L'esistenza delle prigioni è data per scontata con troppa facilità. Per chi evita di avere fastidi con la legge, carceri e pene occupano un posto marginale nella coscienza sociale dei fatti della vita. Tuttavia nel corso della storia le carceri si sono imposte a più riprese all'attenzione pubblica, cessando, in tali occasioni, di essere un fatto scontato per divenire qualcosa di problematico. Negli ultimi dieci anni la questione della pena si è nuovamente imposta al pubblico dibattito, ma la vicinanza nel tempo rende difficile comprendere le ragioni di tale interessamento, anche se se ne possono suggerire alcune. L'aumento della criminalità nella maggior parte dei paesi occidentali dopo il 1960 ha rinnovato i dubbi ricorrenti circa l'efficacia del carcere quale deterrente; nello stesso tempo la crescente pressione numerica ha contribuito ad aggravare le condizioni di vita in istituti di pena spesso antiquati e cadenti; una nuova generazione di detenuti, più decisa di tutte le precedenti a difendere i propri diritti, si è trovata rinchiusa in edifici sovraffollati; in risposta a queste pressioni, amministratori riformisti hanno liberalizzato le procedure di sicurezza e di disciplina in molte prigioni, suscitando forti contrasti e opposizione aperta fra il personale di custodia. L'insieme di pressioni popolari, delusione dell'opinione pubblica, riforme maldestre, militanza dei detenuti e intransigenza del personale di custodia ha spezzato il fragile ordine che regnava nelle carceri. A questo sfacelo è seguito quasi un decennio di cattura di ostaggi, dimostrazioni e sommosse su larga scala. Le rivolte nelle carceri, un fenomeno dapprima americano, si sono diffuse in Spagna, Francia, Canada, Gran Bretagna e Italia. Non è ancora chiaro se esse abbiano ottenuto più di qualche concessione simbolica, ma indubbiamente hanno almeno trasformato le prigioni in qualcosa che l'opinione pubblica non dà più per scontato. Le rivolte e la loro repressione hanno poi rivelato il ruolo fondamentale che la coercizione ha nel mantenimento dell'ordine sociale. Per molti è stata una scoperta traumatica. Quando il giornalista americano Tom Wicker si recò ad Attica e fu sul punto di attraversare la terra di nessuno che divideva la polizia statale dagli insorti che controllavano il settore D, era
«profondamente cosciente... di essere in procinto di lasciarsi alle spalle ordinamenti e strumenti con i quali la civiltà gli garantiva ordine e sicurezza: la legge con le sue regole, funzionari e armi. Nel momento in cui si sottraeva alla loro protezione, comprese non solo quanto avesse data per scontata la loro presenza, senza esserne consapevole e senza neppure riconoscerla, ma anche quanto, in un paese civile, la legge desse in fondo per scontata nell'identico tacito modo la sua dipendenza dalle armi». (1)
Come aveva compreso Wicker, le prigioni mettono a nudo nel modo più violento la questione della moralità del potere statale. Pur ammettendo che l'uso della forza sia necessario per mantenere l'ordine sociale, quale grado di coercizione può legittimamente esercitare lo stato su chi disobbedisce? Qualsiasi discussione sulle condizioni e gli abusi nelle carceri riconduce in ultima istanza a questi interrogativi che l'episodio di Attica ripropose in forma nuova e più urgente.
E' quindi legittimo, in un periodo in cui la moralità e i modi della punizione sono soggetti a un nuovo esame, ripensare all'Europa del Diciottesimo secolo, quando John Howard, Jeremy Bentham e Cesare Beccaria sollevarono per primi il problema delle carceri, dando espressione alle preoccupazioni delle loro classi. Dalle loro riflessioni sui diritti dello stato nei confronti dei reclusi derivarono le giustificazioni di natura riformatrice e utilitaristica della pena che regolano ancor oggi il nostro modo di pensare. Dagli attacchi che essi portarono contro gli abusi delle vecchie istituzioni derivò l'ambigua eredità del penitenziario moderno. I riformatori del tardo Settecento influenzano ancora il nostro modo di affrontare il problema della pena. Negli attuali dibattiti, ad esempio, voci influenti si levano a invocare il ritorno alle verità classiche espresse da Beccaria sulla certezza e l'economia della punizione, mentre altri tentano di screditare questa eredità, puntando il dito contro il suo principale lascito istituzionale, il penitenziario. Questo libro descrive la nuova filosofia della pena emersa in Inghilterra fra il 1775 e il 1840; è una storia sociale di quelle nuove idee, incentrata sulla lotta per attuarle nei penitenziari, sulla resistenza che esse sollevarono fra i detenuti e gli uomini politici radicali e sull'ironia delle conseguenze, intenzionali e involontarie, che si ebbero dopo il loro trionfo negli anni Quaranta del secolo scorso. L'opera analizza la nascita della moderna regolamentazione dell'esercizio del potere nelle carceri, tenta di stabilire perché venne considerato giusto, ragionevole e umano rinchiudere i detenuti in celle d'isolamento, vestirli con uniformi, regolare la loro giornata sulla cadenza di un orologio e a «migliorare» la loro mente con dosi di sacra scrittura e di lavori forzati. Fra il 1770 e il 1840 questa forma di disciplina carceraria, «rivolta alla mente», sostituì l'insieme di pene «rivolte al corpo»: la frusta, il marchio a fuoco, la gogna e l'impiccagione. Quali nuove esigenze, quale nuova concezione della pena spiegano questa radicale trasformazione nella strategia della punizione? La comparsa di un nuovo modello di autorità entro le mura delle carceri è ovviamente legata ai mutamenti dei rapporti di classe e delle relazioni sociali al di fuori delle prigioni; perciò uno studio della disciplina carceraria diviene necessariamente un'analisi anche dei limiti morali dell'autorità sociale in una società soggetta alle trasformazioni del capitalismo. Infine questo volume rappresenta uno sforzo di determinare i confini che gli inglesi delle classi superiori fissarono al proprio potere sui poveri e il modo in cui questi confini vennero ridefiniti nel corso della formazione di una società industriale.
M. I.
Londra, 1977.