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Situazioni ed eventi
Jacqueline Bernat De Celis - Allora, chi è lei, Louk Hulsman?
Sono professore all'Università di Rotterdam già da 18 anni circa. Ricordo molto bene com'è successo. Un giorno, qualcuno che conosco solo di nome mi telefona, dice che vuole parlarmi della nuova facoltà di diritto... Era il 1964. L'anno prima, erano state create due nuove facoltà, una facoltà di diritto e una facoltà di scienze sociali, giunte a completare la vecchia Facoltà di Economia. Durante il primo anno, non c'è diritto penale. Ma per il secondo anno, ci voleva un professore. Non so perché, ho detto di sì senza esitare.
Non ha dovuto fare un concorso? Questo è un modo normale di diventare professore in un'università olandese?
Sì, le nomine si fanno il più delle volte considerando il curriculum vitae della persona.
Che cosa aveva fatto prima perché le fosse affidato tale incarico?
Quando mi è stata offerta la cattedra di diritto penale, ero al Ministero della Giustizia e inoltre, all'epoca, presiedevo, a Strasburgo, il Comitato europeo per le questioni criminali, del quale ho fatto parte per parecchi anni. Ma prima di far parte del Ministero della Giustizia, avevo lavorato al Ministero della Difesa dei Paesi Bassi, nel quale ero entrato al termine dei miei studi di diritto; e avendomi questo Ministero mandato a Parigi per oltre due anni al fine di partecipare ai lavori del Comitato interinale per la Comunità europea di difesa, avevo da tempo una buona pratica delle relazioni internazionali.
Questi primi impegni forse non avevano nulla a che fare coi problemi del sistema penale?
Sì, appunto. Ho lavorato a Parigi su un progetto di codice militare europeo e alla preparazione di un regolamento europeo di mutuo aiuto giudiziario, che del resto non sono approdati a nulla, avendo la Francia rifiutato di firmare... Ero molto impegnato in questo lavoro, vi avevo consacrato un'enorme energia, e sono rimasto fortemente demoralizzato all'epoca nel vedere che tanti sforzi, e l'incessante spola tra Parigi e i Paesi Bassi, non erano serviti a niente. Questa è certamente una delle ragioni per cui sono passato al Ministero della Giustizia...
E prima di essere mandato a Parigi?
Avevo lavorato per tre anni all'ufficio giuridico del Ministero della Difesa. L'aspetto più curioso quando ci penso, è questa sorta di vocazione che, fin dai primi tempi mi ha portato a insorgere contro il modo inumano con cui si applicano le decisioni penali. Ho dovuto occuparmi subito di questioni riguardanti il diritto penale militare. L'ufficio in cui ero, tra gli altri compiti, si pronunciava sulle richieste di grazia e sulle "liberazioni condizionali", ed io ero molto infelice, perché dovevo rispondere a queste istanze sulla base delle indicazioni dei miei capi, i quali mi parevano incredibilmente severi. "No, no, mi dicevano quando volevo dar la grazia o la liberazione a qualcuno, devi rifiutare..." L'ufficio del personale prendeva anch'esso delle decisioni disciplinari alcune delle quali mi rivoltavano. E giovane com'ero, non esitavo mai ad andare a cercarne i responsabili. A uno di loro che aveva deciso di respingere una richiesta di qualcuno con effetto retroattivo, chiesi con tono deciso: "Cosa farebbe lei se venisse personalmente rifiutato in questo modo?" E cercavo con quale mezzo avrei potuto ottenere un'evoluzione della politica sulla "liberazione condizionale" che fosse favorevole ai condannati.
Naturalmente, era un sogno impossibile?
Ebbene non del tutto. Col tempo sono riuscito a piegare in senso più liberale la politica sulla "liberazione condizionale". Ho imparato molto presto - è anzi una delle grandi scoperte della mia vita - che persino da alcuni posti assai modesti, si possono smuovere le burocrazie, a condizione certo d'impegnarsi enormemente e di essere ben preparato tecnicamente. Forse sono stato favorito anche dalla fortuna. Ero in un posto molto interessante. Giungevano al mio ufficio, per conoscenza, tutte le questioni che non fossero esplicitamente militari o esplicitamente economiche, e tutti i progetti elaborati dagli altri Dipartimenti passavano dal Ministero della difesa prima di andare al Consiglio dei ministri. Ora, quando sono arrivato io, gli altri membri della mia équipe erano tutti quanti assorbiti dal problema dell'Indonesia, e bisognava preparare il passaggio alla sovranità nazionale. Ciò procurava un lavoro enorme alla gente del mio ufficio. Di modo che venivano indirizzati a me, l'ultimo arrivato, gli affari "correnti"... che non sempre erano ordinari! Ero in questo ufficio da soli due mesi quando, per esempio, giunse un progetto di legge sull'energia nucleare. Orbene non ne sapevo niente, io, dell'energia nucleare! Mi misi dunque a lavorare su questo progetto con grande cura. Il mio lavoro fu apprezzato, e si cominciò a nutrire considerazione nei miei confronti. Ciò mi diede in qualche modo una moneta di scambio: c'era bisogno di me, tecnicamente, per fare un lavoro giudicato importante nella tradizione dell'ufficio; potei da allora, al momento buono, chiedere che si fosse meno restrittivi per le ammissioni alla libertà condizionata. D'altronde avevo imparato altri piccoli trucchi grazie ai quali la mia influenza poteva ugualmente esercitarsi: per esempio quando i ministeri si scambiano delle note. Affinché una pratica arrivi al Consiglio dei ministri, i ministeri devono mettersi d'accordo. Allora, se un ministero voleva guadagnare tempo, il mio poteva diventare esigente, avendo così il primo ogni interesse ad accettare quel che chiedevamo affinché la sua pratica passasse. Con questo potere di ritardare o di accelerare il processo, potevo ottenere certe cose... In qualche modo, al Ministero della Difesa, ho esercitato, prima di averne coscienza, una specie di pratica abolizionista...
Ciò che lei sta spiegando getta una luce piuttosto inquietante sul modo in cui passano i progetti di legge!
E sul modo in cui vengono elaborati! Durante quel periodo della mia vita, ho visto con molta chiarezza come vengano fabbricate le leggi: fatte in genere da tirapiedi, quindi emendate nella precipitazione e nel compromesso politico, esse non hanno assolutamente nulla di democratico, e difficilmente sono il risultato di una coerenza ideologica. Peggio ancora, sono promulgate ignorando la diversità delle situazioni sulle quali andranno a influire... Ma questa messa a nudo di una realtà priva di rapporti con i princìpi acquisiti fu soltanto una tappa nella scoperta che in fondo non c'è nulla nelle nostre società che funzioni secondo i modelli che ci vengono proposti. Ma per rendere ciò più chiaro, dovrei risalire lontano nella mia storia personale...
Se lo può fare, sarà interessante nella misura in cui la sua esperienza può essere rivelatrice per altre persone.
Forse infatti. Ebbene, a lungo ho creduto che quel che ci veniva insegnato fosse realtà: una certa teologia morale, per esempio, o l'ideologia dello Stato protettore della persona. E in occasione di certi eventi, mi sono reso conto che niente di tutto questo reggeva.
Di quale teologia morale sta parlando?
Sono stato educato in una regione dei Paesi Bassi dove predominava assoluta la dottrina cattolica ufficiale - precedente al Concilio Vaticano II. Ci veniva inculcata la strana idea che ci fosse della gente eletta, e altri, che non lo erano. Nell'ideologia scolastica, tutto è ordinato da Dio e ogni definizione è data una volta per tutte. Così, c'è della gente, scelta da Dio, che appartiene al Corpo mistico del Cristo, al Popolo eletto; e ci sono gli altri, che ne sono fuori.
Non sta forzando un po'? Si legge nel Vangelo: Sono venuto a cercare e salvare ciò che era perduto!
Non forzo affatto. Mi è sempre stato insegnato che soltanto quelli battezzati sono con Dio. Evidentemente, il concetto di battesimo è stato un po' allargato. Sono stati considerati come battezzati quelli che avevano il desiderio di esserlo. È stato pure inventato il battesimo di sangue. Ma erano estensioni di un principio ristretto, almeno nell'insegnamento da me ricevuto. Io non parlo del Vangelo, parlo di una certa corrente della Chiesa, la corrente specificamente giuridica, quella che ha coniato la formula: fuori dalla Chiesa, nessuna salvezza. Un uomo come il mio santo patrono per esempio, che io trovo assai simpatico, Luigi re di Francia, non voleva fare la guerra... Eppure, ha fatto quella di Tunisi. E quando si legge ciò che scrive, si resta confusi. Non bisognava far la guerra, secondo lui, contro gli Inglesi, perché gli Inglesi sono anch'essi degli esseri umani. Ma bisognava far la guerra contro gli Arabi, perché non sono nulla, non appartengono al Corpo mistico... Si diceva: "peccato, ma così è, sono perduti". Era gente che, ad ogni modo, non poteva capire il senso delle cose... Perché le cose avevano un senso che solo gli eletti potevano capire, del resto con diversi gradi, secondo la posizione gerarchica che occupavano, restando inteso che solo il Papa vedeva del tutto chiaro, a causa di un legame diretto con Dio... perciò, io vivevo nell'inquietudine. Mi domandavo sempre se non sarei finito all'inferno. Perché, per molto tempo, ho creduto all'inferno. Non mi ci sarei ritrovato? Avrei almeno voluto saperlo. Facevo ogni sorta di giochi per ottenere una risposta: se arrivo al bivio prima di aver contato la tal cosa, vado all'inferno, se no, non ci vado...Tutto il giuridico era già lì! Ne ho parlato pubblicamente non molto tempo fà. Ho detto quali casi di coscienza sperimentassi a causa di queste penitenze che si potevano fare e che valevano del tempo in meno di purgatorio, per sé o per qualcun altro. Si potevano guadagnare sessanta giorni recitando la tal preghiera; e se si andava in chiesa nel giorno d'Ognissanti, uno poteva essere completamente esentato... Ricordo ancora un certo Primo novembre... Era una giornata così bella! Potevo andare a giocare, o dovevo compiere questa penitenza che dava l'assoluzione totale? Tante anime urlavano in Purgatorio! Come potevo andare a passeggiarenei boschi se potevo invece salvarli?
Com'è uscito finalmente da questa inquietudine?
Durante il mio ultimo anno in collegio - perché ho vissuto parecchi anni in un collegio - ho fatto della teologia morale. Di mia iniziativa, s'intende, perché non era nel programma. Allora ho cominciato a non credere più a quel che si raccontava. C'era in fin dei conti troppa distanza tra quel che veniva insegnato e la mia esperienza. Così, ho cominciato a forgiare la mia propria religione... All'inizio, era estremamente difficile ottenere un'informazione contraria a quella trasmessa dalla Chiesa. Sono riuscito, a un certo punto, a impossessarmi della Bibbia. Questa lettura è stata come dinamite. Vi ho subito trovato, ivi compreso nei Vangeli, ogni tipo di materiale contro il sistema, e persino contro la liturgia che ci facevano seguire - e che mi piaceva tra l'altro... Avevo comunque difficoltà a uscire dal quadro imposto, perché non solo non mi si davano, nella classe in cui ero, dei libri critici, ma pure perché non c'era alcuna possibilità di trovare, nel contesto regionale cattolico in cui vivevo, né in una biblioteca né in una libreria, la benché minima letteratura contraria alle idee dell'istituzione Chiesa. Ho veramente vissuto in quel periodo della mia vita l'influenza totalitaria di un sistema istituzionale che impediva il formarsi di un altro modo di vedere. Il dubbio tuttavia stava cominciando a disalienarmi.
In che modo?
Sfuggire al conformismo permette di accedere a un universo di libertà. Ma non sempre è facile lasciarsi destrutturare, sebbene a volte faccia piacere. Certi eventi mi hanno aiutato. La guerra di Spagna per esempio, è stata per me una tappa importante. Nella regione dove vivevo, i giornali erano tutti per Franco. Così, seguendo questa stampa, anch'io ero contento dentro di me quando Franco prendeva una nuova città, quando il suo esercito avanzava. Ma nel 1938, ho cominciato ad avere accesso ad altre fonti d'informazione, e di colpo, fui ben poco fiero di me. Sentivo che ero stato totalmente ingannato dal sistema nel quale ero stato rinchiuso. Ora che leggevo i libri dei Repubblicani e di coloro che, in Francia e nei Paesi Bassi, avevano partecipato alla lotta contro Franco, mi rendevo conto del profondo errore in cui ero stato cacciato, e la mia vergogna s'ingrandiva... Non sono mai stato in Spagna prima della morte di Franco, a causa del trauma profondo vissuto in quel momento. Questo episodio mi ha molto segnato.
È in quel momento che lei ha cominciato a interrogarsi anche sui princìpi che legittimano lo Stato?
Sono l'occupazione tedesca, la Resistenza e la guerra che hanno per me demistificato lo Stato. A un certo momento, siccome vivevo sotto falsa identità per evitare di andare a lavorare in Germania, sono stato arrestato dalla polizia olandese - la polizia del mio paese! - e spedito in un campo di concentramento. Avevo già notato che l'intero apparato di governo olandese funzionava sotto i Tedeschi come se nulla fosse accaduto, con gli alti funzionari, rimasti al loro posto, che continuavano a produrre leggi. M'accorgevo ora che le leggi e le strutture fatte in teoria per proteggere il cittadino possono, in certe circostanze, rivoltarsi contro di lui. Scoprivo falso il discorso ufficiale che, da un lato, pretende che lo Stato sia necessario alla sopravvivenza della gente, e dall'altra parte lo legittima rivestendolo della rappresentatività popolare. Scoprivo che ero stato ingannato dal discorso politico, così come ero stato ingannato dalla mia educazione scolastica e indotto in errore dal mio ambiente a proposito della guerra di Spagna. Un profondo scetticismo s'insediò in me, impedendomi finalmente di accettare ogni sistema generale di spiegazioni che non potessi verificare.
Questo genere di filosofia fa di lei un professore piuttosto diverso dal modello convenzionale?
Al riguardo ho vissuto un'evoluzione. Devo dire che dopo aver accettato d'istinto, come ho già detto, la responsabilità della cattedra di diritto penale propostami nel 1964, ebbi un momento di stupore. Come me la sarei cavata? Certo avevo conosciuto, in occasione d'incontri del Comitato europeo per le questioni criminali, degli esperti in scienze del crimine di molti paesi. Avevo un'idea di cosa sono i sistemi penali in contesti differenti, comunque in Europa, e avevo già qualche contatto con dei criminologi su posizioni avanzate. Queste relazioni m'avevano aiutato a superare l'approccio giuridico ai problemi. D'altra parte, ero stato prigioniero durante l'occupazione tedesca, e la condizione del detenuto era rimasta inscritta nel più profondo di me come una questione aperta. È vero altresì che avevo appreso da Van Bemmelen, mio maestro all'Università, a pormi in modo critico rispetto ai sistemi esistenti; poiché in un'epoca nella quale un professore di diritto penale non faceva altro di questa disciplina, da sempre stranamente considerata minore, che una tecnica legalistica, egli ne dava un approccio da criminologo, e aveva saputo appassionarmi a ciò che insegnava. Al punto che per alcuni mesi, terminati i miei studi di diritto, fui suo assistente all'Università... Ma tutto questo, pur avendomi spinto ad accettare il posto, non mi dava le conoscenze specifiche che potessero far di me un insegnante, perlomeno secondo l'idea, rimasta abbastanza classica, che me ne facevo io allora. Mi sentivo dunque molto povero, preparato malissimo per questo nuovo compito. Non sapevo niente, per esempio, della storia del diritto penale, e non vedevo come potermi lanciare nell'insegnamento di tale sistema senza avere una chiara idea di ciò che lo aveva preceduto, delle sue origini e della sua evoluzione. Si poneva anche una questione di metodologia. Per riuscire a fornire quel che credevo fosse un insegnamento degno di tal nome, avrei dovuto ripensare tutte le categorie. Mi immergo quindi nello studio della storia e della pedagogia... Orbene, m'aspettava una sorpresa. Via via che leggevo le opere più interessanti sull'insegnamento in generale e sul concetto d'umanità nell'insegnamento, scoprivo d'avere avuto dei presupposti completamente falsi riguardo al ruolo del professore. C'è un'opera molto chiarificatrice di Bloom sui vari livelli di attività cognitive. Per quanto riguarda l'aspetto cognitivo dell'insegnamento, egli distingue cinque livelli: livello uno, conosco il testo, lo posso ripetere; livello due, capisco il testo; livello tre, posso applicare dei concetti; livello quattro, analizzo; livello cinque, posso far la sintesi. Mi sono quindi detto: se chiarifico e se organizzo, mi trovo, io, a quel livello superiore d'analisi e di sintesi; ma se do questo bell'e pronto ai poveri studenti, essi rimarranno sempre al livello "conoscere" o "capire". Quel che mi accingo a fare è del tutto aberrante. Decisi dunque di non dar loro bell'e fatte le idee chiare e comprensibili che erano diventate mie, ma di dar loro soltanto elementi di riflessione che avrebbero permesso loro di trovare la propria strada in situazioni complesse. Sarebbero stati loro a fare le analisi, cercare la sintesi, e avrebbero tratto le loro conclusioni personali sui problemi che avremmo analizzato...
Quando ha preso possesso della sua cattedra universitaria, lei non era ancora abolizionista?
Non realmente, no. È infatti all'Università che l'idea stessa di abolizionismo ha preso corpo in me. Mi sono accorto che il sistema penale, eccetto casi eccezionali, non funziona mai come richiedono quegli stessi princìpi che pretendono di legittimarlo.
Perché, lei era tenuto a giustificarlo in quanto professore universitario?
È vero che per molti l'Università svolge un'attività di giustificazione del sistema statale. Ma al tempo stesso, essa favorisce un'attività critica. L'Università mi ha messo in contatto con la ricerca critica e con degli approcci altri dall'approccio giuridico. In questo senso, mi ha appunto consentito di arrivare a una nuova visione globale del sistema penale e di affermare la mia posizione di abolizionista...
Direi d'altronde che se le scienze sociali m'hanno in fin dei conti precipitato verso questa posizione, è perché ho scoperto, praticandole, che esse non danno il tipo di risposta che m'aspettavo. Esse m'hanno insegnato che il "sapere" scientifico passa sempre in ultima istanza attraverso il "vissuto", e non può in nessun caso sostituirlo, come io credevo erroneamente. In tal senso, sono le scienze sociali che mi hanno rivelato l'importanza del vissuto. Mi hanno pure indotto a pensare che favorendo una miglior comprensione di questo stesso "vissuto", potessero avere un effetto positivo su di esso. Parallelamente, esse hanno a poco a poco fatto apparire ai miei occhi il non-senso del sistema penale, nel quale appunto il vissuto non ha quasi posto. Non-senso che alcune ricerche empiriche mi avrebbero aiutato in modo assai diretto a scoprire.
Ha potuto dimostrare il nonsenso del sistema penale?
Ora vedrà in che misura. All'inizio del mio corso, mi ero tenuto in una prospettiva più o meno tradizionale, cercando d'organizzare un quadro razionale di sperimentazione. Ma nello stesso tempo volevo far posto alla mia visione globale sul sociale, sulla vita, a delle conclusioni che avevo verificato personalmente. La ricerca sul sentencing mi fornì una particolare occasione. A partire da questa ricerca, avevo sviluppato un modello normativo nel quale cercai di rendere operativi i princìpi, largamente accettati da giuristi e criminologi, secondo i quali può essere pronunciata una "giusta" sentenza (proporzionalità tra pena e delitto, sussidiarietà del sistema penale, informazione certa sull'imputato, eccetera). Uno dei miei collaboratori aveva inserito questo modello nel computer. E quando abbiamo voluto lavorare con questo modello su problemi concreti, abbiamo fatto un'esperienza stupefacente: noi chiedevamo: "nel tal caso... e in quest'altro... qual è la pena corrispondente?" La macchina rispondeva sempre: "nessuna pena". Mai si ritrovavano riunite tutte le condizioni perché il tribunale potesse infliggere una pena giusta nel quadro del sistema! Era il 1970.
Non è l'anno in cui Denis Chapman, in Inghilterra, ha pubblicato il suo famoso "stereotipo del delinquente"? Lei era influenzato da lui e dai criminologi americani?
No, allora non li conoscevo. Facevo per conto mio esperienze di sociologia empirica, che cominciavano un po' dovunque in maniera indipendente. È più tardi che ho conosciuto i lavori di Denis e che l'ho invitato ad aggiungersi al mio gruppo di ricerca del Consiglio d'Europa sulla decriminalizzazione... Dunque, mi accorgo attraverso questo studio intorno al sentencing che è quasi impossibile che dal sistema penale sorga una pena legittima, dato il modo in cui esso funziona. Mi salta agli occhi che questo sistema opera nell'irrazionalità, che è totalmente aberrante. E in quel momento scopro che possiedo la risposta a un quesito profondo, rimasto senza risposta, che mi ponevo da quand'ero giovane. Fin dalla mia adolescenza, mi ero chiesto, a proposito della civiltà romana, perché quella gente facesse dipendere le proprie decisioni dal volo degli uccelli, o dall'aspetto dei visceri di polli sacrificati. Questo problema non mi aveva ancora abbandonato dopo il superamento dell'esame di maturità. Avevo cercato di dimenticarlo dicendomi che, dopo tutto, i Romani, erano qualcosa di ben lontano da noi. Ma la domanda era rimasta sepolta in me, e la ritrovai in occasione d'un soggiorno di alcune settimane a Roma. L'immagine che m'ero fatto della civiltà romana mi tornò in mente, ed ebbi la sensazione che non era trascorso molto tempo dai Romani dell'Antichità, i quali non dovevano essere poi così diversi da noi, e che tutta la nostra vita, in una certa misura, era tuttora piena delle loro idee... ed anche, un po' paradossalmente, che potesse essere altrimenti a un certo punto, che il tipo di civiltà in cui viviamo un giorno potesse fermarsi... Non avevo ancora potuto rispondere, tuttavia, alla pressante questione riguardante i polli e i loro visceri... Era adesso, all'Università, in questo momento di rivelazione del nonsenso del sistema penale, che trovavo la risposta all'interrogativo che mi perseguitava. Capivo di colpo che quel che facciamo col diritto somiglia a ciò che i Romani facevano con i loro uccelli e i loro polli. Vedevo che il diritto, la teologia morale, l'interpretazione dei visceri, l'astrologia... funzionano infine allo stesso modo. Sono dei sistemi che hanno la loro propria logica, una logica che non ha nulla a che fare con la vita né coi problemi della gente. In ogni sistema, mi dissi, si fanno dipendere le risposte da segni che nulla hanno a che vedere con le vere domande poste. Per noi, la risposta è nel diritto, per i Romani, era nei visceri, per altri, si trova nell'astrologia, ma il meccanismo è lo stesso... Nel mio corso, paragono spesso il giuridico occidentale ai flipper, quelle macchine nei bar che fanno scintillare ogni tipo di luci... Quel gioco ha la sua propria logica. Evidentemente, si è liberissimi di dire: se esce il 1000 mi sposo, se è l'800 accetto quel lavoro... si possono estrarre a sorte le decisioni da prendere, ma allora, non bisogna essere illusi, bisogna essere ben coscienti di obbedire a una logica del tutto differente...
È in quel preciso momento che lei ha detto: bisogna abolire questo sistema irrazionale?
Non c'è stato un momento in cui l'idea sia improvvisamente nata. La necessità dell'abolizionismo mi si è imposta gradualmente. Parallelamente alle mie esperienze empiriche all'Università, ricevevo informazioni da altri pensatori e ricercatori che mi hanno aiutato ad acquisire dei punti di partenza certi. Leggendo soprattutto certi lavori di storia, mi ero accorto che ovunque si manifesta una sorta di movimento circolare dal quale non si esce. I sistemi si trovano, qui e là, a vari stadi, ma si ritorna sempre allo stesso punto, e così è in tutti paesi... Sono dei cerchi che girano... Il libro di Thomas Mathiesen, Politics of abolition, ha svolto un grande ruolo a quel punto della mia riflessione, perché ero ormai del tutto maturo. Ci sono molte cose che scioccano in quel libro. È scritto in un modo così personale... È un po' come la Bibbia. È pure incompiuto e, per me, questo aspetto conta parecchio. C'è stato pure il grande Rapporto in quattordici volumi della Presidential Commission degli Stati Uniti: Challenge of crime in a free society. Se si vuol capire cosa sia il sistema penale e cosa sta per diventare, è illuminante. Fra tutti gli aspetti presi in considerazione dalle molteplici ricerche che compongono quest'enorme documento, riportando un insieme di dati senza precedenti sul sistema penale, c'era un'analisi che mostra chiaramente come si formi la catena delle decisioni. Anche questa lettura fu per me un momento forte. Devo pure molto a Ortega y Gasset, anche se devo risalire più in là per ritrovarlo, fino al tempo della mia giovinezza. Di lui mi è rimasta un'immagine importante che è questa: si costruiscono dei sistemi astratti per sentirsi al sicuro in quanto civiltà, e si lavora per perfezionare questi sistemi. Ma, col tempo, li si è elaborati con tanti dettagli, e le condizioni per cui furono creati sono talmente cambiate, che tutta quella costruzione non risponde più a nulla. Il divario tra la vita e la costruzione diventa così grande che questa cade in rovina...
Vorrebbe suggerire che il sistema penale è una costruzione astratta così lontana dalla realtà che dovrebbe sprofondare da solo? Veramente, questo sistema non dà, malauguratamente, alcun segno di deliquescenza. Viene semmai voglia di dire: al contrario! Dinanzi alla valanga di nuove leggi sempre repressive che vengono varate nel mondo, dinanzi a tante "commissioni di revisione del codice penale" che si apprestano un po' dappertutto a rinvigorire il sistema, si potrebbe essere piuttosto pessimisti...
Personalmente, non sono radicalmente pessimista. Voglio dire che senza essere di un ottimismo irreale, ho ragioni per sperare. Ma per far cogliere tali ragioni, e insieme capire come ho potuto compiere il passaggio che mi è proprio verso l'abolizionismo, forse bisogna che io provi a render conto di quel che è successo in me a un livello più profondo, lasciando il regno dei fatti, degli eventi che hanno segnato la mia vita, per tentare di raggiungere l'esperienza interiore. Alcune circostanze mi hanno portato a interessarmi più particolarmente della giustizia penale e ad assumere delle responsabilità in questo campo. È ciò che abbiamo appena visto. Ma alcune esperienze profonde, del resto evidentemente legate agli eventi che hanno costituito la trama della mia vita, hanno influito su tutto il mio modo di essere e di pensare, e sono queste esperienze che costituiscono le fonti nascoste del mio attuale cammino riguardo al sistema penale. Dopo una certa crisi personale, attraversata una quindicina di anni fa, ho preso coscienza del fatto che la mia spiegazione del mondo e la spiegazione che mi do di me stesso sono dei processi paralleli, come due facce di una stessa medaglia. Ciò deve esser vero per ognuno di noi: la via con cui arriviamo alle nostre angosce e ai nostri desideri influisce sul modo che abbiamo di comprendere il mondo, e viceversa, utilizziamo quel che apprendiamo dall'esterno come griglia esplicativa dell'esperienza interiore.
Vuol dire che per render conto della sua posizione abolizionista del sistema penale, lei deve scavare nel più profondo di sé?
Sì, è così! L'evoluzione della mia visione del mondo - e dunque del mio sguardo sul sistema penale - è necessariamente parallela all'evoluzione interiore personale.
Allora, dovremo prenderci il tempo per un secondo colloquio, se vogliamo andare alla scoperta delle più segrete motivazioni della sua posizione abolizionista.