I militari italiani internati in Germania.
1.
1. Quanti, sotto il profilo storico o politico, hanno studiato e scritto della guerra di Liberazione non hanno espresso dubbi sulla legittimità di inserire nella storia della Resistenza la lotta degli internati nei campi di concentramento, e un qualche cenno, una qualche attenzione hanno in realtà dedicato all'odissea degli oltre 600 mila italiani gettati dalla vicenda dell'armistizio del settembre 1943 nei lager tedeschi. Se non altro perché nella prigionia si concluse la prima rapida e tragica ribellione antitedesca della Resistenza, quella rivolta di una parte dell'esercito che dall'Egeo alla Corsica, dalla Grecia alla Francia, dall'Albania alla Jugoslavia indicò immediatamente la possibilità e l'esigenza di una lotta del nostro popolo contro il nazifascismo e la Germania hitleriana.
Ma sia nei confronti della battaglia dell'esercito, dopo l'armistizio, e l'esperienza partigiana che una parte di esso visse in terra straniera, sia nei confronti della prigionia nei lager, si è trattato per lo più di un interesse marginale e riflesso, di un riconoscimento generico e contingente, sicché e giusto affermare che un'analisi storica intorno al significato e al valore di quegli episodi di tanto rilievo debba ancora essere compiuta.
E se qualche fatto, come l'eccidio di Cefalonia o la battaglia di Lero, è riuscito a divenire motivo e parte, generalmente nota, della passione e del patrimonio della Resistenza nazionale, nell'ombra sono rimasti finora gli infiniti atti di dignità e di coraggio e la ribellione sanguinosa e spesso disperata dei soldati e degli ufficiali italiani; poco conosciuto è ancora il contributo dato dai reparti del nostro esercito alla lotta per la libertà di altre nazioni e, ciò che più importa, il nesso tra la resistenza all'estero e il movimento nazionale di liberazione.
Per la prigionia dei soldati italiani nei lager della Germania è accaduto poi che essa fosse considerata, da una parte, nei termini «classici» e generici della cattività militare alla stessa stregua dei casi consimili di ogni guerra o di altri della medesima guerra, e, dall'altra, confusa e dissolta nella vicenda generale dei campi di concentramento in cui il nazismo oppresse e distrusse nemici e avversari politici e razziali, smarrendosi in tal modo il carattere e il valore peculiari e tipici di quella esperienza. A parte qualche esemplare testimonianza letteraria, qualche documento acuto e talvolta spietato sulla sofferenza umana e sulla persecuzione bestiale nei lager, la storia dei militari italiani internati in Germania resta ancora da scrivere e da scrivere nell'unico modo in cui essa può esser oggetto degno e necessario di storia: come un capitolo cioè della resistenza e della lotta di liberazione nazionale.
Al di là del valore umano che il riscatto della propria dignità e libertà attraverso la sofferenza e il dolore può rappresentare per il singolo, al di là dell'interesse del tutto particolare per la storia recente dell'esercito italiano, una precisa e onesta interpretazione storica non potrà che porre in primo piano le ragioni politiche e nazionali che furono a fondamento della resistenza nei lager e che conservano piena attualità in quanto coincidono sostanzialmente con i motivi ideali che hanno presieduto alla formazione dell'odierna società italiana. Solo se collocata in questa prospettiva la vicenda dei quasi due anni di internamento riesce ad acquistare un senso e una logica e a far superare l'impressione di non essere altro che una serie aggrovigliata, casuale e assurda di avvenimenti, un cieco e gratuito allinearsi di fatti che talvolta pesa nei racconti del lager e che senza dubbio ha dominato, durante la prigionia, la mente di molti.
A una parte degli studiosi del movimento di liberazione, nel corso di questi ultimi anni, è apparso ovvio che la resistenza dei militari internati in Germania dovesse essere considerata come espressione della più vasta lotta di liberazione che gli italiani condussero dall'8 settembre 1943 all'aprile del 1945, ma non si può affermare con altrettanta sicurezza che tale concetto sia divenuto opinione comune nel nostro Paese.
La prigionia si configurò per la sua origine e per il carattere che assunse nella valutazione, sostanzialmente concorde, degli italiani che la subirono e dei tedeschi che la inflissero, come un episodio di lotta politica ben più che come un puro fatto militare. Nella stessa definizione che i tedeschi usarono per gli italiani - internati militari - si può del resto cogliere un barlume di verità: l'internato militare era nel giudizio dei tedeschi, ancor prima dell'esistenza della repubblica di Salò, una figura nuova, una via di mezzo tra il prigioniero di guerra e il perseguitato politico, e nei suoi confronti si stabilì una misura intermedia fra il trattamento riservato ai primi e quello di cui furono vittime i secondi.
Nella terribile gerarchia della persecuzione gli internati vennero collocati a un particolare gradino: dopo gli ebrei, i politici dei campi di punizione, i prigionieri senza una potenza protettrice, quali i sovietici e i polacchi, ecco gli italiani che avevano avuto la sorte di essere «tutelati» dalla Repubblica sociale!
La non collaborazione, la resistenza di fronte alle lusinghe e alle minacce, il rifiuto del lavoro, il sabotaggio, furono le armi che le circostanze consentivano di usare agli internati italiani e che essi usarono sempre più decisamente via via che, attraverso un processo laborioso, le ragioni della lotta si facevano più chiare e venivano in gran parte a coincidere con i motivi che determinavano in Italia, nello stesso periodo di tempo, il movimento popolare di liberazione.
Come la lotta "di" Liberazione, la resistenza nei lager significò una faticosa conquista dell'unità, sotto il profilo politico e nazionale, della decisione, del coraggio di battersi, e non solo per piccoli gruppi. E come "nella" lotta di Liberazione, tale conquista si realizzò attraverso il dibattito e il contrasto, l'azione costante contro la rassegnazione e la fiacchezza dell'attendismo, le paure, le viltà, i tradimenti. Al termine della dolorosa vicenda in molti italiani vi fu la consapevolezza di aver fatto il proprio dovere, di essere riusciti a mutare la prigionia, cui del resto la guerra moderna aveva già tolto gran parte di quel senso di colpa e di vergogna che un tempo colpiva il soldato che gettava lo scudo, in una nobile battaglia, in un contributo per la salvezza del Paese.