LE PUNIZIONI NEL DICIOTTESIMO SECOLO.
1. Prima del 1775 si usava raramente la detenzione per punire qualche crimine; all'Old Bailey, il più importante tribunale criminale di Londra e del Middlesex, le condanne al carcere costituivano non più del 2,3% delle sentenze comminate fra il 1770 e il 1774 (1). I periodi di detenzione erano brevi, mai superiori a tre anni e in genere di un anno o meno, ed erano inflitti a una categoria ristretta di criminali, condannati per omicidio colposo, frodi commerciali, spergiuri, associazioni contro i datori di lavoro o sommosse. I rivoltosi che appoggiarono Wilkes e i sarti, scaricatori di carbone, cappellai e marinai di Londra che dimostrarono per salari più alti durante gli anni sessanta furono tutti puniti con pene detentive (2). Solo chi commetteva crimini minori di questo tipo veniva imprigionato; quanti invece vennero riconosciuti colpevoli per la partecipazione alla violenta guerra del commercio della seta di Spitalfields nel 1769 e nel 1770 furono giustiziati o deportati in America.
Le motivazioni che giustificavano l'uso della detenzione in casi simili da parte dei giudici non sono affatto chiare. Per contese sorte da conflitti fra datori di lavoro e operai tuttavia alcuni dei criteri
adottati emergono dalla corrispondenza fra il Lord Chief Justice e il Segretario di Stato nel 1773 a proposito della sorte di sette tessitori a giornata di Paisley condannati per sommossa e associazione contro i propri datori di lavoro (3). Il giudice prevedeva che l'esecuzione di questi uomini avrebbe eccitato a tal punto gli altri tessitori da indurli a rivoltarsi nuovamente o ad emigrare in massa in America. La situazione in città, sosteneva, era «molto delicata» e, avendo deciso che una dimostrazione di pietà avrebbe riportato l'ordine più facilmente di una prova di forza, ordinò che le condanne fossero ridotte alla detenzione (4). Nel caso di Paisley perciò l'imprigionamento rientrava fra le tattiche di concessione quale compromesso «intermedio» e quindi «pietoso» tra la deportazione e l'impiccagione, ma a parte queste occasioni speciali i giudici si servivano raramente delle carceri per punire crimini gravi.
Per tali delitti, i più frequenti dei quali erano rapina lungo le strade, furto con scasso, abigeato, furto aggravato, assassinio e incendio doloso, la pena era in teoria la morte. Il numero di crimini che comportavano la pena capitale aumentò da circa 50 nel 1688 a circa 160 nel 1756 e toccò più o meno i 225 alla fine delle guerre napoleoniche, anche se nessuno era certo del numero complessivo (5). Alcune nuove leggi, come ad esempio il Riot Act, rendevano passibili della pena di morte delitti che erano stati a lungo soggetti a pene minori; altri, come il Black Act, penalizzavano attività che nel passato non erano considerate criminali, come il furto di sterpi, frutti dagli alberi e legname, i danni prodotti a orti, rampicanti da luppolo o a terreni boscosi, la pesca in uno stagno o la rottura di argini per far uscire pesce (6). Il Black Act fu emanato per consentire la condanna dei piccoli coltivatori e affittuari che stavano conducendo una resistenza simile a una guerriglia contro l'usurpazione dei propri diritti consuetudinari sulle foreste da parte di proprietari arricchiti e guardie forestali regie nelle zone boschive dello Hampshire e del Berkshire. Approvato come misura d'eccezione, il Black Act divenne un'aggiunta permanente all'arsenale delle leggi che regolavano la caccia (7).
Altri statuti di questo periodo non hanno ricevuto un'attenzione adeguata da parte degli storici e non è quindi chiaro perché nel corso di questo secolo, vi sia stata tale graduale e rudimentale estensione della nozione di crimine; in termini molto generici parrebbe che le nuove leggi riflettessero la commercializzazione dell'agricoltura settecentesca e il desiderio dei proprietari di ricavare un profitto dal boschivo, da stagni e da incolti sulle proprie terre che erano stati in precedenza ignorati o lasciati al libero uso dei poveri. In questa prospettiva le pene introdotte erano ritenute necessarie per sancire la legittimità di questa affermazione dei diritti di proprietà; infatti i braccianti, i contadini più poveri e i coltivatori meno ricchi avevano diritti consuetudinari di caccia, raccolta di legna, rami secchi, torba e altri doni della natura, diritti che la "gentry" aveva in precedenza rispettato come parte inviolabile del tradizionale ordine rurale. In tal modo l'allargamento della definizione di crimine, prodotta dal Black Act e da altre leggi che prevedevano l'applicazione della pena capitale, rappresenterebbe l'ampliamento dei diritti di proprietà della "gentry" a spese del diritto comune e della consuetudine (8).
In altri casi la criminalizzazione di attività popolari servì ai bisogni del commercio e l'esempio migliore fu dato dal proliferare di nuovi statuti contro falsificazioni e contraffazioni durante i primi quaranta anni del secolo. Il magistrato e giurista William Blackstone spiegava l'aumento di leggi in questo campo con il tentativo, da parte degli interessi bancari e commerciali, di tutelare il nuovo sistema di credito e cambio cartaceo introdotto in risposta al sorgere di un mercato nazionale (9). Questi interessi riuscirono evidentemente a convincere sia la corona sia la magistratura di quanto fosse importante per il commercio un'applicazione rigorosa di queste nuove leggi. Per tutto il secolo due terzi dei condannati per falsificazione furono effettivamente giustiziati (10); con l'eccezione degli assassini, nessun delitto fu punito con maggior inflessibilità.
In teoria il Bloody Code, come era popolarmente conosciuta la legge, appariva rigido e inflessibile, in quanto comminava la morte sia per un omicidio sia per la contraffazione di un piccolo titolo di vendita, ma in pratica l'applicazione delle pene era assai elastica e consentiva un ampio grado di discrezione al giudice, atteggiamenti di pietà da parte dell'esecutivo in risposta a richieste di grazia o dimostrazioni esemplari di terrore. Il caso di Paisley, già ricordato, dimostra come i giudici potevano servirsi dei propri poteri per mitigare il codice. Lo stesso potere naturalmente poteva essere usato nella direzione opposta: nel 1775 due magistrati di Halifax ottennero l'approvazione del Segretario di Stato per appendere il corpo incatenato di Matthew Normanton, condannato per l'assassinio del controllore delle imposte di Halifax, in cima alla Beacon Hill. Per quanto ammettessero che fosse insolito impiccare qualcuno in catene, i giudici erano stati esortati a far ciò da «molti gentiluomini e rispettabili mercanti di Halifax e Rochdale e dintorni», i quali ritenevano che «un esempio pubblico straordinario» avrebbe trattenuto altri dal falsificare monete, crimine in cui era impegnato Normanton quando era stato scoperto dallo sventurato daziere (11). Un sistema giudiziario che consentiva ai giudici di intensificare l'impatto simbolico del rituale d'impiccagione in risposta alle pressioni di cittadini «rispettabili», oppure di rinunziarvi del tutto in risposta a tessitori ribelli era evidentemente più flessibile di quanto in apparenza potessero far pensare le pene di tipo sanguinario che esso invariabilmente prevedeva.
Naturalmente vi erano applicazioni più misericordiose della discrezione della magistratura. Ad esempio i giudici dello Home Circuit, durante gli anni Cinquanta, graziarono un terzo dei criminali condannati a morte, inviandoli invece nelle colonie (12). Il potere di grazia consentiva loro di mitigare le sentenze capitali in casi «speciali» o «degni», di salvare trasgressori «rispettabili» che potevano godere della protezione di un patrono e in genere di temperare il più severo codice penale d'Europa con un uso elastico della clemenza.
L'applicazione del codice era poi modificata in pratica dal tradizionale privilegio della condizione di chierico; riservato inizialmente a ecclesiastici giudicati nei tribunali regi del Medioevo ed esteso gradualmente ad altri gruppi di persone fino a quando, nel 1705, divenne universale, questo privilegio consisteva in un'eccezione che i criminali condannati per una serie di delitti capitali minori potevano sollevare per salvarsi dal patibolo. Dopo aver dichiarato la propria condizione di «chierici» (fino al 1705 dando prova di istruzione recitando un passaggio della scrittura, il cosiddetto «versetto del collo», e dopo il 1705 senza bisogno di questa formalità), i condannati erano frustati o marchiati sul pollice e quindi rilasciati (13). Non è chiaro quali crimini fossero protetti da questo beneficio; Blackstone sottolinea che, mentre esso venne esteso a tutti nel 1705, la serie di delitti per cui poteva essere rivendicato fu considerevolmente ridotta in quanto la marchiatura del pollice venne ad essere considerata «quasi una non punizione». Così nel 1717 fu approvato un atto che non riconosceva questo privilegio in caso di furto con scasso: come fa notare Blackstone, esso venne dichiarato delitto capitale a causa «dei progressi nel commercio e nella ricchezza», in altre parole per l'accresciuto numero di proprietà commerciali e di attività affaristiche che necessitavano di protezione (14). In pratica, tuttavia, i condannati per delitti capitali sottratti al beneficio di chierico o per quei delitti dichiarati capitali per la prima volta dopo il 1688 erano tendenzialmente deportati nelle colonie più che giustiziati. Come ha dimostrato J. M. Beattie nel suo studio sulle sentenze nel Sussex e nel Surrey, i condannati per delitti che prevedevano nella nuova legislazione la pena capitale erano meno facilmente «abbandonati all'esecuzione» dai giudici di quanto lo fossero invece le persone condannate per crimini tradizionalmente puniti con la morte quali l'assassinio, il furto con scasso o le rapine di strada (15). A causa di questa applicazione differenziata delle nuove e vecchie pene, Blackstone riteneva perciò che la legislazione capitale si ampliasse senza che la sua legittimità morale venisse compromessa.
L'abitudine dei magistrati a graziare criminali condannati a morte, specialmente quelli condannati per attività da poco criminalizzate, contribuì a un rapido incremento della deportazione quale mezzo di punizione. In tal modo l'atto del 1717 mutò la pena per furti semplici (15 A) da fustigazione a deportazione e altri atti legislativi fecero lo stesso per rapine, falsificazioni di piccole proporzioni di monete e ricettazione di beni rubati (16). Se la sostituzione della fustigazione e della marchiatura con la deportazione può essere interpretata, al pari dell'ampliamento dello stesso Bloody Code, come un tentativo del parlamento di aumentare il rigore delle pene tradizionali, l'aumento delle grazie concesse nel caso di condanne alla pena capitale dopo il 1750 sembrerebbe indicare il diffondersi di una tendenza opposta fra i giudici insieme a un dubbio crescente circa l'equità di colpire infrazioni non gravi con condanne a morte (17). Allo stesso modo certe decisioni delle giurie suggeriscono l'ipotesi di una loro inquietudine a mandare delinquenti minori al patibolo. Le giurie, al pari dei giudici, avevano una certa misura di discrezionalità nell'emettere i verdetti ed era abituale che con «pietoso falso», condannassero le persone accusate di furto aggravato (delitto punibile con la pena capitale), per furto semplice (crimine minore che comportava la deportazione), stimando i beni rubati a meno di uno scellino qualunque fosse il valore effettivo (18). I commenti di varie autorità in campo legislativo, come ad esempio Blackstone, fanno pensare che questa usanza sia divenuta più comune dopo il 1750, segno che stava crescendo l'insoddisfazione pubblica per il Bloody Code (19).
Chi poi desiderava una riforma del codice penale in vigore citava a sostegno di tale insoddisfazione testimonianze sparse da cui risultava che le vittime di certi delitti preferivano non denunciare i delinquenti per timore di mandarli al patibolo (20); nessuno studio, tuttavia, ha ancora dimostrato che aumentasse nel corso del secolo l'incidenza di procedimenti legali abbandonati o lasciati cadere; se pure esistesse qualche analisi al proposito, sarebbe azzardato attribuire a semplice scrupolo morale il comportamento dei magistrati. Infatti, oltre al tormento morale provocato dal mandare qualcuno al patibolo, i costi e i rinvii dei procedimenti giudiziari sarebbero stati sufficienti a trattenere molti dall'avviarli (21) e di conseguenza alcuni lasciavano cadere l'accusa, fornivano «testimonianze insufficienti» al tribunale per risparmiare la vita degli accusati o imploravano i giudici di punirli «altrimenti» che con l'impiccagione (22). Ovviamente il concetto della proporzionalità fra delitto e pena era determinato da un complesso calcolo da parte dell'accusa, del giudice o dei giurati, ma di esso non si sa abbastanza per spiegare perché mutasse nel corso del Diciottesimo secolo. E' chiaro tuttavia che parlamento, magistratura e giurie collaborarono nell'estendere l'uso della deportazione come pena sostitutiva della fustigazione e dell'impiccagione. Verso la fine degli anni Sessanta la deportazione nelle colonie americane per sette, quattordici anni o a vita rappresentava il 70% delle condanne comminate all'Old Bailey, percentuale che sale ulteriormente se si comprendono i condannati a morte graziati (23).
Anche se la legge del 1717 rendeva i furti minori passibili di deportazione, molti giudici continuarono comunque a condannare alla fustigazione pubblica, accompagnata occasionalmente da brevi periodi di carcere. E' difficile discernere i criteri che determinavano le scelte dei giudici dell'Old Bailey, a parte il capriccio personale: l'apprendista di un fornaio fu condannato nel 1770 alla fustigazione per essere fuggito con il cestino del pane del padrone; alla stessa sessione un bracciante agricolo fu frustato per aver rubato dodici scellini a un coinquilino nelle stanze sopra una birreria; tuttavia un portabagagli che aveva rubato beni del valore di soli quattro scellini a un fabbricante di candele fu deportato (24). La serietà di un crimine era evidentemente determinata solo in parte dal valore dei beni rubati. Pare che i giudici comminassero la fustigazione invece della deportazione in caso di prima infrazione o quando il furto era commesso da un servitore o un apprendista a danno del proprio padrone; la legislazione penale considerava i furti commessi da servitori più gravi dei furti minori commessi da estranei poiché era stata violata la fiducia implicita nel rapporto di lavoro, ma in pratica pare che i padroni implorassero la clemenza dei giudici, offrendo di riprendere al proprio servizio i condannati dopo la punizione. Probabilmente la scarsità di mano d'opera durante gli anni Sessanta e Settanta influenzò la scelta dei padroni di far punire con la frusta i dipendenti piuttosto che lasciarli deportare (25). Quali che fossero i motivi delle decisioni dei giudici, i procedimenti penali dell'Old Bailey rivelano che la fustigazione venne comminata, talvolta con periodi di carcere, nel 14,2% delle sentenze emesse fra il 1770 e il 1774 (26).
Al pari dell'impiccagione, la fustigazione era un rito pubblico e veniva inflitta da una guardia della parrocchia o da un funzionario del tribunale a edificazione della popolazione. Si riteneva perciò importante che l'avvenimento si svolgesse in un momento e in un luogo atti ad attirare l'attenzione, come risulta da una sentenza dei giudici del Surrey registrata nel 1775:
«Robert Snowdon... condannato per delitto grave è affidato alla vostra custodia per lo spazio di tre mesi e il sabato 15 prossimo fra le ore dodici e quattordici di quel giorno dovrà essere spogliato dalla vita in su e legato all'estremità di un carro e pubblicamente frustato, mentre lo si conduce dal magazzino intorno alla piazza del mercato di Kingston upon Thames e indietro finché la sua schiena sanguini e alla fine dei detti tre mesi sia liberato senza spese» (27).
Come i loro colleghi di Halifax che avevano orchestrato l'impiccagione in catene di un falsario, i giudici del Surrey rivelarono un acuto senso della teatralità e della scelta del momento su cui si basavano gli effetti deterrenti del rito punitivo.
Un'altra pena che comportava il pubblico ludibrio era la gogna. I trasgressori che suscitavano in alto grado la pubblica indignazione, come i negozianti che si servivano di pesi falsi, le persone colpevoli di fare incetta o speculare sui cereali, o le persone condannate per violenza omosessuale, erano messi alla berlina sulla piazza del mercato o davanti a una prigione e costrette a sopportare per un'ora gli insulti della folla (28). Tale punizione variava in base ai sentimenti del popolino: poteva essere terribile se la folla gettava pietre e rifiuti, mentre se essa simpatizzava con il condannato i magistrati potevano fare ben poco per impedire che un'ora di berlina divenisse un pubblico trionfo come si verificò quando Daniel Isaac Eaton, l'anziano e illustre stampatore radicale, fu condannato alla gogna a Newgate nel 1813. Con grande disappunto delle autorità, alcune persone inghirlandarono la testa di Eaton e, ancora alla gogna, gli portarono rinfreschi, mentre le guardie e i magistrati venivano ingiuriati (29).
Le pene simili a queste, comminate seguendo un rituale, erano efficaci come deterrente solo se esisteva il tacito sostegno della folla alle condanne emesse dalla magistratura (30). Ne derivava perciò che il controllo sul rituale da parte dei giudici era limitato. In teoria il corteo verso il patibolo e l'esecuzione stessa dovevano costituire una scena ben preparata su cui il condannato e il prete rappresentavano un dramma fatto di esortazione, confessione, pentimento davanti a una folla intimorita e plaudente. I discorsi del pastore erano pezzi prestabiliti sugli obblighi verso la società, pronunciati sul patibolo e quindi distribuiti nelle vie con un resoconto sulla vita del condannato e sulla sua carriera criminale. In un sermone pronunciato al patibolo di Tyburn a Londra nel 1695 è ben espresso tutto il sapore di tali discorsi; il pastore, rivolgendosi ai condannati che avevano già il cappio al collo, pronunciò le seguenti parole:
«E' triste lo stato e deplorevole la condizione cui sei giunto, giudicato dalle leggi del tuo paese e da esse ritenuto indegno di vivere più a lungo, indegno di camminare su questa terra, di respirare quest'aria; nulla di buono, nessun ulteriore beneficio all'umanità ci si può attendere da te se non l'esempio dato dalla tua morte, per cui sarai come un segnale su rocce e sabbie pericolose per evitare ad altri la stessa rovina in futuro» (31).
Se tuttavia i presenti non avessero approvato l'esecuzione, i nobili sentimenti espressi dal pastore sarebbero stati sommersi dalle ingiurie levantesi dalla folla che aveva un senso assai sviluppato dei diritti dei condannati; se questi venivano limitati, essa non esitava a sfogare la propria indignazione sulle autorità, soprattutto se lo stesso condannato contestava la giustizia dell'esecuzione. Un tale duplice senso di offesa per i diritti ignorati e per i delinquenti ingiustamente giustiziati, indusse la folla, presente a Tyburn per l'esecuzione dei setaioli che avevano distrutto telai durante le agitazioni di Spitalfields nel 1769, ad attaccare e distruggere la casa dello sceriffo dopo che la condanna era stata eseguita. Ciò che li aveva particolarmente infuriati, spiegò uno dei manifestanti a un gentiluomo presente, era stato il fatto che lo sceriffo non aveva avuto neppure la decenza di concedere ai condannati il tempo di pregare. Era questa una concessione che la folla londinese poneva fra i diritti di chi doveva essere giustiziato (32).
Non è del tutto chiaro in che misura le autorità accettassero il principio per cui i condannati dovevano godere di particolari diritti, ma risulta che in genere li rispettassero. I loro ultimi desideri e le loro ultime parole venivano accolte con attenzione da guardie, sceriffi e pastori che tentavano di indurre i criminali a servirsi dell'influenza che le loro parole potevano esercitare per esortare la folla a rinunciare al crimine e ad obbedire al potere civile. Le autorità tuttavia non potevano sempre garantire un esito tanto favorevole. Il condannato poteva scegliere di interpretare sulla scena di morte il ruolo di peccatore contrito suggeritogli dal pastore o quello del ribelle insolente e ubriaco proposto dalla folla. Una simile scelta era resa possibile dal fatto che il rituale dell'esecuzione era diretto sia dalla folla sia dalle autorità. Non sorprende quindi che molti condannati ricoprissero il ruolo suggerito dalla folla con la speranza di restare nella memoria popolare grazie a una morte da «eroe». Talvolta il condannato giungeva a contestare la giustizia della sentenza, trasformando così l'avvenimento da un'asserzione della legge in una contestazione pubblica della stessa, come accadde il 16 giugno 1693, quando due stampatori condannati per alto tradimento salirono sul patibolo a Tyburn:
«Il pastore esortò Anderton e Dudley a pregare Dio di poter servire da esempio di sincero pentimento e di ammonimento al popolo con la loro triste e prematura morte. Ma essi non gli obbedirono e perciò il pastore, chiedendo silenzio, parlò in questo modo: "Convincetevi, davanti a questi condannati, a non tentare nulla contro il governo di questo regno perché Dio rivelerebbe simili azioni e la giustizia le punirebbe". Egli poi esortò il popolo a non profanare il giorno del Signore, cosa che tutti coloro che muoiono pubblicamente lamentano essere il peccato che produce ogni altro crimine. Anderton disse ai presenti che la sua sentenza era molto dura e severa. Io (il pastore) gli dissi che egli aveva tentato di sovvertire il governo costituito. Egli disse che perdonava i propri giudici. Io replicai che essi non avevano bisogno del suo perdono» (33).
Quando il condannato o la folla rifiutavano di assumere il ruolo predeterminato, vi era ben poco che le autorità potessero fare per impedire che il rito solenne dell'accompagnamento al patibolo e dell'esecuzione divenisse una manifestazione disordinata. I magistrati avevano a disposizione solo poche guardie e potevano fare ricorso alle armi soltanto in caso di estremo pericolo e perciò dovevano in genere limitarsi a guardare impotenti mentre la folla premeva attorno al carro, ingiuriava il pastore e acclamava il malfattore ubriaco e sovente insubordinato (34).
Lo stravolgimento di questo rituale, trasformato da solenne manifestazione della giustizia in un baccanale popolare, spinse alcuni osservatori del Diciottesimo secolo ad esprimere dubbi sull'efficacia deterrente delle pubbliche impiccagioni. Bernard Mandeville attribuiva in parte l'ondata di crimini che investì Londra durante gli anni Venti alle sfide licenziose e turbolente lanciate contro la legge presso il patibolo di Tyburn. Tali scene, egli concludeva aspramente, permettevano ai poveri di credere che in un'impiccagione non vi fosse null'altro che «un collo torto e un paio di calzoni bagnati» (35). Siccome Mandeville non fu il solo a dubitare dell'efficacia di un rituale tanto facilmente stravolto dalla folla, viene da chiedersi perché mai i giudici inglesi continuassero a servirsi di punizioni inflitte pubblicamente per tutto il Settecento e per metà del secolo successivo. Il filosofo ed ecclesiastico William Paley sostenne che le impiccagioni continuarono perché tali manifestazioni pubbliche e occasionali dell'ira sovrana costituivano un metodo più economico e costituzionale di prevenire il crimine che non l'alternativa «francese», una polizia centralizzata che pattugliasse le strade e prevenisse i delitti intromettendosi nella vita e nelle libertà dei sudditi (36). La concezione dell'ordine diffusa in Inghilterra implicava che l'esecuzione dei malfattori incorreggibili fosse selettiva e pubblica, mentre il metodo «francese» comportava una ricerca burocratica anche dei delinquenti meno importanti. Da quanto si sa della polizia rurale francese nell'"ancien régime", è ovvio tuttavia che la visione che ne avevano gli inglesi rappresentava un'esagerazione fantasiosa sia della sua efficienza sia della sua indiscrezione (37). Il mito della «polizia francese» contribuì nondimeno a dare una coloritura liberale all'alternativa inglese delle esecuzioni pubbliche.
Il carattere pubblico dell'impiccagione era poi esaltato quale garanzia dei diritti della vittima. I magistrati londinesi John e Henry Fielding suggerirono, durante gli anni Cinquanta, che le esecuzioni avvenissero «privatamente», all'interno delle carceri, in modo che l'avvenimento non potesse essere trasformato in una manifestazione di sfida alle autorità (38). E' tuttavia interessante notare che il suggerimento non ricevette alcun appoggio, neppure da chi si dichiarava sgomento di fronte ai «baccanali» di Tyburn. Si temeva che, se le esecuzioni si fossero svolte in carcere, non si sarebbe potuto garantire che il boia giustiziasse effettivamente il condannato e che, almeno secondo la fantasia popolare, ricchi malfattori avrebbero potuto convincere il boia a sostituire loro qualche poveraccio. Solo le esecuzioni pubbliche, portate a termine davanti alla folla, potevano impedire simile orrenda corruzione.
La folla poi esercitava un ruolo di testimone e si rendeva conto di essere presente per garantire che le vittime non fossero sottoposte ad eccessive sofferenze a causa della malvagità o dell'incompetenza del boia. Un giustiziere che raffazzonava il proprio lavoro, che permetteva alla vittima di contorcersi e strangolarsi, rischiava di essere fatto a pezzi dal popolo (39). Il carattere pubblico delle esecuzioni quindi aveva una giustificazione in quanto garantiva i diritti dei sudditi.
I principi con cui si tendeva a giustificare questi rituali vanno comunque posti in rilievo, in quanto i riformatori dell'Ottocento riuscirono in gran misura a convincere l'opinione pubblica che si trattava di spettacoli degradanti e brutali. In questo come in altri casi, il compito dello storico consiste nel recuperare la storia della pena nel Diciottesimo secolo rispetto alla versione che ci hanno lasciato gli uomini e le donne che ne attaccarono le forme.
2. Prima del 1775 i delitti più gravi erano puniti con la deportazione, la fustigazione, l'impiccagione e la gogna piuttosto che con il carcere. La detenzione era tuttavia usata dai giudici di pace locali per punire quei delitti minori che essi stessi avevano facoltà di giudicare senza rinviare il trasgressore alle superiori corti d'assise o ai tribunali trimestrali. I poteri di giustizia sommaria di cui godevano i giudici di pace crebbero a tal punto durante il Diciottesimo secolo che William Blackstone espresse la preoccupazione che alla lunga tale sistema potesse sostituire del tutto i processi con giuria (40). Pare che dopo il 1775 i giudici di pace avessero l'autorità di imprigionare per i seguenti delitti: vagabondaggio, abbandono della famiglia, procreazione di figli illegittimi, disobbedienza e malversazione per la maggior parte dei rapporti commerciali, furti di rape e altri prodotti agricoli, raccolta di legna e di arbusti in boschi privati e trasgressioni minori contro le leggi che regolavano la caccia (41). Molti di questi delitti, ad esempio il vagabondaggio, erano sempre stati puniti con il carcere, ma nel corso del Diciottesimo secolo il numero delle trasgressioni passibili di detenzione venne esteso. Il Vagrancy Act del 1744 riunì categorie di azioni socialmente condannabili che si erano venute accumulando in vari statuti dal periodo elisabettiano, aggiungendone altre per aggiornarsi nei confronti della disciplina del lavoro richiesta dai padroni del Diciottesimo secolo. Oltre a dare ai magistrati il potere di far fustigare o imprigionare mendicanti, attori girovaghi o giocatori d'azzardo, zingari, venditori ambulanti, e «tutti coloro che rifiutavano di lavorare per i salari usuali e comuni», l'atto li autorizzava a incarcerare i pazzi vagabondi e «tutte le persone che giravano qua e là e alloggiavano in birrerie, granai e case o all'aria aperta, senza poterne rendere conto» (42). Oltre alle responsabilità loro attribuite dal Vagrancy Act, i magistrati, in base allo Statuto degli Apprendisti del 1604, potevano far fustigare o imprigionare qualunque servitore o apprendista che avesse abbandonato il proprio impiego prima della scadenza del contratto, che non avesse dato un preavviso di un trimestre, che avesse picchiato il proprio padrone o che gli avesse disobbedito in qualsiasi maniera (43). Per poter applicare questi provvedimenti, vennero costruite diverse celle singole nella casa di correzione di Londra, a Clerkenwell, per rinchiudervi apprendisti fuggiaschi o turbolenti la cui giovane età richiedeva che fossero isolati dai delinquenti incalliti (44).
Anche le leggi sulla caccia attribuivano ai magistrati il potere di imprigionare con lo scopo di far rispettare la regolamentazione dei salari nelle campagne. Nel corso del secolo molte trasgressioni contro le leggi sulla caccia vennero dichiarate soggette a procedimento sommario invece che a processo perché la giustizia sommaria era meno cara e più rapida dei processi con giuria e quindi più accetta ai proprietari che stendevano le denunce (45). La tendenza a sottoporre a procedimento sommario il bracconaggio implicò un maggior ricorso alla detenzione e alla fustigazione, dato che i giudici non erano in questo caso autorizzati a comminare condanne a morte o alla deportazione. Restano tuttavia oscuri i motivi che inducevano i magistrati a scegliere fra la fustigazione e il carcere.
Tuttavia la funzione sociale di tali pene era evidente. Punire chi braccava lepri, osservava Blackstone, aveva lo scopo non solo di riservarne la caccia ai ricchi ma anche di impedire che «persone basse e indigenti» fossero trascinate lontano «da attività e professioni loro appropriate» (46). La regolamentazione dei salari richiedeva che fonti alternative o sussidiarie di sussistenza, come furtarelli o bracconaggio, fossero il più possibile impedite. Le premesse a certi statuti sulla caccia rivelano esplicitamente l'intenzione di regolare l'occupazione:
«Dato che grave danno deriva dal fatto che piccoli mercanti, apprendisti e altre persone dissolute trascurano i propri affari e professioni per dedicarsi alla caccia, alla pesca e ad altri divertimenti a detrimento di se stessi e dei propri vicini, se qualcuna di tali persone oserà cacciare, a cavallo o con falchi, pescare o uccellare (a meno che sia accompagnato dal padrone nel caso si tratti di apprendisti) sarà... soggetto alle altre pene... (cioè a periodi varianti in casa di correzione)» (47).
Nell'aumento di leggi contro la malversazione, soggetta per lo più a procedimenti sommari, si può scorgere lo stesso tentativo di «criminalizzare» le usanze dei poveri in nome della regolamentazione del lavoro. Gli statuti contro la malversazione erano adoperati dai padroni nel controllo di lavori a domicilio, quali la tessitura, la fabbricazione di utensili, la fusione di ferro e acciaio e la sartoria, attività in cui la forza-lavoro dispersa lavorava nei propri casolari le materie prime fornite dai padroni. Nelle industrie della filatura e della tessitura della lana e del cotone si applicavano gli statuti contro i lavoratori a domicilio che ungevano i prodotti o allungavano le pezze per ottenere di più dai datori di lavoro (48). Nel Settecento questi ultimi furono sempre più inclini a reprimere pratiche che ostacolavano i loro sforzi di monopolizzare la vendita e la distribuzione sia delle materie prime sia dei prodotti finiti. I lavoratori invece ritenevano che gli scarti del processo produttivo fossero loro di diritto e la loro resistenza indusse i datori di lavoro a ricorrere alla legge per ottenere un appoggio nella lotta contro i privilegi consuetudinari (49). Per quanto riguarda il commercio della lana, ad esempio, furono approvati undici nuovi statuti contro la malversazione fra il 1725 e il 1800, più di quanti ne fossero stati approvati in tutta la storia precedente di questa industria (50). Con il passar del tempo aumentò anche la severità di queste leggi. Nel 1759 la pena comminata per malversazione consisteva in genere in quattordici giorni in casa di correzione; nel 1777 il periodo era salito a tre mesi (51). A sostegno della propria offensiva, i datori di lavoro si riunirono in associazioni per perseguire penalmente le malversazioni, al pari di quanto aveva fatto la "gentry" di campagna per far rispettare le leggi sulla caccia e la lotta ai bracconieri (52). Queste associazioni finanziavano le cause e stipendiavano ispettori che perquisivano le case dei lavoratori alla ricerca di materiale nascosto, «sottratto indebitamente». Dietro a tale offensiva stava l'arma finale dei datori di lavoro, l'imprigionamento in casa di correzione (53).
Esaminando questi statuti sulla caccia, il vagabondaggio e la malversazione, si ha una conferma dell'impressione di Blackstone che il potere dei magistrati di fare giustizia sommaria fosse cresciuto durante questo periodo. Inoltre la concessione di una più ampia autorità di far fustigare e incarcerare aveva probabilmente lo scopo di sostenere l'attacco di datori di lavoro sempre più attenti ai costi contro le usanze e le abitudini della forza-lavoro nelle campagne. Assai meno facile risulta invece sapere con quanto rigore questi nuovi statuti fossero applicati. I datori di lavoro avevano propri mezzi di punizione; lo stesso Statuto degli Apprendisti sanciva esplicitamente l'uso moderato della verga contro un servitore riottoso e disobbediente. Ma in quali circostanze un padrone poteva decidere di punire personalmente i propri dipendenti e in quali di trascinarli davanti a un giudice? Era più probabile che i grandi imprenditori richiedessero l'appoggio delle autorità con maggior frequenza dei padroni che impiegavano meno mano d'opera oppure accadeva l'inverso? E quando i servitori disobbedienti erano condotti davanti ai giudici, quali erano condannati alla fustigazione e quali al carcere? Nel caso di vagabondaggio, con quanta energia mazzieri e guardie catturavano vagabondi, fuggiaschi e furfanti? Trovando una risposta a queste domande potremmo comprendere meglio il ruolo che ebbe la legge nello sviluppare una regolamentazione del lavoro in questo periodo. Sfortunatamente lo studio della giustizia sommaria non ci fornisce la base per conclusioni definitive, tuttavia testimonianze sparse suggeriscono che prima del 1775 l'applicazione di questi statuti fosse assai selettiva. Dalla sua esperienza di magistrato a Bow Street, il romanziere Henry Fielding deduceva nel 1751 che gli «affari» di un giudice di pace erano cresciuti più rapidamente dei suoi poteri di applicare la legge. Questi non era in grado di sopprimere il vagabondaggio a Londra poiché guardie e mazzieri parrocchiali, corrotti e inefficienti, avevano scarso incentivo a trascinare gli straccioni davanti al tribunale (54). Su richiesta di Fielding il parlamento autorizzò nel 1752 i magistrati a ricompensare le guardie per l'arresto di vagabondi (55). Secondo alcuni commentatori del provvedimento questo sforzo di trasformare in un affare le vessazioni contro i poveri aumentava il rigore dell'applicazione delle leggi, ma l'inchiesta del comitato per la legge sui poveri a proposito della legislazione contro il vagabondaggio farebbe pensare che in realtà fosse pratica più comune, almeno fra il 1772 e il 1775, far frustare i vagabondi e rinviarli nel loro luogo d'origine piuttosto che imprigionarli a spese della contea (56).
Per quanto riguarda altri delitti minori, soggetti a procedimento sommario, vi sono testimonianze, ancora una volta frammentarie, che indicano come la strategia della giustizia inglese consistesse nell'ignorare le trasgressioni minori e nel concentrarsi invece sulla punizione dei criminali più importanti, giustiziati con grande risalto. Questa fu certamente l'ottica con cui i riformatori del tardo Settecento guardarono alla tendenza seguita dalla giustizia che, con una critica assai spesso rivolta alla vecchia legislazione, accusavano di trascurare di reprimere i delitti minori, consentendo ai piccoli criminali di giungere senza ostacoli a commettere delitti più gravi (57).
Il censimento carcerario che John Howard effettuò nel 1776 elencava solo 653 criminali minori imprigionati in Inghilterra e nel Galles e, anche se questo dato non comprende ovviamente le persone fustigate, multate o liberate, pare confermare l'opinione di Fielding secondo il quale i giudici di pace mancavano dell'appoggio di una polizia necessaria a far applicare i loro nuovi poteri di giustizia sommaria (58). Questi dati possono poi essere interpretati come indice della preferenza da parte dei datori di lavoro e dei proprietari ad infliggere essi stessi le punizioni per atti minori di disobbedienza piuttosto che rivolgersi ai giudici.
I criminali condannati per delitti minori costituivano solo il 15,9% del totale dei prigionieri all'epoca delle visite di Howard. Il resto era composto per il 59,7% (2437 individui) di debitori e per il 24,3% (994 individui) di criminali divisi in tre categorie: detenuti in attesa di giudizio, i condannati in attesa di essere giustiziati o deportati e poche persone effettivamente condannate a pene detentive. Da questi dati appare chiaramente che prima del 1775 le carceri erano più un luogo di reclusione per debitori e per chi doveva essere sottoposto a procedimenti giudiziari che un luogo di pena.
Il ruolo ridotto del carcere quale luogo di punizione e la generale inefficienza nel perseguire i delitti minori legati al mondo del lavoro fanno pensare che lo stato, e i magistrati in particolare, svolgessero una parte di secondo piano nel regolamentare il mercato del lavoro nel Diciottesimo secolo, più di quanto non avvenisse prima del 1640 o dopo il 1815. Dopo il 1660 le clausole dello Statuto degli Apprendisti che imponevano ai magistrati di fissare salari e prezzi e regolare i contratti fra apprendista e padrone vennero lasciate cadere in disuso (59). Il ricordo della «tirannia» stuardiana riuscì a impedire allo stato centralizzato di interferire nel mercato del lavoro a livello locale.
Si può inoltre fare l'ipotesi, benché molto ardita, che le dimensioni ridotte e il carattere familiare di molte imprese e fattorie rendessero parecchi padroni più inclini ad applicare essi stessi la disciplina piuttosto che ricorrere alla magistratura perché facesse valere o legittimasse le loro sanzioni. Il padre puniva il figlio indolente, il padrone inseguiva e catturava l'apprendista fuggiasco, il fattore rimproverava e licenziava il proprio bracciante. Il carattere personale dei rapporti di lavoro dovette probabilmente favorire la diffusione di sanzioni comminate in privato più che il ricorso ai rimedi ufficiali offerti dallo stato, anche se erano a portata di mano nella persona del magistrato locale nel suo studio. I datori di lavoro inoltre erano forse restii a ricorrere alla legge contro i propri dipendenti a causa della cattiva reputazione di cui godevano molte case di correzione locali e della diffusa convinzione che un servitore sarebbe uscito solo più malvagio da un periodo trascorso in carcere. Senza dubbio lo scarso prestigio delle prigioni contribuì a incrementare le punizioni private rispetto a quelle ufficiali. Per spiegare come ciò sia potuto accadere è necessario
esaminare con maggior accuratezza le strutture carcerarie anteriori al 1775.
3. Occorre distinguere fra tre tipi principali di carcere: le prigioni per debitori, il carcere e la casa di correzione o "bridewell", come era anche chiamata. Le più ampie e famose prigioni per debitori, Ludgate, King's Bench, la Fleet e la Marshalsea, stavano a Londra (60). In esse erano rinchiusi i debitori e le loro famiglie finché non avevano potuto dar soddisfazione ai creditori o finché non erano liberati perché dichiarati insolventi da un atto parlamentare. Fintanto che restavano in carcere, i debitori erano mantenuti a spese dei creditori. Per diritto e consuetudine, essi non potevano essere incatenati o costretti a lavorare, era loro concesso di vivere con moglie e figli e potevano ricevere visite o avere altri contatti con l'esterno. Le persone delle classi superiori prendevano in affitto dal carceriere appartamenti separati nella cosiddetta «ala del padrone». Una volta che tutte le stanze erano occupate, chi sopraggiungeva era costretto a sistemarsi in comune, cioè a prendere in subaffitto una parte delle stanze da altri prigionieri o perfino da persone che, pur non avendo rapporti con il carcere, vi affittavano camere. Nella Marshalsea, ad esempio, il carceriere affittava quattro stanze a un candelaio che teneva il proprio laboratorio in una di esse e in altre due viveva con la famiglia, subaffittando la camera restante ad altri prigionieri. La gente più povera dormiva nell'ala comune in stanzoni affollati e spesso sporchi. Anche qui i nuovi arrivati acquistavano il loro «biglietto d'alloggio» dai vecchi prigionieri, ottenendo così il diritto di dormire nel reparto.
Il carceriere ricavava le proprie entrate da tutte quelle ingegnose estorsioni praticate in molti rami della pubblica finanza nel Diciottesimo secolo. Oltre che affittare stanze ai prigionieri, egli gestiva in genere un caffè e una birreria per i detenuti e i visitatori. Nella Fleet e al King's Bench il carceriere vendeva inoltre il privilegio di vivere al di fuori delle mura del carcere: per otto ghinee il debitore poteva acquistare il diritto di abitare «entro i confini», cioè entro due miglia e mezzo dalla prigione; per una somma inferiore poteva comperare il diritto alle «regole giornaliere», cioè la libera uscita dal carcere durante le ore di luce. I guardiani vendevano anch'essi lo stesso privilegio, chiamato espressivamente «un giro di chiave» (61).
Dato che i debitori godevano del privilegio di esenzione dalla disciplina del carcere e siccome vi erano, ad esempio, solo tre secondini e quattro guardie al King's Bench per oltre quattrocento prigionieri, il carceriere permetteva che i debitori si occupassero di mantenere l'ordine nella loro comunità. Di conseguenza la vita sociale nelle carceri per questa categoria si svolgeva senza controlli. John Howard vide macellai ed altri commercianti venuti dall'esterno unirsi liberamente ai debitori nella Marshalsea e giocare con loro a birilli nella mescita del carcere. La Fleet aveva la fama di essere il postribolo più grande di Londra. Howard scoprì un'osteria nel King's Bench e un comitato di inchiesta vi trovò nel 1813 una società musicale (62).
Il secondo tipo di istituzione carceraria, la prigione di contea e di distretto, era, al pari della maggior parte delle istituzioni settecentesche, di forma e dimensioni eterogenee. Alcune, ad esempio le carceri di contea a Lancaster, Gloucester e York, erano le celle di castelli medievali, mentre altre, in particolare quelle di piccole città con mercato, erano poco più che stanze fortificate sopra un negozio o una locanda. Newgate a Londra era decisamente la più grande di tutte e nel 1750 poteva contenere circa duecento detenuti. La maggior parte delle altre prigioni erano considerevolmente più piccole. Su cinquanta carceri di contea incluse nel censimento di Howard, effettuato durante un anno di grande affollamento, il 1787, solo sette contenevano cento o più prigionieri, undici ne avevano fra cinquanta e cento e le restanti trentadue meno di cinquanta (63).
I detenuti erano eterogenei quanto gli edifici in cui erano rinchiusi, avendo diverse posizioni giuridiche e privilegi differenziati. Oltre ai debitori, che avevano il permesso di vivere con la propria famiglia e che non potevano essere sottoposti a provvedimenti disciplinari, vi erano detenuti in attesa di giudizio, in genere in catene, ma a volte lasciati liberi di muoversi a piacere entro i confini del carcere, di ricevere visite senza limiti e di non lavorare; i detenuti in attesa di giudizio per delitti minori, raramente messi ai ferri, che godevano di privilegi accordati a chi non era ancora stato condannato; condannati a morte in attesa dell'esecuzione o della grazia, abitualmente incatenati nelle «celle dei condannati», alcuni criminali che scontavano pene detentive e infine i deportati in attesa di essere imbarcati.
In teoria queste categorie dovevano essere isolate l'una dall'altra in reparti separati, ma in pratica i carcerieri non avevano guardiani sufficienti per far rispettare questa disposizione. I detenuti si mescolavano liberamente nei cortili e dividevano fra loro i vari privilegi; ad esempio, quando debitori e criminali comuni vivevano negli stessi reparti i carcerieri rinunciavano in genere a limitare il privilegio di ricevere visite e cibo dall'esterno ai soli debitori. I riformatori degli anni Ottanta indicarono in questa confusione fra le categorie di detenuti uno dei principali ostacoli all'imposizione di una rigorosa disciplina. Finché tutti i debitori non fossero stati spostati in carceri distinte, essi sostenevano, una prigione non poteva divenire un luogo di pena (64). Essi ritenevano inoltre che nelle vecchie prigioni si tendeva a uniformare il trattamento riservato a innocenti e colpevoli. I prigionieri in attesa di giudizio erano incatenati e sottoposti a esazioni non meno dei condannati. Per fare solo un esempio, un abitante di Bristol sotto giudizio per aver gettato bombe incendiarie contro alcuni magazzini nel 1730 disse alla giuria che al momento dell'arresto era stato gettato nel «pozzo» della prigione della città e là rinchiuso con criminali condannati, «incatenato a un gancio e... tenutovi per quattordici settimane e tre giorni durante l'inverno senza penna, inchiostro, carta, fuoco o candela, completamente separato dai miei parenti e privo di denaro» (65). Un eventuale proscioglimento non avrebbe potuto addolcire il ricordo di questa punizione inflittagli prima del processo. Howard scoprì inoltre che molti detenuti erano in un certo senso puniti anche dopo l'assoluzione, in quanto languivano in carcere perché non erano in grado di pagare le spese di liberazione che il carceriere richiedeva prima di scioglierli dai ceppi (66).
Il terzo tipo di istituzione, la casa di correzione o "bridewell" era talvolta una sezione dello stesso carcere, talvolta un edificio separato ma adiacente ad esso e a volte del tutto a se stante. Alla vigilia delle riforme di Howard era un'istituzione in declino. In teoria le case di correzione avrebbero dovuto servire per mettervi al lavoro i poveri, insegnando loro un mestiere. Padroni di varie imprese che impiegavano lavoro esterno, soprattutto nel campo della tessitura e della fabbricazione di corde, stipulavano contratti con i tribunali di contea per il lavoro dei detenuti. I produttori di panni di Norwich, ad esempio, dipendevano largamente dalla mano d'opera delle case di correzione e degli ospizi di mendicità delle campagne del Norfolk e del Suffolk per la preparazione e la filatura di lana grezza. Produttori di laterizi utilizzavano i detenuti per sbriciolare mattoni; i candelai se ne servivano per fabbricare candele, i mercanti di legna per tagliare legname, i padroni di fonderie per fabbricare spiedi da macellaio e i fabbricanti di materassi per raccogliere piume (67). Molti imprenditori di attività svolte a domicilio si facevano un'esperienza inestimabile quanto a gestione di un'estesa divisione del lavoro grazie a ospizi di mendicità e case di correzione. Sotto molti aspetti queste istituzioni statali erano i prototipi della fabbrica (68), anche se molta dell'esperienza acquisitavi era di tipo negativo: il rapido succedersi di prigionieri e la proverbiale bassa produttività del lavoro forzato rendevano arduo ricavarne profitti e molti appaltatori non rispettavano o rinunciavano ai propri contratti. Il fallimento dei tentativi di sfruttare il lavoro dei carcerati potrebbe aver spinto, a partire dal 1750, chi impiegava lavoro a domicilio, desideroso di approfittare della divisione del lavoro su larga scala, a sviluppare una propria istituzione, la fabbrica, per sfruttarvi la mano d'opera libera. Di conseguenza però la fabbrica uscì segnata dai primitivi legami con le case di correzione e gli ospizi di mendicità, per cui si comprende come mai la prima generazione di operai del Lancashire rifiutasse, appena possibile, di mandarvi a lavorare i propri figli.
Siccome gli appaltatori riuscivano raramente a ricavare un profitto dal lavoro dei prigionieri, vi erano poche case di correzione in cui esso fosse imposto con vigore (69). Jacob Ilive, un libraio londinese inviato alla casa di correzione di Clerkenwell a Londra nel 1757 per scontarvi un periodo di detenzione, si aspettava di trovare vagabondi, insubordinati e prostitute messi all'opera sotto l'occhio vigile di un sorvegliante. Assistette invece alla seguente scena nel cortile della prigione:
«Osservai un gran numero di giovani prostitute sporche insieme ad alcuni uomini, alcuni criminali in catene, seduti a terra contro un muro a prendere il sole in ozio, altri stesi profondamente addormentati; alcuni dormivano con il viso in grembo ad uomini e altri facevano lo stesso con donne. Indagando scoprii che queste prostitute per la maggior parte vi erano state mandate dai giudici in quanto persone dissolute e turbolente» (70).
In un luogo dichiaratamente destinato alla punizione, Ilive trovò uomini e donne riuniti liberamente che bevevano insieme nella mescita del carcere e ammazzavano il tempo nei cortili della prigione giocando al lancio delle monete, al tiro, a cavalletta e a un gioco «molto divertente ma incredibilmente osceno» chiamato "rowly powly" che Ilive, sfortunatamente troppo sensibile, non descrive.
Clerkenwell non era comunque un luogo idilliaco. Le donne che disobbedivano al carceriere erano costrette a stare in piedi incatenate anche per ventiquattro ore di seguito. Il carceriere stesso riferì a un comitato della Camera dei Comuni nel 1779 che i magistrati lo avevano autorizzato ad affibbiare fino a venti frustate per insubordinazione (71). Inoltre egli e i suoi guardiani spogliavano chiunque senza pietà del denaro posseduto, mentre i vagabondi logori e spossati che le guardie vi conducevano erano spesso lasciati morire, abbandonati senza cibo sui tavolacci freddi delle celle. Lo stesso Ilive assistette ad alcune inchieste per la morte di cinque prigionieri, da lui attribuita al fatto che i carcerieri avessero trascurato di nutrirli adeguatamente, non essendovi alcuna legge che obbligasse la contea a nutrire i detenuti delle case di correzione. In teoria si supponeva che costoro si guadagnassero il pane con i lavori forzati e che la contea pagasse il cibo con la vendita degli articoli prodotti in carcere. In pratica tuttavia molte contee non riuscivano a trovare appaltatori disposti a mettere al lavoro i detenuti e così i giudici avevano l'obbligo di provvedere in qualche modo a sfamarli, in genere dando loro una pagnotta di un penny ogni giorno. Esistevano, tuttavia, case di correzione in cui non veniva fornito alcun cibo. John Fielding, il magistrato londinese, riferì nel 1770 nel corso di un'inchiesta che non vi era alcuna disposizione per sfamare sei o settecento prigionieri rinchiusi ogni anno alla Gate House di Londra e con durezza fece presente che «quando un magistrato manda qualcuno in quel carcere per un'aggressione, non sa che ve lo rinchiude perché muoia di fame» (72).
In teoria i magistrati di contea e di distretto avevano il compito di procurare il cibo per i detenuti in attesa di giudizio presso i tribunali trimestrali o le assise come pure per persone già condannate e incarcerate o in attesa di essere deportate. In realtà i detenuti dovevano provvedere a se stessi. Talvolta i carcerieri intascavano parte del denaro concesso dalla contea per il mantenimento di ciascun prigioniero, ma anche quando essi lo distribuivano onestamente, la quota assegnata bastava raramente da sola a tenere in vita una persona. Così a Newgate nel 1760 la Corporazione di Londra distribuiva denaro sufficiente ad acquistare solo novantasei pagnotte da un penny per detenuto ogni anno, contro le 432 del 1813 (73). Il carceriere riconobbe nel 1779 che la maggior parte dei prigionieri dipendeva «da denaro e provviste portate da amici» anche se per «i poveri e le persone abbandonate» egli «forniva a proprie spese pezzi di carne di scarto e preparava del brodo» (74).
In alcune prigioni si permetteva ai detenuti poveri di mendicare cibo e denaro da apposite inferriate. I prigionieri del carcere cittadino di Rochester parevano cavarsela bene con questo sistema; il carceriere riferì a Howard che la «generosità della gente è tanto grande che noi non riusciamo a evitare che i prigionieri si ubriachino. Vi sono state perfino persone che han voluto essere rinchiuse per poter godere dei benefici dell'inferriata dei mendicanti» (75). La gente non doveva essere altrettanto generosa altrove, ma pare che l'assistenza privata contribuisse quanto lo stato a nutrire e vestire i detenuti; era una pratica filantropica diffusa fare lasciti per i prigionieri poveri e per la liberazione di debitori insolventi e a volte i membri di una giuria destinavano il denaro ricevuto, come rimborso spese, al mantenimento dei carcerati.
Questi, comunque sia, dovevano contare più sulle proprie famiglie e sugli amici che sulle incerte donazioni private o sui contributi statali. Poiché aveva obbligazioni limitate nei loro confronti, la contea doveva almeno autorizzare accesso illimitato a parenti e amici, con il risultato che i tentativi di ridurre i privilegi di visita dei prigionieri erano assai scarsi, in quanto ciò avrebbe comportato l'inedia per i reclusi poveri dei «reparti comuni». Le mogli si recavano abitualmente ogni giorno alle porte del carcere, portando il pasto ai mariti; esse potevano girare per i cortili a piacere dall'alba al tramonto e un'oculata corruzione poteva assicurare la possibilità di trascorrere la notte nel carcere. I rapporti sessuali fra detenuti e persone che provenivano dall'esterno erano frequenti. Sin dal Diciassettesimo secolo un prigioniero aveva osservato che le prostitute accorrevano alle prigioni come «corvi su una carogna» (76). Nel 1813 il carceriere di Newgate disse che voltava gli occhi a proposito di rapporti illeciti perché prevenivano il diffondersi di «vizi più gravi» (77), un'ovvia allusione all'omosessualità o alla masturbazione.
I facili rapporti fra il mondo della prigione e quello della strada si possono poi spiegare con il fatto che questi luoghi erano in gran parte riservati a debitori e persone in attesa di giudizio. Per consuetudine e per legge, queste categorie di detenuti avevano il diritto di vedere senza limiti legali e amici, in quanto ciò era ritenuto necessario alla preparazione della difesa o al pagamento di debiti. Non potendo sottoporli a provvedimenti disciplinari o limitare in qualche modo il loro diritto a ricevere visite, il carceriere era responsabile solo della custodia di queste categorie di prigionieri e della loro presentazione in tribunale il giorno del processo. Ovviamente il sistema più efficace e meno costoso di assicurare la custodia dei criminali consisteva nell'incatenarli; in tal modo si eliminava la necessità di tenere un gran numero di guardie e di costruire edifici sicuri, circondati da alte mura (78). Paradossalmente l'uso di catene contribuiva a facilitare i contatti fra il carcere e il mondo esterno. Poiché i condannati portavano catene era possibile dare libero accesso ai visitatori in ogni parte del carcere. Grazie alle catene vennero del tutto abolite le mura o le si lasciarono cadere in rovina, come era successo nel caso delle mura della prigione di contea a Southwark, descritto in un rapporto dei giudici nel 1771:
«Le mura di mattoni che circondano il cortile dove sono tenuti i prigionieri sono tanto fragili da costituire un pericolo per la solidità della prigione e da essere scosse di frequente dalla violenza del vento, cosicché una parte di esse è recentemente crollata e la palizzata in cima alle dette mura è completamente marcia, rotta e rovinata al punto che, per le cattive condizioni del muro, vi è un ampio buco nella sezione contigua al deposito di legname di Mister Gordon...» (79).
Le mura, spesso non più alte di due metri e mezzo, non impedivano certo di gettare cibo, scritti, e lettere dall'esterno o ai prigionieri di conversare con la gente nella strada o occasionalmente di gettare sui passanti acqua sporca (80).
Anche se la distanza fisica fra i due mondi era sovente mantenuta solo da un muro fragile e basso, la distanza amministrativa era enorme. L'autorità del carceriere era esercitata per lo più senza controllo o esame dall'esterno. Se i due mondi erano legati da simbiosi per questioni concernenti il cibo o i rapporti sessuali, per quanto riguardava l'esercizio del potere e l'amministrazione finanziaria, la prigione era uno stato dentro lo stato.
Almeno nominalmente, il carcere era controllato da tre autorità esterne: lo sceriffo, i magistrati e la giuria. I giudici delle assise avevano anch'essi un ruolo nella sorveglianza dei carcerieri incaricati di far presentare i prigionieri in tribunale. E' tuttavia indicativo dell'assenza di formalità nell'apparato amministrativo del Diciottesimo secolo che i riformatori degli anni Ottanta non riuscissero a scoprire alcuna legge specifica che regolasse i doveri di ciascuna delle parti né alcuna altra legge che obbligasse i magistrati di contea e di distretto a sorvegliare i carcerieri, rivedere le loro spese e effettuare ispezioni trimestrali; il primo statuto in questo senso fu approvato solo nel 1791 (81). Sino a quel momento le ispezioni, una consuetudine più che un obbligo, erano state assai rare. Quando Howard rimproverò ai giudici di pace locali la loro negligenza, essi si giustificarono con il timore della «febbre delle carceri», il tifo. Howard scoprì carcerieri che spargevano ad arte la voce di un'epidemia di tifo per smorzare lo zelo amministrativo di un qualche esponente della "gentry" (82). Parte della stessa fama di cui godeva Howard poggiava sul semplice fatto che egli fu uno dei primi sceriffi a prendere seriamente i doveri d'ispezione che la sua carica gli imponeva. La magistratura non si curava neppure di stendere regolamenti che definissero l'autorità dei carcerieri e il tipo di disciplina che dovevano applicare. Il risveglio e il silenzio, il programma di lavoro, l'uso delle catene e le punizioni da infliggere a detenuti riottosi, la pulizia delle carceri erano lasciati alla discrezione dei carcerieri e dei loro subalterni.
L'autorità esercitata all'interno della prigione variava quindi secondo la moderazione, il senso del dovere e la risolutezza di chi doveva farla rispettare; non definita da regole formali, era per principio arbitraria, personale e capricciosa. Spiegando le cause degli abusi nelle carceri, i riformatori sarebbero più volte ritornati sulla discrezionalità incontrollata dei carcerieri: crudeltà e indulgenza, sostenevano, si comprendevano entrambe con l'assenza di regole e controlli da parte delle autorità esterne.
L'indipendenza finanziaria del carceriere dallo stato, resa possibile grazie alle rendite che egli ricavava da esazioni consuetudinarie legate alla carica, rendeva il suo operato pressoché incontrollabile da parte della magistratura. I carcerieri estorcevano denaro per mettere in catene un prigioniero, per liberarlo, per la «prima detenzione», per copie di ogni documento legale del tribunale, per la concessione di un materasso invece del tavolaccio o del pavimento di pietra e infine per il rilascio in seguito a non luogo a procedere o per aver scontata la pena. Anche i secondini riscuotevano esazioni, ad esempio per uscire a comperare cibo o per concedere ai prigionieri il privilegio di restare fuori della cella dopo il silenzio (83). La maggior parte dei detenuti, però era troppo povera per pagare queste spese e chiedeva al tribunale di esserne esentata. In tal caso i magistrati versavano al carceriere una certa somma compensativa, ma siccome il denaro così riscosso era in genere ben poca cosa rispetto a quello che avrebbe potuto ricavare altrimenti, il tribunale non aveva alcuno strumento di pressione sulla sua condotta (84).
Le entrate che i carcerieri ricavavano da queste esazioni provenivano soprattutto da debitori e persone ricche, rinchiuse per delitti «rispettabili» quali diffamazione, sedizione o appropriazione indebita. Tali persone erano una miniera per i carcerieri in quanto
prendevano in affitto appartamenti speciali nell'ala padronale, lontano dai prigionieri dei reparti comuni sovente ammalati, ed erano quindi spennate senza ritegno in cambio di alloggio, vitto e alcolici. Un simile sistema, finanziato con esazioni, istituzionalizzava un trattamento ineguale fra detenuti ricchi e quelli poveri. Sistemati nell'ala padronale, i ricchi in attesa di giudizio potevano ottenere ogni cosa che il denaro potesse comperare: libri, vino, una tavola da buongustaio e i piaceri del sesso.
I detenuti dei reparti comuni dovevano sopportare tavolacci, pagnotte ammuffite passate dalla contea e pidocchi.
Un'altra fonte di entrate per i carcerieri era il «rubinetto» o mescita della prigione. Molti di loro erano osti di professione e svolgevano, quale attività collaterale, quella di carceriere, lasciando che fossero i guardiani a far funzionare giorno dopo giorno la prigione, mentre essi trascorrevano gran parte del loro tempo lontano nelle loro locande o taverne. La mescita costituiva un affare lucroso: oltre ai clienti rappresentati dai prigionieri che potevano essere costretti a pagare qualsiasi somma si avesse la sfrontatezza di chiedere loro, i carcerieri potevano contare sulla presenza di un flusso costante di visitatori.
Le prigioni non erano comunque le uniche istituzioni finanziate da denaro estorto a chi se ne doveva servire: gli infermieri negli ospedali riscuotevano esazioni dai pazienti per vuotare i vasi da notte e cambiare le lenzuola; gli impiegati dei tribunali pretendevano denaro per ogni documento legale copiato e consegnato all'accusa, all'accusato o a un testimone; le guardie ricevevano un compenso per i vagabondi che arrestavano; la ridotta burocrazia governativa, formata di impiegati e copisti, era pagata soprattutto grazie ad esazioni (85). In ogni area dell'amministrazione settecentesca coloro che si rivolgevano a un'istituzione pubblica pagavano per i servizi richiesti, ma nessuno era più impotente di fronte alle estorsioni di quanto lo fossero i detenuti e nessuna istituzione era più cronicamente sottofinanziata di quanto lo fossero le carceri. Questo sistema nondimeno era conveniente per la magistratura: la condizione rovinosa di molte prigioni si spiega in gran parte con la riluttanza dei giudici di pace a investire denaro per una struttura che sopravviveva a fatica per lo più autofinanziandosi. Inoltre, essendo limitato l'impegno finanziario dello stato nei confronti delle istituzioni, i magistrati potevano tranquillamente evitare di sobbarcarsi il compito di controllare troppo strettamente la gestione delle carceri: quale motivo vi era per fare ciò finché la quantità di denaro pubblico impegnata restava tanto ridotta?
Liberi dal controllo delle autorità e finanziariamente indipendenti, i carcerieri erano a tutti gli effetti appaltatori privati più che funzionari stipendiati. Anche se si chiedeva loro di render conto al tribunale in caso di ispezioni e di far presentare i prigionieri al processo, solo una fuga di massa o prove di continua corruzione potevano causare il loro licenziamento. Procuratisi la carica grazie all'appoggio di qualche influente membro del tribunale, questi piccoli commercianti, ex intendenti o fattori della "gentry" locale si dedicavano a una vita di facili e remunerative estorsioni. Spesso tramandavano la carica ai figli o alla moglie: a Bedford, ad esempio, il carceriere della prigione locale provenne per tre generazioni, dal 1760 al 1814, dalla famiglia Howard (non imparentata con quella del riformatore) (86); nel Berkshire, a Reading, al carceriere John Wiseman succedette negli anni Settanta la sua vedova, Ann (87). Nel complesso donne che ricoprivano la carica erano abbastanza comuni da richiedere negli anni Ottanta una legge che le escludeva, con la motivazione che una donna non era all'altezza dei nuovi doveri disciplinari che i riformatori tentavano di imporre al personale di custodia (88).
Guardati con condiscendenza dalla "gentry" nei tribunali di contea e, contemporaneamente, in larga misura al di fuori del suo controllo, i carcerieri erano lasciati liberi di gestire le carceri come meglio credevano; essi assumevano guardiani e applicavano la disciplina nel modo che ritenevano più opportuno.
La loro discrezione non era però assoluta e pare che dovessero dividere il potere, o almeno raggiungere un compromesso, con varie comunità di prigionieri. Sociologi contemporanei hanno dimostrato come non sia insolito trovare, nella gestione dei penitenziari moderni, una divisione informale del potere fra le guardie e l'élite dei prigionieri (89). Nel Diciottesimo secolo le comunità dei detenuti dovevano essere anche più potenti, come risultava evidente nel caso di grandi prigioni per debitori a Londra, le cui comunità si autogovernavano e si autofinanziavano, soggette solo ai tributi vaghi e occasionali estorti dai carcerieri. I reparti riservati ai debitori nelle altre prigioni godevano anch'essi in ampia misura di autogoverno, dato che i carcerieri non erano autorizzati a limitare i rapporti con il mondo esterno o a toccare i loro privilegi.
Anche i detenuti in attesa di giudizio non potevano essere costretti a lavorare o essere sottoposti alla disciplina carceraria e quindi i carcerieri tendevano a lasciare che si controllassero da soli. Era loro interesse farlo, poiché pagavano i salari dei guardiani di tasca propria e quindi la maggior parte dei carcerieri assumeva meno personale possibile. Nella casa di correzione di Clerkenwell nel 1779 vi erano solo due guardiani per centoquattordici uomini e donne al lavoro nei reparti della torchiatura della canapa (90). A Newgate durante gli anni Sessanta vi erano all'incirca un secondino, una guardia o un custode per ogni cento prigionieri (91), in confronto a una guardia ogni diciotto detenuti nella casa di correzione di Coldbath Fields negli anni Trenta del secolo successivo (92). Non solo i guardiani erano pochi, ma i loro doveri si limitavano ad aprire e chiudere all'alba e al tramonto la prigione, ammettere i visitatori, custodire i cancelli, mettere ai ferri i criminali e scortarli all'andata e al ritorno dal tribunale. Non era loro compito sorvegliare i reparti, controllare i cortili di giorno, ispezionare i dormitori, condurre i prigionieri alla preghiera o a fare esercizio. Essi non imponevano una «disciplina» nel senso ottocentesco del termine e l'ordine interno, se tale si poteva definire, veniva fatto rispettare soprattutto dalla stessa subcultura carceraria.
Questo tipo di subcultura era particolarmente fiorente nelle grandi prigioni londinesi in cui, nel 1776, si trovava oltre il 25% della popolazione carceraria dell'Inghilterra e del Galles (93), ma se ne riscontrava la presenza anche nei più piccoli istituti carcerari di contea e di distretto, nei quali i detenuti dovevano trascorrere un lungo intervallo fra l'arresto e il processo e i carcerieri erano sovente non residenti. Quando i carcerieri vivevano nella prigione, il loro controllo era necessariamente più diretto e profondo che nelle grandi carceri londinesi.
L'architettura della vecchia Newgate e anche quella del nuovo edificio inaugurato nel 1770 incoraggiava il fiorire di tali subculture. Al contrario di Pentonville, dove si isolavano i prigionieri tenuti costantemente sotto sorveglianza, Newgate era un oscuro e umido labirinto di sale, cortili, stanze private e scale che non consentivano in nessun punto alle guardie un controllo diretto (94). Nelle comunità che vivevano in questo insieme era d'obbligo il "garnish", un'esazione estorta ai nuovi arrivati dagli altri prigionieri del reparto. Il detenuto che non lo pagava era costretto a spogliarsi e a passare fra due file di persone che lo colpivano a calci e pugni. I suoi abiti potevano essere venduti e i soldi ricavati versati nel fondo del reparto destinato all'acquisto di legna, candele, bevande e cibo supplementare. Con questa brutale messa in comune delle risorse i prigionieri si rifornivano di quanto la contea o il distretto non riuscivano a dare. Pare che la pratica del "garnish" fosse tacitamente approvata dai giudici e che sopravvivesse ai tentativi tenaci - condotti per tre generazioni - di abolirla. Nel 1835 alcuni ispettori carcerari scoprirono attoniti che era ancora in uso nel carcere comune di Yarmouth; essi lessero il seguente avviso appeso al muro di uno dei cortili:
«Le regole di questa stanza. Per ogni persona che vi entra un pagamento di tre pence per pezzi di carbone e candele. Al tuo arrivo in prigione: gli uomini devono pulire questa stanza e i giovani fare tutto quello che è loro richiesto. Le regole di questa prigione. Ciascuno sorpreso a strappare questo (avviso) riceverà tre dozzine (di colpi)» (95).
Queste regole erano fatte rispettare da un guardiano, un prigioniero scelto dal carceriere o dai detenuti stessi, il quale sovrintendeva all'esazione del "garnish", manteneva sommariamente l'ordine e distribuiva le pagnotte e l'acqua fornite dalla contea. Nel 1813 un delinquente di nome Davison si lamentò con i consiglieri cittadini a proposito di questi guardiani, descrivendo come il potere fosse spartito fra di loro e il carceriere:
«Altri criminali e molti dei delinquenti minori, dato che il potere dei carcerieri è incontrollato ed essi non devono rispondere quasi di nulla, acconsentono a un qualsiasi trattamento e accetterebbero di stringere più strettamente ancora le corde che legano i propri compagni di prigionia per poter allargare di poco le proprie con il favore e l'indulgenza del carceriere e dei suoi guardiani» (96).
Occasionalmente il custode di un reparto presiedeva a processi per burla intesi a dirimere dispute o a decidere su violazioni delle regole del reparto. Data la diretta conoscenza dei tribunali, i processi tenuti dai prigionieri erano sovente accurate e feroci parodie del rituale ufficiale. I riformatori li segnalarono in quanto degni di particolare riprovazione, non solo perché schernivano la solennità della legge ma soprattutto perché dimostravano quanto vigoroso fosse il sistema competitivo e ribelle che manteneva l'ordine nelle prigioni. Nel 1725 Bernard Mandeville rimproverò il carceriere di Newgate perché permetteva che i detenuti in attesa di giudizio trascorressero la «maggior parte del tempo... in processi per burla e nell'istruirsi a vicenda nell'uso del controinterrogatorio per confondere i testimoni» (97). Dato che molti prigionieri poveri dovevano difendersi ed esaminare da soli i testimoni, questi «processi per burla», escogitati dalla subcultura carceraria, erano la sola forma di «consiglio legale» che potevano ottenere (98).
Essi rappresentavano inoltre un burlesco rovesciamento simbolico, uno stravolgimento del rituale ufficiale che aveva condannato al carcere i detenuti. In quanto tali costituivano la controparte carceraria delle chiassate burlesche, della rozza tradizione di giustizia della cultura contadina inglese in cui donne bisbetiche, mariti che picchiavano le mogli e altri violatori dell'ordine pubblico venivano bruciati in effige o parimenti umiliati nel corso di rumorose processioni (99). Proprio a causa della loro utilità e della soddisfazione simbolica che ne derivava, risultò difficile farli cessare. Ancora nel 1817 un riformatore attonito fu presente ad uno di essi a Newgate:
«Quando un detenuto commette un'infrazione contro la comunità o contro un individuo è processato. Qualcuno, in genere il ladro più vecchio ed esperto, è nominato giudice; un asciugamano con nodi è posto sul suo capo da ambo i lati a imitare una parrucca. Egli siede, se trova un posto, con ogni formalità e decoro; e chiamarlo altro che "mio Signore" è una grave offesa. Viene quindi formata una giuria, fatta regolarmente giurare, dopo di che viene introdotto l'imputato. Sfortunatamente la giustizia non è amministrata con la stessa integrità all'interno e all'esterno della prigione. La corruzione del giudice, anche insignificante, assicura il proscioglimento, ma se si trascura questa formalità si è certi della condanna. Le punizioni variano e la più grave è la berlina. La testa del condannato viene posta fra le gambe di una sedia e le sue braccia allungate vi sono legate; egli poi va in giro portandosi addosso questa armatura» (100).
Un altro sistema usato per dirimere dispute a Newgate era costituito dagli incontri di pugilato. I membri della Camera dei Comuni che ispezionarono la prigione nel 1813 assistettero a un incontro perfettamente organizzato, completo di quadrato, allenatori e arbitro, cui assistevano da lontano con evidente equanimità il carceriere e i guardiani (101). I funzionari delle carceri parevano tollerare anche una cerimonia particolarmente tumultuosa nei reparti riservati ai prigionieri in attesa di essere deportati: era uso che la notte precedente l'imbarco i condannati sfasciassero lo stanzone, lacerassero le lenzuola e rompessero i mobili (102).
Quando i riformatori fornirono al carceriere di Newgate le prove di questa vigorosa subcultura, egli poté solo riconoscere che effettivamente divideva il potere con l'élite carceraria. Richiesto ad esempio da alcuni membri dei Comuni nel 1813 se fosse in grado di imporre la pulizia nella prigione, egli rispose che il potere di costringere la gente sporca a lavarsi lo avevano i prigionieri. Lo scambio di battute fra i parlamentari e il carceriere è degno di nota:
«Avete il modo di costringere un individuo a tenersi pulito?
No, non so come farlo.
Così se qualcuno è sporco l'intero reparto in cui egli si trova ne deve subire le conseguenze.
Vi sono molte difficoltà al proposito; a volte i debitori, se qualcuno è sporco e pidocchioso, questa è la principale lagnanza, se la causa è la sua stessa sporcizia, gli portano via i vestiti e lo mettono sotto la pompa e ve lo lasciano nudo» (103).
Essendogli stato chiesto, nel corso della stessa inchiesta, se proibisse i giochi nella prigione, rispose che «non sono né permessi né proibiti». I parlamentari che avevano visto i dadi nei reparti sapevano che valore avesse questa risposta. Allo stesso modo, visitando la prigione nel 1775, Howard aveva scoperto che il cappellano non aveva l'autorità di rendere obbligatoria la frequenza della cappella. Egli recitava ogni giorno le sue preghiere ma pochi prigionieri si peritavano di assistervi e chi lo faceva veniva interrotto nelle sue devozioni dai rumori assordanti provenienti dai cortili e dai reparti sottostanti (104).
Il controllo che il carceriere poteva esercitare su Newgate era davvero ridotto, specialmente in caso di forte sovraffollamento. Il sarto radicale Francis Place se ne rese conto quando, nel 1795, tentò di scortare le mogli di due uomini rinchiusi per aver scritto libelli sediziosi attraverso i cortili affollati. All'ingresso del più vasto di questi cortili, i visitatori furono bloccati da una solida massa di prigionieri quasi nudi che «a gran voce, chiedevano denaro... litigavano gli uni con gli altri e si servivano del più ributtante linguaggio». Avendo chiesto a un guardiano di aiutarlo ad allontanare la folla, Place si sentì rispondere che si sarebbe dispersa solo se egli avesse gettato qualche moneta da mezzo penny in un angolo del cortile. Era evidente che il guardiano non osava ordinare ai prigionieri di retrocedere e Place seguì il suo consiglio con il risultato che tutti i detenuti rincorsero la moneta «imprecando uno contro l'altro, con le catene che risuonavano e nell'insieme provocando un baccano disgustoso» (105). Ricordando l'episodio, visto con l'ottica degli anni Trenta dell'Ottocento, Place si meravigliava che tali scene di «rozzezza e violenza» nelle prigioni fossero state tollerate, poiché ciò dava quasi da pensare che lo stato avesse perso il controllo delle proprie istituzioni.
Tali esempi della debolezza delle autorità carcerarie e dell'autonomia della subcultura nelle prigioni sono significativi anche se desunti da un solo carcere, che pure era il più grande e il più noto. Fino agli anni Trenta Newgate costituì il bersaglio dei riformatori che condannavano gli abusi nelle prigioni, prima nello "State of the Prisons" di Howard, scritto nel 1777, poi nelle inchieste della Camera dei Comuni del 1813, nell'opuscolo di Thomas Fowell Buxton del 1818 e infine nel primo rapporto degli ispettori carcerari del 1836 (106). Newgate contribuì a definire e a mettere a fuoco l'immagine che i filantropi avevano del vecchio sistema carcerario. Al centro di questa concezione non stava solo l'idea di una discrezionalità crudele e sregolata, ma, cosa ancor più inquietante, l'immagine di un sottomondo carcerario chiuso che governava un'istituzione dello stato con i propri guardiani, le proprie usanze e le proprie cerimonie.
4. Da parte loro, le classi dirigenti esprimevano una soddisfazione compiaciuta nei confronti del sistema punitivo settecentesco, basato sostanzialmente su pene pubbliche piuttosto che sulla detenzione. Nei sermoni che i ministri pronunciavano sul patibolo, nelle parole rivolte dai giudici alle giurie e nelle frasi magniloquenti dei Commentari di Blackstone, la legge e le pene che essa infliggeva venivano costantemente difese e, almeno fino al 1770, le giustificazioni addotte erano ritenute soddisfacenti. L'impiccagione costituiva il giusto mezzo per terrorizzare i poveri, anche se i suoi rigori potevano in casi particolari essere mitigati dall'intervento di pubblici accusatori, patroni, giudici e giurie. Il rituale della berlina, della fustigazione e dell'esecuzione portava il messaggio che la legge voleva diffondere proprio nel mezzo della piazza del mercato, mentre la sua manifesta capacità di deterrente rendeva inutili una polizia burocratizzata di tipo francese e un costoso sistema detentivo. La deportazione liberava la madrepatria degli elementi incorreggibili e arricchiva le colonie di una assai richiesta mano d'opera a basso costo. Su questi temi si avevano poi numerose variazioni autocompiaciute.
Voci dissenzienti si udivano solo occasionalmente. Nel rapporto di Thomas Bray sulle condizioni di Newgate nel 1702 alla Society for Promoting Christian Knowledge, nell'opuscolo di Mandeville del 1725, nell'inchiesta della Camera dei Comuni per la morte di due prigionieri alla Fleet nel 1728 e nei rendiconti giornalistici di John Wesley sulle proprie visite alle carceri, si trovano denunce simili a quelle espresse più tardi nello "State of the Prisons di Howard" (107). Pure queste voci non erano bastate a dar vita a un coro. Quando venivano informati delle miserie dei prigionieri, i magistrati potevano sempre rispondere: «Lasciate che ci pensino essi stessi a restarne lontani». Alcuni ammettevano poi di ritenere «le condizioni di detenzione e di squallore di una prigione» come «i suoi attributi indispensabili». Finché Howard non fu in grado di presentare loro un progetto che riunisse in sé elementi di deterrente e di garanzie igieniche, essi continuarono a ritenere che a la sporcizia delle prigioni, lo "squalor carceris" fosse uno strumento di terrore appropriato e necessario (108).