tedesche diventavano più ricche.
Quando costruivano edifici per la Gestapo, sorgevano controversie intorno al problema se si dovesse costruirli bene oppure no. I nuovi venuti sostenevano che si dovevano sabotare i progetti, la maggioranza dei vecchi prigionieri, invece, sosteneva che si dovevano costruire bene. Anche qui essi razionalizzavano la loro posizione dicendo che la Germania avrebbe tratto vantaggio dall'uso di questi edifici. Un'altra forma di razionalizzazione era l'idea che, anche senza preoccuparsi di chi avrebbe alla fine goduto del prodotto del loro lavoro, importante per loro era di lavorare bene «per sentirsi uomini», e c'era perfino chi sosteneva che ci si deve sempre attenere alla regola generale di fare bene tutto quello che si fa.
La maggioranza degli anziani si rendeva conto che non avrebbero potuto continuare a lavorare per le S.S. se non si fossero convinti che effettivamente le cose stavano così. Alcuni anzi asserivano che, lavorando duramente e bene, avrebbero mostrato alle S.S. che i detenuti non erano la feccia della terra, come le S.S. dicevano continuamente. Coloro che sostenevano quest'ultimo punto di vista arrivavano pericolosamente vicini all'identificazione con le S.S., prendendo da queste i criteri in base a cui misurare il proprio prestigio. Ma le ragioni psicologiche che potevano giustificare un tale atteggiamento erano molteplici. Lavorando bene, un prigioniero poteva in pratica salvarsi la vita evitando i lavori più «massacranti», come accadde appunto nel caso di quel gruppo di Ebrei che fabbricavano mattoni.
Nel campo di concentramento la scelta di un duro lavoro fisico, per infliggere una punizione, non era un fatto accidentale. Vi stava dietro l'accusa generale che le classi lavoratrici tedesche (influenzate dagli slogan dei socialisti e dei comunisti prima, dei nazisti poi, avevano a lungo rivolto contro le classi medie, e cioè che i membri di queste non erano capaci di fare un «onesto» lavoro manuale, e che anzi si ritenevano degradate se lavoravano con le proprie mani. (11) Ma la cosa era ancora diversa quando il lavoro dei prigionieri sfociava in prodotti utili per le S.S. In questo caso infatti i prigionieri al lavoro erano meno assillati dalle guardie, perché delle punizioni troppo severe avrebbero abbassato il loro rendimento.
Quando si ordinava ai detenuti di trascinare dei carri pesanti, invece di farli trainare da un trattore, la soluzione era illogica dal punto di vista della produttività, ma rimaneva pur sempre un interesse relativo per la finalità dello sforzo. Poteva anche accadere che le S.S. ordinassero ad alcuni prigionieri, che stavano caricando di sabbia un carro, di metter via le pale e di caricarlo con le mani. Questo ordine aveva lo scopo di umiliarli, quasi fossero indegni di servirsi di utensili, o di punirli rendendo il lavoro più faticoso, o di farli sembrare ridicoli. Nonostante ciò, prima o poi il carro sarebbe stato pur sempre riempito e trasportato dove c'era bisogno di sabbia. Perciò, dopo una sufficiente esibizione della loro capacità di umiliare i prigionieri e un'adeguata esibizione di sottomissione da parte di questi, le S.S. avrebbero ordinato che si riprendessero le pale.
Ma non era riscontrabile alcuna considerazione del genere quando si ordinava ai prigionieri di fare qualcosa «per sport», ovvero senza senso. Allora l'attività richiesta era considerata in se stessa una punizione. Nelle scure mattine nebbiose, quando la visibilità era così scarsa che le S.S. non osavano fare uscire i detenuti dall'area rinchiusa dal filo spinato, poteva accadere che quei gruppi che si sarebbero dovuti recare al lavoro all'aperto ricevessero l'ordine di fare «dello sport» fino a quando la visibilità non fosse migliorata. «Sport» poteva significare fare a spintoni, oppure strisciare carponi nel fango, oppure rotolarsi nel fango o nella neve o sul ghiaccio, e così via. Sullo spiazzo delle parate a Buchenwald si trovavano grossi mucchi di ghiaia a una certa distanza l'uno dall'altro. I prigionieri erano costretti a rotolarsi su di essi fino a che i loro corpi non fossero tutti tagliuzzati dalle punte acuminate delle pietre. Di solito, un'ora soltanto di tale «sport» era più massacrante di un'intera giornata di lavoro. (12) Attività di questo tipo non erano imposte alla minoranza che lavorava nei negozi del campo, perché là il lavoro poteva continuare alla luce artificiale.
Per queste ragioni, i prigionieri cercavano spesso di lavorare bene, nella speranza di essere assegnati a incarichi in cui l'interesse delle S.S. per il prodotto finito comportasse minori rischi per l'interessato. Con due eccezioni però: la prima era costituita da qualsiasi incarico in cui il ritmo del lavoro dipendesse dalla velocità delle macchine; l'altra dal lavoro a termine. Questi due tipi di lavoro erano sempre i più temuti. Come abbiamo chiarito nella prima parte di questo volume, una delle contraddizioni della tecnica moderna è che le macchine, inventate per migliorare la condizione dell'uomo, sono spesso diventate le sue padrone. Nei campi di concentramento questa tendenza, non essendo frenata da considerazioni umanitarie o dalla preoccupazione di conservare la vita umana, dominava in tutta la sua brutalità.
Il lavoro alle cave di pietra, per esempio, era uno di quelli che la maggior parte dei prigionieri aborriva, perché il ritmo al quale le pietre dovevano essere spaccate e portate alla macchina, e la ghiaia portata via, era stabilito dalla velocità delle frantumatrici. Queste erano veramente macchine mangiatrici di uomini. A Dachau si diceva che le S.S. avessero gettato alcuni prigionieri dentro le macchine che servivano per fare il calcestruzzo, e questo può benissimo essere accaduto. Tuttavia, quello che realmente importava era che i prigionieri che alimentavano la macchina lo credessero; del resto le S.S. li ammonivano frequentemente che potevano fare la stessa fine delle pietre se erano troppo lenti a rifornire le macchine.
Ugualmente temuto era il lavoro a termine. Un esempio tipico fu il tratto di ferrovia che Himmler ordinò fosse costruito nel 1943 fra Buchenwald e la città di Weimar; la distanza era approssimativamente di quindici chilometri, con un dislivello di trecento metri. Nell'ordine era specificato che il primo convoglio di prova doveva passare entro tre mesi. L'ufficiale delle S.S. incaricato del progetto dichiarò che era impossibile eseguirlo entro questo termine. Fu perciò rimpiazzato, e la costruzione della ferrovia venne affidata a un altro ufficiale che si era fatta la reputazione di negriero a Sachsenhausen. Egli istituì due turni di dodici ore durante le quali le bastonature erano la regola. Incaricò anche alcuni poliziotti S.S. di sorvegliare i prigionieri che sembrassero battere la fiacca.
Quel lavoro divorava letteralmente i prigionieri. Incidenti di lavoro seri (a quelli di minor gravità non si dava alcuna importanza) si contarono a dozzine ogni giorno, e il binario venne finito nel termine stabilito. Ma appena la prima locomotiva pesante passò sopra le rotaie, queste cedettero. Risultò che le riparazioni parziali sarebbero state insufficienti, e praticamente si dovette ricostruire per intero il binario. Per far ciò furono necessari altri sei mesi. (13) Questo basti per dimostrare l'efficienza del lavoro fatto da schiavi.
Nonostante le osservazioni precedenti, è bene sottolineare che si avrebbe un'idea falsa del lavoro nei campi se si pensasse che quanto veniva richiesto ai prigionieri fosse, in se stesso, superiore al grado di sopportazione individuale. Al contrario, era piuttosto raro che le S.S. o i "kapo" chiedessero l'impossibile, o per raggiungere lo scopo di «finire» un prigioniero, o per fare eseguire un lavoro a termine, o per adeguarsi alla velocità delle macchine. Il lavoro, del resto, non era una delle cause principali del gran numero di decessi.
In generale, il lavoro era insopportabile soprattutto a causa dell'esaurimento fisico e psichico dei prigionieri. Lo stato di malnutrizione, di insufficiente riposo, e tutto il resto rendevano massacrante anche un lavoro che in altre condizioni sarebbe stato sopportabile. La fatica era insostenibile, inoltre, per la mancanza di quei compensi che si hanno anche nelle fabbriche più meccanizzate, vale a dire di paghe da spendere con un minimo di libertà di scelta, e di prospettive di avanzamento; qui, invece, il lavoro contrastava coi desideri e coi valori morali di chi vi era sottoposto, perché eseguito nell'interesse dei suoi persecutori; era privo di scopo, imposto da una disciplina spietata, senza ricompense di sorta, monotono, profondamente noioso e, per di più, chi lo faceva non avrebbe mai potuto goderne i risultati o ottenere riconoscimenti.
Di conseguenza, quando i prigionieri cercavano, lavorando, di fare del loro meglio, vi erano spinti da numerose ragioni: la speranza di accrescere la possibilità di sopravvivere, di ottenere un lavoro che ritenessero meno degradante, di godere a tratti di una specie di rispetto di sé. Disgraziatamente, questa soluzione scatenava in loro un conflitto, perché, per poter godere di un limitato senso di soddisfazione, dovevano servire bene il loro nemico. Peggio ancora per quanto riguarda il rispetto di sé: non soltanto dovevano servire bene coloro che essi disprezzavano, e che li disprezzavano, ma da ciò conseguiva che il loro rispetto di sé dipendeva dall'opinione di un nemico mortale.
- Anonimato.
Il confondersi nella massa era una forma di difesa che, più di ogni altra, contribuiva a produrre quel tipo di persone infantilmente sottomesse e facilmente disponibili che le S.S. volevano. Non attirare su di sé l'attenzione, e perciò non farsi notare, era uno dei mezzi migliori per sopravvivere nel campo (come abbiamo già mostrato con l'esempio dei fratelli Hamber).
Eseguire tutti gli ordini e obbedire a tutti i divieti era impossibile, se si voleva sopravvivere. Di conseguenza, non farsi sorprendere era una vera e propria necessità. Che questa soluzione non fosse semplicemente escogitata dai prigionieri, bensì pretesa anche dalle S.S., era chiaro come il sole. Ogni S.S., dal comandante del campo fino alle guardie subalterne, ammoniva continuamente: «Non osate farvi notare!» oppure «Non osate attirare la mia attenzione!». Le qualità che un tempo si pretendevano dal bambino «buono», e cioè che lo si doveva vedere ma non sentire (non doveva mai rispondere, mai esprimere un'opinione), ora non bastavano più: il prigioniero doveva essere ancora più bambino del buon bambino; non soltanto non doveva farsi sentire, ma neppure vedere. Egli doveva cioè confondersi così completamente nella massa, abolire così radicalmente la propria individualità, da non essere in alcun momento distinguibile dagli altri.
Centinaia erano le occasioni che dimostravano l'utilità di questo totale auto-annullamento nella massa. Per esempio, in occasione dell'appello mattutino cominciava immediatamente una lotta di tutti contro tutti per accaparrarsi le posizioni meno visibili nello schieramento, che si faceva sul piazzale delle assemblee, perché il cattivo umore dei capiblocco o dei capibaracca, o, peggio ancora, delle S.S. si dirigeva inevitabilmente contro le persone più a portata di mano. Se i prigionieri non stavano rigidamente sull'attenti, chi riceveva i colpi o i calci erano con tutta probabilità coloro che potevano essere raggiunti senza rompere lo schieramento. Qualora le scarpe e le uniformi non fossero state ben pulite e in ordine, era più facile notare e punire queste mancanze negli uomini che occupavano le file laterali o la prima o l'ultima fila dello schieramento. Un prigioniero aveva maggiori probabilità di sfuggire ai colpi quando fosse protetto dagli altri su tutti i lati.
Questo del resto non era il solo motivo che consigliava di occupare una posizione non esposta. Chi si trovava in prima fila non poteva fare a meno di vedere tutto quello che stava succedendo sullo spiazzo davanti a lui. Da tutte le parti si vedevano "kapo" insultare e battere i prigionieri che si muovevano, o si mostravano irrequieti o non perfettamente allineati; le S.S. facevano lo stesso, o peggio. Per le ragioni già analizzate, non vedere quello che stava accadendo era non solo più sicuro, ma proteggeva anche dalla rabbia impotente che la vista di quei maltrattamenti suscitava in chi li vedeva.
Una ragione ulteriore era che talvolta i prigionieri dovevano rimanere sullo spiazzo per ore intere, sia che l'appello non fosse stato fatto bene, sia che l'oscurità invernale o la densa nebbia impedissero di andare al lavoro; per tutto questo tempo essi erano costretti a restare rigidamente sull'attenti. Era difficile che chi si trovava all'interno dello schieramento fosse sorpreso, e perciò si poteva permettere di starsene in posizione di riposo, e persino di scambiare qualche parola di tanto in tanto.
Grande era poi il terrore di essere «notati» nel quotidiano mercato degli schiavi. Ogni mattina, dopo l'appello, i prigionieri che non avevano ricevuto incarichi, pieni di paura attraversavano correndo lo spiazzo per riunirsi a qualche grosso gruppo di prigionieri che per quel giorno non avevano ricevuto incarichi di lavoro. La velocità era imperativa, perché un uomo stanco che si trascinasse per lo spiazzo era sicuro di attirare l'attenzione. In base al presupposto che fosse stato scartato dalla sua vecchia squadra di lavoro perché inutile, egli sarebbe stato subito assegnato a un tipo di lavoro meno desiderabile. Mostrandosi spossato e incapace, era «liquidabile», era un «peso» per il campo, e poteva benissimo essere «spacciato». Le probabilità di sfuggire a questo destino erano maggiori se ci si poteva nascondere rapidamente nella massa.
Essere invisibile era perciò una regola di difesa di primaria importanza in qualsiasi occasione. Il bisogno di sentirsi invisibile degradava il comportamento di quegli uomini a quello di animali, che fanno anch'essi del loro meglio per rimanere invisibili, o di bambini, che nascondono il viso o cercano di farsi piccini quando si trovano di fronte a un pericolo. Adottare questo anonimato forzato era una difesa utile contro i reali pericoli del campo. Ma ciò significava fare sforzi deliberati per rinunciare alla propria individualità e all'iniziativa personale, qualità essenziali per fronteggiare le situazioni di emergenza costantemente mutevoli della vita nel campo stesso.
In realtà, adottando questi atteggiamenti si avevano anche altri vantaggi. Non avendo una volontà propria si evitava la possibilità di dover andare contro i propri desideri, o anche di doverli reprimere o rinnegare. Non avere una personalità distinta significava non doverla nascondere, non dover temere che in qualsiasi momento essa fosse tentata di affermarsi, portando così alla distruzione. Anonimato significava sicurezza relativa, ma significava anche rinuncia alla propria personalità, benché il corpo potesse muoversi per un certo tempo con maggior sicurezza. Ma se insorgeva una situazione che richiedeva chiarezza, indipendenza di azione, prontezza di decisione, coloro che avevano rinunciato alla personalità per salvare il proprio corpo erano meno capaci degli altri di conservare quel corpo che avevano protetto sacrificando fino a quel punto la propria umanità.
- Brusco risveglio.
Un'altra importante causa di tensione che influiva sull'integrazione personale era costituita dalla difficoltà di dominare i propri sentimenti di ostilità. Psicologicamente questo problema era di gran lunga più complesso di quello di dover fronteggiare l'ostilità altrui. I prigionieri si trovavano in uno stato permanente di irritazione, non fosse altro che per la costante e opprimente interferenza delle guardie e degli altri prigionieri in tutto quello che desideravano fare. Ne risultava un'aggressività che si accresceva continuamente. Per illustrare la pressione ininterrotta volta a distruggere l'uomo che rispetti se stesso basta il modo in cui i prigionieri venivano svegliati.
Tutte le mattine i prigionieri venivano svegliati dal loro sonno agitato molto prima di essersi veramente riposati. In estate a Dachau le sirene del mattino suonavano già alle tre e un quarto, in inverno un po' più tardi. Erano poi concessi circa quarantacinque minuti per sbrigare le faccende personali. Sembrerebbe un tempo sufficiente, ma le condizioni di vita nel campo di concentramento rendevano la cosa completamente diversa. Appena suonate le sirene cominciava un parapiglia indescrivibile: i prigionieri non facevano che bisticciare per finire entro il termine prescritto tutte le loro faccende personali e le incombenze ufficiali.
Era questa una delle molte occasioni in cui la collaborazione amichevole fra i prigionieri e l'appoggio dei capiblocco e dei capibaracca poteva migliorare enormemente le cose. La collaborazione fra pochi amici, che si creava in quasi tutte le unità, era resa inefficace dal feroce disordine che regnava fra i più. In quei momenti frenetici, i nuovi arrivati che non erano ancora riusciti ad assuefarsi a una rigida disciplina intralciavano continuamente i movimenti degli anziani.
Pochissimi blocchi riuscivano a superare la prova del risveglio in maniera ordinata, senza tensioni, ansie, lotte, colpi e altre cause di irritazione reciproca. Una relativa tranquillità regnava soltanto nei blocchi che ospitavano prigionieri internati ormai da diversi anni e che erano disciplinati da discreti capiblocco e capi baracca. Fare tutto quello che si doveva entro i limiti di tempo stabiliti richiedeva grande esperienza e abilità da parte di ciascuno: bastava che alcuni fossero lenti e indisciplinati perché l'intero meccanismo si inceppasse. Questa specie di abilità si acquisiva soltanto dopo centinaia di prove, e solo da parte di prigionieri in buone condizioni di salute. Ma non erano certo queste le condizioni prevalenti nella maggioranza degli ospiti delle baracche.
La prima esperienza del nuovo giorno era tale da imprimere indelebilmente nella mente di tutti l'idea che ormai non sarebbero vissuti se non per obbedire, e che le regole stabilite dall'alto avevano una precedenza assoluta su ogni naturale desiderio di soddisfare i propri bisogni fisici. Era un esperienza che metteva i prigionieri l'uno contro l'altro, rendendo la vita insopportabile a ognuno di loro, e tutto questo senza che le S.S. avessero pronunciato una sola parola. Le S.S. ottenevano questo risultato con la pretesa di un ordine e di una pulizia del tutto insensati. L'imposizione di una pulizia assoluta e irrazionale nelle baracche era una delle peggiori torture del campo, soprattutto perché i prigionieri vivevano nel terrore costante di essere puniti tutti se uno solo di loro si fosse dimostrato inefficiente.
I due compiti più importanti dopo il risveglio erano rifare il letto (se c'era) e pulire il proprio armadietto. Il primo era un compito così difficile che i prigionieri talvolta preferivano dormire sul pavimento piuttosto che disfare il proprio letto e dormirci dentro per non essere poi capaci di rifarlo la mattina dopo. Ma così facendo rischiavano di essere scoperti e puniti per inosservanza delle regole. Anche a un prigioniero abile ed esperto ci volevano da dieci a quindici minuti per rifare il letto. Alcuni non impararono mai a rimetterlo in ordine, specialmente i più vecchi, i quali non riuscivano a stare in equilibrio sul bordo della cuccetta inferiore.
Appena suonata la sirena (prima non si poteva accendere la luce e perciò era impossibile rifare il letto) i prigionieri saltavano giù dai loro giacigli, e quelli che dormivano nelle cuccette superiori cominciavano a riordinarle. Essi erano assillati da quelli che dormivano sotto, che cercavano di impedire che le loro cuccette fossero scompigliate benché fosse quasi impossibile rifare il letto di sopra senza mettere in disordine quello di sotto. Venivano poi punzecchiati continuamente perché facessero in fretta, perché quelli di sotto potessero rifare il proprio letto, il che portava spesso a lunghi litigi tra quelli che dormivano di sopra e quelli che dormivano di sotto. Lo stesso accadeva tra coloro che occupavano due letti adiacenti, perché un letto ben rifatto poteva facilmente essere scompigliato anche dalla persona che stava rifacendo quello accanto.
Per rifare il letto a dovere, i pagliericci semivuoti, dovevano essere sbattuti e risistemati in modo da diventare piatti come una tavola, mentre i lati dovevano formare un rettangolo perfetto. I cuscini, se ce n'erano, dovevano essere disposti sopra i pagliericci e sistemati in modo da formare un cubo perfetto. Tanto il cuscino quanto il pagliericcio dovevano essere ricoperti da una copertina a quadretti bianchi e blu. Questi quadretti erano molto piccoli e la coperta doveva essere disposta in modo che essi fossero esattamente allineati, sia orizzontalmente sia verticalmente. Per rendere le cose ancor più difficili, non soltanto ogni singolo letto doveva essere rifatto a dovere, ma anche l'intera fila di letti e di pagliericci doveva essere in perfetto allineamento. Alcune S.S. si servivano di regoli e di livelli per controllare che i letti fossero stati rifatti correttamente e che i rettangoli fossero perfettamente allineati, altre sparavano attraverso la fila dei letti per vedere che questi fossero assolutamente piatti.
Se il giaciglio di un prigioniero non era rifatto alla perfezione, egli veniva punito severamente; se alcuni letti della stessa baracca erano mal rifatti, l'intera comunità doveva subire pene severe. Alla paura di essere puniti si aggiungeva la pressione degli altri che temevano di esser puniti anche loro se i letti o gli armadietti altrui non venivano messi perfettamente in ordine. Di conseguenza, rifare il proprio letto era una delle pene che angosciavano di più il prigioniero, perché sia al lavoro, sia nell'intervallo del riposo, egli non poteva mai essere sicuro che durante il giorno qualcuno non toccasse inavvertitamente o con malizia il suo letto, che un granello di polvere non ci cadesse sopra, o che i quadretti della coperta non fossero bene allineati, e quindi di non essere passibile di punizione. Oppure egli poteva aver visto un altro prigioniero rifare male il proprio letto e temere che l'intera comunità dovesse farne le spese.
Molti prigionieri che non impararono mai a rifarsi il letto dovevano compensare quotidianamente con denaro, lavoro o cibo quelli che si assumevano l'incarico di rifare oltre al proprio anche il loro letto. In generale, a causa della fretta con la quale si dovevano sbrigare queste faccende, i prigionieri appartenenti a camerate non bene organizzate dovevano sempre scegliere quale dei loro bisogni e doveri fosse da eliminare o trascurare.
Questa costrizione non era che un espediente in più per obbligare gli uomini a lavorare con una precisione meccanica, come automi, incalzandosi l'un l'altro con velocità ed efficienza. Ciò impediva non solo di pensare, ma di fare quello che c'era da fare secondo un ritmo e un ordine scelti personalmente. Tutte le attività erano regolate dall'esterno per impedire ogni autonomia da parte dei prigionieri.
Perdere alcuni minuti di più a lavarsi significava di solito perdere la possibilità di lavarsi i denti, di bere il caffè del mattino o di servirsi della latrina. Dover rifare di nuovo il letto perché la prima volta non ci si era riusciti significava quasi sempre andarsene senza lavarsi e senza avere preso il caffè.
Nessun prigioniero poteva servirsi della latrina o dei lavandini dopo che era passata la prima mezz'ora; e solo parecchie ore più tardi avrebbe avuto il permesso di servirsene di nuovo. Era perciò assolutamente necessario evacuare prima di aver lasciato le baracche. Una media di 6-8 latrine doveva servire dovunque per i bisogni di 100-300 uomini, quasi tutti sofferenti di disturbi gastrointestinali a causa dell'alimentazione. I prigionieri che avevano appena finito di lottare per rifarsi il letto si accanivano ora contro quelli che davano l'impressione di riposarsi sulle latrine. Neppure il fatto di essere costretti a osservarli mentre evacuavano aumentava la loro buona disposizione verso costoro. Così cominciava il nuovo giorno.
Prima che il sole fosse ancora sorto, la lotta di tutti contro tutti era già scoppiata, con le tensioni, le umiliazioni, le depressioni che essa portava con sé. I prigionieri vi erano stati costretti prima ancora che una sola guardia fosse entrata nel campo. Lontana e invisibile l'S.S. li aveva già ridotti a una massa di gente frustrata per la propria impotenza e incapace di controllare la propria rabbia.
- Bersagli per la rabbia.
Dirigere uno qualsiasi di questi sentimenti rabbiosi contro l'oggetto giusto, cioè contro le S.S. o contro i capi, equivaleva a un suicidio. Perciò non si poteva far altro che deviarli. Alcuni rivolgevano i loro sentimenti aggressivi contro il mondo esterno. Ma questo offriva loro uno scarso sollievo, perché non potevano raggiungere in alcun modo questo mondo esterno, psicologicamente distante ed emotivamente remoto.
Quando questa loro rabbia si dirigeva contro i compagni, essa non poteva che creare nuovi sentimenti aggressivi, per la ristrettezza della cerchia in cui i prigionieri erano costretti a vivere. Nella maggior parte dei casi, ciò era accompagnato altresì da un senso di colpa, perché ogni prigioniero sapeva che gli altri soffrivano quanto lui. Ogni volta che l'ostilità era diretta contro qualcuno, si creavano in lui nuovi sentimenti aggressivi che in qualche modo egli doveva scaricare per non essere costretto a rivolgerli contro se stesso. Non c'era energia sufficiente per sublimarli o per integrare tutta questa ostilità. Essa poteva essere repressa, e alcuni cercavano di farlo, ma la repressione richiedeva una dose eccessiva di energie e di determinazione. Anche quando queste virtù non fossero mancate, si esaurivano presto a causa del bisogno continuo di reprimere la furia e l'esasperazione che, senza fine, si accumulavano in ognuno.
Questa crescente necessità di scaricare i propri sentimenti aggressivi può spiegare, in parte, le violenze dei prigionieri verso i compagni, la lotta fra le varie fazioni, la crudeltà contro le spie, e anche i maltrattamenti dei prigionieri da parte dei "kapo", sia durante il lavoro sia nelle baracche.
Un solo sfogo restava più o meno aperto: l'aggressione contro i gruppi di minoranza. All'inizio, questi gruppi erano soltanto quelli degli Ebrei; ma, in seguito, ad essi si aggiunsero gli appartenenti a nazionalità straniere. Il vantaggio era che questi gruppi non potevano respingere l'aggressione con una contro-aggressione. I prigionieri tedeschi, tuttavia, dovevano giustificare di fronte a se stessi il proprio comportamento. Non potevano certo accettarne la vera ragione, cioè che le minoranze non potevano vendicarsi, vivendo in condizioni molto peggiori di quelle dei prigionieri tedeschi. Essi razionalizzavano allora il proprio comportamento facendo propri gli atteggiamenti delle S.S. nei riguardi della questione razziale.
- Proiezioni.
L'aggressione contro le minoranze non era uno sfogo aperto a tutti i prigionieri, sia perché alcuni di loro appartenevano a queste stesse minoranze, sia perché altri non potevano accettare un comportamento simile né nelle S.S. né in loro stessi. Per costoro, l'unico sfogo possibile era di proiettare questi sentimenti aggressivi sulle S.S. stesse. Così scaricavano una parte della loro ostilità e nello stesso tempo si proteggevano dalla tentazione di aggredire realmente un nemico di cui erano costretti ad accentuare la già schiacciante superiorità. Era questo un modo di difendersi del tutto inefficace, paragonabile agli sforzi di un folle che cerca di dominare le pressioni interne esternandole.
Psicologicamente, l'idea dell'onnipotenza delle S.S., idea della quale essi avevano bisogno per controllarsi, avrebbe potuto essere distrutta soltanto se confrontata con la realtà; questo confronto, tuttavia, doveva essere evitato ad ogni costo. Ogni tentativo di provare l'effettiva pericolosità delle S.S., infatti, avrebbe messo a repentaglio la loro vita.
La combinazione tra fantasia e realtà, e la loro azione reciproca, dunque, facevano sì che difficilmente molti prigionieri potessero sfuggire alle tendenze psicotiche che mettevano in moto. Le fantasie traevano origine da timori infantili e dalle reazioni rabbiose del prigioniero che si vedeva costretto a condurre una vita infantile: egli proiettava queste reazioni nell'immagine fittizia che si faceva delle S.S.. La realtà, che rafforzava queste immaginazioni, era costituita dall'effettiva strapotenza delle S.S.. Impotenza reale, necessità di bloccare ogni impulso di rivincita, e bisogno di rifugiarsi in una forma qualsiasi di narcisismo, erano i motivi che giustificavano la creazione di questa immagine fittizia del persecutore. (14)
Molti studiosi del fenomeno della discriminazione razziale sanno che spesso la vittima reagisce alle azioni dell'aggressore in modi altrettanto indesiderabili. Questo aspetto del problema, però, viene in generale trascurato, sia perché è sempre più facile scusare uno che si difende che non uno che offende, sia perché si sostiene che, appena l'aggressione cessa, cessa anche la reazione della vittima. Ma io dubito che questo sia veramente un buon servizio reso al perseguitato. Il suo interesse principale è che la persecuzione cessi. Ma è più difficile che questo accada, se egli non riesce a raggiungere una reale comprensione del fenomeno della persecuzione, in cui vittima e persecutore sono indissolubilmente legati.
Vorrei qui dare un esempio che conferma quanto ho detto. Nell'inverno del 1938 un ebreo polacco assassinò l'"attaché" militare tedesco a Parigi, von Rath. La Gestapo colse il pretesto per dare inizio a una violenta campagna antisemita, e ai prigionieri ebrei nei campi di concentramento vennero inflitte nuove privazioni; una di queste fu l'ordine che li escluse dagli ospedali, a meno che le cure non si rendessero necessarie per infortuni sul lavoro.
Quasi tutti i prigionieri soffrivano di geloni, che spesso degeneravano in cancrene e rendevano necessaria l'amputazione. Il permesso di servirsi dell'ospedale per prevenire una tale disgrazia dipendeva dal capriccio di una determinata S.S. All'ingresso dell'ospedale, infatti, il prigioniero spiegava la natura del suo male all'S.S. di guardia, che decideva se il prigioniero potesse essere o no ammesso alle cure.
Anch'io soffrivo di geloni. Il destino di altri prigionieri ebrei i cui tentativi avevano ottenuto solo nuovi maltrattamenti mi aveva sconsigliato di cercare di entrare in ospedale. Ma, poiché le mie condizioni peggioravano, temetti che se avessi aspettato ancora avrei finito col rendere necessaria l'amputazione. Decisi perciò di tentare.
Quando arrivai all'ospedale trovai molti prigionieri che, in fila, aspettavano il loro turno; come al solito, in parte erano Ebrei sofferenti di gravi geloni. L'argomento principale della conversazione era l'esame delle probabilità che si avevano di essere ammessi all'ospedale. La maggior parte degli Ebrei aveva elaborato piani di attacco particolareggiati. Alcuni pensavano che fosse meglio mettere in evidenza il servizio prestato nell'esercito tedesco durante la prima guerra mondiale, le ferite ricevute o le decorazioni meritate. Altri pensavano di ispirare compassione per la gravità dei loro geloni. Alcuni decisero che fosse meglio raccontare qualche «storiella», come, per esempio, che un ufficiale delle S.S. aveva loro ordinato di presentarsi all'ospedale.
La maggior parte di loro sembrava convinta che l'S.S. di servizio non avrebbe scorto la verità attraverso i loro sotterfugi. Mi chiesero poi quali fossero i miei piani. Non avendone alcuno, dissi che io mi sarei limitato a osservare il comportamento che la guardia avrebbe assunto nei confronti degli altri prigionieri ebrei che come me soffrivano di geloni, e che mi sarei comportato di conseguenza, dato che era difficile anticipare le reazioni di una persona che non si conosceva.
Gli altri reagirono come avevano fatto tutte le altre volte che avevo espresso idee simili sulla maniera di comportarsi con le S.S. Insistevano a dire che un'S.S. valeva l'altra, essendo tutte egualmente crudeli e stupide. Come al solito, ogni frustrazione era immediatamente scaricata sulla persona che ne era la causa, o che era a portata di mano. E, difatti, in termini ingiuriosi mi accusarono di non volerli mettere al corrente dei miei piani, o di volermi servire di uno dei loro; la cosa che li irritava maggiormente era che io intendessi affrontare il nemico senza essermi preparato.
Nessun ebreo di quelli che mi precedevano nella fila venne ammesso all'ospedale. Quanto più un prigioniero implorava, tanto più l'S.S. si seccava e diventava violenta. Le espressioni di dolore lo divertivano e le storie di precedenti servigi resi alla Germania l'offendevano. Egli osservava orgogliosamente che lui non si sarebbe lasciato prendere in giro dagli Ebrei, che fortunatamente era passato il tempo in cui gli Ebrei potevano raggiungere i loro scopi coi loro piagnistei.
Quando venne il mio turno, mi chiese con voce aspra se non sapevo che gli incidenti di lavoro erano la sola ragione per cui gli Ebrei potessero essere ammessi all'ospedale, e se io fossi venuto a causa di un incidente di lavoro. Risposi che conoscevo le regole, ma che non potevo lavorare fin quando le mie mani non fossero state ripulite dalla carne morta. Poiché ai detenuti non era permesso di avere coltelli, io chiedevo che mi si asportasse la carne morta. Cercai di dirlo in modo naturale, evitando sia di implorare sia di mostrare deferenza o arroganza. Egli rispose: «Se questo è tutto quello che vuoi, ti strapperò la carne io stesso». E cominciò ad asportare la carne incancrenita, poiché non veniva via tanto facilmente, come forse egli aveva creduto, oppure per qualche altra ragione, mi fece entrare nell'ospedale.
Là, dandomi un occhiata malevola, mi spinse nella sala di medicazione, e disse al prigioniero inserviente di occuparsi della mia ferita. Mentre questi obbediva, la guardia mi osservava attentamente cercando di scoprire segni di dolore, che io fui tuttavia capace di reprimere. Appena l'operazione fu finita, mi accinsi a partire. Egli si mostrò sorpreso, e mi chiese perché non aspettassi anche le altre cure. Io risposi che avevo ormai ottenuto il servizio che avevo chiesto; allora egli disse all'inserviente di fare un'eccezione e di medicarmi la mano. Quando uscii dalla sala, mi richiamò e mi consegnò una carta che mi dava diritto ad altre medicazioni e a entrare in ospedale senza che all'ingresso fossero necessari ulteriori controlli.
- La vittima.
Questo incidente può servire come punto di partenza per discutere certi aspetti della discriminazione contro le minoranze che, data la sua diffusione nei campi, va intesa come una forma di difesa psicologica.
All'origine di questo tipo particolare di difesa esiste, ovviamente, una differenza molto importante tra l'aggressore e la vittima. Come molti hanno osservato, l'aggressore si difende principalmente contro pericoli che hanno origine in lui stesso. La vittima, con la sua reazione, si difende principalmente contro pericoli che hanno origine nell'ambiente, cioè contro la minaccia di persecuzione. Ma, con l'andare del tempo, anche le sue reazioni difensive si sviluppano più in funzione di motivi interiori che non della pressione esterna, anche se l'individuo continua a pensare che esse siano causate dall'aggressione esterna. Poiché entrambe le parti agiscono ora sotto la spinta di fattori interiori, piuttosto che sotto quella della realtà esterna, diventa comprensibile che le loro reazioni abbiano significativi aspetti in comune.
Per esempio, tanto gli Ebrei quanto le S.S. si comportavano come se dentro di loro operassero meccanismi psicologici paragonabili a deliri paranoici. Credevano entrambi che i membri dell'altro gruppo fossero sadici, privi di inibizioni, stupidi, di razza inferiore e sessualmente pervertiti. Entrambi i gruppi si accusavano di dare importanza soltanto ai beni materiali e di non avere alcun rispetto per i valori ideali o morali o intellettuali. Non era difficile trovare in ciascuno dei due gruppi individui il cui comportamento giustificava tali convinzioni. Ma questa strana somiglianza indica che entrambi i gruppi si servivano di meccanismi di difesa analoghi. Inoltre, i membri di ciascuno dei due gruppi giudicava quelli dell'altro in base a un'idea stereotipata e non era perciò in grado di valutare realisticamente una determinata persona dell'altro gruppo, e con ciò stesso la propria situazione. Disgraziatamente, per i membri dei gruppi di minoranza, nel mio caso gli Ebrei, la chiarezza di giudizio sarebbe stata più che mai necessaria.
Durante la mia esperienza nel campo, fui impressionato dalla constatazione che la maggior parte dei prigionieri non volesse accettare il fatto che il nemico consisteva di individui diversi, e non di altrettante repliche di uno stesso tipo. Pure, il contatto diretto con le S.S. avrebbe dovuto metterli in grado di riconoscere le grandi differenze individuali. Gli Ebrei si rendevano perfettamente conto che le S.S. si erano fatte un'idea stereotipata e senza fondamento dell'Ebreo, per poi pretendere che tutti gli Ebrei fossero esattamente così. Gli Ebrei, d'altra parte, pur sapendo benissimo che quella rappresentazione era falsa, quando pensavano alle S.S. usavano lo stesso tipo di semplificazione.
Siamo dunque costretti a chiederci perché i prigionieri non riuscissero ad accettare l'idea che tra le S.S. esistessero differenze individuali. Se all'ingresso dell'ospedale, quando facevano i loro piani, trascuravano l'individualità del soldato di guardia, era perché un qualche meccanismo psicologico glielo impediva. La loro violenta reazione al fatto che io non mi ero preoccupato di decidere preventivamente una linea di condotta ci offre la chiave necessaria per capirlo.
Sembrava che i detenuti traessero sicurezza e una specie di sollievo emotivo da questi loro piani precostituiti, più o meno elaborati, che si fondavano tutti sulla premessa che ogni S.S. reagisse come tutte le altre. Qualsiasi comportamento che mettesse in dubbio la loro idea stereotipata delle S.S. suscitava il timore che i loro piani potessero non avere successo. Senza di essi, i prigionieri avrebbero dovuto affrontare indifesi una situazione pericolosa, affranti dall'angoscia dell'ignoto. Non volendo né potendo sopportare tale angoscia, cercavano di convincersi di poter prevedere la reazione dell'S.S. e, di conseguenza, di poter elaborare il proprio piano secondo la reazione da loro ipotizzata. La mia intenzione di avvicinare l'S.S. come individuo rappresentava una minaccia per la loro sicurezza illusoria, e la violenta collera manifestata contro di me diventa comprensibile come reazione a questa minaccia.
Certo, non era solo per vincere l'angoscia che i prigionieri pensavano alle S.S. secondo idee stereotipate, ma anche per altri scopi egualmente importanti. Per esempio, la loro visione stereotipata comprendeva, tra l'altro, l'idea che le S.S. avessero scarsa intelligenza, poca educazione, basso livello culturale e sociale. Queste caratteristiche vere per alcune di loro, i prigionieri le attribuivano a tutte, perché altrimenti non avrebbero potuto digerire tanto facilmente il disprezzo che le S.S. nutrivano per loro. Quello che pensa di noi una persona stupida o immorale può essere facilmente ignorato. Ma se quelli che pensano male di noi sono persone intelligenti e oneste, la nostra autostima risulta minacciata. Così, a prescindere dalla realtà, l'aggressore doveva essere considerato stupido perché il prigioniero potesse conservare un minimo di rispetto di sé.
Disgraziatamente i prigionieri erano alla mercé delle S.S. E' già abbastanza dannoso per il proprio rispetto di sé doversi umiliare, peggio ancora dover strisciare davanti a una persona che si disprezza. I prigionieri perciò si trovavano di fronte a un dilemma. O le S.S. erano almeno pari a loro, ad esempio, per intelligenza, e in tal caso le loro accuse dovevano essere prese in considerazione come opinioni di persone dotate di discernimento, oppure le S.S. erano stupide, e le loro accuse si potevano trascurare. Ma in questo caso i prigionieri dovevano considerarsi sottoposti a individui assai inferiori a loro. Per il rispetto di se stessi non potevano ammettere una cosa del genere, soprattutto perché molte pretese delle S.S. erano irragionevoli e amorali. Ma il fatto stesso di dover obbedire agli ordini delle S.S. rendeva queste ultime superiori a loro in ciò che essi avevano in minor dose, e cioè in potere effettivo.
I prigionieri risolvevano questo conflitto pensando che sotto un certo aspetto le S.S. erano superiori a loro, anche se dovevano essere considerate di molto inferiori intellettualmente e moralmente. Le consideravano come avversari onnipotenti e sostenevano che non erano nemmeno esseri umani. Poiché investivano le S.S. di caratteristiche non umane, diventava possibile sottomettersi ad esse senza sentirsi degradati. Perciò potevano ammettere, senza perdere il rispetto di sé, di non essere in grado di combattere contro una brutalità disumana, ovvero contro una congiura onnipotente.
All'interno dei campi, i contatti personali fra prigionieri e S.S. erano frequenti, ma non tali da permettere una reale comprensione di quello che avveniva nella mente delle guardie. Per cercare di comprenderne il comportamento, i prigionieri dovevano ripiegare sulle loro proprie esperienze. Il solo modo in cui potevano spiegarsi e capire le azioni delle S.S. era di imputar loro le motivazioni che essi conoscevano fin troppo bene, di proiettare cioè sull'immagine stereotipata che si facevano delle S.S. la maggior parte delle proprie motivazioni e caratteristiche più deprecabili. Proiettando sulle S.S. tutto quello che essi consideravano malvagio, facevano sì che queste diventassero ai loro occhi sempre più potenti e minacciose. Ma un tale processo di proiezione impediva loro di trarre vantaggio dalla possibilità di considerare le S.S. come persone reali, e li costringeva a vedere in esse soltanto degli "alter ego" di pura malvagità.
Perciò l'S.S. era sempre più crudele, più assetata di sangue, più pericolosa di qualsiasi altra persona. Molte di loro erano veramente pericolose, alcune crudeli, ma soltanto una minoranza era veramente perversa, stupida, assetata di sangue e omicida. Accettavano di uccidere, è vero, e di fare del male quando veniva loro ordinato, o quando pensavano che i loro superiori lo volessero, mentre la figura stereotipata della S.S. era sempre, in qualsiasi circostanza, un omicida assetato di sangue.
Da questo atteggiamento mentale derivava perciò un timore delle S.S. che in molte occasioni era veramente esagerato e ingiustificato. La maggior parte dei prigionieri evitava ad ogni costo di aver contatti con loro, correndo spesso gravi rischi. Per esempio, quando ricevevano l'ordine di presentarsi davanti a un'S.S., alcuni erano così terrorizzati che cercavano di nascondersi. Per il fatto di essere scappati venivano sempre puniti duramente, spesso addirittura uccisi. Quando invece si presentavano, la punizione che ricevevano non era mai altrettanto terribile.
Uno strano effetto di questo atteggiamento dei prigionieri era che, anche quelli che si suicidavano, prima di farlo non tentavano mai di uccidere una guardia. Ciò dipendeva in parte dal fatto che, come più tardi nei campi di sterminio, i prigionieri erano stati completamente soggiogati da questa immagine stereotipata delle S.S. (a questo proposito si veda anche il capitolo sesto), ma soprattutto dal fatto che avevano perso ogni interesse alla vita, ogni forza di vivere, e mancavano perfino dell'energia per vendicarsi.
L'economia psichica richiede che le tendenze verso la compensazione e la difesa trovino espressione in una singola struttura psicologica, invece che in diverse strutture coordinate. L'immagine stereotipata di questa S.S. fittizia si prestava bene a tale scopo. La creazione dell'immagine stereotipata rendeva la necessaria sottomissione dei prigionieri meno dannosa per il loro narcisismo, e permetteva di identificarsi supinamente con la grande potenza delle S.S. Il prigioniero poteva godere della limitata sicurezza che accompagna una sottomissione totale e, in maniera indiretta, poteva perfino partecipare di questa loro potenza.
Mutuando questo potere per mezzo di una introiezione di tipo psicotico gli internati potevano soddisfare, precariamente e per un tempo limitato alcuni loro bisogni narcisistici. D'altro lato, però, l'energia vitale da consumarsi in questi meccanismi psicologici i prigionieri l'attingevano in gran quantità dalla loro riserva globale di energia, e proprio in un momento in cui ne avrebbero avuto maggiormente bisogno per padroneggiare la realtà circostante o per lottare contro il nemico.
- Il persecutore.
Anche agli occhi del persecutore la vittima appare molto più pericolosa di quanto in realtà non sia. Le S.S., esteriorizzando le proprie tendenze indesiderabili e proiettandole su un'immagine stereotipata, per esempio l'immagine dell'Ebreo, cercavano di liberarsi dei propri conflitti interiori. L'antisemita non teme questo o quell'ebreo in quanto individuo, che è per lui relativamente insignificante, ma l'immagine stereotipata dell'Ebreo, su cui egli scarica tutto il male che ha in sé. Quanto siano pericolose e potenti queste sue pulsioni egli lo sa fin troppo bene. Un'enumerazione degli aspetti tipici che le S.S., per esempio, ascrivevano all'Ebreo, ci dà una certa idea degli aspetti che esse cercavano di negare in se stesse. Invece di combattere queste qualità dentro di sé, le combattevano perseguitando gli Ebrei.
La forza di queste pulsioni tanto deprecabili è importante per misurare la violenza della persecuzione. L'equilibrio fra i due meccanismi è assai precario: ogni progresso sulla via della proiezione minaccia di distruggere il risultato della rimozione. L'S.S. antisemita era costretta a considerare l'Ebreo come una persona pericolosissima, e così facendo si serviva di meccanismi psicologici molto simili a quelli di cui si servivano i prigionieri per crearsi un'immagine distorta delle S.S.
Le S.S. non potevano certamente ammettere a se stesse che stavano conducendo una guerra di sterminio contro una minoranza impotente. Allo scopo di giustificare il modo con cui trattavano i prigionieri, dovevano credere in una congiura potente e minacciosa contro lo Stato di Hitler (di cui le S.S. erano parte integrante) da parte dei gruppi di persone internate nei campi. La loro autogiustificazione presentava perciò l'aspetto di un'accusa, che, nella sua forma più moderata, comportava una diffusa credenza nell'inferiorità razziale delle minoranze che si temeva contaminassero i persecutori. La sua forma più spinta invece era la convinzione, propria delle S.S., che esistesse una congiura internazionale della plutocrazia ebraica per distruggere la Germania.
Non esisteva alcuna prova tangibile dell'esistenza di questa potente organizzazione, perché gli Ebrei non avevano assoldato truppe, non avevano flotte, non occupavano posti di rilievo nei governi delle grandi nazioni. Si doveva di conseguenza postulare l'esistenza di una organizzazione segreta. E questo è esattamente ciò che avvenne. I meccanismi deliranti che caratterizzavano quel tipo di persecuzione sono evidenti. Nella pretesa che esista un complotto segreto, il modo di pensare dell'antisemita è paragonabile al modo di razionalizzare proprio del paranoico, il quale adduce il fatto che gli altri non riconoscono l'esistenza dei suoi nemici come prova dell'astuzia di questi ultimi.
Quanto più sono violente le azioni del persecutore tanto maggiore diventa per lui la necessità di giustificarle credendo nella pericolosa potenza della vittima. Quanto più grande è questa presunta potenza, tanto più cresce nel persecutore l'angoscia, la quale, anzi lo spinge ad azioni sempre più violente. Così, anche ii persecutore è irretito nel circolo vizioso del suo sistema delirante. Questa può essere una delle ragioni per cui la persecuzione, una volta scatenatasi, prosegue per forza intrinseca.
Altre ragioni ancora rendevano i prigionieri ebrei bersagli particolarmente idonei sui quali proiettare i propri desideri repressi. La proiezione è il risultato di un conflitto interiore. I desideri la cui rimozione non è riuscita, e che perciò devono essere proiettati, sono un «nemico interno» della personalità. Per questa ragione l'Ebreo era molto più adatto di qualsiasi altro nemico esterno. Egli era il nemico che viveva inserito nella struttura della società, senza essere in essa perfettamente integrato. Il parallelo tra questa situazione instabile e le tendenze pulsionali che, pur facendo parte della personalità di un soggetto, sono tuttavia disapprovate dalla coscienza, è senza dubbio molto interessante.
Assai rivelatrici, sotto questo aspetto, sono alcune caratteristiche che spesso gli antisemiti (e non soltanto le S.S.) attribuiscono agli Ebrei, e delle quali si servono poi per giustificare il fatto di non amarli. Essi sostengono che gli Ebrei sono servili, falsi e che si fanno avanti agendo nell'ombra. Queste caratteristiche si possono bene applicare al modo in cui le tendenze pulsionali cercano di travolgere le forze della rimozione. Nel loro desiderio di trovare soddisfazione, esse «premono» contro la coscienza dell'individuo, cercando di costringerla a non bloccarle. Se la coscienza o il rispetto di sé impediscono la loro soddisfazione diretta, le tendenze asociali o disapprovate dalla coscienza possono tuttavia essere soddisfatte in maniera indiretta; per esempio, «mettendo nel sacco» la coscienza nei momenti di minor vigilanza, come nei casi di aprassia. Alcuni dei modi in cui queste tendenze respinte dalla coscienza trovano soddisfazione possono essere chiamati a buon diritto sotterranei o ipocriti.
L'esempio dell'ufficiale S.S. di servizio all'ingresso dell'ospedale può servirci di nuovo per spiegare, questa volta, perché abbia trattato me in maniera diversa dagli altri. Non possiamo certo affermare con sicurezza quali fossero veramente i meccanismi psicologici che operavano in lui; nondimeno, si può legittimamente presumere che ogni qual volta gli Ebrei lo avvicinavano agendo in base alla loro immagine stereotipata dell'S.S., egli li trattava in base alla sua immagine stereotipata degli Ebrei. Egli era stato indotto a credere che gli Ebrei fossero tutti codardi, imbroglioni e subdoli profittatori dei Gentili. Sapeva anche che quei prigionieri volevano entrare in ospedale e cercavano di persuaderlo a permetterglielo, nonostante gli ordini contrari. I loro sforzi per persuaderlo raccontando storie non plausibili confermavano le sue aspettative. Egli si aspettava che gli Ebrei avrebbero pianto e implorato il suo aiuto, cercando segretamente di indurlo a violare le norme. Avvicinarsi a lui con una storia che era chiaramente inventata significava conformarsi alle sue aspettative.
L'immagine stereotipata dell'«astuto ebreo» è una creazione dell'antisemita. Un ebreo che agiva in conformità con questa immagine non poteva non cercare di imbrogliare l'S.S. e, psicologicamente, ciò avrebbe significato che l'S.S. sarebbe stata imbrogliata dalla sua stessa idea stereotipata. Ma si proiettano le proprie cattive tendenze proprio per liberarsi di esse e sentirsi più sicuri. Una proiezione che sopraffà il suo autore ne aumenta l'impotenza, invece di recargli un senso di maggior sicurezza. Questa è la ragione per cui l'S.S. reagiva con tanta violenza ai tentativi degli Ebrei per persuaderla a lasciarli entrare in ospedale.
E' probabile inoltre che l'S.S. sapesse di essere meno intelligente di alcuni dei prigionieri, e perciò si sentiva offesa dal fatto che inventassero storie intelligenti. L'intelligenza di queste storie era una minaccia al suo orgoglio: egli doveva quindi provare a se stesso che un intelletto superiore al suo non otteneva niente. Quando gli Ebrei facevano appello alla sua compassione, la minaccia al suo carattere era ancora più forte. Per conformarsi all'S.S. ideale, egli doveva eliminare dal suo animo ogni sentimento umanitario. Chiunque cercasse di suscitare la sua compassione attentava alla sua qualità di ufficiale delle S.S.
Anche questo era esattamente ciò che lui si aspettava: che i prigionieri ebrei volessero mettere in pericolo la sua qualità di S.S. Soltanto chi abbia visto la violenta reazione di una persona cui venga improvvisamente chiesto di cedere a un desiderio represso può pienamente intendere l'angoscia che una tale pretesa poteva determinare nell'S.S. che sentisse una qualche compassione per le sue vittime. Il grado della sua angoscia poteva essere misurato dall'aggressività che rivolgeva contro le persone che cercavano di muoverlo a compassione. Era questa violenza la cosa che, più di ogni altra, rivelava che nella sua intimità più profonda egli nutriva sentimenti più umani, che poi cercava di reprimere e di negare attraverso un'aperta crudeltà.
E' forse opportuno fare qui un'osservazione di carattere generale sulla crudeltà delle S.S. L'S.S. veramente sadica godeva a infliggere la pena, o almeno a dare una prova attiva del suo potere di infliggerla, e gli appelli alla sua compassione aumentavano grandemente tale godimento. Ma poiché godeva del comportamento del prigioniero non aveva ragione di essere ancora più crudele con lui: tutto quello che l'S.S. voleva era che il prigioniero continuasse a darle soddisfazione, e perciò continuava a maltrattarlo. Quando invece un'S.S. faceva solo quello che considerava il proprio dovere, ed era di conseguenza soggetta a lamenti intesi a suscitare la sua compassione, diventava furiosa. La faceva arrabbiare il fatto di essere trascinata dal prigioniero in un tumulto interiore, in un conflitto fra il desiderio di fare il proprio dovere e la sensazione di agire male maltrattandolo, ed era questo che la faceva arrabbiare; cercava dunque di eliminare il conflitto, e allo stesso tempo di scaricare la sua ira, diventando più crudele. Quanto più un prigioniero cercava di toccare il cuore di un'S.S. tanto più questa si adirava, e tanto più facilmente la sua rabbia cercava di scaricarsi in maltrattamenti.
Non facendo nulla per muovere a compassione l'S.S. di servizio all'ingresso dell'ospedale io non la costrinsi ad affrontare questo conflitto interiore. Non tentando di metterla nel sacco ostentando la mia superiorità intellettuale, non risposi alle sue aspettative. Ammettendo di conoscere le regole la rassicurai che non cercavo affatto di ingannarla. Non raccontando alcuna storia complicata le dimostrai che non pensavo minimamente che la si potesse ingannare con facilità. Un comportamento siffatto, semplice e naturale, era l'unica cosa accettabile per un soldato delle S.S. Respingere un prigioniero che si comportava così avrebbe significato rifiutare il proprio ordine di valori, il suo stesso modo di agire e di pensare. Questo l'ufficiale delle S.S. non poteva farlo, né pensava di doverlo fare. Poiché il mio comportamento non corrispondeva a quello che egli si aspettava da parte di un prigioniero ebreo (aspettativa fondata sulla sua proiezione) egli non poté servirsi del suo sistema difensivo precostituito contro la possibilità di lasciarsi commuovere dalle condizioni del prigioniero. Poiché non mi comportavo come si aspettava che si sarebbe comportato il pericoloso ebreo che io dovevo essere, non feci scattare il meccanismo fatto di paure e di angosce connesso con la sua idea stereotipata, benché continuasse a non fidarsi affatto di me e perciò sentisse il bisogno di tenermi d'occhio per tutto il tempo della medicazione.
Combattuto fra questi sentimenti, l'ufficiale delle S.S. si sentiva a disagio nei miei confronti, anche se non scaricava su di me il fastidio che questo disagio gli procurava. Forse mi osservava con tanta attenzione perché si aspettava che prima o poi ci sarei cascato e mi sarei comportato come egli si aspettava sulla base della sua immagine proiettiva dell'Ebreo. Ciò avrebbe significato che la sua creazione delirante era diventata reale.
Agire in conformità con le sue aspettative deliranti sul comportamento dell'Ebreo significava minacciarlo del panico che noi tutti proviamo quando il nostro pensiero magico improvvisamente diventa realtà. In tal caso egli sarebbe stato costretto a difendersi contro il terribile potere che originariamente aveva proiettato su quell'immagine. Non c'è niente di più minaccioso di un'immagine delirante che improvvisamente prende corpo e ci si presenta nella sua realtà. Non si deve infatti dimenticare che la proiezione dell'S.S. comprendeva non soltanto l'immagine dell'Ebreo astuto e codardo, ma anche quella della potentissima cospirazione ebraica internazionale, che aveva di mira la distruzione sua e di tutte le persone come lui.
Per riassumere, i rapporti personali e concreti tra i prigionieri e le S.S. finivano per essere in gran parte soltanto un urto fra idee stereotipate. Ciò si accentuava ancor più quando le S.S. avevano rapporti con prigionieri che non erano nemmeno loro connazionali, ma Ebrei, Russi o altro. Tuttavia, questa contrapposizione di sistemi deliranti impediva ogni rapporto concreto tra persone reali, e la bilancia pendeva sempre gravemente a sfavore dei prigionieri.
Come abbiamo accennato, l'altro modo di scaricare i propri sentimenti aggressivi era per i prigionieri quello di dirigerli contro il proprio io. Questa soluzione era suggerita dalle condizioni generali del campo e dagli innumerevoli espedienti escogitati dalle S.S. per raggiungere lo scopo di generare in loro atteggiamenti passivo-masochistici. Nondimeno, dirigendo questi sentimenti aggressivi contro se stessi, i prigionieri indebolivano la propria personalità al punto di essere costretti a mutuare le forze per resistere da persone dotate di prestigio. Ora, le sole persone che possedessero questa caratteristica erano le S.S. E questa era un'altra ragione per la quale gli anziani tendevano a identificarsi con loro. Come per il bambino che si identifica coi genitori, questa identificazione aiutava i prigionieri a intuire ciò che le S.S. si aspettavano da loro. Una tale intuizione e il comportamento su di essa fondato può talvolta avere salvato la vita a questo o a quel prigioniero. Ma il prezzo che tutti pagavano per questo tipo di difesa psicologica era di dovere alterare la propria personalità e il proprio volere, di conformarsi cioè proprio a quel tipo di personalità che le S.S. cercavano di ottenere.
Solo un'identificazione di questo tipo rendeva possibile ai prigionieri di conservare il proprio rispetto di sé e di ottenere indirettamente una pseudo-integrazione, quando, per esempio, stavano a guardare senza intervenire mentre altri prigionieri venivano maltrattati o uccisi. Ciò rendeva anche possibile ad alcuni di loro di prestarsi a collaborare agli esperimenti medici, e allo sterminio di molti loro compagni. Questi atteggiamenti erano poi un'altra maniera di evitare attaccamenti troppo profondi per i propri compagni, anche se c'era un disperato bisogno di vera amicizia per combattere l'isolamento emotivo.
- Amicizie.
E' interessante rilevare che solo pochissimi prigionieri (e fra questi solo quelli che si trovavano nel campo relativamente da poco) cercavano di lavorare insieme con i loro amici oppure con coloro che vivevano nelle stesse baracche. La grande maggioranza sembrava preferire la massima varietà di associazione, per evitare il pericolo di lasciarsi coinvolgere in situazioni emotive troppo forti. Fondamentalmente, la maggior parte dei prigionieri faceva una vita piuttosto solitaria, oppure si muoveva all'interno di una cerchia ristretta. Entro la propria baracca quei prigionieri che avevano ancora qualche speranza di sopravvivere avevano da tre a cinque «camerati». Questi non erano veri e propri amici, ma piuttosto compagni di lavoro e assai più spesso di miseria. Ma la miseria, mentre ama la compagnia, non genera tuttavia amicizia. Attaccamenti genuini non sbocciano negli aridi campi di esperienze alimentate soltanto da sentimenti di frustrazione e di disperazione. Al di fuori di questi camerati, gli altri non erano che conoscenti.
E, del resto, per proteggere questi sentimenti di cameratismo era molto saggio non metterli troppo spesso alla prova. Non si poteva evitare infatti che, anche con le migliori intenzioni del mondo, essi fossero messi in pericolo dalle frustrazioni continue, che si scaricavano, spesso in modo anche esplosivo, sulle persone più a portata di mano. Potersi sfogare raccontando le pene provate sul lavoro ai propri camerati nelle baracche, faceva certo bene; ma essi avrebbero poi preteso di fare altrettanto, e non era più un piacere per nessuno sentire sempre le stesse lamentele.
Dopo aver passato la sera, la notte e la mattinata nelle baracche, una persona provava sollievo quando incontrava qualche faccia nuova ed entrava in contatto con qualcuno che accettava di ascoltare le sue lamentele sui capibaracca e sulla mancanza di cameratismo fra gli uomini con i quali viveva. E, anche in questo caso, quelle persone accettavano di porgere ascolto a condizione di essere poi a loro volta ascoltate.
Tutto questo valeva tanto per i rapporti che si stabilivano nelle baracche, quanto per quelli che si stabilivano sul lavoro. Anche qui bastava un motivo di irritazione qualsiasi perché si avessero delle reazioni sproporzionate. In ogni modo, dopo dieci o più ore di lavoro forzato, ognuno era felice di non dover più vedere le stesse facce, sentire le stesse battute, ascoltare le stesse oscenità o piangere sulle stesse disgrazie. Era un sollievo rivedere facce familiari, ascoltar voci diverse da quelle che ci avevano infastidito durante il lavoro, entrare in un'atmosfera che non sembrava così tesa.
Generalmente parlando, non c'era niente di peggio che vivere in mezzo a un gruppo di pessimisti, perché era difficile per un prigioniero tenersi alto il morale se non passava le giornate e le notti con persone che cercavano di fare lo stesso sforzo. Deprimente era anche il fatto di dover ascoltare uomini le cui lamentele erano solo querimonie meschine, e che mostravano una totale incomprensione per quello che stava realmente accadendo nel campo.
Quasi sempre mancavano del tutto quelle forme di cortesia e di gentilezza che fuori del campo rendono sopportabili anche gli atteggiamenti negativi del prossimo. Raramente si sentiva un «No, grazie»; le risposte si rivestivano sempre delle forme più rudi. Non si sentiva dir altro che «Idiota!» «Va all'inferno!» «Merda!», o peggio; e non c'era bisogno di provocazioni per sentirsi rispondere così a una domanda qualsiasi. Si aspettava continuamente l'occasione propizia per dare sfogo alla frustrazione e alla rabbia, e la possibilità di esprimersi con violenza era pur sempre un sollievo. Se uno poteva offendersi, voleva dire che era ancora vivo, che non aveva ancora rinunciato a tutto e a tutti, che non era ancora diventato un «musulmano». Anche urtare i sentimenti altrui dava soddisfazione. Ciò provava che c'era ancora qualcosa che importava, qualcuno su cui poter fare effetto, anche se questo effetto era penoso. Ma così ci si avvicinava di un altro passo al modo di affrontare la vita e i suoi problemi proprio delle S.S.
- Conversazioni.
Come ogni altro aspetto del campo, anche la conversazione, quando era possibile, contribuiva a rendere sopportabile, oppure insopportabile, l'esistenza dei prigionieri. Gli argomenti di conversazione variavano a seconda delle persone, ma ce n'erano alcuni che ricorrevano continuamente: i discorsi sulla possibile liberazione (tra i nuovi arrivati) e i particolari su tutto quello che riguardava il campo (tra i prigionieri anziani). Tuttavia, l'argomento di gran lunga predominante per tutti i prigionieri, sia vecchi sia nuovi, era il cibo - ricordi del buon cibo mangiato prima di essere internati, fantasticherie su quello che avrebbero mangiato dopo la liberazione. Ore intere si perdevano in chiacchiere su quale sarebbe stato il vitto della giornata e su che cosa si sarebbe potuto comprare all'emporio del campo. Con la stessa serietà si discutevano le voci di miglioramenti del vitto. Si trattava di conversazioni interminabili nelle quali si ripetevano sempre le stesse cose. Era come se il miraggio del cibo riuscisse a calmare lo stomaco del prigioniero e a placare il suo vuoto tremendo. (15)
Queste fantasticherie infantili e inconsistenti aggravavano la disgregazione della personalità. Chi era stato particolarmente orgoglioso dei propri vasti interessi sentiva quant'era umiliante doversi preoccupare così tanto del cibo, e per combattere questa sensazione, oltre che per sfuggire alla noia, si sforzava in tutti i modi di suscitare una conversazione intelligente. Ma la mancanza di stimoli esterni e le condizioni disperate e deprimenti in cui si viveva esaurivano ben presto tali risorse intellettuali.
C'erano poi gruppi nei quali ci si raccontava continuamente le stesse storie, irritando l'ascoltatore o intorpidendo il suo intelletto fino a istupidirlo. Anche nei gruppi ai quali erano stati assegnati lavori comodi, come quello di rammendare calze, per esempio, e che quindi potevano starsene seduti in un ambiente abbastanza confortevole facendo tranquillamente un lavoro facilissimo, era una giornata buona se due persone riuscivano a parlare di qualcosa che avesse un interesse genuino e che risollevasse lo spirito dei presenti per qualche ora.
Persone che in passato si erano procurate un bagaglio immenso di nozioni e il cui campo d'interessi era stato vastissimo, si stancavano presto di parlarne con gli altri (e lo stesso avveniva ai loro ascoltatori) se una discussione di medicina o di storia veniva interrotta dalla notizia che all'emporio del campo erano arrivate delle sardine o delle mele. Dopo che una persona aveva subìto questa esperienza per diverse volte, si rendeva conto che il cibo era molto più importante per tutti (anche per lui, doveva ammetterlo tacitamente) che non il lavoro di tutta la sua vita, e a poco a poco finiva col non parlarne più.
A causa di queste esperienze, e dell'atmosfera deprimente in cui si doveva vivere, gli argomenti di conversazione più intelligenti si esaurivano o diventavano noiosi dopo due o tre settimane passate in mezzo alla stessa gente. Diventavano allora deprimenti in se stessi, perché ciò che per anni aveva mantenuto vivo l'interesse del prigioniero sembrava a un tratto aver perso ogni importanza. Talvolta, uno sentiva il bisogno di parlare di sua moglie e dei suoi bambini, ma improvvisamente e bruscamente gli si diceva di chiudere il becco, perché il suo discorso faceva nascere un'insopportabile nostalgia in qualcuno degli ascoltatori. Questi e altri fattori restringevano di molto il campo della conversazione, e i prigionieri si rendevano presto conto che essa non era più una difesa contro la noia e la depressione, ma si riduceva a un'esperienza ancora più disintegrante. Ciò nonostante restava sempre il miglior passatempo del campo.
- L'equilibrio del potere.
Eppure, la storia dei vari tipi di difesa dei prigionieri contro il campo di concentramento non fu interamente una storia di sforzi deliberati per proteggere se stessi dal pericolo di essere stravolti nel proprio contrario. Alcune amicizie riuscirono a formarsi nonostante condizioni estremamente avverse. I prigionieri cercavano di incoraggiarsi l'un l'altro a leggere, a scambiarsi le idee e ad apprendere l'uno dall'altro, nel tentativo di salvaguardare il proprio rispetto di sé.
I tentativi di proteggere gli amici organizzandosi e collaborando con le S.S. sono stati presentati nei loro aspetti negativi; dobbiamo però dire anche che, nonostante il suo carattere contraddittorio, questa forma di organizzazione riuscì probabilmente a salvare alcuni prigionieri, sacrificandone altri. Disgraziatamente, la distribuzione delle forze era tale che un minimo vantaggio a favore dei prigionieri doveva essere pagato con moltissimi vantaggi a favore delle S.S.
Gli esperimenti su esseri umani ne sono un esempio tipico. Coloro che collaborarono a questi esperimenti si resero corresponsabili dell'uccisione di centinaia di uomini; ma, all'occorrenza, potevano nascondere per qualche giorno un compagno in pericolo nei locali degli esperimenti, oppure salvare un amico che era stato selezionato per tali esperimenti mettendo al suo posto qualcun altro. Essi non salvavano perciò una vita umana, salvavano solo un amico, e al prezzo di collaborare all'assassinio di molte persone.
All'interno di un sistema rigido come quello dei campi di concentramento, qualsiasi difesa che rientrasse nell'ambito dei princìpi su cui i campi si fondavano promuoveva il raggiungimento degli scopi che questo sistema si proponeva, non quelli della difesa contro di esso. Sembra dunque che un'istituzione come quella dei campi di concentramento non permettesse alcuna difesa che avesse possibilità di successo: il solo modo di non sottomettervisi, in misura maggiore o minore, sarebbe stato di distruggere i campi.
NOTE al capitolo 5.
Nota 1: Qui, perciò, si ha un termine di confronto interessante per valutare i tentativi organizzati di resistere a una società di massa oppressiva. Per esempio, non è raro trovare una categoria professionale che cerca di difendere la propria indipendenza e i propri interessi contro le interferenze dello Stato. Ma per avere successo essa deve spesso dar battaglia su due fronti, ciascuno estremamente pericoloso per la difesa della libertà dei suoi membri. Per avere successo, infatti, essa deve organizzarli rigidamente, interferendo così nella loro libertà. Per ottenere concessioni allo Stato deve scendere a compromessi che sacrificano ancora la libertà dei suoi membri, che l'organizzazione aveva invece il compito di tutelare. Contrapponendo la forza alla forza non si arriverà mai alla libertà: si potrà arrivarci, forse, contrapponendo alla forza esterna la propria libertà interiore.
Nota 2: Confronta D. Rousset, "The Dotkins-Hessel Pool-Affair", in «Politics», IV, luglio-agosto 1947, pag. 158.
Nota 3: Lotte senza quartiere si accendevano intorno al recipiente della zuppa, che costituiva il pasto più importante della giornata. Essa arrivava nelle baracche in enormi recipienti e veniva distribuita dal prigioniero a ciò preposto, il quale si serviva di un ramaiolo: i suoi amici ne ricevevano una ramaiolata piena; per loro la zuppa era molto densa e conteneva anche pezzi di carne. Coloro invece che non lo avevano pagato o che per una qualsiasi ragione, non erano nelle sue grazie, ricevevano un ramaiolo pieno per tre quarti di una brodaglia c
Nota 4: Confronta E. Kogon, op. cit., pagine 302 sgg.
Nota 5: Ibid., pag. 311.
Nota 6: Anche se ai prigionieri non veniva mai detto né perché fossero stati arrestati né per quanto tempo, coloro che erano stati deportati come capri espiatori di un gruppo di opposizione arrivavano a saperlo lo stesso. Essi ritenevano, a ragione, che stavano pagando per il resto del gruppo, anche se chi viveva nel mondo esterno non se ne rendeva conto.
Nota 7: Sono in grado di portare un esempio personale per dimostrare quanto fosse facile interpretare male le intenzioni di chi aveva scritto una lettera, anche se nel nostro intimo eravamo perfettamente consapevoli della loro vera natura. Un giorno mia madre mi scrisse che uno dei miei colleghi aveva presentato una memoria scientifica nella quale si era servito di alcune mie idee, e che essa era stata accolta assai favorevolmente. Leggendo la lettera sapevo, a un certo livello, che tanto mia madre quanto quel mio collega speravano che la buona accoglienza riservata alle mie idee mi facesse piacere, e questa era la ragione per cui ero stato informato di quel fatto. Nondimeno, a un altro livello, più importante e più intimo, il pensiero che quel mio collega aveva avuto successo servendosi delle mie idee mentre io mi trovavo in una situazione così disperata mi gettò in preda a una specie di furore freddo. Il risultato perciò non fu quello sperato da mia madre, e cioè di sollevarmi il morale, bensì di generare in me un maggior senso di disperazione e di affanno: una piccola dose di soddisfazione e una dose massiccia di rabbia. Della prima avrei potuto benissimo fare a meno, mentre la seconda ebbe su di me effetti distruttivi, perché non potevo far nulla per controllarla se non interiorizzandola.
Nota 8: Sotto questo punto di vista, la loro situazione non poteva essere paragonata a quella dei prigionieri normali, di coloro cioè che erano in prigione, perché questi ultimi godevano della protezione della legge e conoscevano di solito la data allo scadere della quale sarebbero stati liberati; nessun confronto era poi possibile con i soldati al fronte, perché, per le loro famiglie, questi sono sempre degli eroi. In generale, i prigionieri di un campo di concentramento non potevano apparire degli eroi agli occhi delle loro famiglie, perché, se lottare contro il nazionalsocialismo fosse stato considerato eroismo, anche i familiari del prigioniero avrebbero avuto l'obbligo di lottare contro di esso. Ma era poco probabile che questo avvenisse, perché la Gestapo faceva intendere chiaramente che un loro eventuale comportamento sovversivo avrebbe messo in pericolo la vita del loro parente prigioniero.
Nota 9: Osservazioni analoghe a proposito di questi tentativi di richiamare alla memoria certe date, certi nomi, eccetera, sono state fatte anche da prigionieri che erano stati rinchiusi per un certo tempo nella cella di rigore di una prigione normale. Anche loro cercavano di tener alto il morale richiamando alla memoria soltanto fatti emotivamente neutri e poco importanti. Ma la loro situazione era completamente diversa. Questi fatti non avevano alcuna influenza sul loro destino; non faceva differenza che essi fossero o no capaci di stare bene attenti a quello che avveniva intorno a loro, perché tanto non avrebbero potuto farci nulla. Così, qualsiasi cosa venisse loro in mente, era soltanto un bene, perché dava loro la sicurezza di essere ancora vivi e che la loro mente funzionava ancora. Il prigioniero di un campo di concentramento, invece, doveva stare attentissimo a prendere la decisione giusta, perché ogni passo falso poteva essergli fatale.
Nota 10: C'era talvolta un briciolo di verità in queste voci. Per il cinquantesimo compleanno di Hitler, ad esempio, il 10 per cento dei prigionieri di Buchenwald fu liberato.
Nota 11: Le SA e le S.S. odiavano soprattutto i prigionieri appartenenti alle diverse categorie professionali o, più genericamente, coloro che provenivano dalle classi medie colte. Li odiavano più di quanto odiassero i loro avversari socialisti o comunisti, perché l'ostilità politica verso questi gruppi sociali era aggravata in loro dall'odio di classe. I comunisti e i socialisti avevano combattuto faccia a faccia sia le SA sia le S.S., il che significava che essi avevano preso sul serio il nazismo e lo avevano combattuto in una lotta da pari a pari. L'intelligencija, invece (e non soltanto quella tedesca), aveva preferito trattare i nazisti con disprezzo, disdegnando di lottare contro di loro apertamente. L'atteggiamento delle S.S. a questo riguardo era reso evidente dal fatto che entrare in un campo portando occhiali cerchiati di corno equivaleva a una condanna a morte. Questi occhiali divennero infatti le insegne fatali dell'intelligencija e, mentre le differenze esteriori tra i prigionieri della classe media e i prigionieri appartenenti alle classi lavoratrici scomparivano presto, gli occhiali cerchiati di corno tradivano il prigioniero della classe media, e attiravano su di lui la persecuzione costante delle S.S. Era chiamato "Brillenschlange" (ovvero serpente dagli occhiali, cioè cobra), gli venivano assegnati i lavori più duri ed era picchiato continuamente, finché non si fosse deciso a cambiare tipo di occhiali.
Nota 12: E. Kupfer, op. cit., pag. 1223.
Nota 13: Per un racconto particolareggiato dell'incidente, confronta E. Kogon, op. cit., pagine 221-22.
Nota 14: Gran parte di queste considerazioni sulla persecuzione è già stata da me pubblicata in "The Dynamics of anti-Semitism in Gentile and Jew", in «Journal of Abnormal and Social Psychology», 42, 2, 1947, pagine 153-68.
Nota 15: Una brutale manifestazione della continua paura di morire di fame era data dalla prontezza con cui i prigionieri raccoglievano i pezzetti di pane caduti nel fango, per inghiottirli dopo averli strofinati appena. Facevano così sia perché erano effettivamente denutriti sia perché avevano continuamente paura di morire di fame. I prigionieri erano ossessionati oltre i limiti del ragionevole dal pensiero del cibo e dalla paura di non averne abbastanza. Anche questo aspetto può essere spiegato, fino a un certo punto, dalla loro regressione infantile che li spingeva a rivolgersi al cibo come al simbolo più importante e più facilmente materializzabile della sicurezza.