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Sorvegliare e punire PARTE QUARTA.
PRIGIONE.


Capitolo primo.
Istituzioni complete e austere.

La prigione è meno recente di quanto si affermi quando la si fa nascere con i nuovi Codici. La forma-prigione preesiste alla sua utilizzazione sistematica nelle leggi penali. Essa si è costituita all'esterno dell'apparato giudiziario, quando furono elaborate, attraverso tutto il corpo sociale, le procedure per ripartire gli individui e distribuirli spazialmente, classificarli, ricavare da essi il massimo rendimento e il massimo delle forze, addestrare i loro corpi, codificare il loro comportamento in continuità, mantenerli in una visibilità senza lacune, formare intorno ad essi tutto un apparato di osservazione, di registrazione e di annotazioni, costituire sopra di essi un sapere che si accumula e si centralizza, La forma generale di un apparato per rendere gli individui docili e utili, con un lavoro preciso sul loro corpo, ha disegnato l'istituzione-prigione, prima che la legge la definisse come la pena per eccellenza. C'è, nella svolta tra la fine del secolo Diciottesimo e l'inizio del Diciannovesimo, il passaggio ad una penalità di detenzione, è vero; ed era cosa nuova. Ma si trattava in effetti dell'apertura della penalità a meccanismi di coercizione già elaborati altrove. I «modelli» della detenzione penale - Gand, Gloucester, Walnut Street - segnano i primi punti visibili di questa transizione, piuttosto che innovazioni o punti di partenza. La prigione, elemento essenziale nella panoplia punitiva, segna sicuramente un momento importante nella storia della giustizia penale: il suo accesso all'«umanità». Ma anche, un momento importante nella storia dei meccanismi disciplinari che il nuovo potere di classe andava sviluppando: quello in cui questi colonizzano l'istituzione giudiziaria. Nella svolta determinante, a cavallo dei due secoli, una nuova legislazione definisce il potere di punire come funzione generale della società, che si esercita in ugual modo su tutti i membri, e nella quale ciascuno di essi è ugualmente rappresentato; ma facendo della detenzione la pena per eccellenza, essa introduce procedure di dominio caratteristiche di un tipo particolare di potere. Una giustizia che si afferma «uguale», un apparato giudiziario che si vuole «autonomo», ma che è investito dalle dissimmetrie degli assoggettamenti disciplinari; tale è il connubio da cui nasce la prigione, «pena delle società civilizzate» (1).
E' facile capire il carattere di evidenza che la prigione-castigo assume ben presto. Nei primi anni del secolo Diciannovesimo, si avrà ancora coscienza della sua novità; tuttavia essa appare talmente legata, e in profondità, col funzionamento stesso della società, da respingere nell'oblio tutte le altre punizioni che i riformatori del secolo Diciottesimo avevano immaginato. Sembrò senza alternative, e portata dal moto stesso della storia: «Non è il caso, non è un capriccio del legislatore che ha fatto della detenzione carceraria la base e l'edificio quasi intero della nostra attuale scala penale: è il progresso delle idee e l'addolcimento dei costumi» (2). E se, in poco più di un secolo, il clima di evidenza si è trasformato, non è però scomparso. Conosciamo tutti gli inconvenienti della prigione, e come sia pericolosa, quando non è inutile. E tuttavia non «vediamo» con quale altra cosa sostituirla. Essa è la detestabile soluzione, di cui non si saprebbe fare a meno.
Questa «evidenza» della prigione dalla quale ci distacchiamo a fatica, si fonda prima di tutto sulla forma semplice della «privazione di libertà». Come potrebbe la prigione non essere la pena per eccellenza in una società in cui la libertà è un bene che appartiene a tutti nello stesso modo e al quale ciascuno è legato da un sentimento «universale e costante» (3)? La sua perdita ha dunque lo stesso prezzo per tutti; assai più dell'ammenda, essa è castigo «egalitario». Chiarezza in qualche modo giuridica della prigione. In più, essa permette di quantificare esattamente la pena secondo la variabile del tempo. Esiste una forma-salario della prigione, che costituisce, nelle società industriali, la sua «evidenza» economica. E le permette di apparire come una riparazione. Prelevando il tempo del condannato, la prigione sembra tradurre concretamente l'idea che l'infrazione ha leso, al di là della vittima, l'intera società. Evidenza economico-morale di una penalità che monetizza i castighi in giorni, mesi, anni, e che stabilisce equivalenze quantitative delitti-durata. Di qui l'espressione così frequente, così conforme al funzionamento delle punizioni, benché contraria alla teoria scritta del diritto penale, che si sta in prigione per «pagare il proprio debito». La prigione è «naturale», come è «naturale» nella nostra società l'uso del tempo per misurare gli scambi. Ma l'evidenza della prigione si fonda anche sul suo ruolo, supposto o preteso, di apparato per trasformare gli individui. Come potrebbe la prigione non essere immediatamente accettata, quando, rinchiudendo, raddrizzando, rendendo docili, non fa che riprodurre, salvo accentuarli un po', tutti i meccanismi che si trovano nel corpo sociale? La prigione: una caserma un po' stretta, una scuola senza indulgenza, una fabbrica buia, ma, al limite, niente di qualitativamente differente. Questo doppio fondamento - giuridico-economico da una parte, tecnico-disciplinare dall'altra - ha fatto apparire la prigione come la forma più immediata e più civilizzata di tutte le pene. Ed è questo doppio funzionamento che le ha dato subito solidità. Una cosa in effetti è chiara: la prigione non fu dapprincipio una semplice privazione della libertà, cui solo in seguito sarebbe stata attribuita una funzione tecnica di correzione; essa è stata, fin dall'inizio una «detenzione legale» incaricata di un supplemento correttivo, o ancora un'impresa di modificazione degli individui, che la privazione della libertà permette di far funzionare nel sistema legale. Insomma la detenzione penale, fin dall'inizio del secolo Diciannovesimo, comprese insieme la privazione della libertà e la trasformazione tecnica degli individui (4).
Richiamiamo un certo numero di fatti. Nei Codici del 1808 e del 1810, e nelle misure che li precedettero o seguirono immediatamente, la detenzione non è mai stata confusa con la semplice privazione della libertà. Essa è, o deve essere in ogni caso, un meccanismo differenziato e finalizzato. Differenziato perché non deve avere la stessa forma secondo che si tratti di un imputato o di un condannato, di un correzionale o di un criminale: carcere, casa di correzione, penitenziario, devono corrispondere, in linea di principio, a queste differenze e assicurare un castigo non solo graduato in intensità, ma diversificato nei suoi scopi. Poiché la prigione ha un fine che precede tutti gli altri: «La legge, infliggendo pene più gravi le une delle altre, non può permettere che l'individuo, condannato a pene leggere, si trovi chiuso nello stesso locale del criminale condannato a pene più gravi; ...se la pena inflitta dalla legge ha come scopo principale la riparazione del delitto, essa vuole anche l'emendamento del colpevole» (5). E questa trasformazione bisogna chiederla agli effetti interni della carcerazione. Prigione-castigo, prigione-apparato: «L'ordine che deve regnare nelle case di pena può contribuire potentemente a rigenerare i condannati; i vizi della educazione, il contagio di cattivi esempi, l'ozio... hanno dato alla luce i crimini. Ebbene, cerchiamo di chiudere tutte queste fonti di corruzione; che le regole di una sana morale siano praticate nelle case di pena; che, obbligati ad un lavoro che essi finiranno per amare, quando ne raccoglieranno il frutto, i condannati vi contraggano l'abitudine, il gusto e il bisogno dell'occupazione; che si diano l'un l'altro l'esempio di una vita laboriosa; essa diverrà ben presto una vita pura; presto cominceranno a conoscere il rincrescimento per il passato, primo precursore dell'amore dei doveri» (6). Le tecniche correttive fanno subito parte dell'armatura istituzionale della detenzione penale.
Bisogna anche ricordare che il movimento per riformare le prigioni, per controllarne il funzionamento non è un fenomeno tardivo e neppure sembra esser nato dalla constatazione di uno scacco, stabilito chiaramente. La «riforma» della prigione è quasi contemporanea alla prigione stessa. Ne è come il programma. La prigione si è trovata fin dall'inizio impegnata da una serie di meccanismi di accompagnamento, che devono in apparenza correggerla, ma che sembrano far parte del suo stesso funzionamento, tanto sono stati legati alla sua esistenza lungo tutta la sua storia. Ci fu subito una loquace tecnologia della prigione. Inchieste: quella di Chaptal, già nel 1801 (quando si trattò di fare il prospetto di ciò che si poteva utilizzare per impiantare in Francia l'apparato carcerario), quella di Decazes, nel 1819, il libro di Villermé, pubblicato nel 1820, il rapporto sugli stabilimenti centrali, redatto da Martignac nel 1829, le inchieste condotte negli Stati Uniti da Beaumont de Tocqueville nel 1831, da Demetz e Blouet nel 1835, i questionari indirizzati da Montalivet ai direttori di centrali e ai consigli generali nel periodo in cui è al culmine il dibattito sull'isolamento dei detenuti. Società per controllare il funzionamento delle prigioni e proporre il loro miglioramento: nel 1818, la Société pour l'amélioration des prisons, molto ufficiale, un po' più tardi la Société des prisons e diversi gruppi filantropici. Innumerevoli deliberazioni - decreti, istruzioni o leggi: dalla riforma che la prima Restaurazione aveva previsto nel settembre 1814, e che non fu mai applicata, fino alla legge del 1844, preparata da Tocqueville e che chiuse per un certo tempo un lungo dibattito sui mezzi per rendere efficace la prigione. Programmi per assicurare il funzionamento della macchina-prigione (7): programmi di trattamento dei detenuti; modelli di sistemazione materiale, alcuni rimasti puri progetti, come quelli di Danjou, di Blouet, di Harou-Romain, altri che presero corpo in alcune istruzioni (come la circolare del 9 agosto 1841 sulla costruzione delle camere di sicurezza), altri che divennero architetture molto reali, come la Petite Roquette, dove fu organizzata per la prima volta in Francia la detenzione cellulare.
A tutto ciò bisogna aggiungere le pubblicazioni espresse più o meno direttamente dalla prigione e redatte sia da filantropi, come Appert, sia, un po' più tardi, da specialisti (così gli «Annales de la charité» (8)), sia ancora da ex detenuti; «Pauvre Jacques», alla fine della Restaurazione, o la «Gazette de Sainte-Pélagie» all'inizio della monarchia di Luglio (9).
Non bisogna veder la prigione come un'istituzione inerte, scossa ad intervalli da movimenti di riforma. La «teoria della prigione» è stata il metodo di impiego costante, piuttosto che la critica incidentale - una delle sue condizioni di funzionamento. La prigione ha sempre fatto parte di un campo attivo, dove abbondavano i progetti, le ristrutturazioni, le esperienze, i discorsi teorici, le testimonianze, le inchieste. Attorno all'istituzione carceraria, tutta una prolissità, tutto uno zelo. La prigione, territorio oscuro e abbandonato? il solo fatto che non si sia cessato di dirlo da quasi due secoli prova che non lo era? Divenuta punizione legale, essa ha affardellato il vecchio problema del diritto di punire, di tutti i problemi, di tutte le agitazioni che hanno ruotato intorno alle tecnologie correttive dell'individuo.

«Istituzioni complete e austere», diceva Baltard (10). La prigione deve essere un apparato disciplinare esaustivo. In molti sensi: deve prendere in carico tutti gli aspetti dell'Individuo, il suo addestramento fisico, la sua attitudine al lavoro, la sua condotta quotidiana, la sua attitudine morale, le sue disposizioni; la prigione, assai più della scuola, della fabbrica o dell'esercito, che implicano sempre una certa specializzazione, è «onnidisciplinare». In più la prigione non ha esterno né lacune, non si interrompe, salvo allorché il suo compito è totalmente finito; la sua azione sull'individuo deve essere ininterrotta: disciplina incessante. Infine, essa dà un potere quasi totale sui detenuti; essa ha i suoi meccanismi interni di repressione e di castigo: disciplina dispotica. Essa porta alla intensità massima tutte le procedure che si trovano negli altri dispositivi disciplinari. E' necessario che sia il più potente tra i meccanismi per imporre una forma nuova all'individuo pervertito; il suo metodo di azione è la costrizione di una educazione totale: «In prigione il governo può disporre della libertà della persona e del tempo del detenuto; quindi, si intende facilmente la potenza dell'educazione che, non solamente in un giorno, ma nella successione dei giorni, perfino degli anni può regolare per l'uomo il tempo della veglia e del sonno, dell'attività e del riposo, il numero e la durata dei pasti, la qualità e la razione degli alimenti, la natura e il prodotto del lavoro, il tempo della preghiera, l'uso della parola e, per così dire, fin quello del pensiero, questa educazione che, nei semplici e corti tragitti dal refettorio al laboratorio, dal laboratorio alla cella, regola i movimenti del corpo e, perfino nei momenti di riposo, determina l'impiego del tempo, questa educazione che in una parola prende possesso dell'uomo tutto intero, di tutte le facoltà fisiche e morali che sono in lui e del tempo in cui egli esiste» (11). Questo «riformatorio» integrale prescrive una ricodificazione dell'esistenza ben diversa dalla pura privazione della libertà giuridica e ben diversa anche dalla semplice meccanica delle rappresentazioni cui sognavano i riformatori all'epoca della Ideologia.
1. Primo principio, l'isolamento. Isolamento del condannato in rapporto al mondo esterno, a tutto ciò che ha motivato l'infrazione, alle complicità che l'hanno facilitata. Isolamento dei detenuti gli uni in rapporto agli altri. Non solo la pena deve essere individuale, ma individualizzante; e in due modi. Prima di tutto la prigione deve essere concepita in modo da cancellare le conseguenze nefaste che essa provoca riunendo nello stesso luogo dei condannati molto diversi fra loro: soffocare i complotti e le rivolte che possono insorgere, impedire che si costituiscano complicità future o che nascano possibilità di ricatto (il giorno in cui i detenuti si ritroveranno liberi), ostacolare l'immoralità di tante «associazioni misteriose». In breve, che la prigione non formi, a partire dai malfattori che riunisce, una popolazione omogenea e solidale: «Esiste in questo momento fra noi una società organizzata di criminali... essi formano una piccola nazione nel seno della grande. Quasi tutti questi uomini si sono conosciuti nelle prigioni o vi si ritrovano. E' questa società di cui si tratta oggi di disperdere i membri» (12). Inoltre la solitudine deve essere uno strumento positivo di riforma. Per mezzo della riflessione che suscita, del rimorso che non può mancare di intervenire: «Gettato nella solitudine, il condannato riflette. Posto solo, in presenza del suo crimine, impara ad odiarlo, e se la sua anima non è ancora rovinata dal male, è nell'isolamento che il rimorso verrà ad assalirlo» (13). Ed anche per il fatto che la solitudine assicura una sorta di autoregolazione della pena e permette come una individualizzazione spontanea del castigo: più il condannato è capace di riflettere, più è stato colpevole nel commettere il suo crimine; ma anche più vivo sarà il rimorso e la solitudine dolorosa; in cambio, quando sarà profondamente pentito ed emendato senza la minima simulazione, la solitudine non gli peserà più: «Così, secondo questa ammirevole disciplina, ogni intelligenza e ogni moralità portano in se stesse il principio e la misura di una repressione di cui l'errore e l'umana fallibilità non saprebbero alterare la certezza e l'invariabile equità... Non è tutto ciò in verità come il sigillo di una giustizia divina e provvidenziale?» (14). Infine, e forse soprattutto, l'isolamento dei condannati garantisce che si può esercitare su di loro, col massimo d'intensità, un potere che non sarà bilanciato da nessun'altra influenza; la solitudine è la condizione prima della sottomissione totale: «Ci si immagini, - diceva Charles Lucas, evocando il ruolo del direttore, dell'istitutore, del cappellano e delle 'persone caritatevoli' rispetto al detenuto, - ci si immagini la potenza della parola umana che interviene nella terribile disciplina del silenzio per parlare al cuore, all'anima, alla persona umana» (15). L'isolamento assicura il colloquio, da solo a solo, del detenuto col potere che si esercita su di lui.
E' su questo punto che si situa la discussione sui due sistemi americani di carcerazione, quello di Auburn e quello di Filadelfia. In effetti questa discussione, che copre una superficie così vasta (16), non concerne che la messa in opera dell'isolamento, ammesso da tutti.
Il modello di Auburn prescrive la cella individuale durante la notte, il lavoro ed i pasti in comune, ma con la regola del silenzio assoluto - i detenuti non possono parlare che ai guardiani, col loro permesso e a voce bassa. Chiaro riferimento al modello monastico; riferimento anche alla disciplina di fabbrica. La prigione deve essere un microcosmo di una società perfetta in cui gli individui sono isolati nell'esistenza morale, mentre la loro riunione si effettua solo in un rigoroso inquadramento gerarchico, senza rapporti laterali, non potendo la comunicazione avvenire che in senso verticale. Vantaggio del sistema di Auburn, secondo i suoi partigiani: è una ripetizione della stessa società. La costrizione vi è assicurata con mezzi materiali, ma soprattutto con una regola che bisogna imparare a rispettare e che viene garantita da una sorveglianza e da punizioni. Piuttosto che tenere i condannati «sotto chiave come la bestia feroce nella sua gabbia», bisogna riunirli, «farli partecipare in comune ad esercizi utili, costringerli a buone abitudini in comune, prevenendo il contagio morale con un'attiva sorveglianza, mantenendo il raccoglimento con la regola del silenzio»; questa regola abitua il detenuto «a considerare la legge come un precetto sacro, la cui infrazione genera un male giusto e legittimo» (17). Così il gioco dell'isolamento, della riunione senza comunicazione, e della legge garantita da un controllo ininterrotto, deve riqualificare il criminale come individuo sociale: lo addestra ad una attività «utile e rassegnata» (18); gli restituisce «abitudini di socialità» (19).
Nell'isolamento assoluto, come a Filadelfia, la riqualificazione del criminale non viene richiesta all'esercizio di una legge comune, ma al rapporto dell'individuo con la propria coscienza ed a ciò che può illuminarlo dall'interno (20). «Solo nella sua cella, il detenuto è messo di fronte a se stesso; nel silenzio delle sue passioni e del mondo che lo circonda, egli si inoltra nella sua coscienza, la interroga e sente risvegliarsi il sentimento morale che non perisce mai interamente nel cuore dell'uomo» (21). Non sarà dunque un rispetto esteriore per la legge, o il solo timore della punizione, ad agire sul detenuto, ma il lavoro stesso della coscienza. Piuttosto una sottomissione profonda che un addestramento superficiale; un cambiamento di «moralità» e non di attitudine. Nella prigione in Pennsylvania, le sole operazioni della correzione sono la coscienza e la muta architettura cui essa si urta. A Cherry Hill, «i muri sono la punizione del crimine; la cella mette il detenuto in presenza di se stesso; egli è obbligato ad ascoltare la sua coscienza». Di qui il fatto che il lavoro è piuttosto una consolazione che non un obbligo; che i sorveglianti non devono esercitare una costrizione, assicurata già dalla materialità delle cose, e che la loro autorità, di conseguenza, può essere accettata: «Ad ogni visita, alcune parole benevolenti scendono da quella bocca onesta e portano nel cuore del detenuto, con la riconoscenza, la speranza e la consolazione; egli ama il suo guardiano; e l'ama perché questi è dolce e compassionevole. I muri sono terribili, e l'uomo è buono» (22). In questa cella chiusa, sepolcro provvisorio, i miti della risurrezione prendono facilmente corpo. Dopo la notte e il silenzio, la vita rigenerata. Auburn era la stessa società, ricondotta nei suoi valori essenziali. Cherry Hill, la vita annientata e ricominciata. Il cattolicesimo ricupera presto nei suoi discorsi questa tecnica quacchera. «Io non vedo nella vostra cella che uno spaventevole sepolcro, nel quale, al posto dei vermi, i rimorsi e la disperazione avanzano per rodervi e fare della vostra esistenza un inferno anticipato. Ma... ciò che per un prigioniero privo di religione non è che una tomba, che un ossario repellente, diviene per il detenuto sinceramente cristiano la culla stessa di una felice immortalità» (23).
Sull'opposizione tra questi due modelli, si è venuta ad innestare tutta una serie di differenti conflitti: religioso (la conversione deve essere l'elemento principale della correzione?), medico (l'isolamento completo rende pazzi?), architettonico e amministrativo (quale forma garantisce la sorveglianza migliore?) Di qui senza dubbio la lunghezza della polemica. Ma al centro delle discussioni, e rendendole possibili, quel primo obiettivo dell'azione carceraria: l'individualizzazione coercitiva, per mezzo della rottura di ogni relazione non controllata dal potere o ordinata secondo la gerarchia.
2. «Il lavoro, alternandosi al pasto accompagna il detenuto fino alla preghiera della sera; allora un nuovo sonno gli dà un gradevole riposo, che i fantasmi di una immaginazione degradata non vengono a turbare. Così scorrono sei giorni della settimana. Essi sono seguiti da una giornata consacrata esclusivamente alla preghiera, all'istruzione e a meditazioni solitarie. E' così che si succedono le settimane, i mesi, gli anni; così il prigioniero, che al suo ingresso nello stabilimento era un uomo incostante o che non metteva convinzione altro che nella sua irregolarità, cercando di distruggere la sua esistenza con la varietà dei suoi vizi, diviene poco a poco per la forza di un'abitudine dapprincipio puramente esteriore, ma presto trasformata in una seconda natura, così familiarizzato col lavoro e con le gioie che ne derivano, che, per poco che una saggia istruzione abbia aperto la sua anima al pentimento, potrà essere esposto con maggior confidenza alle tentazioni, cui il ricupero della libertà lo sottoporrà» (24). Il lavoro viene definito, come l'isolamento, un agente di trasformazione carceraria; a partire dal codice del 1808: «Se la pena inflitta dalla legge ha come scopo la riparazione del crimine, essa vuole anche l'emendamento del colpevole, e questo doppio scopo si troverà compiuto se il malfattore verrà strappato a quella funesta oziosità che, avendolo gettato in prigione, verrebbe a ritrovarvelo ancora e ad impadronirsene per condurlo al grado più basso della depravazione» (25). Il lavoro non è né un additivo né un correttivo al regime della detenzione: che si tratti di lavori forzati, della reclusione, della carcerazione, viene concepito, dallo stesso legislatore, come un accompagnamento necessariamente obbligatorio. Ma di una necessità, invero, che non è quella di cui parlavano i riformatori del secolo Diciottesimo, quando volevano farne sia un esempio per il pubblico, sia un'utile riparazione per la società. Nel regime carcerario il legame tra lavoro e punizione è di un altro tipo.
Numerose polemiche, che hanno avuto luogo sotto la Restaurazione o la monarchia di Luglio, illuminano la funzione che viene attribuita al lavoro penale. Prima di tutto discussioni sul salario. Il lavoro dei detenuti, in Francia, veniva retribuito. Problema: se una retribuzione compensa il lavoro in prigione, è che questo non fa realmente parte della pena; e il detenuto può dunque rifiutarlo. In più il beneficio ricompensa l'abilità dell'operaio e non l'emendamento del colpevole: «I soggetti più cattivi sono quasi ovunque gli operai più abili; sono i più retribuiti e di conseguenza i più intemperanti ed i meno portati al pentimento» (26). La discussione, mai del tutto spenta, riprende, e con grande vivacità, verso gli anni 1840-45: epoca di crisi economica, epoca di agitazioni operaie, epoca anche in cui comincia a cristallizzarsi l'opposizione tra operaio e delinquente (27). Vi sono scioperi contro i laboratori delle prigioni: quando un guantaio di Chaumont ottiene di organizzare un laboratorio a Clairvaux, gli operai protestano, dichiarano che il loro lavoro viene disonorato, occupano la manifattura e costringono il padrone a rinunciare al progetto (28). C'è anche tutta una campagna di stampa nei giornali operai: sul tema che il governo favorisce il lavoro penale per far scendere i salari «liberi»; sul tema che gli inconvenienti di questi laboratori di prigione sono ancor più sensibili per le donne alle quali sottraggono il lavoro, spingendole alla prostituzione, dunque alla prigione, dove queste stesse donne, che non potevano più lavorare quando erano libere fanno allora concorrenza a quelle che hanno ancora lavoro (29); sul tema che vengono riservati ai detenuti i lavori più sicuri - «i ladri eseguono al caldo e al riparo i lavori di cappelleria e di ebanisteria», mentre il cappellaio ridotto alla disoccupazione deve andare «al macello umano a fabbricare la biacca a 2 franchi al giorno» (30); sul tema che la filantropia prende grandissima cura delle condizioni di lavoro dei detenuti, ma trascura quelle dell'operaio libero: «Siamo certi che se i prigionieri lavorassero il mercurio, ad esempio, la scienza sarebbe assai più pronta di quanto non sia, a trovare i mezzi per preservare i lavoratori dal pericolo delle esalazioni: 'Quei poveri condannati!' direbbe quello che parla appena degli operai doratori. Cosa volete, bisogna aver ucciso o rubato per attirare la compassione o l'interesse». Sul tema, soprattutto, che se la prigione tende a divenire un laboratorio, non si tarderà ad inviarvi i mendicanti e i vagabondi, ricostituendo così i vecchi ospedali generali di Francia o le "workhouses" d'Inghilterra (31). Ci furono ancora, soprattutto dopo la votazione della legge del 1844, petizioni e lettere - una petizione viene respinta dalla Camera di Parigi, che «ha trovato inumano che si proponesse di applicare assassini, uccisori, ladri, a dei lavori che sono oggi il lotto di qualche migliaio di operai»; «La Camera ci ha preferito Barabba» (32); alcuni tipografi inviano una lettera al ministro quando apprendono che è stata installata una stamperia alla Centrale di Melun: «Voi dovete decidere tra dei reprobi giustamente colpiti dalla legge e dei cittadini che sacrificano i loro giorni, nell'abnegazione e nella probità, all'esistenza delle loro famiglie quanto alla ricchezza della patria» (33).
Ora, a tutta questa campagna, le risposte date dal governo e dall'amministrazione sono costanti: il lavoro penale non può essere criticato in ragione della disoccupazione che provocherebbe; per la scarsa estensione, per il debole rendimento, non può avere incidenza generale sull'economia. Non è come attività di produzione che è intrinsecamente utile, ma attraverso gli effetti che genera nella meccanica umana. E' un principio di ordine e di regolarità; per mezzo delle esigenze che gli sono peculiari, veicola, in maniera insensibile, le forme di un potere rigoroso; piega i corpi a movimenti regolari, esclude l'agitazione e la distrazione, impone una gerarchia e una sorveglianza che sono tanto più accettate, e si inscriveranno tanto più profondamente nel comportamento dei condannati, in quanto fanno parte della sua logica: col lavoro, «la regola si introduce in una prigione, vi regna senza sforzo, senza l'impiego di alcun mezzo repressivo e violento: occupando il detenuto, gli si dànno abitudini di ordine e di obbedienza; lo si rende diligente e attivo, da pigro che era... col tempo, egli trova nel movimento regolare della casa, nei lavori manuali ai quali lo si assoggetta... un rimedio certo contro gli scarti dell'immaginazione» (34). Il lavoro penale deve essere concepito come se fosse intrinsecamente un meccanismo che trasforma il detenuto violento, agitato, irriflessivo in un elemento che gioca il suo ruolo con perfetta regolarità. La prigione non è una fabbrica: è, bisogna che sia, una macchina di cui i detenuti-operai siano nello stesso tempo gli ingranaggi e i prodotti; essa li «occupa» e «continuamente, fosse pure nell'unico scopo di riempire i loro momenti. Quando il corpo si muove, quando lo spirito si applica ad un oggetto determinato, le idee importune si allontanano, la calma rinasce nell'anima» (35). Se, in fin dei conti, il lavoro di prigione ha un effetto economico, è nel produrre individui meccanizzati secondo le norme generali della società industriale: «Il lavoro è la provvidenza dei popoli moderni; ha per loro il ruolo della morale, riempie il vuoto delle credenze e passa per il principio di ogni bene. Il lavoro deve esser la religione delle prigioni. Ad una società-macchina, erano necessari dei mezzi di riforma puramente meccanici» (36). Fabbricazione di individui-macchine, ma. anche di proletari; in effetti quando non si hanno che «le braccia come bene», non si può vivere che «del prodotto del proprio lavoro, dell'esercizio di una professione o del prodotto del lavoro degli altri, col mestiere del furto»; ora se la prigione non costringesse i malfattori al lavoro, essa ricondurrebbe nella sua stessa istituzione e coll'espediente della fiscalità, il prelevamento degli uni sul lavoro degli altri: «La questione dell'ozio, è la stessa che nella società; è del lavoro degli altri che bisogna vivano i detenuti, se non vivono del proprio» (37). Il lavoro per mezzo del quale il condannato sovviene ai propri bisogni riqualifica il ladro in operaio docile. Ed è qui che interviene l'utilità di una retribuzione per il lavoro penale; essa impone al detenuto la forma «morale» del salario come condizione della sua esistenza. Il salario fa prendere «amore e abitudine» al lavoro (38); dà ai malfattori che ignorano la differenza fra mio e tuo, il senso della proprietà - di «quella che si è guadagnata col sudore della fronte» (39); insegna loro anche, proprio a loro che hanno vissuto nella dissipazione, cosa sono la previdenza, il risparmio, il calcolo dell'avvenire (40); infine, proponendo una misura del lavoro fatto, permette di tradurre quantitativamente lo zelo del detenuto ed i progressi del suo emendamento (41). Il salario del lavoro penale non retribuisce una prestazione; funziona come motore e punto di riferimento delle trasformazioni individuali: una finzione giuridica perché esso non rappresenta la «libera» cessione di una forza di lavoro, ma un artificio, che si suppone efficace, delle tecniche di correzione.
L'utilità del lavoro penale? Non un profitto, neppure la formazione di un'abilità utile; ma la costituzione di un rapporto di potere, di una forma economica vuota, di uno schema della sottomissione individuale e del suo aggiustamento ad un apparato di produzione.
Immagine perfetta del lavoro di prigione: il laboratorio femminile a Clairvaux; l'esattezza silenziosa del meccanismo umano, vi raggiunge il rigore regolamentare del convento: «Su una seggiola, al di sopra della quale è un Crocifisso, una suora è seduta; davanti a lei e disposte su due linee, le prigioniere compiono il lavoro che è loro imposto; e, poiché il lavoro ad ago domina quasi esclusivamente, ne risulta che il più rigoroso silenzio è mantenuto costantemente... Sembra che in quelle sale tutto respiri la penitenza e l'espiazione. Ci si riporta, come per un moto spontaneo, ai tempi delle venerabili abitudini di questa antica dimora; ci si ricorda di quelle penitenti volontarie che vi si rinchiudevano per dare addio al mondo» (42).
3. Ma la prigione eccede la semplice privazione della libertà secondo una modalità più importante. Essa tende a divenire uno strumento di modulazione della pena: un apparato che, attraverso l'esecuzione della sentenza - di cui è incaricato, sarebbe in diritto di riprenderne, almeno in parte, il principio. Certo, questo «diritto» l'istituzione carceraria non l'ha ricevuto né nel secolo Diciannovesimo e neppure nel Ventesimo, salvo sotto forma frammentaria (per la via indiretta delle liberazioni condizionali, delle semilibertà, dell'organizzazione di centrali di riforma). Ma bisogna notare che, esso fu reclamato subito dai responsabili dell'amministrazione penitenziaria, come condizione di un buon funzionamento della prigione e della sua efficacia in questo compito di emendamento che la stessa giustizia le confida.
Così per la durata del castigo: essa permette di quantificare esattamente le pene, di graduarle secondo le circostanze, e di conferire al castigo legale la forma più o meno esplicita di un salario; ma rischia di essere priva di valore correttivo, quando sia fissata una volta per tutte, a livello di giudizio. La lunghezza della pena non deve misurare il «valore di scambio» dell'infrazione; deve adattarsi alla trasformazione «utile» del detenuto nel corso della condanna. Non un tempo-misura, ma un tempo finalizzato. Piuttosto della forma del salario, la forma dell'intervento: «Come il medico prudente interrompe la terapia o la continua, secondo che il malato è o non è arrivato alla perfetta guarigione, ugualmente, nella prima di queste due ipotesi, l'espiazione dovrebbe cessare in presenza dell'emendamento completo del condannato, poiché, in questo caso, ogni detenzione è divenuta tanto inutile, e pertanto inumana, verso l'emendato, quanto vanamente onerosa per lo Stato» (43). La giusta durata della pena deve dunque variare non solo secondo l'atto e le sue circostanze, ma secondo la pena stessa, quale si svolge concretamente. Ciò significa che se la pena deve essere individualizzata, non lo è a partire dall'individuo-infrazione, soggetto giuridico del suo atto, autore responsabile del delitto, ma a partire dall'individuo punito, oggetto di una materia di trasformazione controllata, l'individuo in stato di detenzione, inserito nell'apparato carcerario, da questo modificato od a questo reagente. «Non si tratta che di riformare il cattivo soggetto. Una volta operata la riforma, il criminale deve rientrare nella società» (44). La qualità e il contenuto della detenzione non dovrebbero neppure venir determinate esclusivamente dalla natura della infrazione. La gravità giuridica di un crimine non ha assolutamente il valore di segno univoco del carattere, correggibile o no, del condannato. In particolare, la distinzione crimine-delitto, a cui il codice fa corrispondere la distinzione tra prigione e reclusione o lavori forzati, non è operativa in termini di emendamento. E' l'opinione quasi generale, formulata dai direttori delle case di pena, in occasione di una inchiesta fatta dal ministero del 1836: «I correzionali (45) in generale sono i più viziosi... Tra i criminali, si incontrano molti uomini che soccombettero alla violenza delle passioni ed ai bisogni di una numerosa famiglia». «La condotta dei criminali è assai migliore di quella dei correzionali; i primi sono più sottomessi, più laboriosi dei secondi, che in generale sono imbroglioni, sregolati, pigri» (46). Di qui l'idea che il rigore punitivo non deve essere in proporzione diretta all'importanza penale dell'atto condannato. Né determinato una volta per tutte.
Operazione correttiva, la carcerazione ha esigenze e peripezie proprie. Sono i suoi stessi effetti a doverne determinare le tappe, i temporanei aggravamenti, gli alleggerimenti successivi; ciò che Charles Lucas chiamava «la classificazione mobile delle moralità». Il sistema progressivo, applicato a Ginevra dal 1825 (47), fu spesso reclamato in Francia. Sotto forma, ad esempio, di tre quartieri; quello di prova, per la generalità dei detenuti, il quartiere di punizione, e il quartiere di ricompensa, per quelli che sono sulla via del miglioramento (48). O sotto forma di quattro fasi: periodo di intimidazione (privazione del lavoro e di ogni rapporto interno o esterno); periodo del lavoro (isolamento, ma lavoro, che dopo la fase di ozio forzato sarebbe accolto come favore); regime di moralizzazione («conferenze» più o meno frequenti coi direttori ed i visitatori ufficiali); periodo di lavoro in comune (49). Se il principio della pena è una decisione di giustizia, la sua gestione, la sua qualità ed i suoi rigori devono essere richiamati da un meccanismo autonomo che controlla gli effetti della punizione all'interno dell'apparato che li produce. Tutto un regime di punizioni e di ricompense che non è semplicemente un modo di far rispettare il regolamento della prigione, ma di rendere effettiva l'azione della prigione sui detenuti. Su ciò, accade che la stessa autorità giudiziaria sia consenziente: «Non bisogna, diceva la Corte di cassazione, consultata a proposito del progetto di legge sulle prigioni, meravigliarsi della idea di accordare ricompense che potranno consistere sia in una maggior quantità di peculio, sia in un migliore regime alimentare, sia, perfino, in abbreviazioni della pena. Se qualcosa può risvegliare nello spirito dei condannati le nozioni di bene e di male, condurli a riflessioni morali e rialzarli un poco ai loro propri occhi, è la possibilità di ricevere qualche ricompensa» (50).
E per tutte queste procedure che rettificano la pena man mano che si svolge, bisogna ammettere che le istanze giudiziarie non possono avere autorità immediata. Si tratta in effetti di misure che, per definizione, possono intervenire solo dopo il processo e vertere solo su materia diversa dalle infrazioni. Indispensabile autonomia, di conseguenza, del personale che gestisce la detenzione, quando si tratti di individualizzare e di variare l'applicazione della pena: i sorveglianti, il direttore dello stabilimento di pena, un cappellano o un istitutore, sono più adatti ad esercitare questa funzione correttiva che non i detentori del potere penale. E' il loro giudizio (inteso come constatazione, diagnosi, caratterizzazione, precisione, classificazione differenziale) e non più un verdetto in forma di assegnazione di colpevolezza, a dover servire da supporto a questa modulazione interna della pena - al suo alleggerimento o perfino alla sua interruzione. Quando Bonneville, nel 1846, presentò il suo progetto di libertà condizionale, la definì come «il diritto che l'amministrazione avrebbe avuto, previo parere dell'autorità giudiziaria, di mettere in libertà provvisoria dopo un sufficiente tempo di espiazione e sotto certe condizioni, il condannato completamente emendato, salvo a reintegrarlo nella prigione, alla minima denuncia fondata» (51). Tutto quell'«arbitrario» che, nell'antico regime penale, permetteva ai giudici di modulare la pena ed ai principi di mettervi eventualmente fine, tutto quell'arbitrario che i codici moderni hanno tolto al potere giudiziario, lo vediamo ricostituirsi, progressivamente, dalla parte del potere che gestisce e controlla la punizione. Sapiente sovranità del guardiano: «Autentico magistrato chiamato a regnare sovranamente nella casa di pena... e che, per non essere al disotto della sua funzione, deve unire alla più eminente virtù, una profonda scienza degli uomini» (52).
E si arriva così a un principio, formulato chiaramente da Charles Lucas, che assai pochi giuristi oserebbero ora ammettere senza reticenze, benché segni la direttrice essenziale del funzionamento penale moderno; chiamiamolo la dichiarazione d'indipendenza carceraria: vi si rivendica il diritto di essere un potere che non solamente ha una sua autonomia amministrativa, ma quasi una parte della sovranità punitiva. Questa affermazione dei diritti della prigione pone un principio: che il giudizio penale è un'unità arbitraria; che è necessario scomporla; che i redattori dei codici hanno avuto ragione già nel distinguere il livello legislativo (che classifica gli atti ed attribuisce loro delle pene), e il livello di giudizio (che emana le sentenze); che oggi il compito è l'analizzare a sua volta quest'ultimo livello; che bisogna distinguere ciò che è propriamente giudiziario (valutare meno gli atti che non gli agenti, misurare le «intenzionalità che dànno agli atti umani tante moralità differenti», e dunque rettificare, quando è possibile, le valutazioni del legislatore); e dare autonomia al «giudizio penitenziario», che è forse il momento più importante. In rapporto a quest'ultimo, la valutazione del tribunale non è che un «modo di pre-giudicare», poiché la moralità dell'agente non può essere valutata «che alla prova. Il giudice ha dunque bisogno a sua volta di un controllo necessario e rettificante delle sue valutazioni; e questo controllo è quello che deve essere fornito dalla prigione penitenziaria» (53). Possiamo dunque parlare di un eccesso, o di una serie di eccessi, dell'imprigionamento in rapporto alla detenzione legale - del «carcerario» in rapporto al «giudiziario». Ora questo eccesso viene constatato assai presto, già dalla nascita della prigione, sia sotto la forma di pratiche reali, che sotto la forma di progetti. Non è venuto in seguito, come effetto secondario. Il grande meccanismo carcerario è legato al funzionamento della prigione. Possiamo vedere chiaramente il segno di questa autonomia nelle «inutili» violenze dei guardiani, o nel dispotismo di una amministrazione che ha i privilegi del luogo chiuso. La sua radice è altrove: precisamente nel fatto che si chiede alla prigione di essere «utile», nel fatto che la privazione della libertà - questo prelevamento giuridico su di un bene ideale - ha dovuto, fin dall'inizio, esercitare un ruolo tecnico positivo, operare delle trasformazioni sugli individui. E per questa operazione l'apparato carcerario è ricorso a tre grandi schemi: lo schema politico-morale dell'isolamento individuale e della gerarchia; il modello economico della forza applicata a un lavoro obbligatorio; il modello tecnico-medico della guarigione e della normalizzazione. La cella, la fabbrica, l'ospedale. Il margine per cui la prigione eccede la detenzione è in effetti coperto da tecniche di tipo disciplinare. E questo supplemento del disciplinare in rapporto al giuridico, è ciò che è stato chiamato il «penitenziario».

Questa aggiunta non venne accettata senza problemi. Questione che fu prima di tutto di principio: la pena non deve essere niente di più della privazione della libertà. Come i nostri attuali governanti, già Decazes lo diceva, ma nello splendore del suo linguaggio: «La legge deve seguire il colpevole nella prigione dove lo ha condotto» (54). Ma molto presto - ed è un fatto caratteristico - i dibattiti divennero battaglia per appropriarsi il controllo di quel «supplemento» penitenziario; i giudici chiederanno il diritto di controllo sui meccanismi carcerari: «La moralizzazione dei detenuti esige numerosi collaboratori; è solo con visite di ispezione, commissioni di sorveglianza, società di patronato che essa può compiersi. Le sono dunque necessari degli ausiliari, ed è la magistratura a doverli fornire» (55). Già a quest'epoca, l'ordine penitenziario aveva raggiunto abbastanza consistenza perché si potesse cercare non di disfarlo, ma di prenderlo in carico. Ecco dunque il giudice afferrato dal desiderio della prigione. Ne nascerà, un secolo dopo, un figlio bastardo, e tuttavia difforme: il giudice dell'applicazione delle pene.
Ma se il penitenziario, nel suo «eccesso» in rapporto alla detenzione, ha potuto di fatto imporsi, - assai più, intrappolare tutta la giustizia penale e rinchiudere gli stessi giudici - è perché ha potuto introdurre la giustizia criminale in relazioni di sapere che sono ora divenute per quest'ultima labirinto senza fine.
La prigione, luogo di esecuzione della pena, è nello stesso tempo luogo d'osservazione degli individui puniti. In due sensi. Sorveglianza, certo. Ma anche conoscenza di ogni detenuto, della sua condotta, delle sue disposizioni profonde, del suo progressivo miglioramento; le prigioni devono essere concepite come un luogo di formazione di un sapere clinico sui condannati; «il sistema penitenziario non può essere una concezione a priori; è una induzione dello stato sociale. Accade per le malattie morali, lo stesso che per le complicazioni di salute, in cui il trattamento dipende dalla sede e dalla direzione del male» (56). Il che implica due dispositivi essenziali. E' necessario che il prigioniero possa essere tenuto sotto controllo permanente; è necessario che siano registrate e contabilizzate tutte le note che si possono raccogliere. Il tema del "Panopticon" - nello stesso tempo sorveglianza e osservazione, sicurezza e sapere, individualizzazione e totalizzazione, isolamento e trasparenza - ha trovato nella prigione il suo luogo privilegiato di realizzazione. Se è vero che le procedure panoptiche, come forme concrete di esercizio del potere, hanno avuto, almeno allo stato disperso, una larghissima diffusione, è proprio solo nelle istituzioni penitenziarie che l'utopia di Bentham ha potuto, in blocco, prendere forma materiale. Il "Panopticon" divenne intorno agli anni 1830-40 il programma architettonico della maggior parte dei progetti di prigione.
Era il modo più diretto di tradurre «nella pietra l'intelligenza della disciplina» (57); di rendere l'architettura trasparente alla gestione del potere (58); di permettere che alla forza o alle costrizioni violente fosse sostituita la dolce efficacia di una sorveglianza senza pecche; di ordinare lo spazio secondo la recente umanizzazione dei codici e la nuova teoria penitenziaria: «L'autorità da una parte e l'architetto dall'altra devono dunque sapere se le prigioni devono essere organizzate nel senso dell'addolcimento delle pene o in un sistema di emendamento dei colpevoli, e in conformità di una legislazione che, risalendo verso l'origine dei vizi del popolo, diviene principio rigeneratore delle virtù ch'esso deve praticare» (59).
In concreto, costituire una prigione-macchina (60) con una cella di visibilità, in cui il detenuto si troverà preso come «nella casa di vetro del filosofo greco» (61) ed un punto centrale da dove un'osservazione permanente possa controllare nello stesso tempo prigionieri e personale. Attorno a queste due esigenze, numerose variazioni possibili: il "Panopticon" benthamiano nella sua forma più rigorosa, o il semicerchio, o la pianta a croce, o la disposizione a raggi. Al centro di tutte queste discussioni, il ministro dell'Interno richiama, nel 1841, i principi fondamentali: «La sala centrale d'ispezione è il perno del sistema. Senza un punto centrale d'ispezione, la sorveglianza cessa di essere sicura, continua, generale; perché è impossibile avere completa confidenza nell'attività, lo zelo, e l'intelligenza del preposto che sorveglia direttamente le celle... L'architetto deve dunque fissare tutta la sua attenzione su questo oggetto; questa è nello stesso tempo una questione di disciplina e di economia. Più la sorveglianza sarà precisa e facile, meno sarà necessario cercare nella forza delle costruzioni garanzie contro i tentativi di evasione e contro le comunicazioni dei detenuti fra loro. Ora, la sorveglianza sarà perfetta se da una sala centrale il direttore o il preposto in capo, senza cambiare di posto, vedrà senza essere visto non solo l'entrata di tutte le celle ed anche l'interno del maggior numero di celle quando la porta è aperta, ma altresì i sorveglianti preposti alla guardia dei prigionieri a tutti i piani... Con la formula delle prigioni circolari o semicircolari, sembrerebbe possibile il vedere da un unico centro tutti i prigionieri nelle loro celle ed i guardiani nelle gallerie di sorveglianza» (62).
Ma il "Panopticon" penitenziario è anche un sistema di documentazione individualizzante e permanente. L'anno stesso in cui venivano raccomandate le varianti dello schema benthamiano per la costruzione delle prigioni, veniva anche reso obbligatorio il sistema dei «resoconto morale»: bollettino individuale di modello uniforme per tutte le prigioni e sul quale il direttore, il guardiano in capo, il cappellano, l'istitutore sono chiamati a inscrivere le loro osservazioni su ciascun detenuto: «E' in qualche modo il vademecum dell'amministrazione della prigione, che la mette in grado di apprezzare ogni caso, ogni circostanza, e di illuminarsi quindi sul trattamento da applicare a ciascun prigioniero individualmente» (63). Ben altri sistemi di registrazione, assai più completi, sono stati progettati o tentati (64). Si tratta in ogni modo di fare della prigione il luogo di costituzione di un sapere che deve servire da principio regolatore per l'esercizio della pratica penitenziaria. La prigione non deve solo conoscere la decisione dei giudici e applicarla in funzione di principi stabiliti; essa deve prelevare in permanenza dal detenuto un sapere che permetterà di trasformare la misura penale in operazione penitenziaria; che farà della pena resa necessaria dall'infrazione una modificazione del detenuto, utile per la società. L'autonomia del regime carcerario e il sapere che essa rende possibile permettono di moltiplicare quell'utilità della pena che il codice aveva posto come principio della sua filosofia punitiva: «Quanto al direttore, non può perdere di vista nessun detenuto, perché in qualsiasi quartiere questi si trovi, sia che vi entri, sia che vi esca, sia che vi resti, il direttore è sempre tenuto a giustificare i motivi del mantenimento in una classe o del passaggio ad un'altra. E' un autentico contabile. Ogni detenuto è per lui, nella sfera dell'educazione individuale, un capitale posto a interesse penitenziario» (65). La pratica penitenziaria, sapiente tecnologia, rende produttivo il capitale investito nel sistema penale e nella costruzione di pesanti prigioni.
Correlativamente il delinquente diviene un individuo da conoscere. L'esigenza di sapere non si è tuttavia inserita in prima istanza nell'atto giudiziario, per rendere la sentenza più fondata e per determinare sulla verità la misura della colpevolezza: è come condannato, e a titolo di punto di applicazione di meccanismi punitivi, che l'autore di una infrazione si costituisce come oggetto di possibile sapere.
Ma questo implica che l'apparato penitenziario, con tutto il programma tecnologico che gli si accompagna, effettua una curiosa sostituzione: dalle mani della giustizia riceve, sì un condannato, ma ciò su cui deve applicarsi, non è l'infrazione, certo, e neppure chi l'ha commessa, ma un oggetto un po' differente, definito da variabili che almeno in partenza non erano prese in conto dalla sentenza, poiché erano pertinenti solo per la tecnologia correttiva. Questo personaggio diverso, che l'apparato penitenziario sostituisce al colpevole condannato, è il "delinquente".
Il delinquente si distingue dall'autore di una infrazione per il fatto che è meno il suo atto che non la sua vita ad essere pertinente per caratterizzarlo. L'operazione penitenziaria, se vuole essere una vera rieducazione, deve totalizzare l'esistenza del delinquente, fare della prigione una sorta di teatro artificiale e coercitivo dove quell'esistenza verrà riconsiderata dal principio alla fine. Il castigo legale verte su di un atto, la tecnica punitiva su una vita; essa, di conseguenza, deve ricostituirne l'infimo e il peggio nella forma del sapere, deve modificarne gli effetti o colmarne le lacune, per mezzo di una pratica costrittiva. Conoscenza della biografia e tecnica dell'esistenza raddrizzata. L'osservazione del delinquente «deve risalire non solo alle circostanze, ma alle cause del crimine; cercarle nella storia della sua vita, dal triplo punto di vista della organizzazione, della posizione sociale e dell'educazione, per conoscere e constatare le pericolose tendenze della prima, le incresciose disposizioni della seconda, ed i cattivi antecedenti della terza. Questa inchiesta biografica è parte essenziale dell'istruttoria giudiziaria per la classificazione delle penalità, prima di diventare una condizione del sistema penitenziario per la classificazione delle moralità. Deve accompagnare il detenuto dal tribunale alla prigione: qui il compito del direttore è non solo di raccoglierne, ma di completarne, controllarne e rettificarne gli elementi durante il corso della detenzione» (66). Dietro colui che ha commesso un'infrazione, al quale l'inchiesta sui fatti può attribuire la responsabilità di un delitto, si profila il carattere delinquenziale, di cui una investigazione biografica mostra la lenta formazione. L'introduzione del «biografico» è importante nella storia della penalità. Perché fa esistere il «criminale» prima del crimine e, al limite, al di fuori di questo. Perché, partendo dal biografico, una causalità psicologica finirà, doppiando l'assegnazione giuridica della responsabilità, per confonderne gli effetti. Si entra allora nel dedalo «criminologico», da cui oggi siamo ben lontani dall'essere usciti: ogni causa che, come determinazione, non può che diminuire la responsabilità, segna l'autore dell'infrazione di una criminalità tanto più temibile e che richiede misure penitenziarie tanto più rigorose. Nella misura in cui la biografia del criminale doppia nella pratica penale l'analisi delle circostanze quando si tratta di giudicare il crimine, vediamo il discorso penale e il discorso psichiatrico intrecciare le loro frontiere; e qui, nel loro punto di congiunzione, si forma quella nozione di individuo «pericoloso» che permette di stabilire una rete di causalità a scala di una intera biografia e di emettere un verdetto di punizione-correzione (67).
Il delinquente si distingue così dall'autore dell'infrazione nell'essere non solo autore del proprio atto (autore responsabile in funzione di certi criteri della volontà libera e cosciente), ma dall'essere legato al delitto da tutto un fascio di fili complessi (istinti, pulsioni, tendenze, carattere). La tecnica penitenziaria verte non sulla relazione d'autore, ma sull'affinità del criminale al suo crimine. Il delinquente, manifestazione singola di un fenomeno globale di criminalità, si distribuisce in classi quasi naturali, ciascuna dotata di caratteri definiti e cui compete un trattamento specifico, secondo quanto Marquet-Wasselot chiamava, nel 1841, "l'Ethnographie des prisons": «I condannati sono... un altro popolo nello stesso popolo: che ha le sue abitudini, i suoi istinti, i suoi costumi a parte» (68). Qui siamo ancora vicini alle descrizioni «pittoresche» del mondo dei malfattori - vecchia tradizione che riprende vigore nella prima metà del secolo Diciannovesimo, nel momento in cui la percezione di un'altra forma di vita viene ad articolarsi su quella di un'altra classe e di un'altra specie umana. Una zoologia delle sottospecie sociali, una etnologia delle civiltà dei malfattori, con i loro riti e la loro lingua, si disegnano in forma parodistica. Ma tuttavia vi si manifesta il lavoro di costituzione di una nuova oggettività, in cui il criminale si riallaccia ad una tipologia naturale e deviante insieme. La delinquenza, scarto psicologico della specie umana, può venire analizzata in termini di sindromi morbose o di grandi forme teratologiche. Con la classificazione di Ferrus, abbiamo senza dubbio una delle prime conversioni della vecchia «etnografia» del crimine in una tipologia sistematica dei delinquenti. L'analisi è debole, sicuramente, ma vi gioca con chiarezza il principio che la delinquenza deve specificarsi in funzione meno della legge che non della norma. Tre tipi di condannati: vi sono quelli che sono dotati «di risorse intellettuali superiori alla media di intelligenza da noi stabilita», ma che sono resi perversi sia dalle «tendenze della loro organizzazione» e da una «predisposizione nativa», sia da una «logica perniciosa», «una morale iniqua»; un «pericoloso apprezzamento dei valori sociali». Per costoro sarebbero necessari l'isolamento giorno e notte, la passeggiata solitaria, e, quando si sia obbligati a metterli in contatto con gli altri, «una leggera maschera di tela metallica, nel genere di quelle di cui si fa uso per il taglio delle pietre e per la scherma». La seconda categoria è costituita da condannati «viziosi, limitati, abbrutiti o passivi, che vengono trascinati al male dall'indifferenza per la vergogna come per il bene, per vigliaccheria, per pigrizia, per così dire, e per difetto di resistenza agli incitamenti malvagi»; il regime che conviene loro è meno quello della repressione che non dell'educazione, e se possibile, dell'educazione mutuale: isolamento di notte, lavoro in comune di giorno, permesso di far conversazione, purché a voce alta, letture in comune, seguite da interrogazioni reciproche, anch'esse soggette a ricompensa. Infine, esistono dei condannati «inetti o incapaci», che una «organizzazione incompleta rende inadatti ad ogni occupazione che richieda sforzi riflessi e consequenzialità nella volontà, che si trovano quindi nell'impossibilità di sostenere la concorrenza nel lavoro da parte degli operai intelligenti e che, non avendo né istruzione sufficiente per conoscere i doveri sociali, né intelligenza sufficiente per capirli e combattere i loro istinti personali, sono condotti al male dalla loro stessa incapacità. Per costoro, la solitudine non farebbe altro che incoraggiare l'inerzia; essi devono dunque vivere in comune, ma in modo da formare gruppi poco numerosi, sempre stimolati da occupazioni collettive e sottoposti ad una rigida sorveglianza» (69). Così si mette progressivamente in atto una conoscenza «positiva» dei delinquenti e delle loro specie, assai differente dalla qualificazione giuridica dei delitti e delle loro circostanze; ma distinta anche dalla conoscenza medica che permette di far valere la follia dell'individuo o di cancellare di conseguenza il carattere delittuoso dell'atto. Ferrus enuncia chiaramente il principio: «I criminali considerati in massa non sono altro che dei pazzi; si commetterebbe un'ingiustizia verso questi ultimi a confonderli con uomini scientemente perversi». Si tratta, in questo nuovo sapere, di qualificare «scientificamente» l'atto in quanto delitto, e soprattutto l'individuo in quanto delinquente. La possibilità di una criminologia è stabilita.
Il correlativo della giustizia penale è senza dubbio l'autore di un'infrazione, ma il correlativo dell'apparato penitenziario, è qualcun altro; è il delinquente, unità biografica, nucleo di «pericolosità», rappresentante di un tipo di anomalia. E se è vero che alla detenzione privativa della libertà, che era stata definita dal diritto, la prigione ha aggiunto il «supplemento» del penitenziario, questo a sua volta ha introdotto un personaggio di troppo, che si è introdotto tra colui che la legge condanna e colui che eseguisce questa legge. Laddove il corpo marchiato, squartato, bruciato, annientato del suppliziato è scomparso, è apparso il corpo del prigioniero, doppiato della individualità del «delinquente», della piccola anima del criminale, che l'apparato stesso del castigo ha fabbricato come punto di applicazione del potere di punire e come oggetto di ciò che ancora oggi viene chiamato scienza penitenziaria. Si dice che la prigione fabbrica i delinquenti; è vero che essa riconduce, quasi fatalmente, davanti ai tribunali coloro che le sono stati affidati. Ma essa li fabbrica in quest'altro senso, da lei stessa introdotto nel gioco della legge e dell'infrazione, del giudice e di colui che commette l'infrazione, del condannato e del boia: la realtà incorporea della delinquenza che li lega gli uni agli altri e, tutti insieme, da un secolo e mezzo, li prende nella stessa trappola.

La tecnica penitenziaria e l'uomo delinquente sono in qualche modo fratelli gemelli. Non è da credere che sia la scoperta del delinquente da parte di una razionalità scientifica, ad aver introdotto nelle vecchie prigioni le raffinatezze delle tecniche penitenziarie. Non è da credere neppure che l'elaborazione interna dei metodi penitenziari abbia finito per mettere in luce l'esistenza «oggettiva» di una delinquenza, che l'astrazione e il rigore giudiziari non potevano scorgere. Esse sono apparse tutt'e due insieme e come prolungamento l'una dell'altra - come un insieme tecnologico che forma e ritaglia l'oggetto al quale applica i suoi strumenti. Ed è questa delinquenza, formata nel sottosuolo dell'apparato giudiziario, a quel livello di «basse opere» da cui la giustizia distoglie gli occhi, per la vergogna che prova a punire coloro che condanna, è questa delinquenza che viene ora ad assillare i tribunali sereni e la maestà della legge, è questa delinquenza che bisogna conoscere, valutare, misurare, diagnosticare, trattare, quando si emettono sentenze, è essa, ora, questa anomalia, questa deviazione, questo sordo pericolo, questa malattia, questa forma di esistenza, che bisogna prendere in considerazione quando si riscrivono i Codici. La delinquenza è la vendetta della prigione contro la giustizia. Vendetta abbastanza temibile da lasciare il giudice senza voce. Sale allora il tono dei criminologi.
Ma bisogna tener presente che la prigione, figura concentrata e austera di ogni disciplina, non è un elemento endogeno nel sistema penale definito durante la svolta tra il secolo Diciottesimo e il Diciannovesimo. Il tema di una società punitiva e di una semio-tecnica generale della punizione che ha sotteso i Codici «ideologici» - beccariani o benthamiani - non chiedeva l'uso generalizzato della prigione. La prigione viene da altrove - viene dai meccanismi propri ad un potere disciplinare. Ora, malgrado questa eterogeneità, i meccanismi e gli effetti della prigione si sono diffusi in tutto il tessuto della giustizia criminale moderna ed i delinquenti l'hanno parassitata per intero. Sarà necessario ricercare la ragione di questa temibile «efficacia» della prigione. Ma possiamo già notare una cosa: la giustizia penale definita nel secolo Diciottesimo dai riformatori tracciava due possibili linee di oggettivazione criminale, ma due linee divergenti: l'una, era la serie dei «mostri», morali o politici, caduti fuori dal patto sociale; l'altra era quella del soggetto giuridico riqualificato dalla punizione. Ora, il «delinquente» permette di congiungere le due linee e di costituire sotto la garanzia della medicina, della psicologia o del la criminologia, un individuo nel quale il violatore della legge e l'oggetto di una tecnica si sovrappongono - press'a poco. Che l'innesto della prigione sul sistema penale non abbia prodotto violente reazioni di rigetto è senza dubbio dovuto a molteplici ragioni. Una di esse è che, fabbricando delinquenza, ha dato alla giustizia criminale un campo di oggetti unitario, autentificato da «scienze» permettendole così di funzionare su un orizzonte generale di «verità».
La prigione, questa zona la più buia entro l'apparato della giustizia, è il luogo dove il potere di punire, che non osa più esercitarsi a viso scoperto, organizza silenziosamente un campo di oggettività in cui il castigo potrà funzionare in piena luce come terapeutica e la sentenza inscriversi tra i discorsi del sapere. Si capisce come la giustizia abbia adottato tanto facilmente una prigione che non era tuttavia stata figlia del suo pensiero. Le doveva davvero questa riconoscenza.

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