1. E' vero: anche per questo i tedeschi, e con loro i fascisti, avevano perduto l'anima dei soldati italiani.
Ma i motivi iniziali della resistenza sui quali finora ci siamo soffermati non potevano essere sufficienti ad affrontare il più massiccio e prevedibile attacco nazifascista nei lager di Germania, non potevano bastare a vincere non tanto le lusinghe rinnovate quanto le insistenti minacce e le difficoltà crescenti del freddo, della fame, del lavoro forzato.
Il fatto più importante della resistenza degli internati non è che essi abbiano scelto la via della non collaborazione e della lotta, all'indomani dell'8 settembre, ma che siano stati capaci di durare, di non sfaldarsi qualche mese dopo di fronte all'ingigantirsi dello spettro del campo di concentramento, al sacrificio, alla persecuzione.
Dopo l'8 settembre i tedeschi calcolarono probabilmente che avrebbero avuto ragione, trascorso un breve periodo tra i reticolati della Polonia e della Germania Orientale, della massa dei soldati italiani. I fascisti, a loro volta, non ebbero ne modo né autorità di realizzare, nei mesi immediatamente successivi l'armistizio, un'organica opera di propaganda e di proselitismo. La prova del fuoco consistette proprio in quel primo inverno nei lager e al lavoro forzato, quando da una parte divenne immediato e diretto il contatto con un sistema e un mondo che si era intuito essere feroce e bestiale, che molti avevano già sostanzialmente conosciuto nell'alleanza militare e nella collaborazione coi tedeschi in Grecia, in Africa, nei Balcani e soprattutto in Russia, ma che ora si sperimentava in tutta la sua brutalità sulla propria carne. Dall'altra parte gli emissari di Salò piombarono come corvi a offrire una via d'uscita, una alternativa che avrebbe anche potuto essere un fascinoso miraggio.
Prova del fuoco - bisogna dire - soprattutto per gli ufficiali, perché per i soldati la decisione già adottata e più conveniente per i tedeschi era quella dello sfruttamento attraverso il lavoro forzato. I tedeschi si trovarono infatti ad avere nelle loro mani - dopo l'armistizio - parecchie centinaia di migliaia di soldati prigionieri e di lavoratori civili, già in Germania, senza alcun limite sostanziale al loro potere non solo di impiego, ma di vita e di morte.
Gli storici e i memorialisti «repubblichini» non ci hanno offerto in proposito che i documenti di un fallimento clamoroso e inglorioso, la testimonianza di un'impotenza servile che non può certo essere giustificata col vieto motivo che senza Salò la sorte degli italiani in Germania sarebbe stata peggiore. In realtà, da tutto l'operato del governo di Mussolini non derivò che una serie di coperture e di mascherature del brutale e vergognoso sfruttamento da parte del Reich tedesco della mano d'opera italiana, sia dei lavoratori civili che degli internati militari che dei deportati dopo l'8 settembre. L'ambasciatore di Salò a Berlino è costretto del resto a confessare che al calcolo e al tentativo di far tornare «soldati di Mussolini» gli internati italiani si frapponevano due gravi difficoltà: gli internati italiani non ne volevano sapere e non ne volevano sapere nemmeno i tedeschi!
La battaglia dell'inverno '43-44 si combatté, pertanto, soprattutto attorno agli ufficiali, chiusi nei lager.
Berlino usava il bastone e Salò si serviva della carota. Il governo di Mussolini aveva bisogno di dimostrare agli italiani, e soprattutto ai tedeschi, di possedere ancora un prestigio e una forza, di poter esercitare un fascino e un richiamo tali da essere considerato il rappresentante legale del nostro Paese. L'adesione delle molte decine di migliaia di ufficiali prigionieri costituiva pertanto una carta di notevole importanza nel gioco fascista, da un punto di vista politico naturalmente più che sotto il profilo militare. Venne così compiuto uno sforzo intenso attraverso emissari e propagandisti inviati nei campi di concentramento che sollecitavano un atto di fede, un gesto di riconoscimento della Repubblica Sociale offrendo in cambio la «libertà», «l'onore», la «patria» e altre cose ancora, più materiali e tangibili.
Ma i «volontari della fame» furono un numero ridicolo, una minoranza trascurabile. Qualcuno di più certamente di quanti non fossero stati nel primo o nel secondo mese di prigionia, ma tanto pochi (si sa che complessivamente tra soldati e ufficiali appena l'uno per cento degli internati si piegò a riconoscere il governo di Salò) da far considerare come una clamorosa sconfitta l'azione di recupero tentata dai fascisti.
E se il "no" del primo periodo della prigionia aveva avuto soprattutto un significato e un sapore antitedesco, quello dell'inverno 1943-44 si configurò come una netta e vigorosa presa di posizione antifascista, come uno scacco dato al nemico «politico». In questo mutare della prospettiva e dell'obiettivo principale si può misurare il cammino percorso dalla resistenza, il suo politicizzarsi, perché le ragioni iniziali non avrebbero mantenuto così saldo e compatto il fronte degli internati se esse non fossero state convalidate e inverate da più profondi e seri motivi politici.